dall’edizione Einaudi – traduzione di Adriana Motti Nota al titolo. Il titolo di questo romanzo, The Catcher in the Rye , è intraducibile. Al suo… [612388]

1/100 IL GIOVANE HOLDEN

(The Catcher in the Rye)

di

J.D.Salinger (1951)
dall'edizione Einaudi – traduzione di Adriana Motti

Nota al titolo.
Il titolo di questo romanzo, The Catcher in the Rye , è intraducibile. Al suo significato si fa
riferimento di sfuggita in due punti del libro (cap p. XVI e XVII). La famosa canzone scozzese di
Robert Burns cui si allude ha una strofa che dice:
Gin a body meet a body
Coming through the rye;
Gin a body kiss a body,
Need a body cry?
Cioè, traducendo letteralmente dal vernacolo scozze se: Se una persona incontra una persona che
viene attraverso la segale; se una persona bacia un a persona, deve una persona piangere?
Il protagonista del romanzo, il giovane Holden Caul field, sente cantare questa vecchia canzone da
un bambino per la strada; crede di ricordarsi quel primo verso ma se lo ricorda storpiato: “If a body
catch a body coming through the rye” (Se una person a afferra una persona che viene attraverso la
segale). L'immagine che questo verso storpiato gli chiama alla mente è quella di una frotta di
bambini che giocano in un campo di segale, sull'orl o di un dirupo; quando un bambino sta per
cascare nel dirupo c'è qualcuno che lo acchiappa al volo: the catcher in the rye, che potremmo
tradurre: l'acchiappatore nella segale, il coglitor e nella segale, il pescatore nella segale.
Ma un titolo come The Catcher in the Rye non evoca solo idilliche immagini agresti all'orec chio dei
lettori americani, per i quali sia la parola catcher che la parola rye sono molto familiari con un
significato del tutto moderno. Catcher è chiamato uno dei giocatori della squadra di base ball, il
“prenditore”, cioè colui che, munito di guantone, c orazza e maschera, sta dietro il batsman
(battitore) per cercar di afferrare la palla lancia ta dal pichter (lanciatore) se il battitore non la
respinge con la sua mazza. Col nome di rye si designa comunemente il whisky-rye , il popolare tipo
di whisky ottenuto dalla fermentazione della segale o di una mescolanza di segale e malto. Il titolo
The Catcher in the Rye , letto come puro accostamento di parole, suona com e potrebbe suonare da
noi Il terzino nella grappa .
Vista impossibile la traduzione, non ci siamo senti ti autorizzati a sostituire a un titolo cosí elusiv o
un altro che fosse scelto di nostro arbitrio. Ci si amo quindi limitati a chiamare il romanzo col nome
del protagonista. Holden Caulfield è un personaggio ormai famoso e proverbiale negli Stati Uniti,
l'eroe eponimo di tutta una generazione.
[N. d. E.]

I.

Se davvero avete voglia di sentire questa storia, m agari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato
e com'è stata la mia infanzia schifa e che cosa fac evano i miei genitori e compagnia bella prima che
arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di
parlarne. Primo, quella roba mi secca, e secondo, a i miei genitori gli verrebbero un paio d'infarti pe r
uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul lor o conto. Sono tremendamente suscettibili su
queste cose, soprattutto mio padre. Carini e tutto quanto – chi lo nega – ma anche maledettam ente
suscettibili. D'altronde, non ho nessuna voglia di mettermi a raccontare tutta la mia dannata

2/100 autobiografia e compagnia bella. Vi racconterò solt anto le cose da matti che mi sono capitate verso
Natale, prima di ridurmi cosí a terra da dovermene venire qui a grattarmi la pancia. Niente di piú di
quel che ho raccontato a D. B., con tutto che lui è mio fratello e quel che segue. Sta a Hollywood,
lui. Non è poi tanto lontano da questo lurido buco, e viene qui a trovarmi praticamente ogni fine
settimana. Mi accompagnerà a casa in macchina quand o ci andrò il mese prossimo, chi sa. Ha
appena preso una Jaguar. Uno di quei gingilli ingle si che arrivano sui trecento all'ora. Gli è costata
uno scherzetto come quattromila sacchi o giú di lí. È pieno di soldi, adesso, Mica come prima. Era
soltanto uno scrittore in piena regola, quando stav a a casa. Ha scritto quel formidabile libro di
racconti, Il pesciolino nascosto , se per caso non l'avete mai sentito nominare. Il piú bello di quei
racconti era Il pesciolino nascosto . Parlava di quel ragazzino che non voleva far vede re a nessuno il
suo pesciolino rosso perché l'aveva comprato coi so ldi suoi. Una cosa da lasciarti secco. Ora sta a
Hollywood, D. B., a sputtanarsi. Se c'è una cosa ch e odio sono i film. Non me li nominate
nemmeno.
Voglio cominciare il mio racconto dal giorno che la sciai l'Istituto Pencey. L'Istituto Pencey è quella
scuola che sta ad Agerstown in Pennsylvania. Probab ile che ne abbiate sentito parlare. Probabile
che abbiate visto gli annunci pubblicitari, se non altro. Si fanno la pubblicità su un migliaio di
riviste, e c'è sempre un tipo gagliardo a cavallo c he salta una siepe. Come se a Pencey non si facesse
altro che giocare a polo tutto il tempo. Io di cava lli non ne ho visto neanche uno, né lí, né nei
dintorni. E sotto quel tipo a cavallo c'è sempre sc ritto: “Dal 1888 noi forgiamo una splendida
gioventú dalle idee chiare”. Buono per i merli. A P encey non forgiano un accidente, tale e quale
come nelle altre scuole. E io laggiú non ho conosci uto nessuno che fosse splendido e dalle idee
chiare e via discorrendo. Forse due tipi. Seppure. E probabilmente erano già cosí prima di andare a
Pencey.
Ad ogni modo, era il sabato della partita di rugby col Saxon Hall. La partita col Saxon Hall, a
Pencey, era un affare di stato. Era l'ultima partit a dell'anno e pensavano che dovevi per lo meno
ammazzarti se il vecchio Pencey non vinceva. Mi ric ordo che verso le tre di quel pomeriggio me ne
stavo là sul cocuzzolo di Thomsen Hill, proprio vic ino a quel cannone scassato che aveva fatto la
Guerra dí Secessione e tutto quanto. Di lí si vedev a tutto il campo, e si vedevano le due squadre che
se le sonavano in lungo e in largo. Non si vedeva t anto bene la tribuna, ma si sentivano gli urli da
maledetti, cupi e tremendi dalla parte del Pencey, perché tolto che mancavo io c'era la scuola al
completo, e fiacchi e isolati dalla parte del Saxon Hall, perché la squadra ospite non portava quasi
mai molta gente.
Ragazze non ce n'erano mai molte, alle partite di r ugby. Soltanto quelli dell'ultimo anno avevano il
permesso di portare ragazze. Era una scuola terribi le, da tutti i punti di vista. A me piace stare in un
posto dove almeno ogni tanto si veda qualche ragazz a in giro, anche se non fanno altro che grattarsi
le braccia o soffiarsi il naso o anche soltanto rid acchiare e cose del genere. La vecchia Selma
Thurmer – era la figlia del preside – veniva abbast anza spesso alle partite, ma non era certo il tipo da
far smaniare di desiderio. Era una ragazza piuttost o in gamba, però. Una volta sono stato seduto
vicino a lei nell'autobus di Agerstown, e abbiamo a ttaccato una specie di conversazione. L'ho
trovata simpatica. Aveva un gran naso e le unghie t utte mangiucchiate a sangue, e portava quei
dannati reggipetti imbottiti che stanno sempre in p osizione di sparo, ma in un certo senso faceva
pena. Quello che mi piaceva di lei è che non vi rif ilava le solite merdate che suo padre era un
grand'uomo. Doveva sapere che razza di marpione sfe ssato che era.
Io me ne stavo là sulla Thomsen Hill, e non giú all a partita, per il semplice motivo che ero appena
tornato da New York con la squadra di scherma. Ero lo stramaledetto manager della squadra di
scherma. Un affare di stato. La mattina eravamo and ati a New York per quell'incontro con la Scuola
McBurney. Ma l'incontro non c'era stato. Avevo lasc iato fioretti, equipaggiamento e tutto su quella
metropolitana della malora. Non era stata tutta col pa mia. Dovevo continuare ad alzarmi per
guardare quella carta, se no non sapevamo dove scen dere. Sicché eravamo tornati a Pencey verso le
due e mezzo invece che per l'ora di cena. In treno, mentre tornavamo, tutta la squadra mi aveva
messo al bando. Era stato abbastanza da ridere, a p ensarci.

3/100 L'altro motivo per cui non mi trovavo giú alla part ita era che dovevo andare a salutare il vecchio
Spencer, il mio professore di storia. Aveva l'influ enza e compagnia bella, e io pensavo che
probabilmente non l'avrei rivisto prima che cominci assero le vacanze di Natale. Mi aveva scritto
quel biglietto per dirmi che voleva vedermi prima c he andassi a casa. Sapeva che non sarei tornato a
Pencey.
Questo mi ero dimenticato di dirvelo. Mi avevano sb attuto fuori. Dopo Natale non dovevo piú
tornare, perché avevo fatto fiasco in quattro mater ie e non mi applicavo e le solite storie. Mi
avevano avvertito tante volte di mettermi a studiar e – specie a metà trimestre, quando i miei erano
venuti a parlare col vecchio Thurmer – ma io niente . Sicché mi avevano liquidato. A Pencey
succede spessissimo che liquidino qualcuno. È una s cuola ad alto livello, Pencey. Altroché.
Ad ogni modo, era dicembre e tutto quanto, e l'aria era fredda come i capezzoli di una strega, specie
sulla cima di quel cretino d'un colle. Io addosso a vevo soltanto il cappotto doubleface senza guanti
né altro. La settimana prima, qualcuno era andato f ino in camera mia a rubarmi il cappotto di
cammello, coi guanti foderati di pelliccia in tasca e tutto quanto. A Pencey c'erano un sacco di
farabutti. Una quantità di ragazzi venivano da fami glie ricche sfondate, ma c'erano un sacco di
farabutti lo stesso. Una scuola, piú costa e piú fa rabutti ci sono – senza scherzi. Ad ogni modo, io
continuavo a starmene vicino a quel cannone scassat o, guardando la partita e gelandomi il sedere.
Solo che alla partita badavo poco. Se me ne restavo lí era perché cercavo di provare il senso di una
specie di addio. Voglio dire che ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo
lasciando. È una cosa che odio. Che l'addío sia tri ste o brutto non me ne importa niente, ma quando
lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lascia ndo. Se no, ti senti ancora peggio.
Mi andò bene. Tutt'a un tratto mi venne in mente un a cosa che mi aiutò a capire che stavo proprio
tagliando la corda. D'improvviso mi ricordai di que lla volta, doveva essere ottobre, che io e Robert
Tichener e Paul Campbell stavamo passandoci il pall one, davanti alla scuola. Erano ragazzi in
gamba, specialmente Tichener. Mancava poco all'ora di cena e fuori stava facendosi buio, ma noi
continuavamo col palleggio. Continuava a far sempre piú buio, e il pallone quasi non lo vedevamo
nemmeno piú, ma non volevamo smettere. Alla fine fu mmo costretti. Quello che insegnava
biologia, il professor Zambesi, cacciò fuori la zuc ca dalla finestra della scuola e ci disse di rientr are
in dormitorio a prepararci per la cena. Insomma, se mi tornano in mente di queste cose, un addio ce
l'ho sempre a disposizione per quando mi occorre – quasi sempre, almeno. Subito dopo, mi girai e
mi misi a correre giú per l'altro versante della co llina, verso la casa del vecchio Spencer. Lui non
abitava alla scuola. Stava nella Anthony Wayne Aven ue.
Feci tutta la strada di corsa fino al cancello gran de, e poi mi fermai un momento per riprendere
fiato. Ho il fiato corto, se proprio volete saperlo . Prima cosa, sono un fumatore accanito – o meglio,
lo ero. Mi hanno fatto smettere. E poi l'anno scors o sono cresciuto di sedici centimetri. Ecco in
pratica com'è che mi sono beccato la tbc e sono ven uto qua per tutte queste visite mediche e
accidenti della malora. La salute però è abbastanza buona.
Ad ogni modo, appena ripresi fiato attraversai di c orsa la Route N.4. C'era una gelata del diavolo e
per poco non finii per terra. Non so nemmeno perché stessi correndo – vuol dire che mi girava cosí.
Dopo attraversata la strada, mi sentii come se stes si svanendo. Era uno di quei pomeriggi pazzeschi,
freddo da morire, senza sole né niente, e ti sentiv i come se stessi svanendo ogni volta che
attraversavi una strada.
Ragazzi, m'attaccai a quel campanello, quando arriv ai a casa del vecchio Spencer. Ero proprio
gelato. Mi facevano male le orecchie e quasi non ri uscivo piú a muovere le dita. “Forza forza, –
dissi quasi ad alta voce, – che qualcuno la apra, ' sta porta”. Finalmente l'aprí la vecchia signora
Spencer. Non avevano donna di servizio né niente, e d erano sempre loro ad aprire la porta. Di grano
ne avevano poco.
– Holden! – disse la signora Spencer. – Che piacere vederti! Entra, caro! Sei morto di freddo? –
Credo che fosse contenta di vedermi. Le ero simpati co. O almeno credo.
Ragazzi, entrai in casa come un razzo. – Come sta, signora Spencer? – dissi. – Come sta il
professore?

4/100 – Dammi il cappotto, caro, – disse lei. Non aveva s entito che le domandavo come stava il professore.
Era un po' sorda.
Appese il mio cappotto nel ripostiglio dell'ingress o, e io mi detti un colpo ai capelli con la mano. D i
solito me li faccio tagliare a spazzola, e non c'è da usare molto il pettine. – Come sta, signora
Spencer? – le dissi di nuovo, ma piú forte per farm i sentire.
– Non c'è male, Holden -. Chiuse la porta del ripos tiglio. – E tu, come stai? – Da come me lo
domandò, capii subito che il vecchio Spencer le ave va detto che ero stato sbattuto fuori.
– Bene, – dissi. – Come sta il professore? È guarit o della sua influenza?
– Guarito! Holden, si sta comportando come un perfe tto… non so proprio cosa… È nella sua stanza,
caro. Entra pure.

II.

Avevano ognuno la sua stanza e tutto quanto. Erano tutt'e due sulla settantina, e forse anche piú.
Però c'erano cose che li mandavano in sollucchero – in modo stupido, naturalmente. So che pare
cattivo dirlo, ma non lo dico in senso cattivo. Vog lio dire che ci pensavo molto al vecchio Spencer,
e se ci pensavi troppo, finiva che ti domandavi per ché diavolo vivesse ancora. Voglio dire che era
tutto piegato in due e stava su per miracolo e in c lasse, alla lavagna, tutte le volte che gli cadeva un
pezzo di gesso, qualche ragazzo in prima fila dovev a sempre alzarsi per raccoglierlo e darglielo. Per
me questo è tremendo. Ma se pensavi a lui solo quel tanto, non troppo, dico, potevi farti l'idea che
non se la cavava poi tanto male. Per esempio, una d omenica che io e certi altri ragazzi eravamo
andati a casa sua a prendere la cioccolata calda, c i fece vedere quella vecchia coperta Navajo che lui
e la signora Spencer avevano comprata da un indiano a Yellowstone Park. Era chiaro che
quell'acquisto mandava in sollucchero il vecchio Sp encer. Ecco quello che voglio dire. Prendi uno
che è un vecchio bacucco, come il vecchio Spencer, comprare una coperta può mandarlo in
sollucchero.
La sua porta era aperta, ma io bussai un pochino lo stesso, tanto per far l'educato e cosí via. L'avev o
anche visto, oltre tutto. Stava seduto in una grand e poltrona di pelle, tutto arrotolato in quella
coperta che vi ho detto prima. Quando bussai mi gua rdò. – Chi è? – gridò. – Caulfield? Vieni,
figliolo -.
Gridava sempre, quando non era in classe. Certe vol te dava sui nervi.
Mi pentii d'essere andato nell'attimo stesso che en travo. Stava leggendo l'Atlantic Monthly, e
c'erano pillole e medicine dappertutto, e tutto ave va l'odore delle gocce Vicks contro il raffreddore.
Era un po' deprimente. Io non ho troppa simpatia pe r i malati, del resto, cosa ancora piú deprimente,
il vecchio Spencer aveva addosso quella vecchia, tr istissima, logora vestaglia con la quale
probabilmente era nato o qualcosa del genere. A me non mi va tanto, di vedere i vecchi in pigiama o
in vestaglia, ad ogni modo. Il loro vecchio petto b itorzoluto sta sempre in mostra, e le gambe, le
gambe dei vecchi, sulla spiaggia e dappertutto, son o sempre cosí bianche e senza peli. – Salve,
professore, – dissi. – Ho avuto il suo biglietto. G razie mille, -. Mi aveva scritto quel biglietto per
chiedermi di passare da lui a salutarlo prima delle vacanze, visto che non sarei tornato. – Non c'era
bisogno che si disturbasse tanto. Sarei venuto a sa lutarla lo stesso.
– Siediti là, figliolo, – disse il vecchio Spencer. Voleva dire sul letto.
Mi sedetti là. – Come va la sua influenza, professo re?
– Figliolo, se mi sentissi un tantino meglio, dovre i chiamare il medico, – disse il vecchio Spencer.
Questo lo mise fuori combattimento. Cominciò a rida cchiare come un matto. Poi finalmente si
riprese e disse: – Com'è che non sei giú alla parti ta? Credevo che la grande partita fosse oggi.
– Infatti. Ero lí. Ma è che sono appena tornato da New York con la squadra di scherma, – dissi.
Ragazzi, quel letto sembrava un sasso.
Lui cominciò a fare la faccia serissima. Me l'aspet tavo.- Sicché ci lasci, eh? – disse.
– Sí, professore. Mi sa proprio di sí.

5/100 Lui attaccò il suo solito su e giú con la testa. Ro ba che in vita vostra non avete mai visto nessuno
fare cosí su e giú con la testa come il vecchio Spe ncer. Uno non sapeva mai se muoveva tanto la
testa perché stava pensando eccetera eccetera, o so lo perché era un caro vecchiotto che non capiva
un accidente.
– Che cosa ti ha detto il dottor Thurmer, figliolo? Se ho capito bene, avete fatto una bella
chiacchierata.
– Sí. Altroché. Sono stato nel suo ufficio un paio d'ore, come minimo.
– Che cosa ti ha detto?
– Oh… be', che la vita è una partita e via discor rendo. E che va giocata secondo le regole, è stato
abbastanza gentile, però. Voglio dire, non ha perso le staffe né niente. Ha solo continuato a parlar
della vita che è una partita e via discorrendo. Lei sa bene.
– La vita è una partita, Figliolo. La vita è una partita che si gioca secondo le regole.
– Sí, professore. Lo so, Questo lo so. Partita un a ccidente. Una partita. È una partita se stai dalla
parte dove ci sono i grossi calibri, tante grazie – e chi lo nega. Ma se stai dall' altra parte, dove di
grossi calibri non ce n'è nemmeno mezzo, allora che accidente di partita è? Niente, non si gioca.
– Il dottor Thurmer ha già scritto ai tuoi? – mi do mandò il vecchio Spencer.
– Ha detto che scriverà lunedí.
– E tu hai dato tue notizie?
– No, professore, non ho dato notizie perché probab ilmente li vedrò mercoledí sera quando arrivo a
casa.
– E come credi che prenderanno la faccenda?
– Be', saranno abbastanza seccati, – dissi, – Non c 'è dubbio. Sarà perlomeno la quarta volta che
cambio scuola -. Scossi la testa. Scuoto la testa a tutto spiano, io. – Ragazzi! – dissi. Dico anche
“Ragazzi!” a tutto spiano. In parte perché ho un mo do di parlare schifo, e in parte perché certe
volte, per la mia età, mi comporto proprio come un ragazzino. Avevo sedici anni, allora, e adesso ne
ho diciassette, e certe volte mi comporto come se n e avessi tredici. È proprio da ridere, perché sono
alto un metro e ottantanove e ho i capelli grigi. S ul serio. Da un lato – il destro – sono pieno di
capelli bianchi, milioni. Li ho sempre avuti, anche quand'ero bambino. Eppure certe volte mi
comporto ancora come se avessi appena sí e no dodic i anni. Lo dicono tutti, specie mio padre. E in
parte è vero, ma non del tutto vero. La gente pensa sempre che le cose siano del tutto vere. Io me ne
infischio, però certe volte mi secco quando la gent e mi dice di comportarmi da ragazzo della mia
età. Certe volte mi comporto come se fossi molto pi ú vecchio di quanto sono – sul serio – ma la
gente non c'è caso che se ne accorga. La gente non si accorge mai di niente.
Il vecchio Spencer ricominciò a fare su e giú con l a testa. Cominciò pure a mettersi le dita nel naso.
Faceva come se stesse soltanto pizzicandoselo, ma i n realtà ci infilava dentro il suo vecchio pollice.
Mi sa che pensava di poterlo fare tranquillamente p erché nella stanza non c'ero che io. Non che me
ne importasse, però è abbastanza stomachevole guard are uno che si mette le dita nel naso.
Poi lui disse: – Alcune settimane fa, quando sono v enuti a parlare col dottor Thurmer, ho avuto
l'onore di conoscere il tuo papà e la tua mamma. So no persone eccezionali.
– Sí, certo. Sono molto in gamba.
Eccezionali. Ecco una parola che detesto con tutta l'anima. È fasulla. Roba che vomiterei ogni volta
che la sento.
Poi, tutt'a un tratto, il vecchio Spencer ebbe l'ar ia di dovermi dire una cosa bellissima, acuta come
una puntina da disegno. Si sedette un po' piú dritt o sulla poltrona e si girò un poco. Era stato un
falso allarme, però. Non fece altro che prendere l' “Atlantic Monthly” che teneva sulle ginocchia e
tentar di gettarlo sul letto, vicino a me. Fece cil ecca. Era a non piú di cinque centimetri, ma fece
cilecca lo stesso. Io mi alzai, lo raccolsi e lo po sai sul letto. E tutt'a un tratto mi venne una vogl ia
matta di andarmene da quella stanza. Sentivo arriva re una predica tremenda. Non che quell'idea mi
sgomentasse molto, ma non mi sentivo in vena di sor birmi una predica e di fiutare quell'odore di
gocce Vicks e di guardare il vecchio Spencer in pig iama e vestaglia, tutto in una volta. Proprio no.

6/100 E invece eccola. – Che cosa ti succede, figliolo? – disse il vecchio Spencer. E trattandosi di lui fu
piuttosto secco, anche.
– Quante materie hai portato, questo trimestre?
– Cinque, professore.
– Cinque. E in quante sei stato respinto?
– In quattro -. Spostai un pochino il didietro sul letto. Non mi ero mai seduto su un letto cosí duro. –
Sono passato in inglese, – dissi, perché tutta quel la roba su Beowulf e Lord Randal figlio mio
l'avevo già fatta a Whooton. Voglio dire, in ingles e non ho dovuto fare quasi niente, tranne un tema
ogni tanto.
Non stava nemmeno a sentire. Non stava quasi mai a sentire, quando uno gli diceva qualche cosa.
– Io ti ho bocciato in storia per il semplice motiv o che non sapevi assolutamente niente.
– Lo so, professore. Ragazzi, lo so benissimo! Non poteva farne a meno.
– Assolutamente niente, – ripeté. Ecco una cosa che mi fa perdere le staffe. Quando la gente dice le
cose due volte, dopo che uno gli ha dato ragione la prima volta. Allora lui la disse tre volte. – Ma
assolutamente niente. Sono quasi convinto che tu no n hai aperto il libro nemmeno una volta durante
tutto il trimestre. L'hai aperto? Di' la verità, fi gliolo.
– Be', ci ho dato un'occhiata un paio di volte, – g li dissi. Non volevo ferire i suoi sentimenti. Lui era
fissato, per la storia.
– Ci hai dato un'occhiata, eh! – disse, molto sarca stico.
– Il foglio del tuo… ehm… esame scritto sta las sú sul comò. In cima a quel mucchio. Portamelo, per
piacere.
Era un tiro schifo, ma andai a prenderlo e glielo p ortai non avevo scelta, niente. Poi tornai a sederm i
su quel letto di cemento. Ragazzi, quanto rimpiange vo d'essere andato a salutarlo non potete
nemmeno immaginarvelo.
Lui si mise a maneggiare il mio compito come se fos se uno stronzo o che so io. – Abbiamo studiato
gli egiziani dal 4 novembre al 7 dicembre, – disse. – Per il tema facoltativo, sei stato tu stesso a
scegliere quest'argomento. Ti interessa di sapere che cosa s ei riuscito a dire?
– No, professore, non molto, – dissi.
Ma lui lo lesse lo stesso. Non puoi fermare un prof essore quando vuol fare una cosa. La fa , e basta.
– “Gli egiziani erano un'antica razza caucasica e r isiedevano in una delle regioni settentrionali
dell'Africa. Questa, come tutti sappiamo, è il piú vasto continente dell'emisfero orientale”.
E io dovevo starmene seduto lí a sentire tutte quel le cretinate. Era proprio un tiro schifo.
– “Gli egiziani, oggi, costituiscono per noi argome nto di grande interesse per vari motivi. La scienza
moderna vorrebbe ancora sapere quali fossero gli in gredienti segreti che gli egiziani usavano
quando fasciavano i morti, in modo da salvare dalla putrefazione i loro visi per innumerevoli secoli.
Questo interessante enigma è tuttora una vera sfida alla scienza moderna del ventesimo secolo”.
Smise di leggere e posò il mio compito. Stavo comin ciando a provare per lui una specie di odio. – Il
tuo saggio , chiamiamolo cosí, finisce qua, – disse con quel t ono molto sarcastico.
Chi l'avrebbe mai pensato che un uomo cosí vecchio potesse essere tanto sarcastico e cosí via. –
Però, – disse, – hai aggiunto una piccola nota in f ondo alla pagina.
– Lo so, – dissi io. Lo dissi molto in fretta, perc hé volevo fermarlo prima che si mettesse a leggere
forte anche quella . Ma bravo chi lo fermava. Era partito in quarta.
– “Egregio professor Spencer”, – lesse ad alta voce .-
“Questo è tutto quello che so sugli egiziani. A qua nto sembra, non riesco a provare un grande
interesse per loro, benché le sue lezioni siano mol to interessanti. Non ho niente da obiettare se mi
boccia, perché tanto sarò bocciato in tutto fuorché in inglese. Con i miei ossequi, Holden Caulfield”
-. Poi posò il mio maledetto compito e mi guardò co me se mi avesse clamorosamente battuto a
ping-pong o che so io. Credo che non gli perdonerò mai di avermi letto quelle cretinate ad alta voce.
Se a scriverle fosse stato lui, io non gliele avrei mica lette ad alta voce, neanche per sogno. Tanto
per cominciare, io quella dannata nota l'avevo scri tta soltanto perché l'idea di bocciarmi non lo
facesse restar troppo male.

7/100 – Mi biasimi se ti ho bocciato, figliolo? – disse.
– Ma no, professore, no davvero! – dissi. Avrei dat o non so che cosa perché la smettesse di
chiamarmi tutto il tempo “figliolo”.
Ormai che aveva finito col mio compito, cercò di ge ttarlo sul letto. Ma fece cilecca anche stavolta,
naturalmente. Dovetti alzarmi di nuovo, raccoglierl o e posarlo sopra all'“Atlantic Monthly”. Una
bella seccatura, quella ginnastica ogni due minuti.
– Come ti saresti regolato tu al posto mio? – disse . – Sii sincero, figliolo.
Be', era chiaro che in realtà l'idea di avermi bocc iato lo faceva sentire un verme. Sicché per un poco
mi misi a sparar balle. Gli dissi che ero un autent ico lavativo eccetera eccetera. Gli dissi che se fo ssi
stato al suo posto avrei fatto esattamente la stess a cosa, e che la maggior parte della gente non
valuta quanto sia duro fare il professore. Eccetera eccetera. Le solite balle.
La cosa buffa, però, è che mentre continuavo a racc ontar balle pensavo a tutt'altro. Io abito a New
York, e pensavo al laghetto di Central Park, vicino a Central Park South. Chi sa se quando arrivavo
a casa l'avrei trovato gelato, mi domandavo, e se e ra gelato, dove andavano le anitre? Chi sa dove
andavano le anitre quando il laghetto era tutto gel ato e col ghiaccio sopra. Chi sa se qualcuno
andava a prenderle con un camion per portarle allo zoo o vattelappesca dove. O se volavano via.
È una bella fortuna, però. Voglio dire, potevo spar are balle col vecchio Spencer e al tempo stesso
pensare a quelle anitre.
· È buffo. Non occorre spremersi le meningi, quando si parla con un professore. Tutt'a un tratto,
però, mentre continuavo a raccontare balle, lui m'i nterruppe. Non faceva che interrompermi.
– E tu, di fronte a tutto questo, cos'è che senti , figliolo? È una cosa che m'interessa molto. Propr io
molto.
– Parla della mia espulsione da Pencey con quel che segue? – dissi. Avevo il vago desiderio che si
coprisse il petto bitorzoluto. Non era un bello spe ttacolo.
– Se non sbaglio, mi sembra che tu abbia avuto qual che difficoltà anche a Whooton e ad Elkton
Hills – Stavolta il suo tono non era soltanto sarca stico, ma anche un po' maligno.
– A Elkton Hills non ho avuto troppe difficoltà, – gli dissi.
– Non sono stato proprio espulso né niente. Me ne s ono andato io, in un certo senso.
– Perché, se non sono indiscreto?
– Perché? Oh, be', è una storia lunga, professore. Voglio dire che è un po' complicata -. Non me la
sentivo di rivangare tutta quella faccenda con lui. Tanto non l'avrebbe capita. Non era proprio pane
per i suoi denti, Uno dei principali motivi per cui avevo lasciato Elkton Hills è che c'era pieno cosí
di palloni gonfiati. Ecco tutto. Arrivavano a frott e da ogni parte.
C'era quel preside, per esempio, il signor Haas, ch e era il pallone gonfiato piú bastardo che avessi
mai conosciuto in vita mia. Dieci volte peggio del vecchio Thurmer. La domenica, per esempio, il
vecchio Haas faceva il giro per stringere la mano a tutti i genitori che venivano in visita a scuola.
Sprizzava cordialità da tutti i pori. A patto che u n ragazzo non avesse dei genitorucoli un po' buffi.
Dovevate vedere come faceva coi genitori del mio co mpagno di stanza. Voglio dire, se uno aveva
una madre un po' tracagnotta o mezza calzetta o vat telappesca o un padre di quelli con le giacche
imbottite sulle spalle e le scarpe bianche e nere d a contadino a festa, allora il vecchio Haas si
limitava a scambiare con loro una stretta di mano, gli faceva un sorriso fasullo e poi se ne andava a
parlare, magari per mezz'ora, coi genitori di qualc un altro. Queste sono le cose che non posso
sopportare, Ci divento matto. Mi deprimono talmente che ci divento matto. Lo odiavo, quel
maledetto Elkton Hills.
Allora il vecchio Spencer mi domandò qualcosa, ma i o non lo sentii nemmeno. Stavo pensando al
vecchio Haas. – Come, professore? – dissi.
– Non hai nessun rimorso di dovertene andare da Pencey?
– Oh, qualche rimorso ce l'ho. Senza dubbio… Non tanti, però. Non ancora, almeno. Credo che
questa faccenda non mi abbia ancora veramente colpi to. Ci vuole un po' di tempo perché le cose mi
colpiscano. Per ora, riesco solo a pensare che merc oledí vado a casa. Sono un vero lavativo.
– Non ti preoccupi proprio niente del tuo avvenire, figliolo?

8/100 – Oh, ma certo che mi preoccupo del mio avvenire. N aturale. Naturale che mi preoccupo -. Ci
pensai un momento.
– Ma non tanto, credo. Non tanto, credo.
– Te ne preoccuperai , – disse il vecchio Spencer. – Lo farai, figliolo. Lo farai quando sarà troppo
tardi.
Non mi andava di sentirglielo dire. Era come se fos si già morto o giú di lí. Era molto deprimente. –
Suppongo di sí, – dissi.
– Vorrei ficcarti un po' di buonsenso in quella tes ta, figliolo. Sto cercando di aiutarti . Sto cercando
di aiutarti, se mi riesce.
Ed era proprio vero, tra l'altro. Si vedeva. Solo c he ci trovavamo proprio ai due poli opposti, ecco
tutto. – Questo lo so, professore, – dissi. – Grazi e infinite. Dico sul serio. Gliene sono veramente
grato. Davvero -. Poi mi alzai dal letto. Ragazzi, non sarei potuto restar seduto su quel letto per al tri
dieci minuti nemmeno per salvare la pelle. – È che adesso devo andarmene, peró. Ho da prendere in
palestra un sacco di roba che devo portarmi a casa. Davvero -. Lui alzó gli occhi a guardarmi e
ricominciò a dondolare la testa in su e in giú con quell'espressione seria sulla faccia. Mi fece una
gran pena tutt'a un tratto. Solo che non potevo res tare là dentro un minuto di piú, ai poli opposti
com'eravamo, e con lui che non azzeccava mai il let to quando ci buttava qualcosa sopra, e quella
sua squallida vestaglia che gli lasciava scoperto i l petto, e quell'odore influenzale di gocce Vicks
per tutta la stanza.
– Senta, professore. Non si preoccupi per me, – dis si. – Parlo sul serio. Me la caverò benissimo. È
solo che sto attraversando un periodo cosí, adesso. Tutti attraversano certi periodi cosí, dico bene?
– Non lo so, figliolo. Non lo so.
Che rabbia, quando la gente risponde in quel modo. – Ma certo. È proprio cosí, – dissi. – Parlo sul
serio, professore. La prego di non preoccuparsi per me -. Gli misi la mano sulla spalla. – Intesi? –
dissi.
– Non vuoi una tazza di cioccolata calda, prima di andartene? La signora Spencer sarebbe…
– La prenderei tanto volentieri, veramente, ma il f atto è che devo proprio andarmene. Devo andare
di corsa in palestra. Grazie, ad ogni modo. Grazie infinite, professore.
Allora ci stringemmo la mano. E tutta quella solita zuppa.
Mi venne una tristezza d'inferno, però.
– Le scriverò mie notizie, professore. Badi alla su a influenza, adesso.
– Addio, figliolo.
Quando avevo già chiuso la porta e stavo tornando n ella stanza di soggiorno, lui mi gridò qualcosa,
ma non capii bene.
Sono quasi sicuro che mi gridò “Buona fortuna!” Spe ro di no. Accidenti, spero proprio di no. Io non
griderei mai “Buona fortuna!” a nessuno. È tremendo , se uno ci pensa.

III.

Io sono il piú fenomenale bugiardo che abbiate mai incontrato in vita vostra. È spaventoso. Perfino
se vado all'edicola a comprare un giornale, e qualc uno mi domanda che cosa faccio, come niente
dico che sto andando all'opera. È terribile. Sicché , quando dissi al vecchio Spencer che dovevo
andare in palestra a prendere la mia roba e tutto q uanto, non era vero niente. Non ce l'ho mai tenuta,
in palestra, la mia maledetta roba!
A Pencey io stavo nell'ala Ossenburger Memorial dei nuovi dormitori, ecco dove stavo. Era
riservata a quelli del penultimo anno e ai licenzia ndi. Io ero del penultimo. Il mio compagno di
stanza era licenziando. L'ala si chiamava cosí in o nore di quel tale Ossenburger che aveva studiato a
Pencey. Uscito da Pencey, si era fatto un sacco di quattrini con le pompe funebri. È stato lui a
disseminare per tutto il paese quegli uffici di pom pe funebri dove potete far seppellire tutta la vost ra
famiglia cavandovela con circa cinque dollari cadau no. Avreste dovuto vederlo, il vecchio
Ossenburger. Quello è tipo da ficcarli in un sacco e buttarli a fiume. Ad ogni modo ha dato a

9/100 Pencey un mucchio di soldi; e loro hanno chiamato l a nostra ala col suo nome. Alla prima partita di
rugby dell'annata se ne venne all'istituto con quel l'accidente di Cadillac enorme, e noi dovemmo
starcene tutti in piedi nella tribuna a fare il tre no – ad acclamarlo, cioè. Poi la mattina dopo, in
cappella, fece un discorso che durò circa dieci ore . Cominciò con una cinquantina di spiritosaggini
antidiluviane, tanto per farci vedere quant'era in gamba. Da fargli tanto di cappello. Poi attaccò a
dirci che lui, quando aveva qualche guaio o un altr o accidente del genere, non si vergognava affatto
di mettersi in ginocchio e di pregare Dio. Ci disse che dovunque fossimo dovevamo sempre pregare
Dio – parlargli eccetera eccetera. Ci disse che dov evamo pensare a Gesú come a un nostro
compagno eccetera eccetera. Disse che a Gesú lui pa rlava sempre. Perfino quando portava la
macchina. Mi lasciò secco. Mi par di vederlo, quel bastardo d'un pallone gonfiato, che ingrana la
prima e chiede a Gesú di mandargli un altro po' di salme. Il bello però venne a metà del suo
discorso. Ci stava dicendo che fenomeno era lui, ch e uomo in gamba e compagnia bella, quando
tutt'a un tratto il ragazzo seduto nella fila davan ti a me, Edgar Marsalla, mollò una scoreggia
tremenda. Certo fu un po' forte, in cappella eccete ra eccetera, ma fu anche un vero spasso. Il
vecchio Marsalla. A momenti faceva saltare il tetto .
Non scoppiò a ridere quasi nessuno e il vecchio Oss enburger fece come se non avesse nemmeno
sentito, ma il vecchio Thurmer, il preside, stava s eduto proprio vicino a lui, sul palco e palchetteri a,
e aveva sentito eccome, bastava guardarlo. Ragazzi, era furibondo! Lí per lí non disse niente, ma la
sera dopo ci chiamò tutti a rapporto nell'aula magn a e poi venne a farci un discorso. Disse che il
ragazzo che aveva provocato quell'incidente in capp ella non era degno di stare a Pencey. Noi
avremmo voluto che il vecchio Marsalla ne mollasse un'altra proprio mentre il vecchio Thurmer
sermoneggiava, ma lui non era in vena. Ad ogni modo , io a Pencey stavo là. Nell'ala dedicata al
vecchio Ossenburger, nei nuovi dormitori.
Fu molto piacevole tornare nella mia stanza dopo av er lasciato il vecchio Spencer, perché erano tutti
alla partita, e nella stanza per miracolo funzionav a il riscaldamento. C'era un bel calduccio. Mi tols i
giacca e cravatta, mi sbottonai il colletto e poi m i misi il berretto che avevo comprato a New York
la mattina. Era un berretto rosso da cacciatore, di quelli con la visiera lunghissima. L'avevo visto
nella vetrina di quel negozio di articoli sportivi quando eravamo scesi dalla metropolitana,subito
dopo che mi ero accorto d'aver perso tutti quei dan nati fioretti. Mi era costato solo un dollaro. E io
lo portavo con la visiera sulla nuca, ecco come lo portavo – cafone da morire, chi lo nega, ma mi
piaceva in quel modo. Stavo bene, col berretto in q uel modo. Poi presi il libro che stavo leggendo e
mi sedetti nella mia poltrona. C'erano due poltrone in ogni stanza. Una era mia e l'altra del mio
compagno di stanza, Ward Stradlater. I braccioli er ano ridotti male perché tutti ci si sedevano sopra,
non facevano altro, ma erano poltrone abbastanza co mode.
II libro che stavo leggendo era quello che avevo pr eso in biblioteca per sbaglio. Mi avevano dato un
libro sbagliato, e io non me n'ero accorto finché n on ero tornato in camera mia. Mi avevano dato La
mia Africa di Isak Dinesen. Io credevo che fosse un a porcheria, e invece no. Era un libro bellissimo.
Io sono di un'ignoranza crassa, ma leggo a tutto sp iano. Il mio scrittore preferito è mio fratello D.
B., e al secondo posto viene Ring Lardner. Mio frat ello mi aveva regalato un libro di Ring Lardner
per il mio compleanno, poco prima che andassi a Pen cey. C'erano quelle commedie buffe, balorde,
e poi c'era soltanto un racconto su quel metropolit ano che si innamora di quella ragazza tanto carina
che va sempre in macchina a tutta birra. Solo che l ui è sposato, il metropolitano, sicché non può
sposarla né niente. Poi la ragazza finisce che a fo rza di andare sempre a tutta birra si ammazza.
Questa storia a momenti mi lasciava secco. I libri che mi piacciono di piú sono quelli che almeno
ogni tanto sono un po' da ridere. Leggo un sacco di classici, come Il ritorno dell'indigeno e via
discorrendo e mi piacciono, e leggo un sacco di lib ri di guerra e di gialli e via discorrendo, ma non è
che mi lascino proprio senza fiato. Quelli che mi l asciano proprio senza fiato sono i libri che quando
li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vor resti che l'autore fosse un tuo amico per la pelle e
poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira. Non succede spesso, però. Chiamerei
volentieri Isak Dinesen. E Ring Lardner, se D. B. n on mi avesse detto che è morto. Ma prendete
quel libro, quello Schiavo d'amore di Somerset Maugham. L'ho letto l'estate scorsa. È un libro

10/100 abbastanza bello e tutto quanto, ma non mi verrebbe mai in mente di chiamare al telefono Somerset
Maugham. Non so. È che non è il tipo che mi verrebb e di chiamare al telefono, ecco tutto. Piuttosto
chiamerei il vecchio Thomas Hardy. Mi piace quell'E ustacia Vye.
Ad ogni modo, mi misi il berretto nuovo, mi sedetti e cominciai a leggere quel libro La mia Africa .
L'avevo già letto, ma volevo rileggere certi punti. Ne avevo letto sí e no tre pagine, però, quando
sentii qualcuno che usciva da dietro le tende della doccia. Non avevo bisogno di alzare gli occhi per
sapere subito chi era. Era Robert Ackley, il ragazz o che occupava la stanza vicina. Nella nostra ala
c'era una doccia ogni due stanze e il vecchio Ackle y mi capitava tra i piedi circa ottantacinque volte
al giorno. Tolto me, doveva essere l'unico ragazzo di tutto il dormitorio che non stava giú alla
partita. Non andava quasi mai in nessun posto . Era un tipo tutto speciale. Era licenziando, e st ava a
Pencey da ben quattro anni e compagnia bella, ma tu tti lo chiamavano sempre e soltanto “Ackley”.
Herb Gale, che era il suo compagno di stanza, be', nemmeno lui lo chiamava “Bob”, o almeno
“Ack”. Se quello si sposa, come niente lo chiamerà “Ackley” pure sua moglie. Era uno di quei tipi
alti alti – piú di uno e novanta – con la schiena r otonda e certi denti da farti venire il voltastomac o.
Per tutto il tempo che siamo stati vicini di stanza , mai che l'abbia visto lavarsi i denti. Pareva che
avessero fatto la muffa, erano spaventosi, roba che rischiavate di vomitare a vederlo a tavola con la
bocca piena di purea di patate o di piselli o di ch e so io. E poi aveva un sacco di brufoli. Mica solo
sulla fronte o sul mento, come li hanno tanti, ma s u tutta la faccia. E come se non bastasse, aveva un
carattere spaventoso. Era anche un po' maligno, com e tipo. Per essere sincero, non è che facessi
follie per lui. Mi accorgevo che stava lí, fermo su l limitare della doccia, proprio dietro la mia
poltrona; dava un'occhiata per vedere se c'era Stra dlater. Non poteva soffrire Stradlater, e non
entrava mai nella stanza se c'era lui. Non poteva s offrire nessuno, o giú di lí. Scese dal bordo della
doccia ed entrò nella stanza. – Ehi, – disse. Lo di ceva sempre come se fosse tremendamente annoiato
o tremendamente stanco. Non voleva darti l'impressi one che ti stesse facendo una visita o qualcosa
del genere. Voleva darti l'impressione che era entr ato per sbaglio, Dio santo! – Ehi, – dissi io, ma
non alzai gli occhi dal libro. Con un tipo come Ack ley, se alzavi gli occhi dal libro eri fregato. Eri
fregato comunque, ma se non alzavi subito gli occhi forse ci voleva piú tempo. Lui si mise a
girellare per la stanza, molto lentamente eccetera eccetera, come faceva sempre, toccando tutta la
roba che tenevi sulla scrivania e sul comò. Toccava sempre la tua roba e la guardava. Ragazzi, certe
volte ti faceva proprio venire i nervi.
– Com'è andata la scherma? – disse. Voleva solo che smettessi di leggere e di starmene in pace. Non
gli importava un accidente della scherma.
– Abbiamo vinto o no? – disse.
– Non ha vinto nessuno, – dissi io. Ma senza alzare gli occhi.
– Come? – disse lui. Ti faceva sempre dire le cose due volte.
– Non ha vinto nessuno, – dissi. Diedi una sbirciat ina per vedere che cosa stava toccando sul mio
comò. Stava guardando la fotografia di quella ragaz za con la quale andavo sempre in giro a New
York, Sally Hayes. Da quando avevo quella dannata f otografia, doveva averla presa in mano e
guardata almeno cinquemila volte. Quando aveva fini to, poi, la rimetteva sempre nel posto
sbagliato. Lo faceva di proposito. Potevi giurarci.
– Non ha vinto nessuno! – disse. – Com'è andata?
– Ho lasciato quei dannati fioretti e tutto quanto sulla metropolitana -. Ancora non avevo alzato gli
occhi a guardarlo.
– Sulla metropolitana, Cristo santo! Li hai persi , vuoi dire?
– Abbiamo sbagliato metropolitana. Dovevo alzarmi t utti momenti per guardare quella dannata carta
sulla parete.
Si avvicinò e si piantò proprio davanti alla luce. – Ehi,-dissi io. – Da quando sei entrato, avrò lett o
questa frase una ventina di volte.
Chiunque fuorché Ackley avrebbe capito la maledetta antifona. Ma lui no.
– Dici che te li faranno ripagare? – domandò.

11/100 – Non lo so, e non me ne importa un accidente. Che ne diresti di metterti a sedere o qualcosa del
genere, pivello? Stai proprio davanti a questa male detta luce -. Non gli andava di sentirsi chiamare
“pivello”. Lui non faceva che dirmi che ero un dann ato pivello, perché avevo sedici anni e lui ne
aveva diciotto. Perdeva le staffe, quando lo chiama vo “pivello”.
Rimase là in piedi. Era proprio il tipo da restare davanti alla luce quando gli chiedevi di spostarsi.
Sgombrava, alla fine, ma se glielo chiedevi ci mett eva molto piú tempo. – Che diavolo leggi? –
disse.
– Un accidente di libro.
Piegò il libro all'indietro con la mano per leggern e il titolo.
– Bello? – disse.
– La frase che sto leggendo è una meraviglia -. So essere molto sarcastico, quando sono in vena. Ma
lui non capí. Si rimise a girellare per la stanza, toccando tutta la mia roba e quella di Stradlater. Alla
fine io posai il libro sul pavimento.
Non si può leggere niente con un tipo come Ackley t ra i piedi. Impossibile.
Mi sdraiai ben bene sulla poltrona e stetti a guard are il vecchio Ackley che si faceva i suoi comodi.
Mi sentivo un po' stanco dopo quel viaggio a New Yo rk con quel che segue, e cominciai a
sbadigliare. Poi mi misi a far lo scemo. Certe volt e faccio lo scemo a tutta forza, tanto per non
annoiarmi. Quello che feci fu di girare la visiera del mio berretto da cacciatore sulla fronte, poi me
la tirai giú sugli occhi. In quel modo non vedevo u n accidente. – Mi sa che sto diventando cieco, –
dissi con voce strozzata. – Mamma mia bella, tutto sta diventando cosí buio , qua dentro!
– Sei picchiato. Parola d'onore, – disse Ackley.
– Mamma mia bella, dammi la mano. Perché non vuoi d armi la mano?
– E non far l'idiota, Cristo santo!
Io cominciai a brancolare davanti a me come un ciec o, ma senza alzarmi né niente. Continuavo a
dire Mamma mia bella, perché non vuoi darmi la mano ? Stavo solo facendo lo scemo, naturalmente.
È una cosa che certe volte mi fa godere da morire. E poi sapevo che scocciava a morte il vecchio
Ackley.
Risvegliava sempre i miei vecchi istinti sadici, qu el tipo. Con lui mi capitava tutti i momenti di
essere molto sadico. Però a un certo punto la feci finita. Tornai a girare la visiera all'indietro e m i
misi buono.
– Di chi è quest'affare? – disse Ackley. Reggeva in mano la ginocchiera del mio compagno di stanza
per farmela vedere.
Quell'Ackley avrebbe preso in mano qualunque cosa. Perfino un sospensorio o che so io. Gli dissi
che era di Stradlater. Cosí la buttò sul letto di S tradlater. L'aveva presa dal comò di Stradlater, e
quindi la buttò sul letto.
Si avvicinò e si sedette sul bracciolo della poltro na di Stradlater. Non si sedeva mai in una poltrona,
ma sempre sul bracciolo. – Dove diavolo hai preso q uel berretto? – disse.
– New York.
– Quanto?
– Una patacca.
– Ti sei fatto fregare -. Cominciò a pulirsi quelle sue dannate unghie con la punta di un fiammifero.
Stava sempre a pulirsi le unghie. Era buffo, in un certo senso. Aveva sempre i denti che pareva che
ci crescesse il muschio e le orecchie con tanto di sporco, ma stava sempre a pulirsi le unghie.
Doveva pensare che cosí gli veniva un'aria tutta li nda. Mentre si puliva le unghie, diede un'altra
occhiata al mio berretto. – Da noi i berretti come quello si portano per sparare ai cervi, Cristo sant o,
– disse. – Quello è un berretto per sparare ai cerv i.
– E come no! – Me lo tolsi e lo guardai. Chiusi un po' un occhio, come se lo stessi prendendo di
mira. – Questo è un berretto per sparare alla gente , – dissi. – Io ci sparo alla gente, con questo
berretto.
– I tuoi lo sanno già che ti hanno buttato fuori?
– Neanche per ombra.

12/100 – Dove diavolo sta Stradlater, a proposito?
– Alla partita. Con una ragazza -. Sbadigliai. Sbad igliavo da slogarmi le mascelle. Tanto per
cominciare, là dentro faceva un caldo del diavolo. Ti dava la sonnolenza. A Pencey, o geli da
morire o crepi di caldo.
– Il grande Stradlater, – disse Ackley. – Senti. Pr estami un momento le forbici, ti secca? Le hai
sottomano?
– No. Le ho già messe in valigia. Lassú nell'armadi o.
– Prendile un momento, ti secca? – disse Ackley. – Voglio tagliarmi questa pellina.
Che tu avessi messo qualcosa in valigia e che la te nessi in cima all'armadio o no, per lui era
indifferente. Gliele presi, comunque. E tra l'altro per poco non mi accoppavo. Appena aprii lo
sportello dell'armadio, mi cadde dritta sulla testa la racchetta di Stradlater con tanto di telaio di
legno e compagnia bella. Fece un rumore sordo, e un male cane. Ma per il vecchio Ackley fu uno
spasso da morire. Cominciò a ridere, con quella voc e acuta e in falsetto che aveva lui. E continuò a
ridere tutto il tempo mentre io tiravo giú la valig ia e gli prendevo le forbici. A queste cose – uno c he
si beccava un sasso sulla testa o che
so io – Ackley se la faceva sotto dal divertimento. – Hai uno spiccatissimo senso dell'umorismo,
pivello, – gli dissi. – Lo sai? – Gli tesi le forbi ci. – Prendimi come agente. Ti faccio arrivare alla radio
-. Mi rimisi seduto nella mia poltrona, e lui comin ciò a tagliarsi quei suoi unghioni che parevano
zoccoli. – Che ne diresti di usare il tavolo o qual che altra cosa?-
dissi. – Tagliatele sul tavolo, ti spiace? Non mi v a, stanotte, di camminare a piedi nudi sulle tue
luride unghie -. Ma lui continuò imperturbabile a t agliarsele sul pavimento. Che modi da bifolco.
Dico davvero.
– Chi è la ragazza di Stradlater? – disse lui. Stav a sempre a controllare chi erano le ragazze di
Stradlater, con tutto che non lo poteva soffrire.
– Non lo so. Perché?
– Cosí. Accidenti, quanto mi sta sul gozzo quel fig lio di buona madre. È un figlio di buona madre
che mi sta proprio sul gozzo.
– Lui delira per te. Mi ha detto che gli sembri un maledetto principe, – dissi io. Do spessissimo del
principe alla gente, quando mi metto a far lo scemo . Mi salva dalla noia e compagnia bella.
– Ha sempre quell'aria da grand'uomo, – disse Ackle y.-
Quel figlio di buona madre mi sta proprio sul gozzo . Pensi che lui…
– Mi fai il piacere di tagliarti le unghie sul tavo lo, insomma? – dissi io. – Te l'ho detto una
cinquantina…
– Ha sempre quella maledetta aria da grand'uomo, – disse Ackley. – Credo che non sia nemmeno
intelligente, quel figlio di buona madre. Crede di esserlo, lui . Si crede all'incirca il piú…
– Ackley! Cristo santo! Vuoi farmi il piacere di tagliarti quelle luride unghie sul tavolo? Te l 'ho
detto cinquanta volte.
Lui cominciò a tagliarsi le unghie sul tavolo, mira colo. L'unico sistema per fargli fare qualcosa è di
mettersi a urlare.
Stetti a guardarlo per un po'. Poi dissi: – Tu ce l 'hai con Stradlater perché ti ha detto quella facce nda
di lavarti i denti ogni tanto. Non voleva offendert i, porca miseria. Non l'ha detto nel modo giusto, e
va bene. Ma non voleva dire niente di offensivo. Vo leva dire soltanto che staresti meglio e ti
sentiresti meglio se ogni tanto ti lavassi un po' i denti.
– Io i denti me li lavo. Senti che storie!
– No che non te li lavi. Ti ho visto, e non te li l avi, – dissi.
Non lo dissi con malignità, però. Mi faceva un po' pena, in un certo senso. Voglio dire, non è tanto
piacevole, naturalmente, se uno ti dice che non ti lavi i denti. – Stradlater è un tipo a posto. Non è
affatto malvagio, – dissi. – Tu non lo conosci, que sto è il guaio.
– Io continuo a dire che è un figlio di buona madre . È un borioso figlio di buona madre.
– È borioso, ma in certe cose è pieno di slancio. D avvero, – dissi. – Sta' a sentire, metti per esempi o
che Stradlater porti una cravatta o qualcos'altro c he ti piace. Diciamo che porta una cravatta che ti

13/100 piace moltissimo – ti sto solo facendo un esempio. Sai che cosa fa? Come niente se la toglie e te la
regala. Davvero. Oppure sai che cosa fa? Te la lasc ia sul letto o vattelappesca. Ma ti dà quella
dannata cravatta. Quasi tutti probabilmente si limi terebbero…
– All'inferno! – disse Ackley. – Se avessi i suoi s oldi lo farei anch'io.
– No che non lo faresti -. Scossi la testa. – Non l o faresti, pivello. Se avessi i suoi soldi, saresti uno
dei piú grossi…
– Smettila di chiamarmi “pivello”, la miseria! Sono abbastanza vecchio per essere il tuo pidocchioso
padre.
– No che non lo sei -. Ragazzi, quanto riusciva ad essere irritante, certe volte! Non si lasciava mai
scappare l'occasione di dirti che tu avevi sedici a nni e lui ne aveva diciotto. – Tanto per cominciare ,
a te nella mia dannata famiglia non ti ci farei ent rare, – dissi.
– Be', piantala di chiamarmi… Tutt'a un tratto si aprí la porta, e il vecchio Stradlater piombò dent ro
con una fretta del diavolo. Aveva sempre una fretta del diavolo. Tutto era sempre un affare di stato.
Mi venne vicino e mi fece lo scherzetto di appioppa rmi due ceffoni sulle guance – cosa che può
essere seccantissima. – Sta' a sentire, – disse. – Fai qualche cosa di speciale, stasera?
– Non lo so. Può darsi. Che diavolo succede, fuori nevica?
– Aveva il soprabito tutto pieno di neve.
– Si. Sta' a sentire. Se non fai niente di speciale , mi presti la tua giacca a losanghe?
– Chi ha vinto la partita? – dissi io.
– Siamo solo a metà. Piantiamo tutto, – disse Strad later.- Sul serio. Stasera te la metti, la giacca a
losanghe, o no? Sulla mia giacca di flanella grigia ci ho rovesciato non so che porcheria.
– No, ma non voglio che me la slarghi, con quelle t ue dannate spalle e compagnia bella, – dissi.
Eravamo alti uguale, suppergiú, ma lui pesava circa il doppio. Aveva due spalle cosí.
– Non te la slargo -. Si avvicinò in gran fretta al l'armadio.
– Come la va, Ackley? – disse ad Ackley. Se non alt ro era un tipo abbastanza cordiale, Stradlater. In
parte la sua cordialità era fasulla, ma almeno salu tava sempre Ackley e via discorrendo.
Quando lui disse “Come va?”, Ackley si limitò a far e una specie di grugnito. Non avrebbe voluto
rispondergli per niente, ma non aveva tanto coraggi o da non fare almeno un grugnito.
Poi mi disse: – Be', ora me ne vado. Ci vediamo.
– D'accordo, – dissi io. Non era mai che ti spezzas se il cuore, quando se ne tornava nella sua stanza.
Il vecchio Stradlater cominciò a togliersi il sopra bito e la cravatta e tutto quanto. – Mi sa che mi d o
una sbarbatina,- disse. Aveva un bel dito di barba. Davvero.
– Dov'è la tua ragazza? – gli domandai.
– Sta aspettando nella palazzina -. Uscí dalla stan za con la borsa da bagno e l'asciugamano sotto il
braccio. Senza camicia, niente. Se ne andava sempre in giro a torso nudo perché era convinto
d'essere maledettamente ben piantato. E lo era, tra l'altro. Devo riconoscerlo.

IV.

Non avevo niente di speciale da fare, sicché andai giú ai gabinetti e chiacchierai con lui mentre si
faceva la barba. Nei gabinetti non c'era nessuno, p erché tutti stavano ancora alla partita. Faceva un
caldo del diavolo e le finestre erano tutte appanna te. C'erano una decina di lavabi, tutti contro la
parete. Stradlater aveva quello di mezzo. Mi sedett i su quello vicino e cominciai ad aprire e
chiudere il rubinetto dell'acqua fredda – il mio so lito ticchio. Stradlater continuava a fischiettare
Canzone indiana , e intanto si faceva la barba. Aveva uno di quei f ischi acutissimi che non
azzeccava quasi mai la nota giusta, e andava sempre a scegliere certe canzoni che avrebbe trovato
difficili anche uno bravo, per esempio Canzone indiana o Il Massacro della Decima Avenue . Era
capace di farne uno spicinio.
Vi ricordate che vi ho detto che per quanto riguard ava le sue abitudini igieniche Ackley era uno
sporcaccione? Be', anche Stradlater, ma in un altro modo. Quella di Stradlater era una sudiceria piú
nascosta. Pareva sempre a posto, Stradlater, ma avreste dovuto vede re il rasoio con cui si faceva la

14/100 barba, per esempio. Aveva sempre tanto cosí di rugg ine, ed era pieno di sapone, di capelli e di
lerciume. Mai che lui lo pulisse, niente. Lui era s empre tutto in ordine quando aveva finito di
lisciarsi, ma in segreto era un sudicione lo stesso , a conoscerlo come lo conoscevo io. Si lisciava pe r
farsi bello perché si amava alla follia. Credeva di essere il piú bel ragazzo dell'Emisfero
Occidentale. E abbastanza bello lo era davvero – ch i lo nega.
Ma era quel tipo di bel ragazzo che se i vostri gen itori vedono la sua fotografia nel vostro album
scolastico dicono subito:
“E questo ragazzo chi è?” Voglio dire, era proprio il tipo di bel ragazzo da album scolastico. A
Pencey conoscevo un sacco di ragazzi che per me era no molto piú belli di Stradlater, ma non
parevano belli, se vedevi la loro fotografia nell'a lbum scolastico. Pareva che avessero il naso grosso
o le orecchie a sventola. Mi è capitato spesso.
Ad ogni modo, stavo seduto sul lavabo vicino a quel lo dove Stradlater si faceva la barba,
continuando ad aprire e a chiudere il rubinetto. Av evo ancora il mio berretto rosso da cacciatore in
testa, con la visiera all'indietro eccetera ecceter a. Ero proprio entusiasta di quel berretto.
– Ehi, – disse Stradlater. – Mi faresti un grosso f avore?
– Quale? – dissi. Senza troppo slancio. Quello stav a sempre a chiederti di fargli un grosso favore.
Prendete uno molto bello, o uno che si crede propri o un fenomeno, be', sta sempre a chiedervi di
fargli un grosso favore. Siccome si amano follement e, credono che li amiate follemente anche voi, e
che moriate dalla voglia di fargli un favore. È un po' buffo, in un certo senso.
– Esci, stasera? – disse lui.
– Forse. Forse no. Non lo so. Perché?
– Ho un centinaio di pagine di storia da fare per l unedí,- disse lui. – Mi faresti un tema d'inglese, tu?
Sono in un guaio se non ho pronto quell'accidente d i tema per lunedí. Ecco perché te lo chiedo. Me
lo fai?
Era proprio un'ironia. Altro che.
– Io sono quello che sbattono fuori da questo maled etto posto, e tu mi chiedi di farti un maledetto
tema, – dissi.
– Sí, lo so. Ma è che sono in un guaio se non lo fa ccio. Dai amico, forza. Da vero amico. D'accordo?
Non gli risposi subito. Il cuore sospeso fa bene a certi bastardi come Stradlater.
– Su che cosa? – dissi.
– Quello che ti pare. Purché sia descrittivo. Una s tanza. O una casa. O un accidente dove una volta
hai abitato o vattelappesca; tu lo sai. Basta che s ia molto descrittivo -. E fece un enorme sbadiglio
prima ancora d'aver finito di parlare. E questa è u na cosa che mi rompe gloriosamente le scatole. Se
uno sbadiglia proprio mentre ti sta chiedendo di fargli un maled etto favore, dico. – Solo non farlo
troppo bene, ecco tutto,- disse lui. – Quel figlio di puttana di Hartzell è convinto che in inglese se i
un fenomeno, e sa che stiamo nella stessa stanza.
Perciò non mettere tutte le virgole e le cose al po sto giusto, voglio dire.
Ecco un'altra cosa che mi fa girare le scatole. Se sei bravo a fare i temi, voglio dire, e uno cominci a
a parlare delle virgole. Stradlater non faceva altr o. Voleva farti credere che lui era una schiappa a
fare i temi solo perché metteva tutte le virgole al posto sbagliato. In questo era un po' come Ackley.
Io una volta ero stato seduto vicino ad Ackley alla partita di pallacanestro. Avevamo in squadra un
tipo formidabile, Howie Coyle, che riusciva a piazz arle da metà campo senza nemmeno far
rimbalzare la palla sul legno né niente. Per tutta quella maledetta partita, Ackley aveva continuato a
dire che Coyle aveva proprio la struttura fatta apposta per la pallacanestro.
Dio, quanto odio queste cose!
Dopo un po' mi seccai di starmene seduto su quel la vabo, perciò mi allontanai un poco all'indietro e
mi misi a ballare il tip-tap, tanto per fare qualco sa. Mi stavo solo divertendo. Non è mica che io
sappia ballare davvero il tip-tap, niente, ma nei g abinetti c'era il pavimento di pietra ed era buono
per ballarci il tip-tap. Mi misi ad imitare uno di quei tipi dei film. I film musicali. Odio i film co me
il veleno, ma mi diverto un mondo a imitarli. Il ve cchio Stradlater mi guardava nello specchio
mentre si faceva la barba. A me non occorre che un pubblico.

15/100 Sono un esibizionista. – Sono il dannato figlio del Governatore, – dissi. Mi stavo divertendo da
morire. A ballare cosí il tip-tap per tutta la stan za. – Lui non vuole che io balli il tip-tap. Lui vu ole
che vada a Oxford. Ma io il tip-tap ce l'ho nel san gue, accidenti! – Il vecchio Stradlater rideva.
Aveva un senso umoristico niente affatto disprezzab ile. – È la serata di gala delle Ziegfield Follies -.
Stava per mancarmi il respiro.
Non ho quasi fiato per niente. – Il primo ballerino non può continuare. È ubriaco fradicio. E chi
diavolo prendono al suo posto? Me, ecco chi prendon o. Il vecchio dannato figlioletto del
Governatore.
– Dove hai pescato quel berretto? – disse Stradlate r. Parlava del mio berretto da cacciatore. Non
l'aveva ancora visto.
Io comunque ero senza fiato, perciò smisi di fare l o scemo.
Mi tolsi il berretto e lo guardai per la novantesim a volta a dir poco. – L'ho preso stamattina a New
York. Per una patacca. Ti piace?
Stradlater fece di sí. – Fantastico -. Mi stava sol o lisciando, però, perché disse subito: – Sta' a se ntire.
Allora me lo fai quel tema? Devo saperlo.
– Se ho tempo sí. Se no no, – dissi. Mi avvicinai e mi rimisi a sedere sul lavabo vicino a lui. – Chi è
la tua ragazza di stasera? – gli domandai. – La Fit zgerald?
– Accidenti, no! Te l'ho detto che con quella troie tta l'ho fatta finita.
– Sí? Passala a me, cocco. Sul serio. È il mio tipo .
– E pigliatela… Per te è troppo vecchia.
Tutt'a un tratto – in realtà senza nessuna ragione, se non quella che mi sentivo un po' in vena di far
lo scemo – mi saltò il ticchio di balzare giú dal l avabo e di fare al vecchio Stradlater una bella
cravatta. È una presa di lotta, se non lo sapete, c he consiste nell'afferrare l'avversario passandogli un
braccio intorno al collo sino a farlo morire soffoc ato, se vi gira. E cosí feci io. Gli piombai addoss o
come una dannata pantera.
– E piantala, Holden, Cristo santo! – disse Stradla ter. Non aveva nessuna voglia di far lo scemo, lui.
Si stava facendo la barba e tutto. – Che accidente vuoi, che mi tagli questa maledetta testa?
Ma io non lo mollai. Lo tenevo con una cravatta piu ttosto gagliarda. – Liberati da questa mia stretta
a tenaglia, – dissi.
– Gesú Cristo ! – Posò il rasoio, e di colpo fece scattare le bra ccia in alto, svincolandosi. Era molto
forte. Io sono molto debole. – E adesso piantala di fare lo scemo, – disse. Ricominciò a farsi la barb a
tutta daccapo. Si radeva sempre due volte, per far faville. Con quel vecchio rasoio tutto lercio.
– Che ragazza ci hai, se non è la Fitzgerald? – gli domandai.
Mi ero riseduto sul lavabo vicino a lui. – Quella b ambola di Phyllis Smith?
– No. Dovevo uscire con lei, ma sono successi un sa cco di pasticci con gli appuntamenti. Ora vado
con la compagna di stanza della ragazza di Bud Thaw … A proposito. A momenti me ne scordavo.
Ti conosce.
– Chi? – dissi.
– Questa ragazza.
– Sí? – dissi. – Come si chiama? – Ero alquanto int eressato.
– Fammici pensare… Ah, Jean Gallagher.
Ragazzi, quando me lo disse per poco non cascavo mo rto.
– Jane Gallagher, – dissi. Mi alzai addirittura dal lavab o, quando lo disse. Per poco non cascavo
morto, accidenti. – La conosco sí, l'hai proprio az zeccata. Abitavamo praticamente porta a porta, due
estati fa. Aveva quello stramaledetto Dobermann Pin scher che pareva un bue. Ci siamo conosciuti
per quello. Il suo cane continuava sempre a venire nel nostro…
– Stai proprio davanti alla luce, Holden, Cristo sa nto,- disse Stradlater. – Devi proprio startene là
impalato?
Ragazzi, ero tutto in ebollizione, però. Sul serio.
– Dov'è? – gli domandai. – Dovrei andar giú a farle un salutino o qualcosa del genere. Dov'è? Nella
palazzina?

16/100 – Sí.
– Com'è che ha parlato di me? Va al Conservatorio, adesso? Aveva detto che forse ci andava. Aveva
anche detto che forse andava a Shipley. Io credevo che fosse andata a Shipley. Come mai ha parlato
di me? – Ero proprio in ebollizione. Sul serio.
– Non lo so, io, Cristo santo. Ti vuoi alzare? Stai sul mio asciugamano, – disse Stradlater. Stavo
seduto su quel cretino del suo asciugamano.
– Jane Gallagher, – dissi. Era una cosa che non man davo giú. – Santissimo Cristo.
Il vecchio Stradlater si stava mettendo la brillant ina. La mia brillantina.
– Studia ballo, lei, – dissi. – Danza classica con quel che segue. Faceva almeno due ore al giorno di
esercizi, proprio quando si crepava piú dal caldo e via discorrendo. Aveva paura che le venissero
delle gambe orribili, grosse cosí e via discorrendo . Giocavamo sempre a dama.
– Giocavate sempre a che cosa ?
– A dama.
– A dama, Cristo santo!
– Sí. E lei non muoveva mai le sue dame. Quando fac eva una dama, stava là e non la muoveva. La
lasciava nell'ultima fila. Se le teneva tutte schie rate nell'ultima fila. Poi non le usava mai. Le
piaceva vedersele là tutte schierate nell'ultima fi la.
Stradlater non disse niente. Queste son cose che no n interessano quasi nessuno.
– Sua madre era socia dello stesso circolo nostro, – dissi.- Io ogni tanto portavo i bastoni da golf a lla
gente, tanto per rimediare qualche soldo. Un paio d i volte ho portato i bastoni a sua madre. Faceva
il campo in circa centosettanta colpi, su nove buch e.
Stradlater non mi stava quasi nemmeno a sentire. Si pettinava i suoi ríccioli fatali.
– Dovrei andar giú a darle almeno un salutino, – di ssi.
– E perché non ci vai?
– Tra un minuto.
Lui ricominciò a farsi la scriminatura tutta daccap o. Gli ci voleva almeno un'ora per pettinarsi.
– Sua madre e suo padre erano divorziati. Sua madre si era risposata con uno che beveva come una
spugna, – dissi.
Un tipo pelle e ossa con le gambe pelose. Me lo ric ordo. Stava sempre in calzoncini. Jane diceva
che scriveva commedie o qualche altro accidente del genere, ma io non l'ho mai visto far altro che
sbevazzare tutto il tempo e sentire quei dannati gi alli trasmessi per radio. E girare nudo per quella
maledetta casa. Con Jane in casa e compagnia bella.
– Davvero? – disse Stradlater. Questo lo interessav a sul serio. Quell'alcolizzato che girava per casa
nudo, con Jane in casa. Era un vero mandrillo, quel bastardo di Stradlater.
– Ha avuto un'infanzia schifa. Dico sul serio.
Ma di questo Stradlater se ne infischiava. Lo inter essava soltanto la roba sessuale.
– Jane Gallagher. Gesú -. Non riuscivo a togliermel a dalla testa. Non ci riuscivo proprio. – Dovrei
andar giú a darle un saluto, almeno.
– Perché diavolo non ci vai, invece di continuare a dirlo?- disse Stradlater.
Mi avvicinai alla finestra ma non si vedeva niente, tanto era appannata da tutto quel caldo che c'era
nei gabinetti. – Ora non sono in vena, – dissi. E n on lo ero proprio. Bisogna essere in vena per quest e
cose. – Credevo che fosse andata a Shipley. Ci avre i giurato che andava a Shipley -. Girellai un po'
per i gabinetti. Non avevo nient'altro da fare. – L e è piaciuta la partita? – dissi.
– Sí, credo. Non lo so.
– Te l'ha detto che giocavamo sempre a dama o non t i ha detto niente?
– Non lo so. Cristo,l'ho appena conosciuta, – disse Stradlater. Aveva finito di pettinarsi quei suoi
fatali stramaledetti capelli. Stava mettendo via tu tta la sua lurida roba.
– Senti. Salutala da parte mia, vuoi?
– D'accordo, – disse Stradlater, ma sapevo che prob abilmente non l'avrebbe fatto. Prendi un tipo
come Stradlater, mai che saluti la gente da parte t ua.

17/100 Lui tornò in camera, ma io restai ancora un po' nei gabinetti a pensare alla vecchia Jane. Poi tornai
in camera anch'io.
Quando entrai, Stradlater si stava mettendo la crav atta davanti allo specchio. Passava almeno metà
della sua maledetta vita davanti allo specchio. Io mi sedetti nella mia poltrona e rimasi per un po' a
guardarlo.
– Ehi, – dissi. – Non raccontarle che mi hanno butt ato fuori, eh?
– D'accordo.
Stradlater aveva questo di buono. Con lui non eri c ostretto a dar tante dannate spiegazioni, come
invece con Ackley. Soprattutto perché non gliene im portava molto, immagino. Ecco il vero perché.
Ackley era un'altra cosa. Ackley era un bastardo fi ccanaso.
SiSI mise la mia giacca a losanghe.
– Gesú, cerca di non slargarmela tutta quanta, ora, – dissi. L'avevo messa sí e no un paio di volte.
– Ma non te la slargo! Dove diavolo sono le mie sig arette?
– Sulla scrivania-. Non sapeva mai dove lasciava la roba. – Sotto la sciarpa -. Se le mise nella tasca
della giacca. Nella tasca della mia giacca.
Tutt'a un tratto mi tirai la visiera del berretto d a cacciatore sulla fronte, cosí, tanto per cambiare .
Stavo diventando un po' nervoso, tutt'a un tratto. Sono un tipo molto nervoso. – Senti, dove vai a
passar la sera con lei? – gli domandai. – Lo sai gi a?
– Non lo so. A New York, se abbiamo tempo. Lei ha c hiesto il permesso solo fino alle nove e
mezzo, accidenti.
Non mi piacque come lo disse, perciò ribattei: – Pr obabilmente l'ha fatto perché non sapeva che
razza di meraviglioso e affascinante bastardo sei t u. Se l'avesse saputo , probabilmente avrebbe
chiesto il permesso fino alle dieci e mezzo di domattina .
– Sacrosanto, – disse Stradlater. Non era tanto fac ile fargli perdere le staffe. Era troppo presuntuos o.
– Senza scherzi, ora. Fammi quel tema, – disse. Si era messo il soprabito ed era pronto per uscire. –
Non stare a spremerti le meningi, basta che lo fai molto descrittivo. D'accordo?
Non gli risposi. Non me la sentivo. Dosso soltanto: – Domandale se tiene ancora tutte le dame
nell'ultima fila.
– D'accordo, – disse Stradlater, ma sapevo che non l'avrebbe fatto. – Be', statti buono-. E uscí come
un bolide dalla stanza.
Io rimasi seduto là per circa mezz'ora, dopo che cl ui se n'era andato. Voglio dire che rimasi là sulla
mia poltrona senza fare niente. Continuavo a pensar e a Jane, e a Stradlater che aveva un
appuntamento con lei eccetera eccetera. Mi venne un nervoso tale che per poco non ammattivo. Vi
ho già detto che quel bastardo di Stradlater era un vero mandrillo.
Tutt'a un tratrto riecco spuntare fuori Ackley da q uelle maledette tende della doccia, come al solito.
Per una volta nella mia stupida vita fui veramente contento di vederlo. Mi faceva uscire dalla testa
l'altra faccenda.
Mi restò tra i piedi fin verso l'ora di cena, parla ndo di tutti i tipi che non poteva soffrire a Pence y e
schiacciandosi quel bel bruffolo che aveva sul ment o. Non usava nemmeno il fazzoletto. Penso che
quel bastardo non ce l'avesse nemmeno, un fazzolett o, se proprio volete saperlo. Per lo meno, io
non gliel'ho mai visto usare.

V.

A Pencey, il sabato sera, la cena era sempre la ste ssa. E siccome ti davano la bistecca passava per
un avvenimento. Scommetto mille sacchi che ce la da vano solo perché la domenica venivano a
trovarci caterve di genitori, e il vecchio Thurmer probabilmente si figurava che tutte le madri
avrebbero domandato ai loro diletti rampolli che co sa avevano mangiato a cena la sera prima e loro
avrebbero risposto “Bistecca”. Bella fregatura. Dov evate vedere quelle bistecche. Certi affarini duri
e risecchiti che non riuscivi nemmeno a tagliarli. E la sera della bistecca ti davano sempre quella

18/100 purea di patate tutta gnocchi, e per dolce la marro nata che nessuno mangiava, tolti forse i ragazzini
delle prime classi che non capivano niente – e i ti pi come Ackley che mangiavano qualunque cosa.
Però fu bello quando uscimmo dalla sala da pranzo. C'erano dieci centimetri di neve per terra, e
continuava a venirne giú un sacco e una sporta. Era uno spettacolo fantastico, e cominciammo tutti
quanti a buttarci palle di neve e a fare i matti sc atenati. Una cosa da asílo di infanzia, ma ci
divertivamo un mondo.
Io la ragazza non ce l'avevo, cosí con quell'amico mio, Mal Brossard, che era uno della squadra di
lotta, decidemmo di prendere un autobus fino ad Age rstown per andare a mangiarci un hamburger e
magari a vederci un qualche schifo di film. Né lui né io ce la sentivamo di restarcene là tutta la ser a
come due cretini. Domandai a Mal se gli seccava che venisse anche Ackley. Glielo domandai
perché il sabato sera Ackley non faceva mai niente e se ne restava nella sua stanza a schiacciarsi i
brufoli o vattelappesca. Non che gli seccasse, diss e Mal, però l'idea non lo entusiasmava. Ackley
non gli era molto simpatico. Ad ogni modo, ce ne an dammo tutt'e due in camera per prepararci
eccetera eccetera, e mentre mi mettevo le galosce e tutto quanto, gridai al vecchio Ackley se voleva
venire al cinema. Mi aveva sentito benissimo attrav erso le tende della doccia, ma non rispose
subito. Era il tipo di individuo che non risponde s ubito neanche a scannarlo. Finalmente eccolo
arrivare da quelle dannate tende; si fermò sul bord o della doccia e mi domandò chi altro veniva.
Doveva sempre sapere chi veniva. Giuro che se quell o naufraga da qualche parte e voi andate a
salvarlo con una maledetta barca, prima di salirci vuol sapere chi è il tizio che rema. Gli dissi che
veniva anche Mal Brossard. Lui disse: – Quel bastar do là… Va bene. Aspetta un secondo -. Avresti
detto che ti stava facendo una grande concessione.
Ci mise almeno cinque ore per prepararsi. Mentre lu i si preparava, andai ad aprire la finestra e feci
una palla di neve, cosí senza guanti com'ero. La ne ve era ottima da appallottolare. Però poi non la
buttai. Stavo per buttarla. Contro una macchina fer ma dall'altra parte della strada. Ma cambiai idea.
La macchina era cosí bella e bianca. Poi stavo per buttarla contro un idrante, ma anche quello era
troppo bello e bianco. Alla fine non la buttai per niente. Non feci altro che chiudere la finestra e
mettermi a camminare per la stanza con la palla di neve in mano, facendola sempre piú compatta.
Un po' piú tardi ce l'avevo ancora in mano quando c on Brossard e Ackley salimmo sull'autobus. Il
conducente aprí gli sportelli e me la fece buttare fuori. Io, che non l'avrei buttata a nessuno glielo
dissi, ma lui non ci volle credere. La gente non ti crede mai.
Brossard e Ackley avevano già visto il film che dav ano, sicché andò a finire che mangiammo un
paio di hamburger e giocammo un po' al biliardino a utomatico, poi riprendemmo l'autobus per
Pencey. A me però non me ne importava proprio nient e di non aver visto il film. Passava per una
cosa da ridere, con Cary Grant, e le solite boiate. Del resto ero già stato al cinema con Brossard e
Ackley. Ridevano tutti e due come iene per certe co se che non erano nemmeno comiche. Non mi
divertívo nemmeno a star seduto vicíno a loro, al c inema.
Mancava solo un quarto alle nove quando tornammo in dormitorio. Il vecchio Brossard aveva il
pallino del bridge e si mise a girare tutto il dorm itorio per combinare una partita. Il vecchio Ackley
si piazzò in camera mia, tanto per cambiare. Solo c he invece di sedersi sul bracciolo della poltrona
di Stradlater si sdraiò lungo disteso sul mio letto , proprio con la faccia sul mio cuscino eccetera
eccetera. E giú a parlare con quella sua voce lagno sa da moríre, e a stuzzicarsi tutti i suoi brufoli.
Io cercai un migliaio di volte di fargli capire l'a ntifona, ma non mi riuscí di togliermelo dai piedi.
Lui, con quella voce lagnosa da morire, non la fini va piú di parlare di una ragazza con cui, a
sentirlo, l'estate prima aveva avuto rapporti sessu ali. Me l'aveva già raccontato un centinaio di volt e.
E ogni volta la storia cambiava. Un momento l'aveva sbattuta nella Buick di suo cugino, il momento
dopo l'aveva sbattuta sotto una rotonda balneare. E rano tutte balle, naturalmente. Se mai ho visto
uno vergine, quello era lui. Mi sa che con una raga zza non aveva mai nemmeno pomiciato. Alla
fine, comunque, dovetti parlar chiaro e dirgli che dovevo fare un tema per Stradlater, perciò
bisognava che sloggiasse perché dovevo concentrarmi . Alla fine si decise, ma se la prese con calma,
come al solito. Dopo che se n'era andato, mi misi i l pigiama, la vestaglia e il mio vecchio berretto
da cacciatore e cominciai a fare il tema.

19/100 Il guaio era che non mi riusciva di pensare né a un a stanza né a una casa né a niente da descrivere,
come mi aveva detto di fare Stradlater. Non è che d escrivere le stanze e le case mi mandi in estasi,
comunque. Sicché andò a finire che feci il tema sul guantone da baseball di mio fratello Allie. Era
un argomento molto descrittivo. Dico davvero. Mio f ratello Allie, dunque aveva quel guantone da
prenditore, il sinistro. Lui era mancino. La cosa d escrittiva di quel guanto, però, era che c'erano
scritte delle poesie su tutte le dita e il palmo e dappertutto. In inchiostro verde. Ce le aveva scrit te
lui, cosí aveva qualcosa da leggere quando stava ad aspettare e nessuno batteva. Ora è morto. Gli è
venuta la leucemia ed è morto quando stavamo nel Ma ine, il 18 luglio del 1946. Vi sarebbe
piaciuto.
Aveva due anni meno di me, ma era cinquanta volte p iú intelligente di me. Era di un'intelligenza
fantastica. I professori non facevano che scrivere a mia madre per dirle com'erano contenti di avere
in classe un ragazzo come Allie. E non è che facess ero tanto per dire. Dicevano sul serio. Ma non
era soltanto il piú intelligente della famiglia. Er a anche il piú simpatico, in centomila modi. Non
perdeva mai le staffe con nessuno. Dicono che i ros si di capelli perdono le staffe molto facilmente,
ma Allie mai, ed era rossissimo. Ora vi dico che sp ecie di rosso era Allie. Io ho cominciato a
giocare a golf che avevo solo dieci anni. Mi ricord o che una volta, l'estate che ero sui dodici anni,
stavo per dare il colpo eccetera eccetera, e mi è v enuto come un lampo che se mi giravo dí scatto
vedevo Allie. Mi son girato, ed eccotelo là, stava seduto sulla sua bicicletta dall'altra parte dello
steccato – c'era quello steccato che girava tutt'in torno al campo – e lui stava seduto là, a duecento
metri da me, a guardarmi tirare. Ecco che razza di rosso era Allie. Dio, era un ragazzo in gamba,
però. A tavola rideva cosí forte per qualche cosa c he gli girava per la testa, che quasi ruzzolava giú
dalla sedia. Aveva solo tredici anni e loro volevan o farmi psicanalizzare e compagnia bella perché
avevo spaccato tutte le finestre del garage. Non po sso biasimarli. No, francamente. Ho dormito nel
garage, la notte che lui è morto, e ho spaccato col pugno tutte quelle dannate finestre, cosí, tanto p er
farlo. Ho tentato anche di spaccare tutti i finestr ini della giardinetta che avevamo quell'estate, ma a
quel punto mi ero già rotto la mano eccetera eccete ra, e non ho potuto.
È stata una cosa proprio stupida, chi lo nega, ma i o quasi non sapevo nemmeno quello che stavo
facendo, e poi voi non conoscevate Allie. La mano o gni tanto mi fa ancora male, quando piove e
compagnia bella, e io non posso piú stringere il pu gno – ben stretto, voglio dire – ma tolto questo
non me ne importa molto. Voglio dire che in qualunq ue caso non diventerò mai un dannato chirurgo
e nemmeno un violinista né niente.
Ad ogni modo, ecco su che cosa feci il tema di Stra dlater. Il guantone da baseball del vecchio Allie.
Per caso l'avevo là nella valigia, cosí lo tirai fu ori e copiai le poesie che c'erano scritte sopra. N on
dovetti far altro che cambiare il nome di Allie, in modo che nessuno capisse che era mio fratello, e
non il fratello di Stradlater. Non è che quel tema mi mandasse molto in estasi, ma non mi veniva in
mente nient'altro di descrittivo. Del resto, mi and ò abbastanza a genio di scrivere quella storia. Mi ci
volle un'oretta, perché dovetti usare quella schifa macchina da scrivere di Stradlater che continuava
a piantar grane. La mia l'avevo prestata a un ragaz zo che stava in fondo al corridoio, ecco perché
non potevo usarla.
Finii che erano circa le dieci e mezzo. Non ero sta nco, però, cosí me ne restai per un po' a guardare
fuori della finestra.
Non nevicava piú, ma ogni tanto potevi sentire una macchina chi sa dove che non riusciva a
mettersi in moto. Potevi sentire anche il vecchio A ckley che russava. Attraverso quelle dannate
tende della doccia, potevi sentirlo. Aveva la sinus ite, e quando dormiva non respirava tanto bene.
Le aveva tutte lui, quello là.
Sinusite, foruncoli, denti schifi, alito cattivo, u nghie sozze.
Come facevi a non compatirlo un po', quello svitato figlio di puttana.

VI.

20/100 Certe cose sono dure da ricordare. Ora sto pensando a quando Stradlater tornò dopo la sua serata
con Jane. Voglio dire, non posso ricordare esattame nte cosa stavo facendo quando sentii i suoi
stupidi stramaledetti passi lungo il corridoio. Pro babile che stessi ancora guardando fuori della
finestra, ma giuro che non riesco a ricordarmene. E ro maledettamente in pensiero, ecco perché.
Quando una cosa mi fa stare molto in pensiero, non mi metto a camminare su e giú. Devo persino
andare al gabinetto, quando una cosa mi fa stare in pensiero. Solo che non ci vado. Sono troppo in
pensiero per andarci. Non voglio smettere di stare in pensiero per andarci. Se conosceste Stradlater
sareste stati in pensiero anche voi. Sono uscito un paio di volte con quel bastardo e due ragazze, e
so quello che dico. Era senza scrupoli. Proprio cos í.
Ad ogni modo il corridoio era tutto di linoleum ecc etera eccetera, e potevi sentire i suoi
stramaledetti passi che si avvicinavano alla camera . Non mi ricordo nemmeno dove stavo seduto
quando entrò lui – se alla finestra o nella mia pol trona o nella sua. Giuro che non riesco a
ricordarmene.
Entrò facendo la lagna che fuori c'era un freddo ca ne. Poi disse: – Dove diavolo stanno gli altri?
Pare un maledetto obitorio, qui -. Non mi presi nem meno il disturbo di rispondergli. Se era tanto
maledettamente stupido da non rendersi conto che er a sabato sera ed erano tutti fuori o a dormíre o
a casa per la fine-settimana, non mi sarei certo af fannato a dirglielo. Cominciò a spogliarsi. Non
disse una sola maledetta parola su Jane. Neanche un a. E nemmeno io. Lo guardavo e basta. Tutto
quel che fece fu di ringraziarmi perché gli avevo p restato la giacca a losanghe. La appese su una
gruccia e la mise nell'armadio.
Poi, mentre si toglieva la cravatta, mi domandò se avevo fatto il suo maledetto tema. Io gli dissi che
stava sul suo dannatissimo letto. Lui andò a prende rlo e lo lesse, sbottonandosi la camicia. Stava lí
in piedi a leggerlo e si accarezzava un po' il pett o e lo stomaco, con quell'idiotissima espressione
sulla faccia. Stava sempre ad accarezzarsi lo stoma co o il petto, lui. Si piaceva alla follia.
Tutt'a un tratto disse: – Cristo santo, Holden. Que st'accidente parla di un maledetto guantone da
baseball.
– E allora? – dissi io. Freddo come il ghiaccio.
– Che vuol dire, e allora? Ti avevo detto che dovev a parlare di una stanza o di una casa o di un
accidente cosí.
– Hai detto che doveva essere descrittivo. Che ti f rega se parla di un guantone da baseball?
– Dio lo stramaledica -. Aveva un diavolo per capel lo. Era addirittura furioso. – Tu fai sempre tutto a
culoverso -. Mi guardò. – Naturale che ti sbattono fuori da qui, – disse. – Mai che tu faccia una
dannata cosa come va fatta. Dico sul serio. Mai nea nche una dannata cosa.
– Beníssimo, ridammelo, allora, – dissi. Gli andai vicino e glielo tolsi da quella maledetta mano. Poi
lo strappai.
– Perché diavolo l'hai strappato? – disse lui.
Non gli risposi nemmeno. Mi limitai a buttare i pez zi nel cestino della carta. Poi mi sdraiai sul lett o,
e per un pezzo non dicemmo niente. Lui si spogliò t utto e restò in mutande, e io stavo là steso sul
letto e accesi una sigaretta. Non era permesso fuma re in dormitorio, ma la sera tardi potevi anche
farlo, quando tutti dormivano o erano fuori e nessu no poteva sentire odor di fumo. Del resto, io
fumavo per fare rabbia a Stradlater.
S'imbestialiva, quando uno andava contro i regolame nti. Lui non fumava mai in dormitorio. Io ero
l'unico.
E ancora non aveva detto una parola di Jane, neanch e una. Sicché alla fine dissi: – Che bell'ora per
tornare, se lei aveva il permesso solo fino alle no ve e mezzo. Le hai fatto far tardi?
Stava seduto sull'orlo del letto e si tagliava quel le stramaledette unghie dei piedi, quando gli feci
quella domanda.
Qualche minuto, – disse. – Chi diavolo chiede il pe rmesso fino alle nove e mezzo, il sabato sera? –
Dio , quanto l'odiavo!
– Siete andati a New York? – dissi.
– Sei pazzo? Come diavolo facevamo ad andare a New York, se doveva tornare alle nove e mezzo?

21/100 – Povero cocco.
Alzò gli occhi a guardarmi. – Sta' a sentire, – dis se, – se hai intenzione di fumare in camera, che ne
diresti di andare a farlo nei gabinetti? Tu potrai anche andartene, accidenti, ma io devo rest are qua
dentro fino alla laurea.
Lo ignorai. Totalmente. Continuai a fumare come un turco. Tutto quel che feci fu di girarmi un po'
sul fianco e guardare Stradlater mentre si tagliava quelle maledette unghie. Che scuola. Stavo
sempre a guardare qualcuno che si tagliava le sue m aledette unghie o si schiacciava i brufoli e
compagnia bella.
– Le hai detto che la salutavo? – gli domandai.
– Sí.
Col fischio che l'aveva fatto, quel bastardo.
– Lei che cosa ha detto? – domandai. – Gliel'hai do mandato se tiene ancora tutte le dame nell'ultima
fila?
– No, non gliel'ho domandato. Come diavolo credi ch e abbiamo passato la sera, a giocare a dama,
Crísto santo?
Neanche gli risposi. Dio, quanto lo odiavo.
– Se non siete andati a New York, dove l'hai portat a?- gli domandai dopo un po'. Quasi non riuscivo
a dominare il tremito che mi scuoteva la voce a tut ta forza. Ragazzi, stavo diventando nervoso.
Cominciavo ad avere la sensazione che qualcosa fosse andata male.
Lui aveva finito di tagliarsi quelle maledette ungh ie. Sicché si alzò dal letto, con addosso quelle
dannate mutandine e basta, e ricominciò a diventare maledettamente spiritoso. Si avvicinò al mio
letto, si piegò su di me e cominciò a darmi una ser ie di spiritosissimi pugni sulla spalla.
– Piantala lí , – dissi io. – Dove l'hai portata, se non siete an dati a New York?
– In nessun posto. Siamo rimasti in quella stramale detta macchina -. Mi mollò un altro di quegli
spiritosissimi pugni idioti sulla spalla.
– Piantala li, – dissi io. – Che macchina?
– Quella di Ed Banky.
Ed Banky era l'allenatore di pallacanestro a Pencey . Il vecchio Stradlater era uno dei suoi
beniamini, perché era centroattacco, e quando volev a la macchina Ed Banky gliela prestava sempre.
Agli studenti non era permesso di farsi prestare la macchina dagli insegnanti, ma quei bastardi di
atleti erano tutta una cricca. In tutte le scuole d ove sono andato quei bastardi sono tutta una cricca .
Stradlater continuava a darmi dei pugni per finta s ulla spalla. Teneva in mano lo spazzolino da
denti, e se lo mise in bocca. – Che avete fatto? – dissi io. – L'hai stantuffata nella stramaledetta
macchina di Ed Banky? – La voce mi tremava da far p aura.
– Che razza di cose dici! Vuoi che ti sciacqui la b occa col sapone?
– L'hai stantuffata?
– Segreto professionale, amen.
Quest'ultima parte non me la ricordo tanto bene. Tu tto quel che so è che mi alzai dal letto, come se
stessi andando al gabinetto o giú di lí, e poi cerc ai di mollargli un pugno con tutta la mia forza,
proprio in pieno sullo spazzolino da denti in modo da spaccargli quella maledetta gola. Solo che
non l'azzeccai. Cilecca. Tutto quel che feci fu di colpirlo sulla testa, di lato o giú di lí.
Probabilmente gli fece un po' male, ma non quanto a vrei voluto. Probabilmente gli avrebbe fatto un
male cane, ma gliel'avevo mollato con la mano destr a, e io quella mano non la posso stringere bene.
Per quella frattura che vi ho detto.
Ad ogni modo, la prima cosa che seppi fu che stavo su quel maledetto pavimento e lui mi stava
seduto sul torace, rosso in faccia. O meglio, lui m i teneva le sue dannate ginocchia sul torace, e
pesava almeno una tonnellata. E per giunta mi tenev a stretto per i polsi, cosí non potevo dargli un
altro pugno. L'avrei ammazzato.
– Che accidente ti piglia? – continuava a dire, e l a sua faccia da cretino diventava sempre piú rossa.
– Toglimi quelle ginocchia schife dallo stomaco, – gli dissi. Stavo quasi gridando. Sul serio. – Forza ,
togliti di là, lurido bastardo.

22/100 Ma lui niente. Continuava a tenermi stretto per i p olsi, e io continuavo a chiamarlo figlio di puttana
e via dicendo per almeno dieci ore. Quasi non riesc o nemmeno a ricordare tutto quello che gli dissi.
Gli dissi che credeva di potersi sbattere tutte que lle che gli girava. Gli dissi che non gli importava
nemmeno se una ragazza teneva tutte le dame nell'ul tima fila o no, e non gliene importava perché
era un maledettissimo stronzo rincretinito. Lui non sopportava di sentirsi chiamare stronzo. Tutti gli
stronzi non sopportano di sentirsi dello stronzo.
– Chiudi il becco , Holden, – disse, con quel suo stupido faccione co ngestionato. – Chiudi il becco,
adesso!
– Non sai nemmeno se si chiama Jane o June , maledetto stronzo!
– Chiudi il becco , Holden, maledizione, t'avverto, disse. L'avevo pr oprio fatto partire in quarta. – Se
non chiudi il becco, te ne appioppo uno.
– Toglimi dallo stomaco quei tuoi sozzi luridi gino cchi stronzi.
– Se ti lascio, tieni il becco chiuso?
Non gli risposi nemmeno.
Lui lo ridisse. – Holden, se ti lascio, tieni il be cco chiuso?
– Sí.
Mi si tolse di dosso, e mi alzai anch'io. Con quell e luride ginocchia mi aveva fatto un male cane allo
stomaco. – Sei uno sporco stupido stronzo figlio di puttana, – gli dissi.
A questo perse le staffe. Mi agitò davanti alla fac cia quel suo grosso índice idiota. – Holden,
maledizione, io t'avverto, bada. Per l'ultima volta . Se non chiudi il becco, te ne appioppo…
– E perché? – dissi; stavo urlando, quasi. – Ecco i l guaio con voi stronzi. Non volete mai discutere.
Ecco com'è che si capisce sempre se uno è uno stron zo. Non vogliono mai discutere di una cosa
intellig…
Allora lui me ne mollò uno sul serio, e la prima co sa che seppi fu che stavo un'altra volta su quel
maledetto pavimento. Non mi ricordo se mi aveva mes so a knock-out oppure no ma non credo. È
abbastanza difficile spedire uno a knock-out, ci ri escono solo in quei maledetti film. Ma mi
sanguinava il naso a tutta forza. Quando alzai gli occhi, il vecchio Stradlater era là come mi stesse
sopra in piedi. Aveva quella sua dannata borsa da b agno sotto il braccio. – Perché diavolo non
chiudi il becco quando te lo dico io? – disse. Pare va molto nervoso. Probabilmente aveva paura che
mi fossi rotto la testa o vattelappesca, quando ave vo battuto sul pavimento. Peccato che non me
l'ero rotta davvero. – Te la sei voluta, maledizion e, – disse. Ragazzi, pareva proprio preoccupato.
Io non mi presi nemmeno il disturbo di alzarmi. Me ne restai per un po' sul pavimento e continuai a
chiamarlo stronzo figlio di puttana. Ero cosí imbes tialito che stavo addirittura gridando.
– Sta' a sentire. Va' a lavarti la faccia, – disse Stradlater. – Mi senti?
Gli dissi di andare a lavarsela lui, quella sua fac cia da stronzo – che era una risposta proprio da as ilo
infantile, ma non ci vedevo piú dalla rabbia. Gli d issi di fermarsi a sbattere la signora Schmidt,
mentre andava al gabinetto. La signora Schmidt era la moglie del bidello. Aveva almeno
sessantacinque anni.
Me ne restai seduto per terra finché non sentii che il vecchio Stradlater chiudeva la porta e se ne
andava per il corridoio verso i gabinetti. Allora m i alzai. Non mi riusciva di trovare quel mio
dannato berretto da cacciatore in nessun posto. Fin almente lo trovai. Stava sotto il letto. Me lo misi ,
con la visiera dietro come piaceva a me, e poi anda i allo specchio per dare un'occhiata alla mia
faccia da cretino. Mai visto un macello cosí in tut ta la mia vita. Avevo sangue sulla bocca, sul
mento, perfino sul pigiama e sulla vestaglia. Un po ' mi spaventava e un po' mi affascinava. Mi dava
una cert'aria da duro. In vita mia avevo fatto a ca zzotti solo un paio di volte, e le avevo buscate
tutt'e due le volte. Non sono tanto duro. Sono paci fista, se proprio volete saperlo.
Avevo idea che il vecchio Ackley dovesse aver senti to tutto quel pandemonio e fosse sveglio.
Sicché passai per la doccia ed entrai nella sua sta nza. Là dentro c'era sempre un puzzo strano, tanto
era sporcaccione quel ragazzo.

VII.

23/100
Un barlume di luce veniva dalla nostra camera attra verso le tende della doccia e via discorrendo, e
io vidi Ackley steso sul letto. Sapevo maledettamen te bene che era sveglissimo. – Ackley? – dissi. –
Sei sveglio?
– Sí.
Era piuttosto buio, e io misi il piede su una scarp a e per poco non caddi a faccia avanti. Ackley si
tirò un po' su nel letto e si appoggiò sul braccio. Aveva chili di non so che porcheria bianca sulla
faccia per i brufoli. Nel buio pareva un fantasma. – Ma che diavolo stai facendo, insomma? – dissi.
– Che significa, che diavolo sto facendo? Cercavo d i dormire, prima che voi due cominciaste a fare
tutto quel baccano. Perché diavolo vi siete scazzot tati?
– Dov'è la luce? – Non mi riusciva di trovare la lu ce. Stavo passando la mano lungo tutta la parete.
– A che diavolo ti serve la luce?.. Proprio vicino alla tua mano.
Finalmente trovai l'interruttore e lo girai. Il vec chio Ackley alzò la mano per difendersi gli occhi
dalla luce.
– Dio ! – disse. – Che diavolo ti è successo? – Parlava d el sangue e compagnia bella.
– Ho avuto una piccola discussione con Stradlater, – dissi. Poi mi sedetti per terra. Nella loro stanz a
non c'erano mai sedie. Che diavolo facessero delle loro sedie non lo so proprio.
– Sta' a sentire, – dissi, – ti va di giocare un po ' a canasta?- Aveva il pallino della canasta, lui.
– Ma sanguini ancora, Cristo! Faresti meglio a mett erci qualcosa.
– Ora finisce. Sta' a sentire. Vuoi giocare a canas ta o noi?
– Canasta, Cristo santo. Ma di un po', lo sai che o ra è?
– Non è mica tardi. Saranno appena le undici o le u ndici e mezzo.
– Appena ! – disse Ackley. – Sta' a sentire. Domattina mi de vo alzare per andare a messa, Cristo. E
voi due vi mettete a strepitare e a scazzottarvi su l piú bello di questa dannata… ma perché diavolo vi
scazzottavate, insomma?
– È una storia lunga. Non voglio scocciarti, Ackley . Lo faccio per il tuo bene, – gli dissi. Con lui n on
parlavo mai dei fatti miei. Prima di tutto, era anc ora piú scemo di Stradlater. Stradlater era uno
stramaledetto genio, vicino ad Ackley.- Senti, – di ssi, – ti secca se dormo nel letto di Ely, stanotte ?
Torna soltanto domani sera, no? – Lo sapevo benissi mo. Ely andava a casa quasi tutti i dannati
sabati.
– E che ne so quando diavolo torna lui? – disse Ack ley.
Questo mi seccò proprio, ragazzi. – Che diavolo vuo i dire che non sai quando torna? Non torna mai
prima della domenica sera, no?
– No, ma Cristo santo, non posso mica dire a uno ch e se gli gira può dormire nel suo dannato letto.
Mi lasciò secco: Allungai una mano senza muovermi d a terra dov'ero seduto e gli diedi una pacca
su quella sua dannata spalla. – Sei un principe, pi vello, – dissi. – Lo sai?
– No, parlo sul serio; non posso mica dire a uno ch e se gli gira può dormire nel…
– Sei un vero principe. Sei un gentiluomo e un sagg io, pivello, – dissi. E lo era davvero. – Hai
sigarette, per caso? Di' di no, se no mi piglia un colpo.
– No, non ne ho, è un fatto. Sta' a sentire, perché diavolo vi siete scazzottati?
Non gli risposi. Tutto quel che feci fu che mi alza i e andai a guardare fuori della finestra. Mi senti vo
cosí solo, tutt'a un tratto. Avrei quasi voluto ess er morto.
– Perché diavolo vi siete scazzottati, insomma? – d isse Ackley, forse per la cinquantesima volta. In
questo era senza dubbio un rompiscatole.
– Per te, – dissi.
– Per me , Cristo santo?
– Sí. Ho difeso il tuo maledetto onore. Stradlater diceva che sei un tipo schifo. Io non potevo
fargliela passar liscia.
Lui partí in quarta. – Ha detto cosí? Senza scherzi ? Ha detto cosí?
Gli dissi che stavo solo scherzando e poi andai a s draiarmi sul letto di Ely. Ragazzi, mi sentivo a
terra! Mi sentivo cosí maledettamente solo.

24/100 – Questa stanza puzza, – dissi. – L'odore dei tuoi calzini lo sento da qui. Non li mandi mai a lavare?
– Se non ti va, sai benissimo quel che devi fare, – disse Ackley. Che spirito. – Che ne diresti di
spegnere quella maledetta luce?
Io però non la spensi subito. Me ne restai sdraiato lí sul letto di Ely a pensare a Jane e a tutto
quanto. Mi faceva proprio uscire dalla grazia di Di o quando pensavo a lei e a Stradlater fermi chi sa
dove in quella macchina culona di Ed Banky. Ogni vo lta che ci pensavo mi veniva di buttarmi dalla
finestra. È che voi non conoscete Stradlater. Io sí . A sentir loro, quasi tutti a Pencey non facevano
altro che avere rapporti intimi con le ragazze – co me Ackley, per esempio, – ma il vecchio Stradlater
li aveva davvero. Conoscevo personalmente almeno du e ragazze che aveva stantuffato. Ecco la
verità.
– Raccontami la storia della tua affascinante vita, pivello, – dissi.
– Che ne diresti di spegnere quella maledetta luce? Domattina mi devo alzare per la messa.
Mi alzai e la spensi, se questo lo rendeva felice. Poi tornai a sdraiarmi sul letto di Ely.
– Che intenzioni hai, di dormire nel letto di Ely? – disse Ackley. Che ospite perfetto, ragazzi!
– Forse. O forse no. Non te ne preoccupare.
– Non me ne preoccupo affatto. Solo che mi scoccere bbe proprio se un bel momento entrasse Ely e
trovasse uno…
– Calmati. Non dormo qui. Non voglio abusare della tua dannata ospitalità.
Due minuti dopo russava a tutta forza. Io però cont inuai a starmene là al buio, cercando di non
pensare alla vecchia Jane e a Stradlater in quella maledetta macchina di Ed Banky. Ma era quasi
impossibile. Il guaio era che conoscevo la tecnica di quel tipo. E mi bastava per stare peggio. Una
volta eravamo usciti insieme con due ragazze nella macchina di Ed Banky, e Stradlater stava dietro
con la sua ragazza e io davanti con la mia. Che tec nica aveva quel tipo! Aveva cominciato che si era
messo a imbambolare la ragazza con quella voce cosí pacata e sincera – come se non fosse soltanto
un bellissimo ragazzo ma anche un bravo ragazzo sincero . Per poco non vomitavo, a sentirlo. La
sua ragazza continuava a dire “No… ti prego . Ti prego, no. Ti prego ”. Ma il vecchio Stradlater
continuava a imbambolarla con quella sua voce mai s incera alla Abramo Lincohln, e alla fine quel
tremendo silenzio, dietro. Era stato proprio imbara zzante. Non credo che quella ragazza l'abbia
stantuffata, quella sera – ma c'è mancato poco. Maledettamente poco.
Mentre me ne stavo là cercando di non pensare, sent ii il vecchio Stradlater che tornava dai gabinetti
ed entrava in camera. Potevate sentirlo che metteva a posto la sua lurida roba da toletta e tutto
quanto e apriva la finestra. Aveva il pallino dell' aria fresca. Poi, dopo un po', spense la luce. Non
aveva dato nemmeno un'occhiata in giro per vedere d ove fossi.
Era un mortorio anche per la strada. Non c'era piú nemmeno una macchina in giro. Cominciai a
sentirmi cosí solo e a terra che mi venne addirittu ra la voglia di svegliare Ackley.
– Ehi, Ackley, – dissi bisbigliando per non farmi s entire da Stradlater attraverso le tende della
doccia.
Ma Ackley non mi sentí.
– Ehi, Ackley.
Non mi sentí nemmeno stavolta. Dormiva come un ghir o.
– Ehi, Ackley !
Stavolta mi sentí eccome.
– Che diavolo ti piglia? – disse. – Stavo dormendo, Cristo santo.
– Sta' a sentire. Che si fa per entrare in convento ? – gli domandai. Mi stavo un po' gingillando con
quell'idea. – Uno dev'essere cattolico e compagnia bella?
– Certo che dev'essere cattolico. Pezzo di bastardo , e mi hai svegliato per farmi queste domande
idio…
– Aah, rimettiti a dormire. Non ho intenzione di an darci, tanto. Con la fortuna che ho io, finirebbe
che vado a cascare in quello coi frati sbagliati. T utti bastardi cretini. O soltanto bastardi.
A questo punto il vecchio Ackley si sedette sul let to. – Sta' a sentire, – disse. – Di quello che dici di
me e del resto me ne infischio, ma se cominci a far e il cretino sulla mia dannata religione, Cristo…

25/100 – Calmati, – dissi io. – Nessuno sta facendo il cre tino sulla tua dannata religione -. Mi alzai dal le tto
di Ely e mi diressi alla porta. Non volevo piú rest are in quell'aria schifa. Mi fermai a metà strada,
però, presi la mano di Ackley e gliela strinsi con finta solennità. Lui la tirò via. – Che ti salta in
testa?- disse.
– Niente. Volevo solo ringraziarti di essere un cos í maledetto principe, ecco tutto, – dissi. Lo dissi
con una voce molto sincera. – Sei un fenomeno, pive llo, – dissi. – Lo sai?
– Buffone. Un giorno o l'altro qualcuno ti spacca q uella…
Non mi presi nemmeno il disturbo di starlo a sentir e. Chiusi quella dannata porta e uscii nel
corridoio.
Stavano tutti a dormire, oppure fuori o a casa per la fine settimana, e il corridoio era silenzioso e
deprimente da morire. Davanti alla porta di Leahy e Hoffman c'era quel tubetto vuoto di dentifricio
Kolynos, e mentre andavo verso le scale continuavo a lavorarmelo a calci con quelle pantofole
foderate di pelo che avevo ai piedi. Mi era venuta in mente una cosa, di andar giú a vedere che cosa
stesse facendo Mal Brossard. Ma tutt'a un tratto ca mbiai idea. Tutt'a un tratto decisi che in realtà
quello che dovevo fare era di tagliare la corda imm ediatamente – quella sera stessa. eccetera
eccetera. Voglio dire, senza aspettare mercoledí né niente. E che non mi andava piú di stare là. Mi
faceva sentire troppo triste e solo. Cosí decisi ch e quello che dovevo fare era di prendere una
camera in albergo a New York – un albergo molto eco nomico eccetera eccetera – e poi dí starmene
in panciolle fino a mercoledí. Poi, mercoledí, sare i andato a casa riposato e in gran forma. Mi
figuravo che prima di martedí o mercoledí i miei no n avrebbero ricevuto la lettera del vecchio
Thurmer con la notizia che mi avevano buttato fuori . Non volevo andare a casa né niente finché non
l'avevano ricevuta e digerita bene eccetera ecceter a. Non volevo essere là quando venivano a
saperlo . Mia madre diventa isterica pazza. Però non è tant o male dopo che ha digerito bene una
cosa. Del resto, avevo un certo bisogno di una picc ola vacanza. Avevo i nervi a pezzi. Sul serio.
Ad ogni modo, decisi che avrei fatto cosí. Allora t ornai nella mia stanza e accesi la luce per
cominciare a far le valige e tutto quanto. Gran par te della mia roba era già pronta. Il vecchio
Stradlater non si svegliò nemmeno. Io accesi una si garetta e mi vestii tutto, e poi feci le mie due
valige a portamantelli.
Mi ci vollero circa due minuti. Sono sveltissimo a far le valige.
Solo una cosa mi depresse un po'. Quando dovetti me tter dentro quei pattini da ghiaccio nuovi di
zecca che mia madre mi aveva appena mandato un paio di giorni prima. Questo mi depresse. Mi
pareva di vedere mia madre che andava da Spaulding e faceva un sacco di domande sceme al
commesso – e io qui mi stavo facendo buttar fuori u n'altra volta. Questo mi faceva sentire
abbastanza triste. Mi aveva comprato i pattini sbag liati – io volevo i pattini da corsa e lei mi aveva
preso quelli da hockey – ma mi rendeva triste lo st esso. Quasi tutte le volte che qualcuno mi fa un
regalo finisce che mi rende triste.
Dopo che avevo preparato tutto, contai il peculio. Non ricordo esattamente quanto avevo, ma ero
abbastanza fornito. Mia nonna mi aveva mandato un s acco di soldi circa una settimana prima. Ho
questa nonna che è molto larga coi suoi quattrini. Ormai è un po' svitata – è vecchia bacucca – e
continua a mandarmi soldi per il mio compleanno alm eno quattro volte all'anno. Ad ogni modo,
anche se ero abbastanza fornito, pensai che poteva sempre servirmi qualche patacca in piú. Non si
sa mai. Cosí andò a finire che scesi a svegliare Fr ederick Woodruff, quello che gli avevo prestato la
macchina da scrivere. Gli domandai quanto mi dava p er tenersela. Era piuttosto ricco. Lui disse che
non lo sapeva. Disse che non gli andava tanto di co mprarla. Ma alla fine la comprò. Costava una
novantina di dollari, e lui la comprò per venti app ena. Era nero perché l'avevo svegliato.
Quando fui pronto per andarmene, con le valige e tu tto quanto, mi fermai un momento vicino alle
scale e diedi un ultimo sguardo a quel maledetto co rridoio. Stavo quasi piangendo. Non so perché.
Mi misi in testa il mio berretto rosso da cacciator e, girai la visiera dietro, come piaceva a me, e po i
urlai con tutta la maledetta voce che avevo in corp o “ Dormite sodo, stronzi !” Scommetto che
svegliai tutti quei bastardi di tutto quel piano. P oi me la filai. Qualche idiota aveva buttato i gusc i
delle noccioline sulle scale, e per poco non mi rup pi 'sto maledetto collo.

26/100
VIII.

Era troppo tardi per chiamare un tassí o vattelappe sca, e allora feci tutta la strada a piedi fino all a
stazione. Non era tanto lontano, ma c'era un freddo del diavolo e con la neve era faticoso
camminare e le valige continuavano a sbattermi cont ro le gambe. Ma a me fece piacere l'aria e tutto
quanto, però. L'unico guaio era che il freddo mi fa ceva dolere il naso e il labbro superiore, dentro,
dove il vecchio Stradlater mi aveva appioppato quel lo sgrugnone. Mi aveva spaccato il labbro
contro i denti, e mi faceva piuttosto male. Le orec chie le avevo a posto e calde, però. Quel berretto
che avevo comprato aveva dentro i paraorecchi, e io li tirai giú – non me ne fregava un accidente se
stavo male. In giro non c'era un cane, ad ogni modo . Stavano tutti a cuccia.
Mi andò proprio bene quando arrivai alla stazione, perché dovetti aspettare il treno solo una decina
di minuti. Mentre aspettavo, presi in mano un po' d i neve e mi ci lavai la faccia. Avevo ancora un
bel po' di sangue.
Di solito a me piace andare in treno, soprattutto d i notte, con la luce accesa e i finestrini tutti ne ri e
uno di quei tizi col caffè i panini e le riviste ch e fa avanti e indietro per il corridoio. Io di soli to
compro un panino al prosciutto e almeno quattro riv iste. La notte, in treno, di solito posso perfino
leggere senza vomitare uno di quei racconti cretini delle riviste.
Sapete, quei racconti pieni di sbruffoni dal viso t agliato con l'accetta che si chiamano David e di
sbruffoncelle che si chiamano Linda o Marzia e non fanno altro che accendere tutte le maledette
pipe dei loro David. La notte in treno posso perfin o leggere uno di quei racconti schifi, di solito. M a
stavolta era diverso. Non mi andava, ecco. Me ne st avo là seduto senza far niente. Tutto quello che
feci fu di togliermi il berretto da cacciatore e fi ccarmelo in tasca.
Tutt'a un tratto, ecco che a Trenton sale quella si gnora e si siede vicino a me. Era vuota tutta la
carrozza, praticamente, visto che era cosí tardi e compagnia bella, ma lei si mise vicino a me invece
che in un sedile vuoto perché aveva quella valigia cosí grossa e io stavo sul sedile accanto alla
porta. Piantò la valigia proprio in mezzo al corrid oio, dove il controllore e tutti quanti potevano
inciamparsi. Aveva quelle orchidee sul vestito, pro prio come se fosse appena uscita da un gran
ricevimento o vattelappesca. Aveva quarant'anni, im magino, quarantacinque al massimo, ma era
ancora molto bella. Le donne mi lasciano secco. Sul serio. Con questo non voglio mica spacciarmi
per un erotomane o giú di lí – per quanto abbia una certa carica. È solo che mi piacciono, voglio
dire. Non fanno che lasciare le loro maledette vali ge in mezzo al corridoio.
Ad ogni modo, stavamo seduti là, e tutt'a un tratto lei mi disse: – Mi scusi, ma quella non è
l'etichetta dell'Istituto Pencey? – Stava guardando le mie valige sulla reticella.
– Sí, infatti, – dissi.-Aveva ragione. Su una delle mie valige c'era una dannata etichetta del Pencey.
Una cafonata, chi lo nega.
– Oh, lei sta a Pencey? – disse. Aveva una bella vo ce. Una bella voce da telefono, soprattutto.
Avrebbe dovuto sempre portarsi dietro un dannato te lefono.
– Sí, infatti, – dissi.
– Oh, che piacere! Forse allora conosce mio figlio. Ernest Morrow. Sta a Pencey.
– Sí, infatti. Siamo nella stessa classe.
Suo figlio era indiscutibilmente il piú emerito bas tardo che fosse mai stato a Pencey in tutta la
sporca storia dell'istituto.
Dopo che aveva fatto la doccia, se ne andava sempre per il corridoio sbattendo l'asciugamano
bagnato fradicio sul sedere della gente. Ecco per l a precisione che tipo era.
– Oh, che bellezza, – disse la signora. Ma senza me lensaggine. Era proprio carina e tutto quanto. –
Devo dire a Ernest che ci siamo incontrati, – disse . – Posso domandarle come si chiama, caro?
– Rudolph Schmidt, – le dissi. Non avevo nessuna vo glia di raccontarle tutta la storia della mia vita.
Rudolph Schmidt era il bidello del nostro piano.
– Le piace Pencey? – mi domandò lei.

27/100 – Pencey? Non è tanto male. Non è un paradiso né ni ente di simile, ma vale tante altre scuole. Certi
professori sono molto coscienziosi.
– Ernest l'adora.
– Lo so, – dissi. E per un po' mi misi a rifilarle le solite cretinate. – Lui è un tipo che si adatta
benissimo alle cose. Davvero. Voglio dire, sa il ve ro sistema per adattarsi.
– Crede? – mi domandò lei. Pareva maledettamente in teressata.
– Ernest? Ma certo, – dissi. Poi la guardai mentre si toglieva i guanti. Ragazzi, i brillantoni si
sprecavano.
– Mi sono appena rotta un'unghia, scendendo dal tas sí,- disse. Alzò gli occhi a guardarmi e sorrise
un poco. Aveva un sorriso tremendamente simpatico. Davvero. La maggior parte della gente non ha
quasi sorriso o ne ha uno vomitevole. – Io e suo pa dre delle volte siamo preoccupati per lui, – disse. –
Delle volte abbiamo l'impressione che non sia tropp o bravo a far lega.
– In che senso?
– Be', è un ragazzo molto sensibile. In realtà non è mai stato troppo bravo a far lega con gli altri
ragazzi. Forse prende le cose un po' troppo sul ser io, per la sua età.
Sensibile. Mi lasciò secco. Quel Morrow era sensibi le suppergiú quanto un dannato cesso.
La guardai bene. Non mi pareva affatto stupida. Par eva in grado di farsi un'idea maledettamente
chiara di che razza di bastardo fosse suo figlio. M a non si può mai dire – con una madre, intendo. Le
madri sono tutte un po' matte. Ma fatto sta che la madre del vecchio Morrow mi piaceva. Era una a
posto. – Vuole una sigaretta?
Si guardò intorno. – Non credo che sia uno scompart imento per fumatori, Rudolph, – disse. Rudolph.
Mi lasciò secco.
– Non importa. Possiamo fumare finché non comincian o a piantar grane, – dissi. Lei prese una
sigaretta e io gliel'accesi.
Era carina, mentre fumava. Aspirava e tutto quanto, ma non divorava il fumo come fanno quasi
tutte le donne della sua età. Aveva fascino a strab enedire. E sex-appeal a strabenedire, anche, se
proprio volete saperlo.
Mi stava guardando in modo un po' strano. – Forse m i sbaglio, ma credo che le stia sanguinando il
naso, caro, – disse tutt'a un tratto.
Io feci di sí con la testa e tirai fuori il fazzole tto. – Mi sono beccato una palla di neve, – dissi. – Una
di quelle ben pressate -. Probabilmente le avrei an che raccontato la vera storia, ma ci sarebbe voluto
troppo tempo. Mi piaceva, però. Cominciavo a essere un po' pentito di averle detto che mi chiamavo
Rudolph Schmidt. – Il vecchio Ernie, – dissi. – È u no dei ragazzi piú popolari, a Pencey. Lo sapeva?
– No, non lo sapevo.
Feci di sí con la testa. – In realtà, ci abbiamo me sso tutti un bel po' di tempo per arrivare a
conoscerlo. È un tipo buffo. Un tipo strano , sotto un sacco di aspetti, capisce quel che vogli o dire?
Come quando l'ho visto la prima volta, che ho pensa to che fosse un po' snob. Ecco quello che ho
pensato. Invece non lo è mica. È solo che ha una pe rsonalità originalissima e ci vuole un po' di
tempo per arrivare a capirlo.
La vecchia signora Morrow non disse niente, ma raga zzi, avreste dovuto vederla. L'avevo incollata
al sedile. Prendi la madre di uno, e tutto quello c he vuol sentire sono le lodi di quel fenomeno di su o
figlio.
Allora cominciai a sparare balle sul serio. – Le ha raccontato delle elezioni? – le domandai. – Le
elezioni di classe?
Lei scosse la testa. L'avevo ipnotizzata, quasi. Da vvero.
– Be', eravamo in moltissimi a volere che il vecchi o Ernie diventasse presidente della classe. Voglio
dire che la scelta era unanime. Era l'unico, voglio dire, che potesse realmente cavarsela, – dissi;
accidenti, se le sparavo grosse. – Ma è stato elett o quell'altro ragazzo, Harry Fencer. E sa perché è
stato eletto Fencer? Per il puro e semplice motivo che Ernie non ha voluto che lo designassimo.
Perché è cosí maledettamente timido, modesto e comp agnia bella. Ha rifiutato … è proprio timido,

28/100 ragazzi. Lei dovrebbe fare di tutto perché cerchi d i vincersi – La guardai. – Non gliene aveva
parlato?
– No, non me ne ha parlato.
Feci di sí con la testa. – Questo è Ernie. Non ha v oluto. È l'unico suo difetto, è troppo timido e
modesto. Lei dovrebbe proprio spingerlo a cercare d i lasciarsi andare un po', ogni tanto.
Proprio in quel momento venne il controllore per gu ardare il biglietto della vecchia signora
Morrow, e cosí potei smetterla di sparar balle. Per ò sono contento di averle sparate per un po'.
Prendi uno come Morrow, che sta sempre a sbattere l 'asciugamano sul sedere della gente – col
fermo proposito di far male a qualcuno – non è che sono bastardi solo da ragazzi. Restano bastardi
per tutta la vita. Ma dopo tutte le scemenze che le ho rifilato, scommetto che adesso la signora
Morrow continuerà a immaginarselo tutto timido e mo desto, il tipo che non ha voluto farsi
designare presidente della classe. È possibile. Non si può mai dire. Le madri non sono tanto acute in
queste cose.
– Prenderebbe un cocktail? – le domandai. Mi era ve nuta la voglia di prenderne uno io. – Possiamo
andare nella vettura pullman. Le va?
– Caro, lei può ordinare liquori? – mi domandò. Ma non con l'aria da padreterno, però. Era troppo
affascinante eccetera eccetera per avere l'aria da padreterno.
– Be', no, non proprio, ma di solito riesco ad aver li, data la mia statura, – dissi. – E ho un sacco d i
capelli bianchi -. Girai la testa e le feci vedere i miei capelli bianchi. La affascinarono
enormemente. – Andiamo, mi faccia compagnia, perché no? – dissi. Mi avrebbe fatto piacere averla
con me.
– Credo proprio che sia meglio di no. Ma grazie lo stesso, caro, – disse. – Ad ogni modo, è molto
probabile che la vettura pullman sia chiusa. È molt o tardi, sa? – Aveva ragione. Mi ero
completamente dimenticato dell'ora.
Poi mi guardò e mi fece proprio la domanda che teme vo di sentirmi fare. – Ernest ha scritto che sarà
a casa mercoledí, che le vacanze di Natale comincer anno mercoledí, – disse. – Spero che lei non
l'abbiano chiamato a casa all'improvviso perché qua lche suo familiare è ammalato -. Pareva
sinceramente preoccupata. Non è che stesse ficcando il naso, si vedeva.
– No, stanno tutti bene, – dissi. – Si tratta di me . Devo operarmi.
– Oh! Quanto mi dispiace, – disse. E le dispiaceva sinceramente . A me dispiacque subito di averlo
detto, ma ormai era fatta.
– Non è niente di grave. Ho un piccolo tumore nel c ervello.
– Oh, no ! – Si portò la mano alla bocca eccetera eccetera.
– Oh, andrà benissimo garantito! È proprio superfic iale. Ed è molto piccolo. Possono toglierlo in un
paio di minuti.
Poi mi misi a leggere l'orario che avevo in tasca. Tanto per smettere di dir bugie. Io quando
comincio posso andare avanti per ore, se mi sento i n vena. Senza scherzi. Ore .
Non parlammo molto, dopo. Lei si mise a leggere il “Vogue” che si era portata, e io per un po'
guardai dal finestrino. Scese a Newark. Mi fece un sacco di auguri per l'operazione e compagnia
bella. Continuava a chiamarmi Rudolph. Poi mi disse di andare a trovare Ernie durante l'estate, a
Gloucester nel Massachusetts. Disse che la loro cas a era proprio sulla spiaggia, e che avevano il
campo da tennis e compagnia bella, ma io la ringraz iai tanto e le dissi che sarei andato nell'America
del Sud con mia nonna. E questa era proprio grande, perché mia nonna è troppo se mette il naso
fuori di casa , tranne forse per andare a qualche dannato spettac olo diurno o che so io. Ma non
andrei a trovare quel figlio di buona madre di Morr ow per tutto l'oro del mondo, nemmeno se fossi
sul lastrico.

IX.

Quando scesi alla Penn Station, la prima cosa che f eci fu di infílarmi nella cabina telefonica. Avevo
voglia di chiamare qualcuno. Lasciai le valige prop rio davanti alla cabina, cosí potevo tenerle

29/100 d'occhio, ma appena fui dentro non mi venne in ment e nessuno a cui poter telefonare. Mio fratello
D. B. era a Hollywood. La mia sorella piccola, Phoe be, va a letto verso le nove – perciò lei non
potevo chiamarla. Non è che si sarebbe seccata se l a svegliavo, ma il guaio era che non avrebbe
risposto lei. Avrebbero risposto i miei genitori. Q uindi niente da fare. Allora pensai di fare una
telefonata alla madre di Jane Gallagher per sapere quando cominciavano le vacanze di Jane, ma non
ne avevo voglia. Del resto, era un po' tardi per ch iamare. Poi pensai di chiamare quella ragazza con
la quale prima uscivo sempre, Sally Hayes, perché s apevo che lei era già in vacanza – mi aveva
scritto quella pizza di una lettera per invitarmi a d aiutarla a decorare l'albero la vigilia di Natale e
via discorrendo – ma avevo paura che rispondesse su a madre. Sua madre conosceva la mia, e già la
vedevo che si rompeva una dannata gamba per correre a telefonare a mia madre che io ero a New
York. Del resto, non è che l'idea di parlare al tel efono con la vecchia signora Hayes mi mandasse in
sollucchero. Una volta aveva detto a Sally che ero uno scalmanato. Aveva detto che ero uno
scalmanato e che non avevo nessuna meta nella vita. Allora pensai di chiamare quel tale che stava a
Whooton quando c'ero anch'io, Carl Luce, ma non era un tipo che mi piacesse molto. Cosí andò a
finire che non chiamai nessuno. Uscii dalla cabina, circa venti minuti dopo, presi le mie valige e
andai a quel tunnel dove ci sono i tassí e presi un tassí.
Sono cosí maledettamente distratto che all'autista diedi l'indirizzo di casa mia, per pura abitudine e
compagnia bella. Voglio dire, mi ero completamente dimenticato che per un paio di giorni mi ero
proposto di rintanarmi in un albergo e di non andar e a casa finché non cominciavano le vacanze.
Non ci pensai finché non arrivammo a metà del parco . Allora dissi: – Ehi, le spiace di tornare
indietro, appena è possibile? Le ho dato un indiriz zo sbagliato. Voglio tornare giú in città.
L'autista era un dritto. – Qui non posso girare, am ico. C'è il senso unico. Ormai devo arrivare fino
alla Novantesima Strada.
Non avevo voglia di far discussioni. – D'accordo, – dissi. Poi, di colpo, mi tornò in mente una cosa. –
Senta un po',- dissi. – Sa le anitre che stanno in quello stagno vicino a Central Park South? Quel
laghetto? Mi saprebbe dire per caso dove vanno le a nitre quando il lago gela? Lo sa, per caso?- Mi
rendevo conto che c'era soltanto una probabilità su un milione.
Lui si girò a guardarmi come se fossi matto. – Che ti salta in testa, amico? – disse. – Mi prendi per
fesso?
– No , mi interessava, ecco tutto.
Lui non disse piú niente, e io nemmeno. Finché non uscimmo dal parco alla Novantesima Strada.
Allora disse: – Ci siamo, amico. Dove?
– Be', è che non voglio fermarmi in un albergo dell 'East Side, dove potrei incontrare qualche
conoscente. Sono qui in incognito, – dissi. Detesto di dire cose da bullo come “Sono qui in
incognito”. Ma quando ho da fare coi bulli faccio i l bullo anch'io. – Mi saprebbe dire chi suona al
Taft o al New Yorker, per caso?
– Non ne ho la piú pallida idea, compare.
– Be'… mi porti all'Edmont, allora, – dissi. – Vu ole fermarsi lungo la strada e prendere un cocktail
con me? Offro io. Sono ben fornito.
– Non posso, amico. Mi spiace -. Era senza dubbio u n'ottima compagnia. Una personalità
formidabile.
Arrivammo all'albergo Edmont e io entrai. Mi ero me sso il mio berretto da cacciatore, in tassí, tanto
per fare una cosa, ma prima di entrare me lo tolsi. Non volevo aver l'aria di un pazzoide o che so io.
Che è proprio da ridere. Ancora non sapevo che quel dannato albergo era pieno di pervertiti e di
sudicioni. Pazzoidi a strabenedire.
Mi diedero quella stanza lercia, dove dalla finestr a non si vedeva nient'altro che la facciata opposta
dell'albergo. Non ci badai molto. Ero troppo depres so per badare se avevo una bella vista o no. Il
cameriere che mi accompagnò nella stanza era un vec chio bacucco sui sessantacinque anni. Ancora
piú deprimente della stanza. Era uno di quei calvi che si pettinano i capelli tutti da un lato per
coprire la calvizie. Io preferirei restare calvo, p iuttosto che fare una cosa simile. Ad ogni modo, ch e
meraviglia di lavoro per un uomo di sessantacinque anni.

30/100 Portare le valige della gente e star lí ad aspettar e la mancia. Non doveva essere troppo sveglio né
niente, suppongo, ma era una cosa tremenda lo stess o.
Dopo che se n'era andato me ne stetti per un po' a guardare dalla finestra, ancora col soprabito e
tutto. Non avevo nient'altro da fare. Quello che st ava succedendo dall'altra parte dell'albergo vi
avrebbe meravigliato. Non si prendevano nemmeno il disturbo di abbassare le tende. C'era un tale,
un tipo distintissimo coi capelli grigi, in mutandi ne e basta, che se vi dicessi che cosa faceva non c i
credereste. Prima posò la valigia sul letto. Poi ne tirò fuori tutti quegli indumenti da donna e se li
mise addosso. Veri indumenti da donna – calze di se ta, scarpe coi tacchi, reggipetto, e uno di quei
busti con le giarrettiere appese eccetera eccetera. Poi si mise quel vestito da sera nero attillatissi mo.
Giuro su Dio. E poi cominciò a camminare su e giú p er la stanza, a passetti piccoli piccoli, come
fanno le donne, fumando una sigaretta e guardandosi nello specchio. Ed era solo, tra l'altro. A meno
che non ci fosse qualcuno nel bagno – questo non ri uscivo a vederlo. Poi, dalla finestra proprio
sopra a quella, vidi un uomo e una donna che si spu tavano l'acqua addosso. Probabilmente era
liquore e non acqua, ma cosa diavolo c'era nei bicc hieri non potevo vederlo. Ad ogni modo, prima
lui prendeva una sorsata e la sputava tutta addosso a lei, poi lei faceva la stessa cosa a lui – facevano
a turno, Dio santo! Avreste dovuto vederli. E conti nuavano a sbellicarsi dalle risa, come se non ci
fosse niente di piú comico. Senza scherzi, quell'al bergo era nero di pervertiti. Io probabilmente ero
l'unico bastardo normale che ci fosse là dentro – è tutto dire. Per poco non mandavo un telegramma
al vecchio Stradlater, per dirgli di prendere il pr imo treno per New York. Sarebbe stato il re
dell'albergo.
Il guaio è che certe porcate si resta lí incantati a guardarle, in un certo senso, anche se uno non
vuole. Quella ragazza che si faceva sputare l'acqua in faccia, per esempio, era abbastanza carina.
Voglio dire che il mio grande guaio è proprio quest o. Con la fantasia , probabilmente, sono il piú
grande maniaco sessuale che abbiate mai visto. Cert e volte sono capace di immaginarmi delle vere
sconcezze che non mi dispiacerebbe di fare, se appe na se ne presentasse l'occasione. Posso perfino
capire che ci si potrebbe divertire moltissimo, in un modo un po' sconcio e se si fosse tutt'e due un
po' brilli e via discorrendo, a prendere una ragazz a e a sputarsi in faccia dell'acqua o vattelappesca .
C'è però che l'idea non mi piace . Se provi ad analizzarla, puzza. Io penso che se u na ragazza non vi
piace veramente, non dovreste affatto spassarvela c on lei, e se invece vi piace , allora è presumibile
che vi piaccia anche il suo viso, e in questo caso dovreste guardarvi bene dal fargli certe sconcezze
come sputarci l'acqua sopra. È un bel guaio che all e volte certe sconcezze siano proprio uno spasso.
E le ragazze non è che siano di grande aiuto, quand o uno si sforza di non essere troppo sconcio,
quando fa di tutto per non sciupare una cosa verame nte bella. Conobbi quella ragazza, un paio
d'anni fa, che era ancora piú sconcia di me. Ragazz i, quant'era sconcia! Però per un poco ci
divertimmo un mondo, cosí da sconci. Il sesso è una cosa che francamente non capisco troppo. Non
sapete mai dove diavolo siete. Io continuo a impormi tutte queste regole sessuali che poi smetto
subito di osservare. L'altr'anno mi ero imposto la regola di non spassarmela piú con le ragazze che,
stringi stringi, mi rompevano l'anima. Una regola c he smisi di osservare quella settimana stessa –
quella sera stessa, a dire il vero. Passai tutta la sera a prendermi dei passaggi con una marpiona di
prima forza che si chiamava Anne Louise Sherman. Il sesso è una cosa che non capisco proprio.
Giuro su Dio che non lo capisco.
Mentre continuavo a starmene là, cominciai a gingil larmi con l'idea di fare una telefonata alla
vecchia Jane – voglio dire, farle un'interurbana al Conservatorio dove stava, invece di chiamare sua
madre per sapere quando lei sarebbe venuta a casa. Non che si possa telefonare agli studenti la sera
tardi, ma io avevo già escogitato tutto. A chi risp ondeva al telefono avrei detto di essere suo zio.
Avrei raccontato che sua zia era appena morta in un incidente automobilistico, e che dovevo parlare
immediatamente con Jane. E il trucco avrebbe funzio nato, tra parentesi. L'unico motivo per cui non
lo feci é che non ero in vena. Queste son cose che per farle bene dovete essere in vena.
Dopo un po' mi sedetti in una poltrona e fumai un paio di sigarette. Mi sent ivo parecchio
immandrillito. Questo devo riconoscerlo. E allora, tutt'a un tratto, mi venne quell'idea. Tirai fuori il
portafoglio e mi misi a cercare quell'indirizzo che mi aveva dato un tale che avevo conosciuto a un

31/100 ricevimento l'estate prima, quello che andava a Pri nceton. Finalmente lo trovai. Era diventato di un
colore strano, a forza di stare nel portafoglio, ma si riusciva ancora a leggerlo. Era l'indirizzo di
quella ragazza che non era una puttana vera e propr ia né niente di simile, ma che non aveva niente
in contrario a farlo una volta ogni tanto, cosí mi aveva detto quel tale di Princeton. Una volta
l'aveva portata a una festa da ballo a Princeton e a momenti la buttavano fuori proprio per questo.
Faceva lo spogliarello nelle riviste o qualcosa del genere. Ad ogni modo, andai al telefono e feci il
suo numero. Si chiamava Faith Cavendish e abitava a llo Stanford Arms Hotel tra la
Sessantacinquesima e Broadway. Una topaia, senza du bbio.
Per un po' pensai che non ci fosse o qualcosa del g enere. Non veniva a rispondere nessuno. Poi
finalmente qualcuno alzò il ricevitore.
– Pronto? – dissi. Per non farle capire la mia età né niente, lo dissi con una voce molto baritonale.
Però la mia voce è abbastanza baritonale lo stesso.
– Pronto, – disse una voce di donna. Con un tono tu tt'altro che amichevole, per giunta.
– La signorina Faith Cavendish?
– E lei chi è? – disse la voce. – Chi diavolo mi ch iama a quest'accidente di ora?
Questo mi spaventò un poco. – Be', sí, lo so che è piuttosto tardi, – dissi, sempre con quella voce
molto matura e via discorrendo. – Spero che mi scus erà, ma avevo un gran desiderio di parlare con
lei -. Ero tutto latte e miele. Sul serio.
– Chi parla? – disse lei.
– Be', lei non mi conosce, ma sono un amico di Eddi e Birdsell. È stato lui a suggerirmi l'idea che noi
due avremmo dovuto incontrarci per prendere un cock tail insieme, se una volta o l'altra capitavo in
città.
– Chi ? Lei è un amico di chi ? – Ragazzi, era una vera tigre, per telefono. Anco ra un po', e si metteva
a ruggirmi contro.
– Edmund Birdsell. Eddie Birdsell, – dissi. Non riu scivo a ricordarmi se si chiamava Edmund o
Edward. L'avevo visto solo una volta, a un dannato ricevimento idiota.
– Non conosco nessuno che si chiami cosí, bel tipo. E se crede che mi diverta d'essere svegliata nel
mezzo…
– Eddie Birdsell? Di Princeton? – dissi io.
Era chiaro che stava rimuginando su quel nome e via discorrendo.
– Birdsell, Birdsell… di Princeton… L'Universit à di Princeton?
– Precisamente, – dissi io.
– Lei viene da Princeton?
– Be', suppergiú.
– Oh… Come sta Eddie? – disse lei. – Certo che questa è un'ora un po' strana per telefonare alla
gente. Santo Dio.
– Sta bene. Mi ha pregato di portarle i suoi saluti .
– Be', grazie. E lei gli porti i miei, – disse. – È un tipo eccezionale, quell'Eddie. Cosa fa, adesso? –
Stava diventando tutta cordiale, di colpo.
– Oh, può figurarselo. Le solite cose -. Che diavol o ne sapevo, io , di quello che faceva lui? A stento
lo conoscevo. Non sapevo nemmeno se fosse ancora a Princeton. – Senta, – dissi. – Le andrebbe se ci
incontrassimo in qualche posto per prendere un cock tail?
– Ma sa almeno vagamente che ora è, per caso? – dis se lei.
– Posso domandarle come si chiama, ad ogni modo? – Stava sfoderando un bell'accento inglese,
tutt'a un tratto. – Ha la voce un po' da sbarbatell o, direi.
Mi misi a ridere. – Grazie del complimento, – dissi , maledettamente latte e miele. – Mi chiamo
Holden Caulfield -. Avrei dovuto darle un nome fals o, ma non ci pensai.
– Be', senta, signor Cawfle. Non ho l'abitudine di prendere appuntamenti nel cuor della notte. Io
sono una ragazza che lavora.
– Domani è domenica, – le dissi.
– Be', fa lo stesso. Devo andare a letto presto com e cura di bellezza. Sa com'è.

32/100 – Pensavo che avremmo potuto prendere almeno un coc ktail insieme. Non è tanto tardi.
– Be', lei è un vero angelo, – disse. – Da dove mi sta telefonando? Dove si trova adesso, ad ogni
modo?
– Io? In una cabina telefonica.
– Oh, – disse. Poi ci fu quella lunghissima pausa. – Be', sarei felicissima di incontrarmi qualche vol ta
con lei, signor Cawfle. Mi ha l'aria d'essere attra ente. Mi ha tutta l'aria d'una persona molto
attraente. Ma è tardi.
– Potrei venire su da lei.
– Be', in un altro momento,l'avrei detta un'idea st raordinaria. Voglio dire, sarei lietissima che lei
facesse un salto qui per prendere un cocktail, ma c 'è che la mia compagna di stanza è ammalata.
Non è riuscita a chiudere occhio tutta la notte. Si è assopita proprio in questo momento. Dico
davvero.
– Oh. Che peccato.
– A che albergo sta? Forse potremmo prendere quel c ocktail insieme domani.
– Domani non posso, – dissi io. – Posso soltanto st asera -. Che cretino. Questo non avrei dovuto
dirlo.
– Oh. Be', mi dispiace proprio tanto.
– Saluterò Eddie da parte sua.
– Lo farà davvero? Spero che si diverta, qui a New York. È una città eccezionale.
– Lo so. Grazie. Buonanotte, – dissi. Poi riattacca i.
Ragazzi, era stato un vero fiasco . Avrei dovuta almeno combinare per l'indomani pome riggio o che
so io.

X.

Era ancora abbastanza presto. Non so con precisione che ora fosse, ma non era tanto tardi. L'unica
cosa che odio è di andare a letto quando non sono n emmeno stanco. Sicché aprii le valige e tirai
fuori una camicia pulita, poi andai nel bagno, mi l avai e mi cambiai la camicia. Quello che pensavo
di fare era di scendere a vedere che cosa diavolo s uccedeva nella Sala Lilla. C'era un night club,
nell'albergo, la Sala Lilla.
Mentre mi cambiavo la camicia, però, per un pelo no n telefonai alla mia sorellina Phoebe. Avevo
una gran voglia di parlare al telefono con lei. Una persona piena di buonsenso e via discorrendo. Ma
non potevo arrischiarmi di chiamarla, perché era so ltanto una ragazzina e senza dubbio non era in
piedi né tanto meno vicino al telefono. Pensai che magari potevo riattaccare se rispondevano i miei
genitori, ma non avrebbe funzionato nemmeno questo. Avrebbero capito che ero io. Mia madre sa
sempre che sono io. È ultrasensibile. Ma francament e non mi sarebbe dispiaciuto di far quattro
chiacchiere con la vecchia Phoebe.
Dovreste vederla. Garantito che in tutta la vostra vita non avete mai visto una ragazzetta tanto
carina e sveglia. È veramente sveglia. Voglio dire, da quando va a scuola ha sempre preso tutti
dieci. In realtà, io sono l'unico deficiente della famiglia. Mio fratello D. B. è uno scrittore e via
discorrendo, e mio fratello Allie, quello che è mor to e di cui vi ho parlato, era un fenomeno. Io sono
proprio l'unico deficiente. Ma dovreste vedere la v ecchia Phoebe. Ha quel certo tipo di capelli rossi,
un po' come quelli di Allie, che d'estate sono cort issimi. D'estate se li tira dietro le orecchie. Ha due
orecchie molto carine, piuttosto piccole. D'inverno però li porta molto lunghi. A volte mia madre le
fa le trecce e a volte no. Sono proprio belli, sape te. Ha soltanto dieci anni, Phoebe. È magra magra,
come me, però magra carina. Magra come un pàttino. Una volta la guardavo dalla finestra mentre
attraversava la Quinta Avenue per andare al parco, ed è proprio cosí, magra come un pàttino. Vi
piacerebbe. Voglio dire che se raccontate qualcosa alla vecchia Phoebe, lei sa perfettamente di che
diavolo state parlando. Potete perfino portarvela d ietro dovunque, voglio dire. Se la portate a un
film stupido; per esempio, lei sa che è un film stu pido. Se la portate a un film decente, lei capisce
che è un film decente. D. B. ed io l'abbiamo portat a a quel film francese con Raimu, La moglie del

33/100 fornaio . Non stava piú nella pelle. La sua passione però è Il club dei trentanove , con Robert Donat.
Lo sa a memoria dal principio alla fine, quel danna to film, perché ce l'ho portata almeno dieci volte.
Quando il vecchio Donat arriva alla fattoria dello scozzese, per esempio, mentre sta scappando dagli
sbirri e compagnia bella, ecco che Phoebe in pieno cinema dice forte – proprio nello stesso
momento in cui lo dice nel film quel tizio scozzese – “Può mangiare l'aringa?” Sa tutto il dialogo a
memoria. E quando nel film il professore, che in re altà è una spia tedesca, alza il dito mignolo per
farlo vedere a Robert Donat, e gli manca un pezzo d ella seconda falange, la vecchia Phoebe lo batte
in velocità – là al buio, mi mette il suo mignolo p roprio sotto il naso. È in gamba. Vi piacerebbe.
L'unico guaio è che certe volte è troppo affettuosa . È molto emotiva, per essere una bambina.
Davvero. Un'altra cosa che fa è scrivere libri a tu tto spiano. Solo che non li finisce. Parlano tutti di
una ragazzina che si chiama Hazel Weatherfield – so lo che la vecchia Phoebe scrive “Hazle”. La
vecchia Hazle Weatherfield è una investigatrice. Ri sulterebbe orfana, ma c'è sempre un padre che
salta fuori. Ed è sempre “un gentiluomo alto e attr aente di una ventina d'anni”. Questo mi lascia
secco. La vecchia Phoebe. Giuro su Dio che vi piace rebbe. Era sveglia anche quand'era proprio
piccolissima. Quand'era proprio piccolissima, io e Allie la portavamo con noi al parco, soprattutto la
domenica. Allie aveva quella barca a vela con la qu ale la domenica si divertiva a giocare, e
portavamo con noi la vecchia Phoebe. Lei si metteva i guanti bianchi e camminava tra noi due,
proprio come una dama e via dicendo. E quando Allie ed io facevamo qualche discorso cosí in
generale, la vecchia Phoebe stava a sentire. Certe volte ti dimenticavi addirittura che ci fosse, tant o
era piccola, ma lei te lo ricordava subito. Ci dava uno strattone o ch e so io, a me o ad Allie, e
diceva: “ Chi ? Chi l'ha detto? Bobby o la signora?” Allora noi l e spiegavamo chi l'aveva
detto, e lei faceva “Oh”, e si rimetteva a sentire e cosí via. Anche Allie la trovava fantastica.
Piaceva anche a lui, voglio dire. Adesso ha dieci a nni, e non è piú tanto piccola, ma la trovano
ancora fantastica tutti quanti – tutti quelli che h anno buonsenso, almeno.
Ad ogni modo, era una persona con la quale era semp re piacevole parlare al telefono. Ma avevo
troppa paura che rispondessero i miei genitori, e a llora avrebbero scoperto che ero a New York e
che mi avevano sbattuto fuori da Pencey e tutto qua nto. Sicché finii di mettermi la camicia. Poi mi
preparai e con l'ascensore andai giú nell'atrio per vedere cosa succedeva.
Tolti alcuni tizi dall'aria di ruffiani e alcune bi onde dall'aria di puttane, l'atrio era alquanto des erto.
Ma si sentiva l'orchestra che sonava nella Sala Lil la e cosí andai là. Non era molto affollata, ma mi
diedero un tavolo schifo lo stesso – giú in fondo. Avrei dovuto sven tolare un bigliettone sotto il naso
del capo cameriere. A New York, ragazzi, è il denar o che parla – senza scherzi.
L'orchestrina era ignobile. Buddy Singer. Grandi st rombettate, ma non di quelle come si deve – roba
da cafoni. E poi c'erano pochissime persone della m ia età, lí dentro. A dirla schietta, non c'era
nessuno della mia età. Per la maggior parte erano v ecchi tutti inghingherati con le loro belle.
Fuorché al tavolo vicíno al mio. Al tavolo vicino a l mio c'erano quelle tre ragazze sulla trentina. A
prenderle in mazzo erano abbastanza brutte tutt'e t re e portavano certi cappellini da cui capivate
subito che non vivevano a New York, ma una, la bion da, non era poi tanto male. Era discreta, la
bionda, e io cominciai a fissarla, ma proprio allor a venne il cameriere a prendere l'ordinazione.
Ordinai uno scotch e soda, ma la soda a parte – e l o dissi a precipizio, perché se fai un po' l'esitan te
pensano che sei minorenne e non ti danno liquori. C on quello mi trovai nei pasticci lo stesso, però. –
Mi scusi, signore,- disse, – ma ha modo di dimostra re la sua età? La patente di guida, forse?
Gli diedi un'occhiata gelida, come se mi avesse off eso a morte, e gli domandai: – Ho l'aria d'aver
meno di ventun anno?
– Mi dispiace, signore, ma noi abbiamo i nostri…
– D'accordo, d'accordo, – dissi. Accidenti, pensai. – Mi porti una coca -. Lui stava andandosene, ma
lo richiamai.
– Non ci può schizzare dentro un po' di rum o qualc osa del genere? – domandai. Glielo domandai
con molta cortesia eccetera eccetera. – In un posto barboso come questo non ci resisto, se sono
perfettamente sobrio . Non ci può schizzare dentro un po' di rum o qualc osa del genere?

34/100 – Mi dispiace proprio, signore… – disse, e tagliò la corda. Non ce l'avevo con lui, però. Perdono il
posto, se li beccano a vendere liquori a un minoren ne. E io sono un maledettissimo minorenne.
Mi rimisi a fissare le tre racchione del tavolo acc anto. Ossia, la bionda. Le altre due erano fuori
tentazione. Non lo facevo in modo grossolano, però. Mi limitavo a gettare a tutt'e tre delle occhiate
molto fredde e via discorrendo. Ma andò a finire ch e quando le guardavo, quelle tre si mettevano a
ridacchiare come tante stupide. Probabilmente pensa vano che ero troppo giovane per buttar l'occhio
sulle donne. Questo mi fece proprio girare le scato le – avreste detto che volevo sposarle o chi sa
che. Avrei dovuto mandarle a farsi benedire, dato c he facevano cosí, ma il guaio era che avevo una
gran voglia di ballare. Certe volte vado matto per il ballo, ed era proprio una di quelle volte. Cosí,
tutt'a un tratto, mi chinai un poco e dissi: – Una di voi tre vuole ballare, ragazze? – Non lo dissi i n
modo grossolano, per niente. Gentilissimo, anzi. Ma porca miseria, quelle trovarono molto spassoso
anche questo . Si misero a sghignazzare piú che mai, dico sul se rio, erano proprio tre cretine. –
Avanti! – dissi. – Vi farò ballare a turno. D'accor do? Che ne dite? Avanti! – Avevo proprio una gran
voglia di ballare.
Finalmente la bionda si alzò per ballare con me, pe rché si capiva benissimo che in realtà parlavo a
lei , e ci incamminammo verso la pista. Alle altre due cretine per poco non gli veniva un attacco
isterico, quando ci videro andare. Dovevo essere pr oprio ridotto male, per stare a perdere tempo con
una di loro.
Ma ne valeva la pena. La bionda era una ballerina d i prima forza. Era una delle migliori ballerine
che mi fossero mai capitate. Senza scherzi, ci sono certe oche perfette che su una pista da ballo
possono lasciarvi senza fiato. Una ragazza molto in telligente, invece, o per metà del tempo tenta di
guidarvi lei avanti e indietro, o balla talmente male che la co sa migliore è di restarvene al tavolo e
prendere una bella sbornia insieme.
– Lei balla benissimo, – dissi alla bionda. – Dovre bbe fare la professionista. Dico davvero. Ho
ballato con una professionista, una volta, e lei è molto piú brava. Ha mai sentito parlare di Marco e
Miranda?
– Come? – disse lei. Non mi stava nemmeno a sentire . Guardava in giro per la sala.
– Ho detto se ha mai sentito parlare di Marco e Mir anda.
– Non so. No. Non lo so.
– Be', sono ballerini, lei è una ballerina. Ma non è cosí straordinaria, però. Fa tutto quello che dev e,
ma non è straordinaria lo stesso. Lo sa quand'è che una ragazza balla veramente in modo fantastico?
– Come ha detto? – disse. Non mi stava neanche a se ntire. La sua mente vagava a tutto spiano.
– Ho detto, lo sa quand'è che una ragazza balla ver amente in modo fantastico?
– Mmm, mmm.
– Be', dove tengo la mano sulla sua schiena. Se pen so che sotto la mia mano non c'è niente, né
didietro, né gambe, né piedi, niente , allora la ragazza balla davvero in un modo fantas tico.
Ma lei non mi stava a sentire. Sicché per un poco l a ignorai. Ballavamo e basta. Dio, se sapeva
ballare, quell'oca! Buddy Singer e la sua orchestri na schifa stavano sonando Proprio una cosa cosí ,
e nemmeno loro riuscivano a rovinarla completamente . È una canzone magnifica. Non tentai passi
complicati mentre ballavamo – detesto quei tipi che quando ballano fanno un sacco di passi
complicati per mettersi in mostra – ma la facevo gi rare senza risparmio, e lei mi seguiva benissimo.
Il buffo è che credevo che si stesse divertendo anc he lei, e invece tutt'a un tratto se ne uscí con
quella frase idiotissima. – Ieri sera io e le mie a miche abbiamo visto Peter Lorre, – disse. – L'attor e
del cinema. In carne e ossa. Stava comprando un gio rnale. È di un carino…
– Lei è fortunata, – le dissi. – Proprio fortunata. Lo sa?- Era un'oca perfetta. Ma come ballava! Non
potei fare a meno di darle un piccolo bacio su quel suo stupido cocuzzolo – sapete, proprio dove c'è
la scriminatura e compagnia bella. Quel mio gesto l a fece infuriare.
– Ehi! Che le gira per la testa?
– Niente. Non mi gira niente. Lei balla proprio ben e,- dissi. – Ho una sorellina che fa solo la dannat a
quarta elementare. Lei balla quasi bene come la mia sorellina, e quella balla come nessuno, vivo o
morto.

35/100 – Badi a come parla, se non le dispiace.
Che donna, ragazzi. Una regina, Cristo santo.
– Di dove siete, voi tre?
Ma non mi rispose. Era occupata a cercare in giro i l vecchio Peter Lorre per farmelo vedere,
suppongo.
– Di dove siete, voi tre? – ripetei.
– Come? – disse.
– Di dove siete, voi tre? Non me lo dica, se non ne ha voglia. Non vorrei che si stancasse.
– Seattle, Washington, – disse. Mi stava facendo un grande favore a dirmelo.
– Lei è una conversatrice straordinaria, – le dissi . – Lo sa?
– Come?
Lasciai perdere. Il suo cervello non ci arrivava, a d ogni modo. – Le va di fare un po' di jitterbug, s e
suonano una cosa svelta? Non uno di quei jitterbug balordi: né salti né niente; un jitterbug carino e
tranquillo. Se suonano una cosa svelta tutti andran no a sedersi, tolti i vecchi e i grassoni, cosí
avremo
un sacco di spazio. D'accordo?
– Per me è tale quale, – disse lei – Ehi, quanti an ni ha, a proposito?
Non so bene perché, ma questo mi diede sui nervi. – Oh, Cristo. Non rovini tutto, – dissi. – Ho dodici
anni, Cristo santo. Sono alto per la mia età.
– Stia a sentire , lei. Gliel'ho già detto. Non mi va questo modo dí parlare, – disse. – Se vuol parlare
in questo modo, io posso tornare a sedermi con le m ie amiche, sa?
Mi scusai a tutto spiano, perché l'orchestrina stav a cominciando una cosa svelta. Lei si mise a fare i l
jitterbug con me – ma proprio un jitterbug carino e tranquillo, non balordo. Era proprio brava.
Bastava appena toccarla. E ad ogni piroetta, scodin zolava col suo bel sederino in un modo delizioso
eccetera eccetera. Mi lasciò senza fiato. Davvero. Ero mezzo innamorato di lei, quando tornammo a
sederci. Questo è il guaio con le ragazze. Ogni vol ta che fanno una cosa carina, anche se a guardarle
non valgono niente o se sono un po' stupide, finisc e che quasi te ne innarnori, e allora non sai piú
dove diavolo ti trovi. Le ragazze. Cristo santo. Ha nno il potere di farti ammattire. Ce l'hanno
proprio.
Quelle non mi invitarono a sedermi al loro tavolo – soprattutto perché erano troppo ignoranti – ma io
mi sedetti lo stesso. La bionda che avevamo ballato insieme si chiamava Bernice Vattelappesca –
Crabs o Krebs. Le due racchione si chiamavano Marty e Laverne. Io dissi che mi chiamavo Jim
Steele, tanto per fare una cosa. Poi cercai di tira rle in una conversazione un po' intelligente, ma er a
un'impresa disperata. Avreste dovuto slogargli le b raccia. Era difficile dire quale delle tre fosse la
piú stupida. E tutt'e tre continuavano a guardare i n giro per quella maledetta sala, come se da un
momento all'altro si aspettassero di veder arrivare un branco di maledetti divi. Probabilmente
credevano che i divi bazzicassero sempre la Sala Li lla, quando venivano a New York, e non lo
Stork Club o El Morocco e compagnia bella. Ad ogni modo, mi ci volle circa mezz'ora per scoprire
dove lavoravano a Seattle e tutto quanto. Lavoravan o tutt'e tre nella stessa società di assicurazioni.
Gli domandai se gli piaceva, ma credete che si pote sse tirar fuori una risposta intelligente da quelle
tre oche? Pensavo che le due racchione, Marty e Lav erne, fossero sorelle, ma quelle si offesero a
morte quando glielo domandai. Era chiaro che nessun a delle due ci teneva ad assomigliare all'altra,
e non potevate dargli torto, ma fu molto divertente lo stesso.
Ballai con tutte loro – tutt'e tre quante erano – a turno. Una delle racchione, Laverne, non ballava
tanto male, ma l'altra, la vecchia Marty, era un di sastro. La vecchia Marty era come trascinarsi
dietro sulla pista la statua della Libertà.
L'unico sistema per cavare perfino un certo spasso da quel dovermela trascinare dietro era di
prenderla un po' in giro – sicché le dissi che avev o appena visto Gary Cooper, il divo dello schermo,
dall'altra parte della pista.
– Dove ? – mi domandò lei, fuori di sé dall'eccitazione. – Dove?

36/100 – Oh, non ha fatto in tempo a vederlo. È uscito pro prio adesso. Perché non ha guardato quando
gliel'ho detto?
Lei smise addirittura di ballare, e cominciò ad all ungare il collo al di sopra di tutte quelle teste p er
vedere se le riusciva di sbirciarlo. – Oh, accident i! – disse. Le avevo quasi spezzato il cuore – senz a
esagerazioni. Mi dispiaceva molto d'averla presa in giro. Certa gente non bisogna prenderla in giro
neanche se se lo merita.
Ecco però quel che accadde di buffo. Quando tornamm o al tavolo, la vecchia Marty disse alle altre
due che Gary Cooper se n'era andato in quel momento . Ragazzi, quando lo seppero, Laverne e
Bernice per poco non si sparavano. Erano fuori di s é dall'eccitazione e domandarono a Marty se lei
l'aveva visto e tutto quanto. La vecchia Marty diss e che era riuscita a dargli appena un'occhiata. Ci
son rimasto secco.
Il bar stava chiudendo, sicché pagai in fretta e fu ria due liquori a testa per loro prima che chiudess e,
e ordinai altre due coca per me. Quel dannato tavol o era uno spicinio di bicchieri. Una delle
racchione, Laverne, continuava a prendermi in giro perché bevevo soltanto coca cola. Aveva uno
squisito senso umoristico. Lei e la vecchia Marty b evevano Tom Collins – alla fine di dicembre, Dio
santo! Non capivano un accidente. La bionda, la vec chia Bernice, beveva bourbon e acqua. E se lo
scolava che era un piacere, tra parentesi. E tutt'e tre non facevano che guardarsi intorno in cerca di
divi dello schermo. Quasi non parlavano nemmeno tra loro. La vecchia Marty parlava piú delle altre
due. Continuava a uscirsene fuori con quelle barbos issime frasi da mezza calzetta – chiamava il
gabinetto “lo stanzino delle pupe”, per esempio – e quando quel povero vecchio clarinettista
malandato si alzò in piedi e improvvisò un paio di ghirigori di jazz freddo, lo trovò veramente
fantastico. “Bastoncino di liquirizia”, ecco come c hiamava il suo clarinetto. Accidenti se era mezza
calzetta! L'altra racchiona, Laverne, si credeva un tipo molto spiritoso. Continuava a dirmi di
telefonare a mio padre per sapere che cosa faceva q uella sera. Continuava a domandarmi se mio
padre aveva la bella oppure no. Me lo domandò quattro volte – era proprio spiritosissima. La
vecchia Bernice, la bionda, quasi non apriva bocca. Tutte le volte che le domandavo qualche cosa
diceva “Come?” Dàlli e dàlli, urta i nervi, alla fi ne.
Di colpo, quando ebbero finito di bere, si alzarono tutt'e tre e dissero che dovevano andare a letto.
Che dovevano alzarsi presto per vedere il primo spe ttacolo di Radio City Music Hall, dissero.
Cercai di trattenerle ancora un poco, ma non voller o. Cosí ci salutammo e tutto quanto. Io dissi che
una volta o l'altra sarei andato a trovarle a Seatt le, se capitavo da quelle parti, ma ne dubito molto .
Che andrò a trovarle, voglio dire.
Con le sigarette e tutto quanto, il conto venne sui tredici dollari. Mi pare che quelle avrebbero
dovuto almeno far finta di voler pagare i liquori c he avevano bevuto prima che andassi al loro
tavolo – io non glieli avrei lasciati pagare, natur almente, ma loro avrebbero dovuto almeno far finta.
Non che me ne importasse molto, però. Erano talment e ignoranti, e portavano quei tristi cappelli
ridicoli e via discorrendo. E quella storia di alza rsi presto per vedere il primo spettacolo di Radio
City Music Hall mi deprimeva. Se qualcuno, una raga zza con un cappello orrendo, per esempio, si
fa tutta la strada fino a New York – da Seattle nel lo stato di Washington, Dio santo – e va a finire
che la mattina si alza presto per vedere il primo m aledetto spettacolo di Radio City Music Hall, la
cosa mi deprime talmente che non riesco a sopportar lo. Cento bicchierini a tutt'e tre, gli avrei
pagato, se soltanto non me l'avessero detto!
Lasciai la Sala Lilla poco dopo di loro. Stavano ch iudendo, del resto, e l'orchestrina se n'era andata
da un pezzo. Tanto per cominciare, era uno di quei posti che sono tremendi, se non hai qualcuno
bravo con cui ballare o se il cameriere ti fa bere coca cola e non roba forte. Non puoi startene sedut o
a lungo in nessun night club del mondo, se non puoi prendere qualche liquore e sbronzarti. O se non
stai con una ragazza che ti lascia proprio senza fi ato.

XI.

37/100 Tutt'a un tratto, mentre andavo verso l'atrio, ecco che mi tornò in testa la vecchia Jane Gallagher. C e
l'avevo nella testa, e non riuscivo a togliermela. Mi sedetti in quella poltrona color vomito nell'atr io
e mi misi a pensare a lei e a Stradlater in quella stramaledetta macchina di Ed Banky, e sebbene
fossi quasi sicuro che il vecchio Stradlater non l' aveva stantuffata – per me la vecchia Jane era un
libro aperto – non riuscivo lo stesso a togliermela di mente. Per me lei era un libro aperto. Davvero.
Voglio dire che a parte la dama, andava matta per t utti gli sport atletici, e dopo che l'avevo
conosciuta, passammo l'estate a giocare a tennis in sieme quasi tutte le mattine e a golf quasi tutti i
pomeriggi. Ero arrivato sul serio a conoscerla prop rio intimamente. Non dico che ci fosse qualcosa
di fisico o che so io – non c'era niente – ma ci vedevamo tu tto il tempo. Non c'è sempre bisogno di
darsi al sessuale per conoscere una ragazza.
Ci siamo conosciuti in questo modo, che il suo Dobe rmann Pinscher aveva l'abitudine di venire a
fare i suoi bisogni sul nostro prato, e mia madre f iní con l'esserne molto seccata. Telefonò alla
madre di Jane e fece un canaio d'inferno. Mia madre è capace di fare dei canai fenomenali, per cose
di questo genere. Poi successe che un paio di giorn i dopo vidi Jane che se ne stava sdraiata a pancia
sotto vicino alla piscina, al circolo, e la salutai . Sapevo che stava nella casa vicino alla nostra, m a
non le avevo mai parlato né niente. Lei però quel g iorno restò come un pezzo di ghiaccio, quando la
salutai. Mi ci volle non so quanto tempo per convin cerla che dovunque il suo cane facesse i suoi
bisogni, io per me, me ne infischiavo altamente. Po teva andare a farli in salotto, per quel che me ne
importava. Ad ogni modo, Jane ed io finimmo col div entare amici e tutto quanto. Giocammo a golf
insieme quei pomeriggio stesso. Lei perse otto pall e, me ne ricordo. Otto . Feci una faticata d'inferno
per convincerla a tenere almeno gli occhi aperti qu ando dava il colpo. Però mígliorai enormemente
il suo gioco. Io sono bravissimo, al golf. Se vi di cessi in quanti colpi faccio il campo, è probabile
che non mi credereste. Per poco non sono stato ripr eso in un documentario, una volta, ma poi ho
cambiato idea all'ultimo momento. Ho pensato che pe r uno che odia i film come me, sarei stato uno
sbruffone a farmi mettere in un documentario.
Era una buffa ragazza, la vecchia Jane. Proprio bel la, a rigor di termini, direi di no. Ma mi lasciava
senza fiato. Aveva una bocca come un forno. Voglio dire, quando parlava e si entusiasmava per
qualche cosa, era come se la bocca le si muovesse d a tutte le parti, labbra eccetera eccetera. Una
cosa formidabile. E non la chiudeva mai completamen te. La teneva sempre un po' socchiusa,
soprattutto quando si metteva in posizione, a golf, o quando leggeva un libro. Non faceva che
leggere, e leggeva libri molto buoni. Leggeva un sa cco di poesie e compagnia bella. È stata l'unica
persona all'infuori della mia famiglia alla quale a bbia fatto vedere il guantone da baseball di Allie
con tutte le poesie scritte sopra. Lei Allie non l' aveva mai conosciuto né niente perché quella era la
prima estate che veniva nel Maine – prima andava a Cape Cod – ma io gliene avevo parlato molto.
La interessavano le cose di questo genere.
A mia madre non piaceva molto. Voglio dire, mia mad re era convinta che Jane e sua madre la
snobbassero o che so io, quando non salutavano. Mia madre le incontrava spessissimo giú in paese,
perché Jane accompagnava la madre al mercato con qu ella La Salle trasformabile che avevano. Mia
madre non trovava nemmeno che Jane fosse carina. Io sí, invece. Mi piaceva com'era fatta, ecco
tutto.
Mi ricordo, quel pomeriggio. È stata l'unica volta che io e la vecchia Jane c'è mancato poco che ci
mettessimo a filare insieme, perfino. Era un sabato e veniva giú un acquazzone del diavolo, e io
stavo a casa sua, nel portico – da loro c'era quest o grande portico chiuso da tutte le parti. Stavamo
giocando a dama. Ogni tanto capitava che la prendev o in giro perché non voleva mai muovere le
sue dame dall'ultima fila. Ma non la prendevo molto in giro, però. Con Jane non si aveva tanta
voglia di prenderla troppo in giro. Io francamente trovo che mi piace di piú quando alla prima
occasione si può prendere in giro una ragazza da la sciarla secca, ma è una cosa buffa. Le ragazze
che mi piacciono dí piú sono proprio quelle che non mi va mai molto di prendere in giro. Certe
volte penso che a loro piacerebbe di essere prese in giro – anzi, so che gli piace – ma uno come fa a
cominciare, quando le conosce da un sacco di tempo e non l'ha mai fatto. Ad ogni modo, vi stavo
dicendo di quel pomeriggio che Jane ed io c'è manca to poco che ci mettessimo a filare. Pioveva

38/100 come Dio la mandava, e noi stavamo là nel portico d i casa sua, quand'ecco che tutt'a un tratto viene
fuori quella spugna del marito di sua madre e doman da a Jane se in casa c'erano sigarette. Non è che
lo conoscessi proprio bene, per niente, ma aveva tu tta l'aria del tipo che nemmeno ti parla, se non ti
deve chiedere qualche cosa. Aveva un carattere schi foso. Ad ogni modo, lui le domandò se sapeva
dove fossero le sigarette, e la vecchia Jane non gl i rispose. Lui allora glielo domandò un'altra volta ,
ma Jane seguitò a non rispondere. Non alzò nemmeno gli occhi dalla scacchiera. Alla fine lui entrò
in casa. Quando se ne fu andato, domandai a Jane ch e diavolo stava succedendo. E lei non rispose
neanche a me! Faceva finta di essere tutta concentr ata sulla mossa che stava per fare e via
discorrendo. Poi, tutt'a un tratto, ecco quella lac rima che piomba giú sulla scacchiera. In una casell a
rossa – accidenti, la vedo ancora. Lei subito la st rofinò via col dito. Non so perché, ma mi sentii
tutto scombussolato. Allora andò a finire che mi av vicinai e la feci spostare sul dondolo per potermi
sedere vicino a lei mi sedetti praticamente sulle s ue ginocchia, in realtà. Allora lei si mise a
piangere sul serio e quando capii qualche cosa la stavo baciando a tu tto spiano – dappertutto – gli
occhi, il naso, la fronte, le sopracciglia e tutto quanto, le orecchie – tutto il viso tolta la bocca e via
discorrendo. Lei non volle lasciarmi arrivare fino alla sua bocca. Ad ogni modo, è stata la volta che
siamo stati proprio lí lí per fare tutto quanto. Do po un poco lei si alzò ed entrò in casa a mettersi
quel golf bianco e rosso che mi lasciava senza fiat o, e ce ne andammo a uno stramaledetto cinema.
Per la strada, le domandai se il signor Cudahy – qu ella spugna dell'accidente si chiamava cosí –
avesse mai tentato di prendersi dei passaggi con le i. Era molto giovane, Jane, ma aveva quella
figura fantastica, e quel bastardo di Cudahy era ca pacissimo di averci provato. Ma lei disse di no.
Non ho mai saputo che diavolo le fosse preso. A cer te ragazze, praticamente, non sapete mai che
cosa gli prende.
Non mettetevi in testa che Jane fosse un accidente di ghiacciolo o che so io, solo perché non
abbiamo mai fatto all'amore insieme e nemmeno pomic iato un poco. Non lo era. Non facevamo che
tenerci per mano, ad esempio. Vi sembrerà una cosa da niente, lo capisco, ma era fantastica quando
la tenevate per la mano. La maggior parte delle rag azze, provate a tenerle per la mano, e quella
maledetta mano o muore nella vostra, o loro credono di dover continuare a dimenarla tutto il tempo,
come se avessero paura di annoiarvi o che so io. Ja ne era un'altra cosa. Andavamo in un dannato
cinema o in un posto cosí, e subito cominciavamo a tenerci per mano, e non ci lasciavamo sino alla
fine del film. E senza cambiare posizione né farne un affare di stato. Con Jane non stavi nemmeno a
pensare se avevi la mano sudata o no. Sapevi soltan to che eri felice. E lo eri davvero.
Un' altra cosa che mi è appena tornata in mente. Un a volta in quel cinema, Jane ha fatto una cosa
che per poco non mi lasciava secco. Stavano dando i l cinegiornale o qualcosa del genere, e tutt'a un
tratto mi sono sentito una mano sulla nuca ed era l a mano di Jane. Che cosa buffa, quella. Voglio
dire, lei era giovanissima e via discorrendo, e se vedete una ragazza che mette la mano sulla nuca di
qualcuno, sono sempre quasi tutte sui venticinque o i trent'anni, e di solito lo fanno ai loro mariti o
ai loro bambini – io per esempio lo faccio alla mia sorellina Phoebe, ogni tanto. Ma se lo fa una
ragazza giovanissima eccetera eccetera, è cosí cari no che rischi di restarci secco.
Ad ogni modo, ecco a che cosa pensavo mentre me ne stavo seduto in quella poltrona color vomito
nell'atrio. La vecchia Jane. Ogni volta che arrivav o al punto di lei con Stradlater su quella maledett a
macchina di Ed Banky, mi faceva quasi diventare mat to. Sapevo che non l'avrebbe lasciato arrivare
in area di rigore, ma mi faceva diventare matto lo stesso. Non mi va nemmeno di parlarne, se
proprio volete saperlo.
Nell'atrio non c'era quasi piú nessuno. Erano spari te perfino tutte quelle bionde dall'aria di puttane ,
e tutt'a un tratto mi venne una gran voglia di anda rmene da quel posto. Era un tale mortorio. E non
ero stanco, per niente. Sicché andai su nella mia c amera e mi misi il soprabito. Gettai pure
un'occhiata dalla finestra per vedere se tutti quei pervertiti erano ancora in attività, ma adesso le luci
erano spente e via dicendo. Scesi di nuovo con l'as censore, presi un tassí e dissi all'autista di
portarmi da Ernie. Ernie è quel night club nel Gree nwich Village che mio fratello D. B. bazzicava
parecchio prima di andare a. Hollywood a sputtanars i. Ogni tanto ci portava anche me. Ernie è un
gigantesco uomo di colore che suona il piano. È uno snob tremendo e se non siete un pezzo grosso o

39/100 una celebrità o qualcosa del genere, quasi non vi p arla nemmeno, però il piano lo sa suonare per
davvero. E cosí bravo, anzi, che quasi la straccia. Non so di preciso che cosa voglio dire con questo,
ma voglio dire proprio questo. Non c'è dubbio che m i piace sentirlo suonare, ma certe volte vi viene
la voglia di buttargli quel maledetto piano a gambe all'aria. Dev'essere perché certe volte, quando
suona, uno sente che è proprio il tipo di individuo che non vi parl a se non siete un pezzo grosso.

XII.

Il tassí che presi era un vecchio scassone e aveva un odore come se qualcuno ci avesse appena fatto
i gattini. Se vado in qualche posto la sera tardi, mi capitano sempre tassí schifi come quello. A
peggiorare le cose, fuori era cosí tranquillo e des erto, con tutto che era sabato sera. Non vidi quasi
nessuno, per la strada. Di tanto in tanto vedevate un uomo e una ragazza che attraversavano
tenendosi abbracciati per la vita eccetera eccetera , o un gruppetto di giovinastri con le loro ragazze ,
che ridevano tutti sgangheratamente di qualche cosa che non era affatto comica, potevate giurarci.
New York è terribile quando qualcuno ride per la st rada la sera tardi. Lo senti a chilometri di
distanza. Ti fa sentire solo e abbacchiato. Non riu scivo a togliermi di dosso la voglia di andare a
casa a far quattro chíacchiere con la vecchia Phoeb e. Ma alla fine, dopo un po' che marciavamo, io e
l'autista attaccammo una specie di conversazione. S i chiamava Horwitz. Era molto meglio dell'altro
autista che mi era capitato prima. Ad ogni modo, pe nsai che forse lui sapeva qualcosa delle anitre.
– Ehi, Horwitz, – dissi. – Ci passa mai vicino allo stagno di Central Park? Giú vicino a Central Park
South?
– Al cosa ?
– Allo stagno. Quel laghetto, cos'è, che c'è laggiú . Dove ci sono le anitre, sa?
– Sí, e allora?
– Be', sa le anitre che ci nuotano dentro? In prima vera eccetera eccetera? Che per caso sa dove
vanno d'inverno?
– Dove vanno chi ?
– Le anitre. Lei lo sa, per caso? Voglia dire, vann o a prenderle con un camion o vattelappesca e le
portano via, oppure volano via da sole, verso sud o vattelappesca?
Il vecchio Horwitz si girò tutto di un pezzo sul se dile e mi guardò. Aveva l'aria d'essere un tipo
nervosetto. Non era affatto malvagio, però. – E com e diavolo faccio a saperlo?- disse. – Come
diavolo faccio a sapere una stupidaggine cosí?
– Be', non si arrabbi per questo, – dissi. Era arra bbiato o che so io.
– E chi si arrabbia? Nessuno si arrabbia.
Io smisi subito di chiacchierare con lui, se doveva essere cosí maledettamente suscettibile. Ma fu lui
stesso a riattaccare. Si girò tutto un'altra volta e disse: – I pesci non vanno in nessun posto. Restano
dove sono, i pesci. Proprio in quel dannato lago.
– Ma i pesci… è un'altra cosa. I pesci sono un'al tra cosa. Io sto parlando delle anitre , – dissi.
– Perché è un'altra cosa? È proprio tale e quale, – disse Horwitz. Qualunque cosa dicesse, aveva
l'aria d'essere arrabbiato. – Per i pesci è molto p eggio che per le anitre, Cristo, l'inverno e tutto
quanto. Faccia funzionare il cervello, Cristo!
Io non dissi niente per un minuto almeno. Poi dissi : – Va bene. E cosa fanno, i pesci e compagnia
bella, quando tutto il lago diventa un solo blocco di ghiaccio, con la gente che ci pattina sopra e vi a
discorrendo?
Il vecchio Horwitz si girò un'altra volta. – Che di avolo vuol dire, cosa fanno? – mi urlò in faccia. –
Restano là dove sono, Cristo.
– Ma non possono non accorgersi del ghiaccio. Non p ossono non accorgersene.
– E chi è che non se ne accorge? Nessuno può non ac corgersene! – disse Horwitz. Era cosí
maledettamente infuriato e tutto quanto che avevo p aura che mandasse a sbattere il tassí contro un

40/100 lampione o che so io. – Vivono dentro quel maledetto ghiaccio, vivono. È la loro natura, Cristo. Si
congelano e stanno in quella posizione per tutto l' inverno.
– Ah sí? E che cosa mangiano, allora? Voglio dire, se sono proprio congelati non possono nuotare
per cercarsi da mangiare eccetera eccetera.
– I loro corpi , Cristo, ma che ti piglia? Sono i loro corpi che p rendono il nutrimento eccetera
eccetera da quelle maledette alghe e porcherie che ci sono nel ghiaccio. Stanno là coi pori sempre
aperti. È la loro natura , Cristo. Capisci cosa voglio dire? – E si voltò un 'altra volta tutto d'un pezzo
sul sedile per guardarmi.
– Oh, – dissi io. Lasciai perdere. Avevo paura che fracassasse quel maledetto tassí o non so cosa.
D'altronde era un tipo talmente suscettibile che no n c'era nessun gusto a discutere con lui. – Che ne
direbbe di fermarsi in qualche posto a bere un bicc hierino con me? – dissi.
Ma lui non mi rispose. Mi sa che stava ancora rimug inandoci sopra. Io però glielo domandai
un'altra volta. Era proprio un buon diavolo. Divert ente e tutto quanto.
– Non ho tempo per i bicchierini, amico, – disse. – Ma quanti accidenti di anni ha, lei? Perché non st a
a casa a dormire?
– Non ho sonno.
Quando scesi davanti al locale di Ernie e pagai la corsa, il vecchio Horwitz se ne uscí un'altra volta
con i pesci. È chiaro che non aveva pensato ad altr o. – Stia a sentire, – disse. – Se lei fosse un pes ce,
Madre Natura penserebbe a lei , no? Giusto? Non crederà che i pesci muoiano quando viene
l'inverno, no?
– No, ma…
– E l'ha proprio azzeccata, che non muoiono, – diss e Horwitz, e partí sparato come un razzo. Credo
di non avere mai incontrato un individuo tanto susc ettibile. Tutto quello che dicevi lo faceva
arrabbiare.
Con tutto che era cosí tardi, dal vecchio Ernie c'e ra un sacco di gente. Per la maggior parte, lavativ i
del liceo e dell'università. Quasi non c'è dannata scuola al mondo che per le vacanze di Natale non
chiuda i battenti prima di quelle dove vado io . A stento si riusciva a lasciare il soprabito al
guardaroba, tant'era gremito. C'era un gran silenzi o, però, perché Ernie stava sonando il piano. Dio
santo, avevano l'aria di crederla una cosa sacra , quando lui si metteva al pianoforte. Nessuno è
tanto bravo. Almeno tre coppie, vicino a me, stavano asp ettando un tavolo, e si davano un gran da
fare a spingere e a rizzarsi sulla punta dei piedi per vedere il vecchio Ernie che sonava. Davanti al
piano lui aveva un maledetto specchio grande cosí, e quel riflettore enorme puntato addosso, perché
tutti potessero vedere la sua faccia quando sonava. Le dita no, quando sonava quelle non le vedevi –
vedevi solo la sua vecchia faccia di luna piena. Da fargli tanto di cappello. Come si chiama la
canzone che stava sonando quando entrai non lo so c on sicurezza, ma qualunque fosse, la stava
proprio massacrando. Infronzolava le note alte con tutti quei cretinissimi trilletti da gigione, e un
sacco di altri ghirigori complicati che mi fanno gi rare ben bene le scatole. Ma dovevate sentire la
gente alla fine. Roba da vomitare. Avevano perso la testa. Erano proprio gli stessi fessi che al
cinema si sganasciano dalle risate per cose che non sono affatto comiche. Giuro davanti a Dio che
se fossi un pianista o un attore o qualcosa del gen ere, e tutti quei cretini mi trovassero fantastico, per
me sarebbe tremendo. Non vorrei nemmeno i loro batt imani. La gente batte sempre le mani per le
cose sbagliate. Se fossi un pianista, suonerei in u no sgabuzzino, accidenti. Ad ogni modo quando lui
ebbe finito e tutti applaudivano da spellarsi le ma ni, il vecchio Ernie si girò sullo sgabello e, da v ero
marpione, fece un inchino pieno di modestia . Come se fosse un campione di modestia, oltre che un
grande pianista. Era tutto molto fasullo – lui col suo fenomenale snobismo e via discorrendo, voglio
dire. Buffo però che mi fece persino un po' pena, q uando finí.
Credo che non sappia nemmeno piú se suona bene o no . Non è tutta colpa sua. In parte ce l'ho con
tutti quei cretini che applaudono da spellarsi le m ani – rovinerebbero chiunque, a dargliene la
possibilità. Ad ogni modo, questo mi fece sentire d i nuovo cosí depresso e a terra che per un pelo
non ritirai il soprabito e non tornai in albergo, m a era troppo presto e non mi andava molto di
starmene da solo.

41/100 Finalmente mi procurarono quello schifo di tavolo, proprio contro il muro e dietro una maledetta
colonna, da dove non si vedeva un accidente. Era un o di quei tavolinetti che se la gente che sta al
tavolo vicino non si alza per farvi passare – e mai che si alzino, quei bastardi – dovete letteralment e
inerpicarvi sulla vostra sedia. Ordinai un whisky e soda, che è quello che bevo piú volentieri, dopo i
daiquiries ghiacciati. Da Ernie i liquori li davano anche ai ragazzini dell'asilo, tanto la sala era buia
e via discorrendo, e del resto, nessuno s'interessa va dell'età che avevi. Potevi anche essere drogato,
tanto nessuno se ne interessava.
Ero circondato da lavativi. Senza scherzi. All'altr o tavolinetto che stava alla mia sinistra,
praticamente addosso a me, c'era quel ragazzo buffo con quella ragazza buffa. Avevano all'incirca
la mia età, o forse qualche anno di piú. Era buffo. Si vedeva benissimo che stavano facendo sforzi
infernali per non bere troppo in fretta la consumaz ione obbligatoria. Per un po' stetti a sentire i lo ro
discorsi, perché non avevo nient'altro da fare. Lui le stava parlando dí una partita di rugby di
professionisti che aveva visto quel pomeriggio. Le raccontava minutamente tutte le dannate fasi
della partita – parola d'onore. Era l'individuo piú barboso che abbia mai sentito. E si vedeva
benissimo che di quella maledetta partita alla sua ragazza non gliene importava un accidente, ma era
ancora piú buffa di lui, la vedevi che doveva stare a sentire. Per le ragazze veramente brutte n on c'è
scampo. Certe volte mi fanno proprio pena. Non poss o nemmeno guardarle, certe volte, soprattutto
se stanno con un cretino che gli racconta per filo e per segno una maledetta partita di rugby. Alla
mia destra, però, la conversazione era ancora peggi o. Alla mia destra c'era quel ragazzo molto tipo
Yale, con un vestíto di flanella grigia e uno di qu ei gilè vistosissimi da perfetto finocchio. Si
somigliano tutti, quei bastardi della Ivy League. [ Ivy League: ne fanno parte le piú antiche e famose
università degli Stati Uniti nordorientali: Harvard , Yale, Princeton, Dartmouth, Brown (Rhode
Island), Cornell, Columbia e l'Università di Pennsy lvania. Chi frequenta una di queste università è
un Ivy Leaguer: in Safinget, praticamente sinonimo di snob – N. d. T.]. Mio padre vuole mandarmi a
Yale, o magari a Princeton, ma io giuro che non and rei in una di quelle università della Ivy League
neanche in punto di morte, Dio ne scampi. Ad ogni m odo, quel ragazzo tipo Yale stava con una
ragazza fantastica. Era proprio bella, accidenti. M a avreste dovuto sentire i discorsi che facevano.
Tanto per cominciare, erano un po' sbronzi tutt'e d ue. Lui poi stava facendo che sotto il tavolo
pomiciava, e intanto le raccontava per filo e per s egno di un tizio del suo dormitorio che aveva
ingoiato un tubetto intero di aspirina e per poco n on ci aveva lasciato la pelle. La sua ragazza
continuava a dirgli: – Ma è terribile … No, caro. Ti prego, no. Non qui -. Figuratevi d i pomiciare con
qualcuna e nello stesso tempo di parlarle di un tiz io che si ammazza! Roba da matti.
Certo però che cominciavo a sentirmi un emerito cre tino, a starmene seduto là solo come un cane.
Non c'era da fare altro che fumare e bere. Andò a f inire, però, che dissi al cameriere di domandare
al vecchio Ernie se voleva venire a bere un bicchie rino con me. Gli dissi di dirgli che ero il fratell o
di D. B.
Credo però che non sia nemmeno andato a fargli la m ia ambasciata. Quei bastardi non c'è caso che
lo facciano.
Tutt'a un tratto ecco che arriva quella ragazza e m i fa:
– Holden Caulfield! – Si chiamava Lillian Simmons. Mio fratello D. B. per un certo tempo era uscito
spesso con lei. Aveva dei respingenti potentissimi.
– Ehi! – dissi. Tentai di alzarmi, naturalmente, ma in un posto come quello era una vera impresa. Lei
stava con un ufficiale di marina che pareva come se gli avessero ficcato un bastone nel sedere.
– Che bellezza vederti! – disse la vecchia Lillian Simmons. Una perfetta sbruffona. – Come sta il tuo
grande fratello?- Ecco quello che in realtà voleva sapere.
– Bene. È a Hollywood.
– A Hollywood! Che bellezza! E cosa fa?
– Non lo so. Scrive, – dissi. Non avevo voglia di p arlarne. Che lui stesse a Hollywood le pareva una
cosa straordinaria, era chiarissimo. Pare cosí quas i a tutti. E per lo piú sono gente che non ha mai
letto un suo racconto. Io però ci divento matto.

42/100 – Ma è meraviglioso, – disse la vecchia Lillian. Po i mi presentò quel tipo della marina. Si chiamava
Comandante Blop o qualcosa del genere. Era uno di q uei tipi che credono di aver l'aria dei finocchi
se quando ti stringono la mano non ti rompono una q uarantina di dita. Dio, quanto detesto queste
cose.
– Sei qui solo soletto, piccinino? – mi domandò la vecchia Lillian. Stava bloccando tutti quanti lungo
quel dannato passaggio. Si capiva benissimo che le piaceva bloccare il traffico quanto piú poteva.
Quel cameriere stava aspettando che si togliesse da i piedi, ma lei non lo vedeva nemmeno. Era
buffo. Si capiva benissimo che al cameriere non pia ceva molto, si capiva benissimo che non piaceva
nemmeno a quel tale della marina, neanche se era us cito con lei. E non piaceva molto neanche a me.
Non piaceva a nessuno. Andava a finire che vi facev a un po' di pena, in un certo senso. – Non ce
l'hai una ragazza, piccinino? – mi domandò. Io stav o in piedi, adesso, e lei non mi diceva nemmeno
di sedermi. Era il tipo che ti tiene in piedi per o re. – Non è un bel ragazzo? – disse a quel tipo del la
marina. – Holden, diventi sempre piú bello da un mi nuto all'altro -. Il tizio della marina le disse di
camminare. Le disse che stavano bloccando tutto il passaggio. – Holden, vieni al tavolo con noi, –
disse la vecchia Lillian. – Portati il tuo bicchier e.
– Stavo proprio per andarmene, – le dissi io. – Ho un appuntamento -. Era chiaro che quella stava
solo cercando di entrare nelle mie buone grazie. Co sí l'avrei raccontato al vecchio D. B.
– Be', piccolo filibustiere. Buon pro ti faccia. Qu ando lo vedi, di' al tuo grande fratello che lo odi o.
Poi se ne andò. Io e quel tale della marina ci dice mmo l'un l'altro che avevamo piacere d'aver fatto
la conoscenza. Cosa che mi lascia sempre secco. Non faccio che dire “piacere d'averla conosciuta” a
gente che non ho affatto piacere d'aver conosciuta. Ma se volete sopravvivere, bisogna che diciate
queste cose.
Visto che le avevo rifilato quella storia dell'appu ntamento, non mi restava altra schifa scelta che di
andarmene. Non potevo nemmeno fermarmi per sentire il vecchio Ernie che sonava qualcosa di un
po' decente. Garantito, però, che non sarei mai and ato a sedermi a un tavolo a morire di noia con la
vecchia Lillian Simmons e quel tale della marina. S icché me ne andai. Ma quando mi feci ridare il
soprabito avevo un diavolo per capello. La gente è fatta apposta per rovinarti tutto.

XIII.

Tornai fino all'albergo a piedi. Quarantuno magnifi ci isolati. Non è che avessi voglia di camminare
né niente di simile. È piuttosto che non avevo ness una voglia di ricominciare tutti quei saliscendi
dai tassí. Capita che uno si stanca di andare in ta ssí, proprio come ci si stanca di andare in
ascensore. Tutt'a un tratto devi camminare, poco im porta fin dove o fino a che altezza. Quand'ero
bambino facevo spessissimo le scale fin su a casa. Dodici piani.
Non si sarebbe nemmeno detto che aveva nevicato. Su i marciapiedi non c'era quasi piú neve. Ma
c'era un freddo tremendo, e io mi cavai di tasca il berretto rosso da cacciatore e me lo misi – se mi
stava male, amen. Mi misi perfino i paraorecchi. Av rei proprio voluto sapere chi mi aveva
sgraffignato i guanti a Pencey, perché mi si stavan o gelando le mani. Non che avrei fatto chi sa che
cosa, se anche l'avessi saputo. Sono un gran viglia cco, io. Cerco di non farlo vedere, ma lo sono.
Per esempio, se a Pencey avessi scoperto chi mi ave va rubato i guanti, probabilmente sarei andato
nella sua stanza e gli avrei detto: “E va bene. E o ra che ne diresti di sganciare quei guanti?” Allora
probabilmente quel ladro che se li era presi avrebb e detto, con una voce da innocentino eccetera
eccetera: “Che guanti?” Allora probabilmente finiva che andavo a guardare nel suo armadio e
trovavo i guanti in qualche posto. Ficcati nelle su e dannate galosce o qualcosa del genere, per
esempio. Li avrei tirati fuori, glieli avrei fatti vedere e avrei detto: “Questi dannati guanti sono tuoi ,
mi figuro?” Allora lui probabilmente mi avrebbe gua rdato con quell'aria finta da innocentino e
avrebbe detto: “Non ho mai visto quei guanti in vit a mia. Se sono tuoi, prenditeli. Non ci tengo
proprio ad avere quei maledetti cosi”. Allora proba bilmente io sarei rimasto lí impalato per cinque
minuti. Con quei dannati guanti in mano e via disco rrendo, ma con la sensazione che avrei dovuto

43/100 mollargli un bel cazzottone sul grugno o qualcosa d el genere – rompergli quel maledetto grugno.
Solo che non ne avrei avuto il fegato. Me ne sarei rimasto là, cercando di fare il duro. Al massimo
avrei potuto dirgli qualcosa di molto offensivo e i nsolente per mandarlo in bestia – invece di
mollargli un cazzotto sul grugno. Ad ogni modo, se avessi detto qualcosa di molto offensivo e
insolente, lui è probabile che sarebbe venuto a pia ntarmisi davanti e avrebbe detto: “Senti un po',
Caulfield. Mi stai accusando di sgraffignare?” Allo ra, invece di dire “L'hai proprio azzeccata, lurido
bastardo di un ladro che non sei altro!”, probabilm ente mi sarei limitato a dire: “Io so soltanto che i
miei dannati guanti stavano nelle tue galosce”. Allora quello avrebbe capito subito e se nza ombra di
dubbio che quel cazzotto non glielo mollavo, e prob abilmente avrebbe detto: “Sta' a sentire.
Chiariamo questa faccenda. Mi stai dando del ladro? ” Allora probabilmente io avrei detto:
“Nessuno sta dando del ladro a nessuno. Io so solta nto che i miei guanti stavano nelle tue maledette
galosce”. Potevamo continuare cosí per ore. Alla fi ne, però, me ne sarei andato dalla sua stanza
senza mollargli nemmeno un cazzotto. Probabilmente sarei andato ai gabinetti a fumarmi di straforo
una sigaretta e a guardarmi la grinta dura nello sp ecchio. Ad ogni modo, ecco a che cosa pensai per
tutta la strada fino all'albergo. Non è divertente essere vigliacco. Forse io non sono proprio
vigliacco. Non lo so. Credo che forse un po' sono v igliacco e un po' sono il tipo che mi fa un baffo
se perdo i guanti. Questo è uno dei miei guai, che non me la prendo mai molto se perdo una cosa –
mia madre ci si arrabbiava come un demonio, quand'e ro piccolo. C'è gente che se perde una cosa
passa giornate a cercarla. A me pare di non avere mai niente che se lo perdessi ne farei una
malattia. Forse è per questo che in parte sono un v igliacco. Ma non è una giustificazione. Non lo è
proprio. Non si dovrebbe essere vigliacchi per nien te. Se avete da dare un cazzotto sul grugno a
uno, e in un certo senso vi va di darglielo, dovres te darglielo. Io però ci sono negato. Preferirei
scaraventare uno dalla finestra o mozzargli la test a con un'ascia, piuttosto che dargli un cazzotto su l
grugno. Detesto di fare a pugni. Non è tanto che mi secchi di buscarle – anche se non è la mia
passione, si capisce – ma quello che mi spaventa di piú, quando si fa a pugni, è la faccia dell'altro.
Non resisto a guardare la faccia dell'altro, ecco i l mio guaio. Se ci si potesse bendare tutti e due o
qualcosa del genere, andrebbe meglio. Questa è una vigliaccheria strana, a pensarci bene, però
vigliaccheria lo è. Non è che stiami prendendo in giro.
Piú pensavo ai miei guanti e alla mia vigliaccheria e piú a terra mi sentivo, sicché, mentre
camminavo e via discorrendo, decisi di fermarmi in qualche posto a bere un bicchierino. Da Ernie
ne avevo bevuti solo tre e l'ultimo non l'avevo nem meno finito. Una cosa ho io, ed è che reggo in
modo fantastico. Posso bere tutta la notte e nemmen o mi si vede, se sono in vena. Una volta, a
Whooton, un sabato sera, io e quell'altro ragazzo, Raymond Goldfarb, comprammo mezzo litro di
whisky e andammo a scolarcelo in cappella dove ness uno poteva vederci. Lui si ubriacò da far
paura, ma a me quasi non mi si vedeva nemmeno. Dive ntai soltanto molto calmo e indifferente.
Vomitai prima di andare a letto, ma non è che ne av essi bisogno – mi ci sforzai.
Ad ogni modo, prima di andare all'albergo, stavo pe r entrare in quel letamaio di bar quando ne
uscirono due tizi, ubriachi fradici, che volevano s apere dov'era la metropolitana. Uno dei due aveva
tutta l'aria del cubano, e mentre gli davo le indic azioni continuava a soffiarmi in faccia il suo feti do
fiato. Andò a finire che in quel maledetto bar non ci entrai nemmeno. Me ne tornai dritto
all'albergo.
L'atrio era deserto. C'era un odore come se ci aves sero fatto fuori cinquanta milioni di sigari. Sul
serio. Non avevo sonno, niente, ma mi sentivo un po ' a terra. Depresso e via dicendo. Quasi avrei
voluto essere morto. Poi, di colpo, mi trovai in qu ell'enorme pasticcio.
Entro nell'ascensore, e per prima cosa l'addetto al l'ascensore mi fa: – Che le andrebbe di divertirsi
un po', amico, o è troppo tardi?
– Cosa intende dire? – domandai. Non capivo dove vo lesse arrivare né niente.
– Le andrebbe di dare una bottarella, stanotte?
– A me? – dissi. Che era una risposta molto cretina , ma è un bell'imbarazzo quando uno viene a
faccia fresca a farti una domanda come quella.
– Quanti anni ha, capo? – disse l'addetto all'ascen sore.

44/100 – Perché? – dissi io. – Ventidue.
– Uhm. Be', che gliene pare? Una semplice cinque do llari, la nottata quindici dollari -. Guardò
l'orologio. – Fino a mezzogiorno. Una semplice cinq ue dollari, fino a mezzogiorno quindici dollari.
– D'accordo, – dissi. Era contrario ai miei princip i e via discorrendo, ma mi sentivo cosí depresso
che nemmeno ci pensai. Ecco tutto il guaio. Quando vi sentite proprio depressi non riuscite
nemmeno a pensare.
– D'accordo che cosa ? Un quarto d'ora o fino a mezzogiorno? Bisogna che lo sappia.
– Solo un quarto d'ora.
– D'accordo, che stanza?
Guardai sulla mia chiave quel coso rosso con sopra il numero. – Milleduecentoventidue, – dissi. Ero
già un po' pentíto di aver lasciato che la faccenda cominciasse, ma ormai era troppo tardi.
– D'accordo. Le mando su una ragazza tra un quarto d'ora circa -. Aprí la porta dell'ascensore e uscí.
– Ehi, è carina? – gli domandai. – Non voglio una v ecchia racchiona.
– Niente vecchie racchione. Non se ne preoccupi, ca po.
– A chi devo pagare?
– A lei, – disse. – Andiamo, capo -. E mi chiuse la porta in faccia o quasi.
Andai nella mia stanza e mi bagnai un po' la testa, ma è impossibile pettinare sul serio dei capelli
tagliati a spazzola. Poi feci una prova per sentire se tutto quel fumare e i whisky e soda che avevo
bevuto da Ernie mi avevano dato l'alito cattivo. Ba sta mettersi una mano sotto la bocca e mandare il
fiato verso il naso. Mi sembrò che non fosse tanto cattivo, ma mi lavai i denti lo stesso. Poi mi
cambiai di nuovo la camicia. Sapevo che non c'era b isogno di mettersi tanto in ghingheri per una
prostituta o quello che era, ma almeno avevo qualco sa da fare. Ero un po' nervoso. Cominciavo a
sentirmi abbastanza eccitato e via discorrendo, ma ero un po' nervoso lo stesso. Se volete proprio
saperlo, sono vergine. Sul serio. Le occasioni di p erdere la mia verginità e via discorrendo non mi
sono mancate davvero, ma ancora non mi è riuscito. Succede sempre qualcosa. Se siete da una
ragazza, per esempio, i suoi genitori tornano sempr e a casa sul piú bello – o voi avete paura di
vederli arrivare. Se siete seduti dietro sulla macc hina di qualcuno, davanti c'è sempre la lei di quel
qualcuno – una ragazza, voglio dire – che ha la fis sazione di sapere che cosa succede in ogni angolo
di quella maledetta macchina. Voglio dire che davan ti c'è sempre una ragazza che continua a girarsi
per vedere che cosa diavolo sta succedendo. Ad ogni modo, ne capita sempre una. Un paio di volte
ci mancò poco che lo facessi, però. Una volta sopra ttutto, mi ricordo. Ma qualcosa andò storto, non
mi ricordo piú nemmeno che cosa. Il fatto è che qua ndo state proprio lí lí per farlo con una ragazza –
una ragazza che non sia una prostituta o qualcosa d el genere, voglio dire, quella continua a dirvi
tutto il tempo di smettere. Il mio guaio è che smet to. C'è tanti che non smettono mica. Ma è piú
forte di me. Non capite mai se quelle vogliono veramente che smettiate, o se hanno soltanto una
paura d'inferno, o se vi dícono di smettere solo pe rché se voi continuate la colpa è vostra e non loro.
Io smetto tutte le volte, ad ogni modo. Il guaio è che a un certo punto mi fanno pena. La maggior
parte delle ragazze sono cosí sceme e tutto quanto, voglio dire. Dopo un po' che pomiciate con loro,
potete proprio vederle che perdono la testa. Fate conto, una ragazza,quan do diventa proprio
appassionata, la testa se l'è bell'e persa. Io non lo so. Loro mi dicono di smettere e io smetto. Dopo
che le ho riportate a casa mi mordo sempre le mani, ma continuo a smettere ogni volta.
Ad ogni modo, mentre mi cambiavo di nuovo la camici a, pensai che quella poteva essere la volta
buona, in un certo senso. Se era una prostituta e v ia discorrendo, pensai, potevo cominciare a
impratichirmi un poco, caso mai mi dovessi sposare o qualcosa del genere. Son cose di cui mi
preoccupo, certe volte. Una volta lessi quel libro, a Whooton, che parlava di quel tizio tanto
raffinato, squisito ed erotico. Monsieur Blanchard, si chiamava, me lo ricordo ancora. Era uno
schifo di libro, ma questo Blanchard non era affatt o male. Aveva quel grande castello eccetera
eccetera in Europa, sulla Riviera, e tutto il suo t empo libero lo passava a picchiare le donne con una
mazza. Era un autentico libertino e via discorrendo , ma le donne le metteva knock-out. A un certo
punto diceva che il corpo di una donna è come un vi olino e via discorrendo, e che ci vuole un
musicista formidabile per sonarlo bene. Era un libr o da serve – d'accordo – ma quella storia del

45/100 violino non riuscivo lo stesso a togliermela dalla testa. In un certo senso, era per questo che volevo
impratichirmi un po' della faccenda, caso mai mi fo ssi sposato. Caulfield e il suo Violino Magico,
accidenti! Roba da serve, d'accordo, ma mica poi ta nto. Non mi dispiacerebbe affatto essere uno che
ci sa fare. Se volete proprio saperlo, quando mi me tto a filare con una ragazza, metà del tempo sudo
sette camicie solo a trovare quello che cerco, Dio santo, se capite quello che voglio dire. Prendete
quella ragazza che per poco non abbiamo avuto il ra pporto sessuale, quella di cui vi ho parlato
prima. Be', mi ci è voluta un'ora solo per toglierl e quel dannato reggipetto. Quando ci sono riuscito,
lei era bell'e pronta a sputarmi in un occhio.
Ad ogni modo, continuavo a girellare per la camera, aspettando che quella prostituta si facesse viva.
Continuavo a sperare che fosse carina. Non che me n e importasse molto, però. Quello che volevo
era soltanto di arrivare in fondo a quella storia. Finalmente qualcuno bussò alla porta, e quando
andai ad aprire mi trovai la valigia proprio tra i piedi, feci un bel ruzzolone e per poco non mi rupp i
un ginocchio. Per ruzzolare sulle valige e compagni a bella scelgo sempre il momento buono.
Aprii la porta, ed ecco là quella prostituta. Porta va un tre quarti sportivo ed era senza cappello. Er a
una biondina, ma si vedeva che aveva i capelli ossi genati. Non era una vecchia racchiona, però. –
Molto lieto, – dissi. Tutto latte e miele, ragazzi.
– È lei quel tale che dice Maurice? – mi domandò. Q uanto a cordialità, non era che si sprecasse.
– L'uomo all'ascensore?
– Sí, – disse lei.
– Sí, sono io. Entri pure, vuole? – dissi. Piú anda va avanti e piú mi sentivo perfettamente calmo. Sul
serio. Lei entrò, si tolse subito il soprabito e lo buttò sul letto. Sotto aveva un vestito verde. Poi si
sedette un po' di traverso sulla sedia che stava da vanti alla scrivania e si mise a dondolare un piede
su e giú. Era molto nervosa, per essere una prostit uta. Sul serio. Forse perché era maledettamente
giovane. Doveva avere suppergiú la mia età. Io mi s edetti nella poltrona grande, vicino a lei, e le
offrii una sigaretta. – Non fumo,- disse. Aveva una vocina che pareva un pigolio. Si sentiva appena.
E non vi diceva mai grazie, quando le offrivate qua lcosa. Non sapeva dí doverlo dire, ecco tutto.
– Se permette, mi presento. Mi chiamo Jim Steele, – dissi.
– Che ce l'hai un orologio? – disse lei. Naturalmen te se ne infischiava di come mi chiamavo. – Ehi,
quanti anni hai, a proposito?
– Io? Ventidue.
– Sí, col fischio!
Era una frase buffa, quella. Una cosa proprio da ra gazzina. Da una prostituta eccetera eccetera vi
sareste aspettato “Sí, col cavolo!”, oppure “Dacci un taglio”, ma non “Sí, col fischio!”
– E tu , quanti anni hai? – le dissi.
– Quanti bastano perché non me la dai a bere, – dis se. Era proprio sveglia. – Che ce l'hai un
orologio? – mi domandò ancora, e poi si alzò e si s filò il vestito dalla testa. Certo che mi sentii
strano, quando fece cosí. Lo fece talmente all'impr ovviso e tutto quanto, voglio dire. Lo so che
quando una si alza e si sfila il vestito dalla test a si ritiene che dobbiate sentirvi tutto eccitato, ma io
neanche per ombra. Eccitazione era suppergiú l'ulti ma cosa che provavo. Mi sentivo molto piú
depresso che eccitato.
– Ce l'hai l'orologio, insomma?
– No. No, non ce l'ho, – dissi. Accidenti, come mi sentivo strano! – Come ti chiami? – le domandai.
Tutto quel che aveva addosso era la combinazione ro sa. Era molto imbarazzante. Sul serio.
– Sunny, – disse lei. – Allora, andiamo?
– Non ti andrebbe di parlare un po'? – le domandai. Era proprio una frase da ragazzino, ma mi
sentívo cosí maledettamente strano. – Hai proprio t anta fretta?
Lei mi guardò come se fossi ammattito. – E di che d iavolo vuoi parlare? – disse.
– Non lo so. Niente di speciale. Pensavo solo che f orse avevi voglia di far quattro chiacchiere.
Lei tornò a sedersi sulla sedia vicino alla scrivan ia. Però si vedeva benissimo che la faccenda non le
andava. Ricominciò a dondolare quel piede – acciden ti, era proprio una ragazza nervosa.
– Ora la vuoi una sigaretta? – dissi. Mi ero diment icato che non fumava.

46/100 – Non fumo. Senti, se vuoi parlare, sbrigati. Io ho da fare.
Ma a me non mi veniva niente da dire. Pensai di dom andarle come mai si era messa a fare la
prostituta eccetera eccetera, ma ebbi paura di doma ndarglielo. Tanto lei non me l'avrebbe detto,
probabilmente.
– Non sei di New York, vero? – le dissi infine. Fu tutto quello che riuscii a pensare.
– Dí Hollywood, – disse. Poi si alzò per andare a p rendere il vestito che aveva posato sul letto. – Ch e
ce l'hai una gruccia? Non voglio che il vestito mi si gualcisca tutto. Esce adesso dalla lavanderia.
– Ma certo, – dissi subito. Ero ben contento di alz armi e fare qualcosa. Andai all'armadio a muro e
appesi il suo vestito su una gruccia. Era buffo. Mi venne una certa tristezza, quando lo appesi.
Pensai a lei che andava in un negozio a comprarlo, e nel negozio nessuno sapeva che era una
prostituta e via dicendo. Quando lei era andata a c omprarlo, il commesso probabilmente l'aveva
presa per una ragazza come tutte le altre. Mi dava una tristezza del diavolo – non so bene perché.
Tornai a sedermi e cercai di portare avanti il dial ogo. Quanto a conversazione lei non valeva una
cicca. – Lavori tutte le notti? – le domandai, e do po che l'avevo detto mi parve una cosa spaventosa.
– Sí -. Stava girellando per tutta la stanza. Prese il menú dalla scrivania e lo lesse.
– Che fai durante il giorno?
Lei alzò un po' le spalle. Era proprio magrolina. – Dormo. Vado al cinema -. Rimise il menú sul
tavolo e mi guardò.- Andiamo, forza. Non ho mica…
– Senti, – dissi io. – Non sono molto in forma, sta sera. Ho avuto una serata balorda. Te lo giuro su
Dio. Ti pago e tutto quanto, ma ti secca molto se n on lo facciamo? Ti secca molto? – Il guaio era
che non mi andava di farlo, ecco tutto. Mi sentivo piú depresso che eccitato, se proprio volete
saperlo. Era lei , a essere deprimente. Quel suo vestito appeso nell 'armadio e tutto quanto. E del
resto, credo che non potrei mai farlo con una che se ne sta tutto il giorno in uno stupido cinema.
Credo proprio che non potrei.
Lei mi si avvicinò, con quella buffa espressione su lla faccia, come se non mi credesse. – Che ti
piglia? – disse.
– Non mi piglia niente -. Ragazzi, stavo diventando nervoso. – Il fatto è che sono stato operato da
poco.
– Sí? Dove?
– Al comesichiama… al clavicordo.
– Ah, sí? E dove diavolo sta?
– Il clavicordo? – dissi io. – Be', precisamente, s ta nella spina dorsale. Voglio dire, molto in fondo
alla spina dorsale.
– Ah sí? – disse lei. – Bella seccatura -. Poi mi s i sedette addosso, maledizione. – Sei carino.
Mi rendeva cosí nervoso che continuai a sparar ball e grosse come una casa. – Sono ancora in
convalescenza, – dissi.
– Somigli a un attore del cinema. Sai chi. Quello. Sai quale voglio dire, no? Come diavolo si
chiama?
– Non lo so, – dissi. E non voleva levarmisi di dos so, maledizione.
– Ma sí che lo sai. Stava in quel film con Melvine Douglas. Quello che faceva il fratello piú piccolo
di Melvine Douglas. Quello che cade dalla barca, no ? Sai benissimo chi voglio dire.
– No, non lo so. Vado al cinema meno che posso.
Allora cominciò a fare certi scherzetti. Spudorata e via dicendo.
– Mi fai il piacere di piantarla? – dissi. – Non mi sento in vena, te l'ho detto, no? Sono stato appen a
operato.
Lei non mi si levò di dosso, niente, ma mi diede un 'occhiata da incenerirmi. – Sta' a sentire, – disse . –
Dormivo quando quel cretino di Maurice mi ha svegli ata. Se credi che…
– Ma te l'ho detto che ti avrei pagata perché sei venuta e tutto quan to, no? Pagherò, non dubitare. I
quattrini non mi mancano. È solo che in realtà sono ancora convalescente di una gravissima…
– E perché diavolo hai detto a quel cretino di Maur ice che volevi una ragazza , allora? Se ti hanno
appena fatto un accidente di operazione a quell'acc idente del tuo comesichiama? Eh ?

47/100 – Credevo di sentirmi molto meglio. Un po' prematur o nei miei calcoli, sono stato. Non scherzo. Mi
dispiace. Se ti alzi un momento, vado a prendere il portafoglio. Dico sul serio.
Era arrabbiata come un demonio, ma finalmente mi si levò di dosso per lasciarmi andare a prendere
il portafoglio sul comò. Tirai fuori un biglietto d a cinque dollari e glielo porsi.
– Mille grazie, – le dissi. – Grazie tantissime dav vero.
– Questi sono cinque. Costa dieci.
Tirava il colpo, si capiva benissimo. Lo temevo che sarebbe successa qualcosa del genere. Sul serio.
– Maurice ha detto cinque, – le dissi. – Ha detto q uindici fino a mezzogiorno e cinque la semplice.
– Dieci la semplice.
– Lui ha detto cinque. Mi dispiace, veramente, ma n on sgancio piú di questo.
Lei alzò un po' le spalle, come aveva fatto prima, e poi disse, freddissima: – Ti secca darmi il mio
vestito? O è troppo disturbo? – Era una ragazzina c he ti gelava. Anche con quella vocetta pigolante,
riusciva a metterti addosso un po' di fifa. Fosse s tata una di quelle vecchie prostitute cavallone,
truccata come una maschera e via discorrendo, non s arebbe riuscita a gelarti in quel modo.
Andai a prenderle il vestito. Lei se lo mise eccete ra eccetera, e poi raccolse il soprabito dal letto. –
Ciao, mezza cartuccia, – disse.
– Ciao, – dissi io. Non la ringraziai né niente. E sono contento che non l'ho fatto.

XIV.

Dopo che la vecchia Sunny se n'era andata, restai p er un poco seduto nella poltrona a fumare un
paio di sigarette. Fuori faceva giorno. Ragazzi, co me mi sentivo infelíce. Mi sentivo cosí depresso
che non potete immaginarvelo. Andò a finire che mi misi a parlare ad Allie, ad alta voce o quasi.
Qualche volta lo faccio, quando sono molto giú. Con tinuo a dirgli di andare a casa a prendere la
bicicletta e di trovarsi davanti alla casa di Bobby Fallon. Bobby Fallon abitava proprio vicino a noi,
nel Maine – questo, anni fa. Ad ogni modo, successe che un giorno Bobby ed io dovevamo andare
in bicicletta al Lago Sedebego. Dovevamo portarci l a colazione e tutto quanto, e i nostri fucili ad
aria compressa – eravamo due ragazzini e via discor rendo, e credevamo di poter sparare a qualche
cosa coi nostri fucili ad aria compressa. Ad ogni m odo, Allie sentí che ne parlavamo e voleva venire
anche lui, e io non volli. Gli dissi che era un bam bino. E ogni tanto, ora, quando mi sento molto
depresso, gli dico: “D'accordo. Va' a casa a prende re la bicicletta e troviamoci davanti alla casa di
Bobby. Spicciati”. Non è mica che non lo portassi m ai con me, quando andavo in qualche posto. Al
contrario. Ma quel giorno non lo portai. Lui non si arrabbiò mica – non si arrabbiava mai di niente –
ma io continuo a pensarci, quando mi sento molto gi ú.
Però alla fine mi spogliai e mi misi a letto. Avevo voglia di pregare o qualcosa del genere, quando
fui a letto, ma non ci riuscii. Non sempre riesco a pregare quando ne ho voglia. Tanto per
cominciare, sono un po' ateo. Mi piace Gesú e tutto quanto, ma la maggior parte di tutte quelle altre
storie della Bibbia mi lasciano un po' freddo. Pren dete gli Apostoli, per esempio. Mi stanno proprio
qui, se volete saperlo. Se la cavarono benissimo do po che Gesú era morto e tutto quanto, ma finché
era vivo gli servivano suppergiú quanto un buco nel la testa. Non facevano che lasciarlo nei pasticci.
Per me, nella Bibbia, sono quasi tutti molto meglio degli Apostoli. Se proprio volete saperlo, quello
che mi piace piú di tutti nella Bibbia, dopo Gesú, è quel matto eccetera eccetera che viveva nelle
tombe e continuava a ferirsi coi sassi. Mi piace di eci volte di piú degli Apostoli, quel povero
bastardo. Quante discussioni abbiamo fatte, quando ero a Whooton, con quel ragazzo che stava in
fondo al corridoio, Arthur Childs. Il vecchio Child s era quacchero e via discorrendo, e non faceva
che leggere la Bibbia. Era un ragazzo molto simpati co e mi piaceva, ma c'erano un sacco di cose
nella Bibbia su cui non riuscivamo mai a pensarla a llo stesso modo, soprattutto gli Apostoli. Lui
continuava a dirmi che se non mi piacevano gli Apos toli allora non mi piaceva nemmeno Gesú né
niente. Diceva che siccome gli Apostoli li aveva scelti Gesú, dovevano piacerti per forza. Io dicevo
che va bene che li aveva scelti Gesú, ma che li ave va scelti a caso . Che non aveva il tempo dí

48/100 andare in giro a esaminare tutti quanti, dicevo. Ch e non c'era mica da criticarlo né niente, dicevo.
Non era mica colpa sua se non aveva tempo. Mi ricor do che domandai al vecchio Childs se Giuda,
quello che aveva tradito Cristo e via discorrendo, se secondo lui era andato all'inferno dopo che si
era ammazzato. Senz'altro, disse Childs. Questo è proprio il punto sul quale non ero d'accordo.
Dissi che avrei scommesso mille dollari che Gesú no n aveva mai mandato il vecchio Giuda
all'inferno. E ci scommetterei ancora, tra l'altro, se avessi mille dollari. Credo che ognuno degli
Apostoli l'avrebbe mandato all'inferno e tutto quan to – e alla svelta, anche – ma scommetto
qualunque cosa che Gesú non l'ha fatto. Il mio guai o, diceva il vecchio Childs, era che non andavo
in chiesa né niente. Su questo punto aveva ragione, in un certo senso. Non ci vado. Tanto per
cominciare, i miei genitori sono di religione diver sa, e in famiglia tutti noi figli siamo atei. Se
proprio volete saperlo, non posso nemmeno sopportar e i preti. Di quelli che ho visto in tutte le
scuole dove sono andato, non ce n'è uno che quando attacca il sermone non tiri fuori quella voce da
curato. Dio, quanto m'è odioso. Non capisco perché diavolo non debbano parlare con la loro voce
naturale. Hanno un tono cosí fasullo, basta che apr ano bocca.
Ad ogni modo, quando fui a letto non mi riuscí di p regare a nessun costo. Ogni volta che
cominciavo, mi tornava in mente la vecchia Sunny ch e mi chiamava mezza cartuccia. Alla fine mi
misi a sedere sul letto e fumai un'altra sigaretta. Aveva un sapore schifo. Dovevo averne fumato
almeno due pacchetti, da quando ero partito da Penc ey.
Tutt'a un tratto, mentre me ne stavo lí a fumare, b ussarono alla porta. Continuai a sperare che non
bussassero alla mia porta, ma sapevo benissimo che era proprio alla mi a porta. Come facessi a
saperlo non lo so, ma lo sapevo. E sapevo chi era, per giunta. Sono telepatico, io.
– Chi è? – dissi. Avevo una certa fifa. Sono un gra n vigliacco, in queste cose. Quelli però bussarono
un'altra volta. Piú forte. Alla fine scesi dal lett o, col pigiama soltanto, e aprii la porta. Non dove tti
nemmeno accendere la luce, perché ormai era giorno. Eccoli là, la vecchia Sunny e Maurice, il
ruffiano dell'ascensore.
– Che succede? Che cosa volete? – dissi. La voce mi tremava in modo schifo, accidenti.
– Mica molto, – disse il vecchio Maurice. – Solo ci nque dollari -. Faceva da portavoce. La vecchia
Sunny se ne stava là ferma vicino a lui, con la boc ca aperta eccetera eccetera.
– L'ho già pagata. Le ho dato cinque dollari. Lo do mandi a lei, – dissi. Ragazzi, se mi tremava la
voce!
– Fa dieci dollari, capo. Gliel'avevo detto. Dieci dollari per la semplice, quindici dollari fino a
mezzogiorno. Gliel'avevo detto.
– Non ha detto cosí. Ha detto cinque dollari per la semplice. Ha detto quindici dollari fino a
mezzogiorno, questo sí, ma ho sentito benissimo che …
– Sgancia, capo.
– Ma perché ? – dissi. Dio, avevo il cuore talmente su di giri che per poco non mi sbatteva nel
corridoio. Almeno fossi stato vestito. È tremendo s tare in pigiama quando succede una cosa come
quella.
– Forza, capo, – disse il vecchio Maurice. Poi mi d iede uno spintone con quella sua manaccia lurida.
Per poco non andai a finire col didietro per terra – era un pezzo di marcantonio, quel figlio di
puttana. E subito dopo, ecco che lui e la vecchia S unny erano tutt'e due nella mia stanza. Facevano
come se i padroni di quella maledetta stanza fosser o loro. La vecchia Sunny si sedette sul davanzale
della finestra. Il vecchio Maurice si sedette nella poltrona grande e si sbottonò il colletto e via
dicendo – portava l'uniforme di lift. Ragazzi , se ero nervoso.
– Benissimo, capo, scuci. Devo tornare al lavoro.
– Gliel'ho detto una dozzina di volte. Non devo piú un soldo. Ho già dato a lei i cinque…
– Dacci un taglio, adesso. Scuci.
– Perché dovrei darle ancora cinque dollari? – diss i. La voce mi faceva cilecca a tutto spiano. – Stat e
cercando di ricattarmi.

49/100 Il vecchio Maurice si sbottonò tutta quanta la giac ca dell'uniforme. Sotto aveva soltanto un finto
colletto di camicia senza camicia né niente. Lo sto maco gli sporgeva grosso e peloso. – Nessuno
cerca di ricattare nessuno, – disse. – Scuci, capo.
– No .
Quando dissi cosí, lui si alzò dalla poltrona e ven ne verso di me e tutto quanto. Aveva un'aria come
se fosse stanco morto, o annoiato a morte. Dio, com 'ero spaventato! Stavo là con le braccia
conserte, mi ricordo. Magari sarebbe stato meglio s e fossi stato vestito, non cosí solo con quel
maledetto pigiama.
– Scuci, capo -. Venne dritto a piantarmisi davanti . Non sapeva dire altro. – Scuci, capo -. Era un
vero stronzo.
– No .
– Capo, qui finisce che mi costringi a darti una le zione. Non che ne abbia voglia, ma l'aria è questa,
– disse. – Ci devi cinque dollari.
– Io non vi devo cinque dollari, – dissi. – Provati a darmi una lezione e strillo come un dannato.
Sveglio tutto l'albergo. La polizia e tutto quanto -. La voce mi tremava d'accidente.
– Forza. Strilla da farti scoppiare quei maledetti polmoni. Carina, questa, – disse il vecchio Maurice .
– Vuoi far sapere ai tuoi genitori che hai passato la notte con una puttana? Un ragazzino sciscí come
te? – Tutt'altro che scemo, nel suo lercio modo. Da vvero.
– Lasciami in pace. Se avessi detto dieci, e va bene. Ma hai chiaramente…
– Ti decidi a scucire? – Mi aveva ridotto contro qu ella maledetta porta. Mi stava quasi addosso, con
quel suo sconcio stomaco peloso e tutto quanto.
– Lasciami in pace. E levati dai piedi, – dissi. Av evo ancora le braccia conserte e via discorrendo.
Dio, quant'ero cretino!
Allora Sunny aprí la bocca per la prima volta. – Eh i, Maurice. Vuoi che prenda il suo portafoglio? –
disse. – Sta proprio su quel comesichiama.
– Sí, prendilo.
– Non toccare il mio portafoglio!
– L'ho già toccato, – disse Sunny. Mi sventolò dava nti al naso un biglietto da cinque. – Visto? Prendo
solo i cinque che mi devi. Non sono mica una ladra, io.
E di colpo mi misi a piangere. Darei non so che cos a per non averlo fatto, ma piangevo. – No, non
siete ladri, – dissi. – State solo rubando cinque.. .
– Chiudi il becco, – disse il vecchio Maurice, e mi diede una spinta.
– Lascialo perdere, via, – disse Sunny. – Vieni, co raggio. Abbiamo i quattrini che ci doveva.
Andiamo. Vieni, coraggio.
– Adesso vengo, – disse il vecchio Maurice. Ma non si mosse.
– Dico sul serio, Maurice, avanti. Lascialo perdere .
– E chi gli fa niente? – disse lui, tutto candore e innocenza.
E poi, di colpo, mi affibbiò con le dita una schioc cata tremenda sul pigiama. Dove , non ve lo dico,
ma mi fece un male del diavolo. Io gli dissi che er a un maledetto lurido stronzo. – Come come? –
disse lui. Sí mise la mano a conca dietro l'orecchi o, come fanno i sordi. – Come come? Cosa sono?
Io stavo ancora un po' piangendo. Ero cosí maledett amente infuriato e nervoso eccetera eccetera. –
Un lurido stronzo,- dissi. – Uno stupido stronzo ri cattatore, e tra un paio d'anni finirai come quei
morti di fame che per la strada ti vengono a chiede re quattro soldi per il caffè. Avrai il tuo lercio
cappotto tutto sporco di moccio e sarai…
Allora lui me l'appioppò. Io non tentai nemmeno di schivarlo né di buttarmi giú a tuffo, niente.
Sentii soltanto quel pugno tremendo nello stomaco.
Non persi i sensi, niente, perché mi ricordo che gu ardai su dal pavimento e li vidi tutt'e due che
uscivano e chiudevano la porta. Allora me ne restai sul pavimento per un pezzo, un po' come avevo
fatto con Stradlater. Solo che questa volta pensai di star per morire. Lo pensai davvero. Mi pareva
che stavo affogando o qualcosa del genere. Il guaio era che potevo a stento respirare. Quando

50/100 finalmente mi alzai, dovetti andare fino al bagno p iegato in due e reggendomi lo stomaco e tutto
quanto.
Ma io sono pazzo. Giuro su Dio che sono pazzo. A me tà strada, cominciai a far finta che avevo una
pallottola nel ventre. Il vecchio Maurice mi aveva impiombato. Adesso andavo in bagno a scolarmi
una bella dose di whisky o che so io per calmarmi i nervi e mettermi in grado di entrare veramente
in azione. Mi vidi che uscivo da quella maledetta s tanza da bagno, vestito e tutto quanto, con la
rivoltella in tasca, e un po' barcollante. Poi scen devo giú per le scale, invece di prendere l'ascenso re.
Mi reggevo alla ringhiera e tutto quanto, con quel rivoletto di sangue che pian piano mi gocciolava
giú dall'angolo della bocca. Continuava che scendev o qualche piano – tenendomi il ventre, col
sangue che mi sgorgava da tutte le parti – e poi pr emevo il bottone dell'ascensore. Appena il vecchio
Maurice apriva la porta, mi vedeva con la rivoltell a in pugno e cominciava a strillare, con quella
voce acutissima da vigliacco, di risparmiarlo. Ma i o lo impiombavo lo stesso. Sei pallottole piazzate
in quel suo pancione peloso. Poi buttavo la rivolte lla nella tromba dell'ascensore – dopo averne
cancellato le impronte digitali e tutto quanto. Poi tornavo arrancando in camera mia, telefonavo a
Jane e la facevo venire a fasciarmi le budella. Me la figuravo che mi faceva fumare tenendo lei la
sigaretta, mentre io sanguinavo eccetera eccetera.
Quei maledetti film. Roba da rovinarvi. Senza scher zi.
Restai nella stanza da bagno per circa un'ora, pren dendo il bagno e via discorrendo. Poi tornai a
letto. Mi ci volle del bello e del buono per addorm entarmi – non ero nemmeno stanco- ma alla fine
mi addormentai. In realtà, però, avevo voglia di su icidarmi. Mi sarei buttato dalla finestra.
Probabilmente l'avrei anche fatto, se fossi stato s icuro che qualcuno mi avrebbe coperto appena
toccavo terra. Non mi andava che un mucchio di ficc anaso stessero lí a guardarmi tutto sporco di
sangue.

XV.

Non dormii molto, perché credo che fossero soltanto le dieci quando mi svegliai. Appena fumata
una sigaretta sentii una gran fame. Non avevo piú m angiato niente dopo quei due hamburger con
Brossard e Ackley quando eravamo andati ad Agerstow n per vedere un film. Era passato un sacco
di tempo. Parevano cinquant'anni. Avevo il telefono vicino e stavo per chiamare perché mi
mandassero su la colazione, ma avevo una certa paur a che me la portasse il vecchio Maurice. Se
pensate che morissi dalla voglia di rivederlo, vi s bagliate. Sicché me ne rimasi sdraiato nel letto pe r
un po' e fumai un'altra sigaretta.
Pensai di fare una telefonata a Jane per sentire se era già a casa e tutto quanto, ma non mi sentivo i n
vena. Andò a finire che la telefonata la feci alla vecchia Sally Hayes. Lei andava al Mary A.
Woodruff, e sapevo che era a casa perché avevo rice vuto quella sua lettera un paio di settimane
prima. Non è che ci facessi una passione, ma la con oscevo da anni. Un tempo, nella mia idiozia,
credevo che fosse intelligentissima. Tutto perché s apeva un sacco di cose sul teatro e le commedie e
la letteratura e compagnia bella. Se uno in quel ca mpo sa un sacco di cose, vi ci vuole parecchio per
capire se è stupido o no. A me, con la vecchia Sall y, c'erano voluti anni per capirlo. Credo che
l'avrei capito molto prima se non avessimo filato c he era un piacere. Il mio gran guaio è che se filo
con una ragazza credo sempre che sia una persona pi uttosto intelligente. Non c'entra un accidente di
niente, ma io lo penso lo stesso.
Ad ogni modo, le feci una telefonata. Prima rispose la cameriera. Poi il padre. Poi venne lei. –
Sally? – dissi io.
– Sí, chi parla? – disse lei. Era proprio una sbruf fona. Avevo già detto a suo padre chi ero.
– Holden Caulfield. Come va?
– Holden! Io sto bene! E tu come stai?
– Benone. Sta' a sentire. Come va, allora? Come va la scuola, voglio dire?
– Bene. Insomma… be', lo sai.

51/100 – Benone. Be', sta' a sentire. Volevo sapere se ogg i hai da fare. È domenica, ma ci sono sempre una
o due matinée, la domenica. Per beneficenza e compa gnia bella. Ti va?
– Eccome. Eccezionale.
Eccezionale . Se c'è una parola che odio è eccezionale. È talme nte fasulla. Per un attimo fui tentato
di dirle di lasciar perdere la matinée. Ma ci mette mmo a contarcela. O meglio, era lei che la
contava. Bravo chi riusciva a dire mezza parola di straforo. Prima mi raccontò di un tale di Harvard
– doveva essere una matricola, ma lei non lo disse, naturalmente – che le faceva una corte spietata.
Le telefonava notte e giorno . Notte e giorno – mi lasciò secco. Poi mi raccontò di un altro tale, un
cadetto di West Point, che anche lui si stava strug gendo per lei. Non ti dico. Io le dissi d'incontrar ci
alle due sotto l'orologio del Biltmore, e di non ar rivare tardi perché lo spettacolo probabilmente
cominciava alle due e mezzo. Lei arrivava sempre ta rdi. Poi attaccai. Mi rompeva le scatole, ma
carina era carina.
Dopo che avevo preso appuntamento con la vecchia Sa lly, mi vestii e feci la valigia. Prima di
lasciare la stanza, però, diedi uno sguardo dalla f inestra per vedere come se la passavano tutti quei
pervertiti, ma le persiane erano tutte chiuse. Di m attina erano campioni di pudore. Allora scesi con
l'ascensore e me ne andai. Non vidi in giro il vecc hio Maurice. Naturalmente non mi precipitai a
cercarlo, quel bastardo.
Uscii dall'albergo e presi un tassí, ma non avevo l a piú pallida idea di dove sarei andato, accidenti.
Non avevo nessun posto dove andare. Era soltanto do menica, e non potevo andare a casa fino a
mercoledí – martedí, al piú presto. E non avevo pro prio voglia di andare in un altro albergo a farmi
fregare il peculio. Cosí andò a finire che dissi al l'autista di portarmi alla stazione centrale. Era
proprio vicino al Biltmore, dove piú tardi dovevo i ncontrarmi con Sally, e mi feci un bel
programma: avrei lasciato le valige in una di quell e cassette di cui ti danno la chiave, e poi avrei
mangiato qualcosa. Avevo una discreta fame. Nel tas sí, tirai fuori il portafoglio e guardai quanti
soldi avevo. Non ricordo esattamente quanto mi era rimasto, ma non era davvero una gran somma.
Roba da pagarci il riscatto di un re, con quello ch e avevo speso in due schife settimane. Sul serio.
Sono nato con le mani bucate. Quello che non spendo , lo perdo. Cinque volte su dieci, nei ristoranti
e nei night club, mi dimentico perfino di prendere il resto e via discorrendo. I miei ci si arrabbiano
come dannati. Non hanno mica tutti i torti. Mio pad re è molto ricco, però. Quanto si faccia all'anno
non lo so – con me non parla mai di queste cose – m a immagino parecchio. È avvocato aziendale.
Quella è gente che fa quattrini a palate. So che è ben piazzato anche per un altro motivo, perché non
fa che finanziare spettacoli a Broadway. Sono sempr e dei fiaschi solenni, però, e quando lui li
finanzia mia madre va su tutte le furie. Non è piú stata molto bene dopo che è morto mio fratello
Allie. È molto nervosa. Un'altra delle ragioni per cui odiavo l'idea di farle sapere che mi avevano
buttato di nuovo fuori.
Dopo aver messo le valige in una di quelle cassette alla stazione, andai a quella piccola tavola calda
e feci colazione. Una colazione abbondantissima, pe r me – succo d'arancia, uova al prosciutto, pane
tostato e caffè. Di solito bevo soltanto succo d'ar ancia. Mangio molto poco. Sul serio. Ecco perché
sono magro come un chiodo. Avrei dovuto fare quella dieta nella quale si mangiano un sacco di
amidi e altre porcherie del genere, per ingrassare e via dicendo, ma io non l'avevo mai fatta. Quando
mangio fuori, di solito prendo soltanto un panino a l formaggio e latte al malto. Non è un gran che,
ma nel latte al malto ci sono un sacco di vitamine. H. V. Caulfield. Holden Vitamina Caulfield.
Mentre mangiavo le mie uova, entrarono quelle due s uore con le valige e compagnia bella –
dovevano andare in un altro convento o qualcosa del genere, mi immaginai, e stavano aspettando il
treno – e si sedettero al banco vicino a me. Pareva che non sapessero cosa diavolo fare delle valige,
e allora gli diedi una mano. Erano di quelle valige che si vede che costano poco – quelle non di vero
cuoio né niente. Non è importante e lo so, ma mi ri esce insopportabile quando qualcuno ha delle
valige da poco prezzo. È terribile dirlo, ma solo a guardarle posso perfino arrivare a odiare
qualcuno, se si porta dietro valige da poco prezzo. Una volta è successo. Quando ero a Elkton Hills,
per un certo tempo sono stato nella stessa stanza c on quel ragazzo, Dick Slagle, che aveva questo
tipo di valige molto a buon mercato. Le teneva sott o il letto, invece che sullo scaffale apposta, cosí

52/100 nessuno le vedeva vicino alle mie. Era una cosa che mi deprimeva da morire, e avevo una voglia
matta di scaraventare fuori le mie, magari, o di fa re a cambio con lui. Le mie erano state comprate
da Mark Cross, era vacchetta autentica e via discor rendo, e credo che costassero un occhio della
testa. Ma è stata una cosa buffa. Successe questo. Andò che alla fine io tolsi le mie valige dallo
scaffale e le misi sotto al mio letto, di modo che al vecchio Slagle non gli venis se un maledetto
complesso d'inferiorità. Ma ecco quello che fece lu i. Il giorno dopo che le avevo messe sotto il letto ,
lui le tirò fuori e le rimise sullo scaffale – perc hé voleva che la gente pensasse che erano sue. Sul
serio. Era un tipo molto buffo, in questo. Per esem pio, ne parlava sempre con degnazione, delle mie
valige, voglio dire. Continuava a dire che erano tr oppo nuove e borghesi. Questa era la sua parola
preferita, accidenti. L'aveva letta chi sa dove o s entita chi sa dove. Tutto quello che avevo io era
maledettamente borghese. Perfino la mia penna stilo grafica era borghese. Se la faceva prestare tutti
i momenti, ma era borghese lo stesso. Abbiamo avuto la stanza insieme soltanto per un paio di mesi.
Poi abbiamo chiesto tutt'e due di cambiare. E il bu ffo è che ho sentito un po' la sua mancanza,
quando abbiamo cambiato, perché aveva un enorme sen so dell'umorismo e certe volte ci
divertivamo un mondo. Non mi meraviglierei che anch e lui avesse sentito la mia mancanza. In
principio scherzava soltanto, quando diceva che la mia roba era borghese, e a me non mi faceva un
baffo – in realtà, era perfino divertente. Poi, dop o un po', era chiaro che non scherzava piú. Fatto s ta
che è veramente difficile dividere la stanza con qu alcuno, se le vostre valige sono molto migliori
delle sue, se le vostre sono proprio belle e le sue no. Voi pensate che se uno è intelligente e ha sen so
dell'umorismo e via discorrendo – l'altro, dico – n on dovrebbe importargliene proprio niente se le
valige piú belle sono le sue o le vostre, e invece gliene importa. E molto. Questa è una delle ragioni
per cui stavo nella stessa camera con uno stupido b astardo come Stradlater. Almeno le sue valige
valevano quanto le mie.
Ad ogni modo, quelle due suore stavano sedute vicin o a me e cosí attaccammo una specie di
conversazione. Quella vicina a me aveva uno di quei cestini di paglia che sotto Natale vedete in
mano alle suore e alle beghine dell'Esercito della Salvezza quando vanno in giro a raccogliere le
offerte. Le si vedono ferme sui cantoni, specialmen te nella Quinta Avenue, davanti ai grandi
magazzini e compagnia bella. Ad ogni modo, alla suo ra che stava vicino a me le cadde di mano, e io
mi chinai a raccoglierlo. Le domandai se stesse and ando a far la questua per qualche opera di carità
o che so io. Lei disse di no. Disse che non era riu scita a farlo stare nella valigia, quando l'aveva
preparata, e allora lo portava in mano. Aveva un so rriso tanto gentile quando vi guardava. Aveva un
gran naso, e portava quegli occhiali con quella spe cie di montatura di metallo che non è che stia
tanto bene, ma aveva un viso gentile da morire.
– Avevo pensato che se faceva la questua, – le diss i, – potevo fare una piccola offerta. Potrebbe
tenere il denaro per quando fa la questua.
– Oh, lei è molto buono, – disse, e l'altra, la sua amica, si sporse a guardarmi. L'altra stava leggen do
un libriccino nero, mentre prendeva il caffè. Parev a una Bibbia, ma era troppo piccolo. Era un libro
tipo Bibbia, però. Per tutta colazione, non prendev ano che pane tostato e caffè. Questo mi depresse.
È una cosa che non posso soffrire, se uno prende so lo pane tostato e caffè mentre io sto mangiando
uova al prosciutto o che so io.
Mi lasciarono fare un'offerta di dieci dollari. Non la finivano piú di domandarmi se ero sicuro di
potermelo permettere e via discorrendo. Io gli diss i che avevo un sacco di soldi, ma ebbi
l'impressione che non ci credessero. Però li preser o, alla fine. Tra tutt'e due non la finivano piú di
ringraziarmi, al punto che mi sentii imbarazzato. P ortai la conversazione su argomenti piú generali e
domandai dove stessero andando. Mi dissero che inse gnavano, che erano appena arrivate da
Chicago e che dovevano andare a insegnare in un con vento non so bene se nella I68ma o nella
I86ma Strada o in una di quelle strade a casa del d iavolo. Quella vicina a me, quella con gli occhiali
dalla montatura di metallo, mi disse che lei insegn ava inglese e la sua compagna Storia e Istituzioni
americane. Allora, da vero bastardo, mi venne da do mandarmi che cosa pensasse quella che stava
seduta vicino a me, quella che insegnava inglese, q uando leggeva certi libri che si studiavano a
scuola, visto che era una suora eccetera eccetera. Magari non proprio libri pieni di cose sessuali, ma

53/100 libri che parlavano di innamorati e via discorrendo . Prendete la vecchia Eustacia Vye, nel Ritorno
dell'Indigeno di Thomas Hardy. Non è che sia troppo erotica né n iente, ma uno non può fare a meno
di domandarsi cosa può pensare una suora quando leg ge della vecchia Eustacia. Naturalmente però
non dissi niente. Dissi soltanto che l'inglese era la mia materia preferita.
– Oh, davvero? Oh, quanto mi fa piacere! – disse qu ella con gli occhiali che insegnava inglese. – Che
cosa ha studiato quest'anno? Mi interessa molto -. Era proprio simpatica.
– Be', abbiamo fatto soprattutto i Sassoni, Beowulf , e il vecchio Grendel, e Lord Randal figlio mio e
tutta quella roba là. Ma ogni tanto dovevamo legger e altri libri complementari per avere punti di
merito. Io ho letto Il ritorno dell'Indigeno di Thomas Hardy, e Romeo e Giulietta e Giulio …
– Oh, Romeo e Giulietta ! Incantevole! Non l'ha trovato bellissimo? – Non p areva proprio una suora,
a sentirla.
– Sí. Mi è piaciuto molto. C'è qualche cosetta che non mi è piaciuta, ma è molto trascinante,
nell'insieme.
– Cos'è che non le è piaciuto? Riesce a ricordarlo?
A dir la verità, era un po' imbarazzante, in un cer to senso, star lí a parlare con lei di Romeo e
Giulietta. Voglio dire che quel dramma diventa abba stanza sessuale, in certi punti, e lei era una
suora e via discorrendo, ma visto che me l'aveva do mandato lei, per un po' ne discutemmo. – Be',
Romeo e Giulietta non è che mi entusiasmino molto, – dissi. – O megl io, mi piacciono, ma… non so.
Diventano un po' barbosi, ogni tanto. Voglio dire, mi è dispiaciuto molto di piú quando hanno
ammazzato il vecchio Mercuzio che quando sono morti Romeo e Giulietta. Il fatto è che Romeo
non mi piace molto, dopo che Mercuzio si fa pugnala re da quell'altro, il cugino di Giulietta… come
si chiama?
– Tebaldo.
– Proprio lui, – dissi; mi dimentico sempre come si chiama.
– La colpa era di Romeo. Voglio dire, mi piaceva pi ú di tutti quanti, il vecchio Mercuzio. Non so.
Tutti quei Montecchi e Capuleti, sono tutti in gamb a, specialmente Giulietta, ma Mercuzio era… è
difficile da spiegare. Era cosí un dritto e diverte nte e tutto quanto. Il fatto è che perdo le staffe se
uno si fa ammazzare e la colpa è di un altro, speci e poi se uno è dritto e divertente e tutto quanto.
Romeo e Giulietta almeno era colpa loro.
– A che scuola va, caro? – mi domandò lei. Probabil mente voleva lasciar perdere Romeo e Giulietta.
Le dissi a Pencey, e lei ne aveva sentito parlare. Disse che era un'ottima scuola. Io però non feci
commenti. Allora l'altra, quella che insegnava stor ia e istituzioni, disse che avrebbero fatto meglio
ad affrettarsi. Io presi il loro conto, ma loro non vollero che pagassi io. Quella con gli occhiali se lo
fece ridare.
– Lei è stato piú che generoso, – disse. – È un car issimo ragazzo -. Era proprio gentile. Mi ricordava
un pochino la madre del vecchio Ernest Morrow, quel la che avevo incontrato in treno. Quando
sorrideva, soprattutto. – È stato un vero piacere p arlare con lei, – disse.
Dissi che anche per me era stato un grande piacere parlare con loro. Ed era vero, tra parentesi. Però
lo sarebbe stato molto di piú, pensai, se per tutto il tempo non avessi avuto una certa paura che tutt 'a
un tratto cercassero di appurare se ero cattolico. I cattolici cercano sempre di appurare se siete
cattolico anche voi. So che a me questo succede in continuazione perché ho un cognome irlandese,
e quasi tutte le persone di origine irlandese sono cattoliche. Sta di fatto che mio padre era cattolic o,
un tempo. Ma lasciò il cattolicesimo quando sposò m ia madre. Ma i cattolici cercano sempre di
appurare se siete cattolico anche se non sanno come vi chiamate. Conobbi quel ragazzo cattolico,
Louis Gorman, quando stava a Whooton. Fu il primo r agazzo che conobbi lí. Stavamo seduti tutti e
due sulle sedie proprio vicino all'entrata di quell a maledetta infermeria, il primo giorno di scuola, e
aspettavamo i nostri certificati medici, e attaccam mo una specie di conversazione sul tennis. A lui
piaceva moltissimo il tennis e a me pure. Mi disse che tutte le estati andava a vedere le Nazionali a
Forest Hills, e io gli dissi che ci andavo anch'io, e poi per un pezzo parlammo di certi campioni. Era
uno che se ne intendeva parecchio, per la sua età. Sul serio. Poi, dopo un poco, proprio mentre
stavamo facendo quella maledetta chiacchierata, ecc o che mi domanda: “Di' un po', ti è capitato di

54/100 vedere dov'è in città la chiesa cattolica, per caso ?” Il fatto è che dal modo come me l'aveva
domandato si capiva benissimo che stava cercando di appurare se ero cattolico. Dico davvero. Non
che avesse dei pregiudizi, niente di simile; voleva solo saperlo. Gli stavano piacendo i nostri
discorsi sul tennis, ma si capiva benissimo che gli sarebbero piaciuti di piú se io fossi stato cattolico
e via discorrendo. Queste sono le cose che mi fanno perdere le staffe. Non dico che questo rovinò la
nostra conversazione, o qualcosa del genere – non l a rovinò affatto – ma è garantito che non la
migliorò di certo. Ecco perché ero contento che que lle due suore non mi avessero domandato se ero
cattolico. Non che ne sarebbe stata sciupata la nos tra conversazione, ma sarebbe stato diverso,
probabilmente. Non sto dicendo che critico i cattol ici. Non li critico. Sarei cosí anch'io,
probabilmente, se fossi cattolico. E proprio come q uella storia delle valige che vi ho raccontata
prima, in un certo senso. Dico soltanto che non mig liora una simpatica conversazione. Soltanto
questo. Quando quelle due suore si alzarono per and arsene, io feci una cosa molto stupida e
imbarazzante. Stavo fumando una sigaretta, e quando mi alzai per salutarle gli soffiai per sbaglio un
po' di fumo in faccia. Non volevo farlo, ma success e. Non finivo piú di scusarmi, e loro furono
molto educate e gentili, però fu molto imbarazzante lo stesso.
Dopo che se n'erano andate, cominciai a pentirmi d' aver dato soltanto dieci dollari per la questua.
Ma il fatto è che avevo quell'appuntamento per anda re a una matinée con la vecchia Sally, e mi
occorrevano un po' di soldi per i biglietti e tutto quanto. Ero pentito lo stesso, però. Accidenti ai
quattrini. Finiscono sempre col darvi una malinconi a del diavolo.

XVI

Quando finii di far colazione era mezzogiorno appen a, e io dovevo vedere la vecchia Sally soltanto
alle due, sicché mi misi a darci dentro a camminare . Non riuscivo a togliermi di mente quelle due
suore. Continuavo a pensare a quel vecchio cestino di paglia scassato col quale se ne andavano in
giro a far la questua quando non facevano scuola. C ercavo di figurarmi mia madre o qualcun altro,
mia zia, o quella matta della madre di Sally Hayes, ferme davanti a un magazzino a far la questua
per i poveri con un vecchio cestino di paglia scass ato. Era difficile figurarsele. Non tanto mia
madre, ma quelle altre due. Mia zia è molto caritat evole – lavora moltissimo per la Croce Rossa e
compagnia bella – ma è molto elegante e via dicendo , e quando fa le opere di carità è sempre molto
ben vestita, col rossetto sulle labbra e tutte quel le porcherie. Non riuscívo a figurarmela a fare
un'opera di carità se avesse dovuto vestirsi di ner o da capo a piedi e non mettersi il rossetto. E la
madre della vecchia Sally Hayes. Cristo. Quella lí potrebbe andarsene in giro a far la questua con
un cestino solo a patto che nel dare l'offerta tutt i quanti le leccassero gli stivali. Se si limitasse ro a
lasciar cadere i soldi nel cestino e poi se ne anda ssero senza dirle una parola, ignorandola e tutto
quanto, lei pianterebbe baracca e burattini in meno di un'ora. Si sbarberebbe. Darebbe indietro il
cestino e poi andrebbe a far colazione in qualche p osto chic. Ecco che cosa mi piaceva in quelle due
suore. Tanto per cominciare, si vedeva benissimo ch e non erano mai andate a far colazione in un
posto chic. E quel loro non andar mai a far colazio ne in un posto chic né niente, che tristezza
d'inferno mi venne quando ci pensai. Lo sapevo beni ssimo che non era importante, ma mi venne
una gran tristezza lo stesso.
Presi a camminare verso Broadway, tanto per fare un a cosa, perché non ci andavo da anni. Inoltre,
volevo trovare un negozio di dischi aperto anche la domenica. C'era un disco che volevo regalare a
Phoebe, quello intitolato Little Shirley Beans . Era difficile trovarlo. Parlava di una ragazzina che
non voleva uscire di casa perché le erano caduti du e incisivi e si vergognava. L'avevo sentito a
Pencey. Ce l'aveva un ragazzo che stava nell'ala vi cino alla mia, e io avevo cercato di comprarlo a
lui perché sapevo che la vecchia Phoebe sarebbe rim asta senza fiato a sentirlo, ma lui non aveva
voluto vendermelo. È un disco vecchissimo, fantasti co, che Estelle Fletchér, quella cantante negra,
ha inciso che sarà una ventina d'anni. Fa molto Dix ieland e bordello, come lo canta, e non è affatto
sdolcinato. Se lo cantasse una bianca lo renderebbe maledettamente piacevole, ma la vecchia Estelle

55/100 Fletcher sapeva il fatto suo e quello era uno dei d ischi piú belli che avessi sentito in vita mia. Pen sai
di comprarlo in qualche negozio che fosse aperto la domenica e poi di portarmelo al parco. Era
domenica, e Phoebe di domenica va spessissimo a pat tinare al parco. E io sapevo i posti dove
bazzicava di piú.
Non c'era freddo come il giorno prima, ma il sole e ra ancora coperto e non era molto divertente
andare a passeggio. Ma una cosa divertente la trova i. Proprio davanti a me camminava quella
famiglia che si capiva benissimo che era appena usc ita da qualche chiesa – il padre, la madre e un
ragazzino che avrà avuto sei anni. Sembravano pover a gente. Il padre aveva uno di quei cappelli
grigio perla che portano sempre i poveracci quando vogliono sembrare tipi in gamba. Lui e la
moglie continuavano a camminare chiacchierando, sen za badare per niente al bambino. Il bambino
era un gran tipo. Camminava per la strada anziché s ul marciapiede, ma proprio sul margine. Stava
facendo finta di camminare lungo una linea molto dr itta, come fanno i bambini, e intanto
continuava a cantare o a canticchiare. Io mi avvici nai un poco per sentire che cosa cantava. Cantava
quella canzone: “Se scendi tra i campi di segale, e ti prende al volo qualcuno”. E aveva anche una
bella vocetta. Cantava cosí tanto per fare, si capi sce. Le macchine rombavano giú, i freni stridevano
da tutti i lati, i genitori nemmeno lo guardavano, e lui continuava a camminare lungo il marciapiede
cantando “Se scendi tra i campi di segale e ti pren de al volo qualcuno”. Mi fece sentire meglio. Non
mi fece sentire piú cosí depresso.
A Broadway non ci si capiva piú niente dalla gente che c'era. Era domenica ed era appena
mezzogiorno, ma c'era pieno lo stesso. Stavano anda ndo tutti al cinema – al Paramount, all'Astor,
allo Strand, al Capitol o in un'altra di quelle gab bie di matti. Erano tutti in ghingheri perché era
domenica e questo peggiorava le cose. Ma il peggio era che si capiva benissimo che volevano
andare al cinema. Non ce la facevo a guardarli. Pos so capire che uno vada al cinema perché non ha
nient'altro da fare, ma quando uno vuole proprio andarci e si affretta perfino per arrivare prima,
questo mi riduce proprio a terra. Specie se vedo mi lioni di persone impalate in una dí quelle
tremende file
lunghe quanto tutto l'isolato, che aspettano con un a pazienza atroce di trovar posto e via
discorrendo. Ragazzi, non sarei uscito mai abbastan za alla svelta da quella maledetta Broadway. Mi
andò bene. Trovai un disco di Little Shirley Beans nel primo negozio dove entrai. Me lo fecero
pagare cinque dollari, visto che era una rarità, ma non me ne importava niente. Ragazzi, mi sentii
cosí felice, tutt'a un tratto. Morivo dalla voglia di andare al parco a vedere se c'era la vecchia
Phoebe per darglielo.
Quando uscii dal negozio di dischi passai davanti a quella drogheria ed entrai. Pensavo che magari
potevo fare una telefonata alla vecchia Jane per ve dere se era già a casa per le vacanze. Sicché
entrai in una cabina e la chiamai. Il guaio fu che rispose al telefono sua madre, e cosí dovetti
riattaccare. Non me la sentivo proprio di farmi int rappolare in una lunga chiacchierata con lei e via
dicendo. Parlare al telefono con le madri delle rag azze non è mai stata la mia passione. Avrei
dovuto almeno domandarle se Jane era già arrivata, però. Non sarei morto per questo. Ma non me la
sentivo proprio. Bisogna essere in vena, per questo genere di cose.
Dovevo ancora prendere quei dannati biglietti per i l teatro, cosí comprai un giornale e guardai cosa
davano. Visto che era domenica, c'erano sí e no tre spettacoli. Allora finí che andai a prendere due
biglietti per Conosco il mio amore . Era uno spettacolo di beneficenza o qualcosa del genere. Io non
ci tenevo molto a vederlo, ma sapevo che non appena le avessi detto che avevo quei biglietti, la
vecchia Sally, la piú balorda di tutte le balorde s bruffone, se ne sarebbe andata in sollucchero
perché ci recitavano i Lunt e compagnia bella. A le i piacevano le commedie che hanno fama
d'essere molto intellettuali e difficili e via disc orrendo, coi Lunt e via discorrendo. A me no. A me
non piace molto il teatro, se volete proprio saperl o. Sempre meglio che il cinema, ma non vedo che
cosa ci sia da andarsene in visibilio. Tanto per co minciare, detesto gli attori. Non sono mai naturali
com'è la gente normale. Credono soltanto di esserlo . Alcuni dei bravi lo sono, in modo molto
approssimativo, ma non è che faccia piacere guardar li. E se un attore è veramente bravo, si vede
lontano un miglio che sa di essere bravo, e questo rovina tutto. Prendete Sir Laurence Olivier, per

56/100 esempio. Io l'ho visto in Amleto . D. B. l'anno scorso ha portato me e Phoebe a vede rlo. Prima ci ha
invitati a pranzo, poi ci ha portati là. Lui l'avev a già visto, e da come ne aveva parlato a pranzo
morivo dalla voglia di vederlo anch'io. Ma non mi è piaciuto molto. E che proprio non vedo
cos'abbia di tanto straordinario Sir Laurence Olivi er, ecco tutto. Ha una voce fantastica e accidenti
se è bello, ed è un piacere guardarlo quando cammin a o duella o fa cose del genere, ma non era
affatto come doveva essere Amleto secondo quello ch e ne aveva detto D. B. Sembrava un accidente
di generale, altro che un triste individuo svitato. Il punto migliore di tutto il film è quando il fra tello
della vecchia Ofelia – quello che proprio alla fine Amleto fa fuori in duello – stava per partire e su o
padre gli dava un sacco di consigli. Mentre il padr e non la finiva piú di dargli consigli, la vecchia
Ofelia continuava a scherzare col fratello, e gli t irava fuori il pugnale dal fodero, e lo stuzzicava, e
intanto lui faceva di tutto per sembrare attento al le scemenze che il padre seguitava a propinargli.
Era una scena divertente. Io me ne sono andato in s ollucchero. Ma non vi capita spesso di vedere
cose cosí. Alla vecchia Phoebe è piaciuta soltanto una cosa, quando Amleto si è messo ad
accarezzare la testa di quel cane. Ha trovato che e ra divertente e carino, e infatti. Va a finire che
dovrò leggere il dramma. Il mio guaio è che devo se mpre leggere quelle cose da solo. Se le recita un
attore non sto nemmeno a sentirlo. Ho un chiodo fis so: se farà da un momento all'altro qualche
gigionata.
Dopo aver preso i biglietti per lo spettacolo dei L unt, andai in tassí fino al parco. Avrei dovuto
prendere la metropolitana o qualcosa del genere, pe rché quanto a soldi mi stavo riducendo un po' a
secco, ma volevo filarmela a tutta velocità da quel la maledetta Broadway.
Al parco era uno strazio. Non c'era troppo freddo, ma il sole era ancora coperto, e si sarebbe detto
che in tutto il parco non ci fossero che porcherie di cani e scaracchi e cicche di sigari di vecchi, e le
panchine avevano tutta l'aria che a sedervici le tr ovavate bagnate. Roba da buttarti a terra, e ogni
tanto, camminando, vi veniva la pelle d'oca, senza nessuna ragione. Non pareva proprio che stesse
per arrivare Natale. Pareva che non stesse per arri vare niente . Ma io continuai lo stesso a camminare
verso il Mall, perché di solito è là che va Phoebe quando è nel parco. Le piace pattinare vicino alla
piattaforma della banda. È buffo. Anche a me piacev a pattinare là, da bambino.
Quando ci arrivai, peró, non la vidi in nessun post o. In giro c'erano delle bambine che pattinavano e
tutto quanto, e due ragazzi che giocavano a palla v olo, ma Phoebe no. Però vidi una ragazzina della
sua età, che se ne stava seduta tutta sola su una p anchina a stringersi un pattino. Pensai che forse
conosceva Phoebe e poteva dirmi dov'era o che so io , sicché andai a sedermi vicino a lei e le
domandai: – Conosci Phoebe Caulfield, per caso?
– Chi? – disse lei. Addosso non aveva che i blue-je ans e una ventina di pullover. Si vedeva
benissimo che glieli faceva la madre, perché erano tutti bitorzoluti.
– Phoebe Caulfield. Abita nella Settantunesima Stra da. Fa la quarta al…
– Tu conosci Phoebe?
– Sí, sono suo fratello. Sai dov'è?
– È nella classe della signorina Callon, vero? – di sse la bambina.
– Non lo so. Sí, credo di sí.
– Allora probabilmente è al museo. Noi ci siamo andati sabato scorso, – disse la bambina.
– Che museo? – le domandai.
Lei fece un'alzatina di spalle. – Non lo so, – diss e. – Il museo .
– Ho capito, ma quello con i quadri o quello con gl i indiani?
– Quello con gli indiani.
– Grazie tante, – dissi. Mi alzai e feci per andarm ene, ma, allora mi ricordai tutt'a un tratto che er a
domenica. – Oggi è domenica , – dissi alla bambina.
Lei alzò gli occhi a guardarmi. – Oh! Allora non è là.
Ci stava mettendo un sacco di tempo a stringere que l pattino. Non portava guanti, niente, e aveva le
mani gelate e tutte rosse. Allora mi misi ad aiutar la. Ragazzi, erano anni che non prendevo in mano
una chiave da pattini. Non mi parve buffo, però. Se fra cinquant'anni mi mettete in mano una chiave
da pattini, al buio, capirò ancora che cos'è. Quand o ebbi finito di stringerglielo bene, lei mi

57/100 ringraziò e tutto quanto. Era una ragazzina educata e simpatica. Dio, mi piace tanto quando le
ragazzine sono educate e simpatiche se gli stringet e un pattino o che so io. La maggior parte delle
ragazzine sono cosí. Davvero. Le domandai se voleva prendere una cioccolata calda o qualche altra
cosa con me, ma lei disse no grazie. Disse che dove va vedere una sua amica. I bambini devono
sempre vedere i loro amici. Questo mi lascia secco.
Con tutto che era domenica e Phoebe non poteva esse re là con la sua classe e via discorrendo, e che
il tempo era cosí brutto e umido, mi feci tutto il parco a piedi fino al Museo di Storia Naturale.
Sapevo che era quello il museo di cui aveva parlato la ragazzina con la chiave dei pattini. La
conoscevo a memoria, quella lagna del museo. La scu ola di Phoebe era la stessa dove andavo io da
bambino, e non facevano che portarci al museo. Avev amo quella maestra, la signorina Aigletinger,
che ci portava là tutti i maledetti sabati o quasi. Certe volte ci portava a vedere gli animali, certe
volte gli oggetti che gli indiani avevano fatto sec oli prima. Stoviglie, cestini di paglia e tutta rob a
cosí. Mi sento molto felice quando ci ripenso. Anco ra adesso. Mi ricordo che dopo aver guardato
tutti quegli oggetti indiani, di solito andavamo a vedere un film in quel grande auditorium.
Colombo. Ci facevano vedere sempre Colombo che scop riva l'America, che sudava sette camicie
per convincere Ferdinando e Isabella a dargli i sol di per comprare le caravelle e poi i marinai che si
ammutinavano e via dicendo. A noi non ce ne importa va un accidente del vecchio Colombo, ma
eravamo sempre stracarichi di caramelle e di gomma eccetera eccetera, e nell'auditorium c'era un
odore cosí buono. Un odore come se fuori piovesse a nche quando non pioveva, e voi eravate
nell'unico posto piacevole, asciutto e caldo del mo ndo. Mi piaceva, quel maledetto museo. Mi
ricordo che per andare all'auditorium bisognava pas sare per la Sala degli indiani. Era una sala lunga
lunga, e bisognava parlare bisbigliando. Prima entr ava la maestra e poi tutta la classe. Si andava in
fila per due, cosí ognuno aveva un compagno. Il piú delle volte io stavo vicino a quella ragazzina
che si chiamava Gertrude Levine. Voleva sempre tene rti per mano, e aveva sempre la mano
appiccicosa o sudaticcia o che so io. Il pavimento era tutto di pietra, e se tenevi in mano le palline e
te le lasciavi scappare, rimbalzavano come matti pe r tutta la sala e facevano un rumore d'inferno,
allora la maestra faceva fermare tutti e tornava in dietro a vedere che diavolo succedeva. Però non si
arrabbiava mai, la signorina Aigletinger. Poi si pa ssava vicino a quella lunghissima canoa da guerra,
era lunga suppergiú quanto tre dannate Cadillac mes se in fila, con una ventina di indiani dentro,
certi che remavano, certi che invece stavano là con la grinta feroce senza far niente, e tutti quanti
avevano la faccia dipinta coi colori di guerra. In fondo alla canoa c'era un tipo spaventoso con una
maschera sul viso. Era lo stregone. Mi faceva venir e la pelle d'oca ma mi piaceva lo stesso. E
un'altra cosa, se nel passare toccavate una delle p agaie o quello che era, uno dei guardiani ti diceva :
“Non toccate niente, bambini”, ma lo diceva sempre con la voce gentile, non come un maledetto
sbirro o che so io. Poi si passava vicino a quella enorme bacheca di vetro, con dentro degli indiani
che strofinavano pezzetti di legno per accendere il fuoco, e una squaw che tesseva una coperta. La
squaw che tesseva la coperta era un po' chinata in avanti e le si vedeva il petto e tutto quanto. Noi
allungavamo il collo, anche le femmine, perché eran o bambine e di petto non ne avevano piú di noi.
Poi, prima di entrare nell'auditorium, proprio vici no alle porte, si passava davanti a quell'esquimese .
Stava seduto davanti a un buco in quel lago tutto g elato e ci pescava dentro. Proprio vicino al buco
c'erano un paio di pesci che aveva già presi. Ragaz zi, quel museo era pieno di bacheche. Ce n'erano
ancora di piú al piano di sopra, con dentro dei cer vi che si abbeveravano alle fonti, e uccelli che
migravano verso il sud per l'inverno. Gli uccelli p iú vicini erano impagliati e sospesi a fili di ferr o,
quelli in fondo invece erano solo dipinti sul muro, ma tutti quanti pareva proprio che stessero
volando verso il sud, e se piegavate la testa e li guardavate un po' dal sotto in su pareva che avesse ro
ancora piú fretta di volare al sud. La cosa miglior e di quel museo era però che tutto stava sempre
allo stesso posto. Nessuno si muoveva. Potevi andar ci centomila volte, e quell'esquimese aveva
sempre appena finito di prendere quei due pesci, gl i uccelli stavano ancora andando verso il sud, i
cervi stavano ancora abbeverandosi a quella fonte, con le loro belle corna e le belle, esili zampe, e
quella squaw col petto nudo stava ancora tessendo l a stessa coperta. Nessuno era mai diverso.
L'unico a essere diverso eri tu . Non è che fossi molto piú grande né niente di sim ile. Non era

58/100 proprio questo. Era solo che eri diverso, ecco tutt o. Stavolta avevi addosso il soprabito, magari.
Oppure il bambino che era stato vicino a te l'ultim a volta si era preso la scarlattina e ora avevi un
altro compagno. Oppure non era la signorina Aigleti nger ad accompagnare la scolaresca ma una
supplente. Oppure avevi sentito papà e mamma che li tigavano come due forsennati nella stanza da
bagno. O per la strada eri appena passato vicino a una di quelle pozzanghere dove la benzina fa
l'arcobaleno. Voglio dire, eri diverso , per una ragione o per l'altra – non so spiegare q uello che ho in
mente. E anche se sapessi farlo, non sono sicuro ch e ne avrei voglia.
Strada facendo tirai fuori di tasca il mio vecchio berretto da cacciatore e me lo misi. Sapevo di non
incontrare nessuno che mi conoscesse e c'era un'umi dità terribile. Andavo avanti un passo dietro
l'altro, e continuavo a pensare alla vecchia Phoebe che il sabato andava a quel museo proprio come
avevo fatto io. Pensavo che vedeva le stesse cose c he avevo visto io, e che anche lei era diversa
ogni volta che le vedeva. Non è proprio che pensare a questo mi deprimesse, ma non mi rendeva
nemmeno felice come una pasqua. Certe cose dovrebbe ro restare come sono. Dovreste poterle
mettere in una di quelle grandi bacheche di vetro e lasciarcele. So che è impossibile ma è un gran
peccato lo stesso. Ad ogni modo, strada facendo con tinuai a pensare a tutte queste cose.
Passai davanti a quel campo sportivo e mi fermai a guardare due ragazzini piccolissimi che
facevano su e giú su un'altalena. Uno era un po' gr assoccio, e io appoggiai la mano sull'estremità
dell'asse dove c'era quello magrolino, tanto per eq uilibrare un po' il peso, ma era chiaro che non mi
volevano tra i piedi, sicché li lasciai in pace.
Poi successe una cosa buffa. Quando arrivai al muse o, ecco che tutt'a un tratto non ci sarei entrato
nemmeno per un milione. Non mi attirava, ecco tutto – e dire che mi ero fatto a piedi tutto quel
maledettissimo parco e avevo una gran voglia di and arci e via discorrendo. Se ci fosse stata Phoebe
probabilmente sarei entrato, ma lei non c'era. Cosí andò a finire che proprio davanti al museo, presi
un tassí e mi feci portare al Biltmore. Non avevo t anta voglia di andarci. Però avevo preso quel
maledetto appuntamento con Sally.

XVII.

Quando arrivai era ancora un po' presto, sicché mi sedetti su uno di quei divani di cuoio vicino
all'orologio nell'atrio e mi misi a guardare le rag azze. Un sacco di scuole erano già chiuse per le
vacanze, e c'erano almeno un milione di ragazze sed ute e in piedi che aspettavano di veder
comparire i loro belli. Ragazze con le gambe accava llate, ragazze con le gambe non accavallate,
ragazze con gambe fantastiche, ragazze con gambe or rende, ragazze che avevano tutta l'aria d'essere
ragazze straordinarie, ragazze che avevano tutta l' aria d'essere cagne a conoscerle. Era proprio un
gran bello spettacolo, se capite quel che voglio di re. In un certo senso era anche un po' deprimente,
perché uno continuava a domandarsi che fine avrebbe ro fatta tutte quante. Quando lasciavano la
scuola o l'università, dico. C'era da supporre che probabilmente avrebbero sposato quasi tutte dei
cretini. Quei tipi che ti raccontano sempre quanti chilometri fa la loro stramaledetta macchina con
un litro. Quei tipi che si arrabbiano come ragazzin i se li batti a golf, o perfino a un gioco stupido
come il ping-pong. Quei tipi che non leggono mai un libro. Quei tipi che ti fanno venire una barba
lunga tre metri. Ma in questo devo andarci piano. A chiamare barbosi certi tipi, voglio dire. Io i tip i
barbosi non li capisco. Davvero. Quando ero a Elkto n Hills, per circa due mesi sono stato nella
stessa camera con quel ragazzo, Harris Macklin. Era molto intelligente eccetera eccetera ma era uno
degli individui piú barbosi che abbia mai conosciut o. Aveva una di quelle voci che gracchiano, e
non la finiva mai di parlare, si può dire. Non la f iniva mai di parlare, e la cosa piú tremenda era ch e
non vi diceva mai niente che voleste sentire, tanto per cominciare. Ma sapeva fare una cosa. Quel
figlio di buona madre sapeva fischiare come non ho mai sentito nessun altro. Magari si stava
facendo il letto, o stava attaccando qualcosa nell' armadio – attaccava sempre qualcosa nell'armadio –
roba che diventavo matto – e se non parlava con que lla sua voce gracchiante, giú a fischiare. Sapeva
persino fischiare pezzi classici, ma per lo piú fis chiava brani jazz. Era capace di prendere uno di

59/100 quei pezzi di jazz scatenato, come Tin Roof Blues , e di fischiarlo cosí bene e con tanta naturalezza –
proprio mentre attaccava qualcosa nell'armadio – ch e era roba da lasciarti secco. Naturalmente non
gliel'ho mai detto che secondo me fischiava in un modo fantastico. Vo glio dire, non puoi andare da
uno a proclamargli “Tu fischi in un modo fantastico ”. Ma sono stato in camera con lui quasi due
mesi interi, con tutto che lo trovavo cosí barboso che per poco non diventavo matto, solo perché
fischiava in quel modo fantastico, come non ho mai sentito nessuno. Perciò coi tipi barbosi non si
può mai dire. Forse non è il caso di compiangere tr oppo una ragazza in gamba se la vedete sposare
uno di quei tipi. Per lo piú non fanno male a nessu no, e magari in segreto sono tutti bravissimi a
fischiare o vattelappesca. Chi diavolo può saperlo? Io no.
Finalmente la vecchia Sally cominciò a salire le sc ale, e io cominciai a scenderle per andarle
incontro. Era fantastica. Sul serio. Portava quel s oprabito nero e una specie di berretto nero. Non
portava quasi mai il cappello, ma quel berretto era carino. Il buffo è che appena la vidi mi venne
voglia di sposarla. Io sono pazzo. Non è nemmeno ch e mi piacesse molto, ma tutt'a un tratto mi
sentii come se l'amassi e volessi sposarla. Giuro d avanti a Dio che sono pazzo. Lo riconosco.
– Holden! – disse lei. – Che bellezza rivederti! So no secoli -. Aveva una voce sonora che vi metteva
in imbarazzo, quando la incontravate in qualche pos to. Uno gliela perdonava perché era cosí
maledettamente carina, ma a me mi faceva sempre gir ar le scatole.
– È un piacere rivedere te , – dissi. E lo pensavo davvero. – Come stai, ad og ni modo.
– Magnificamente bene. Sono in ritardo?
Le dissi di no, ma era in ritardo di circa dieci mi nuti. Però non me ne importava un accidente. Tutte
quelle cretinate che mettono nelle vignette del “Sa turday Evening Post” e compagnia bella, con quei
tipi fermi a una cantonata con la grinta feroce per ché le loro belle sono in ritardo – balle! Se una
ragazza quando arriva è carina, chi se ne infischia che è in ritardo? Nessuno. – È meglio che ci
sbrighiamo, – dissi. – Lo spettacolo comincia alle due e quaranta -. E ci avviammo giú per le scale
verso il posteggio dei tassí.
– Cosa andiamo a vedere? – disse lei.
– Non lo so. I Lunt. Non c'erano altri biglietti.
– I Lunt! Ma è magnifico!
Ve l'avevo detto che appena sentiva che c'erano i L unt diventava matta.
In tassí, mentre andavamo a teatro, filammo un po'. Lei prima non voleva perché aveva il rossetto e
via dicendo, ma io feci talmente il seduttore che d ovette arrendersi. Per poco non caddi dal sedile
due volte, accidenti, quando quel maledetto tassí f renò secco per il traffico. Quei dannati autisti no n
guardano mai dove stanno andando, giuro che non ci guardano. Poi tanto per dimostrarvi sino a che
punto sono pazzo, be', eravamo appena venuti fuori da quell'abbraccio fenomenale che io le dissi
che l'amavo eccetera eccetera. Non era vero natural mente, ma il fatto è che quando lo dissi ci
credevo. Sono pazzo. Giuro davanti a Dio che sono p azzo.
– Oh, tesoro, anch' io ti amo, – disse lei. Poi, se nza nemmeno riprendere fiato, accidenti, mi disse: –
Promettimi che ti fai crescere i capelli. Rapati co sí stanno diventando pacchiani. E i tuoi capelli
sono cosí adorabili -. Adorabili un corno.-
La commedia, ne avevo viste anche di peggio. Sempre genere boiata, però. Seguiva per quasi
cinquecentomila anni la vita di quella vecchia copp ia. Comincia quando loro sono giovani e tutto
quanto e i genitori della ragazza non vogliono che lei lo sposi, ma lei lo sposa lo stesso. Poi
cominciano a invecchiare. Il marito va in guerra, e la moglie ha questo fratello che beve come una
spugna. Non riuscivo a interessarmi molto della vic enda. Voglio dire, non me ne importava niente
quando qualcuno della famiglia moriva o qualcosa de l genere. Erano soltanto un mucchio di attori
dal primo all'ultimo. Il marito e la moglie erano u na vecchia coppia abbastanza simpatica – molto
intelligenti e via discorrendo – ma non riuscivo a trovarli interessanti. Tanto per cominciare, per
tutta la commedia non facevano altro che bere tè o che so io. Ogni volta che li vedevi, ecco che un
maggiordomo gli metteva il tè sotto al naso, oppure la moglie lo offriva a qualcuno. Ed era un
continuo andirivieni di gente che entrava e usciva – ti veniva il capogiro a guardarli che si sedevano
e si alzavano. Alfred Lunt e Lynn Fontanne erano la vecchia coppia, ed erano bravissimi, ma a me

60/100 non piacevano molto. Però erano un'altra cosa, ques to devo riconoscerlo. Non erano naturali come
tutti noi, ma nemmeno innaturali come gli attori. È difficile da spiegare. Erano naturali piuttosto
come se sapessero che erano delle celebrità e via d iscorrendo. Voglio dire, erano bravi, ma lo erano
troppo . Quando uno di loro finiva di dire una frase, imme diatamente l'altro ribatteva a tutta velocità.
Tutto questo doveva dar l'idea di come la gente par la e si interrompe a vicenda eccetera eccetera.
Recitavano un po' come il vecchio Ernie suona il pi ano giú al Village. Se uno è troppo bravo a fare
una cosa, finisce che dopo un po', se non ci sta at tento, si mette a calcare la mano.
E allora non è piú tanto bravo. Ma ad ogni modo, in tutta la commedia erano gli unici a darti
l'impressione d'essere intelligenti sul serio – i L unt, dico.
Alla fine del primo atto uscimmo con tutta quella m assa di cafoni a fumarci una sigaretta. Roba da
matti. Garantito che in vita vostra non avete mai v isto tanti palloni gonfiati, tutti che fumavano
come camini e parlavano della commedia in modo da f arsi sentire e fare apprezzare a cani e porci
quanto erano geniali. In piedi vicino a noi c'era u n cretino di divo che si fumava una sigaretta. Non
so come si chiama, ma nei film di guerra fa sempre la parte di quello che gli prende fifa quand'è il
momento di andare all'attacco. Stava con una bionda di prima qualità, e tutt'e due cercavano di fare
molto i blasé e via discorrendo, come se non si acc orgessero nemmeno che tutti li guardavano.
Modesti dell'accidente. Mi ci divertii moltissimo. La vecchia Sally non parlava molto, tranne che
per sdilinquirsi per i Lunt, perché era occupatissi ma ad allungare il collo e a fare l'affascinante. P oi,
tutt'a un tratto, vide dall'altra parte dell'atrio un tizio che conosceva . Un tale con uno di quei vestiti
di flanella antracite scurissima e un panciotto a q uadri. Tipo Ivy League spaccato. Ve lo
raccomando io. Stava in piedi vicino al muro, fuman do come un turco e con l'aria di annoiarsi a
morte. La vecchia Sally continuava a dire: “Io quel ragazzo l'ho conosciuto in qualche posto”.
Dovunque la portavi, c'era sempre qualcuno che lei conosceva o credeva di conoscere. Continuò
con quella solfa sinché mi fece girar le scatole e le dissi: “E perché non vai a dargli un bel bacione ,
se lo conosci. Lui apprezzerebbe il gesto”. Questa mia uscita la fece arrabbiare. Peró finalmente
quel lavativo si accorse di lei e venne a salutarla . Avreste dovuto vedere come si salutarono. Da
credere che non si vedessero da vent'anni. Da crede re che quand'erano marmocchi avessero fatto il
bagnetto nella stessa bagnarola o qualcosa del gene re. Amici per la pelle. Una cosa rivoltante. Il
buffo era che probabilmente si erano visti una volta sola a qualche ricevimento balordo. Alla fine,
quando ne ebbero abbastanza di tutte quelle smancer ie, la vecchia Sally ci presentò. Si chiamava
George Vattelappesca – non me ne ricordo nemmeno pi ú – e faceva l'università ad Andover. Da
fargli tanto di cappello. Avreste dovuto vederlo qu ando la vecchia Sally gli domandò cosa pensasse
della commedia. Era uno di quei palloni gonfiati ch e quando rispondono a una domanda devono
farsi spazio . Arretrò di un passo, e piombò dritto sul piede de lla signora dietro di lui. Probabile che
le spezzò tutte le dita che aveva. Disse che la com media in sé e per sé non era un capolavoro, ma
che i Lunt, naturalmente, erano dei veri angeli. An geli. Cristo santo. Angeli . Mi lasciò secco. Poi lui
e la vecchia Sally attaccarono a parlare di un mucc hio di gente che conoscevano tutti e due.
Garantito che in vita vostra non vi è mai capitato di sentire una conversazione piú fasulla. Facevano
a gara a ricordarsi quanti piú posti potevano, poi pensavano a qualcuno che vivesse là, e si
precipitavano a nominarlo. Quando fu tempo di torna re in sala, io stavo lí lí per vomitare. Sul serio.
E poi, durante l'intervallo successivo continuarono quella stramaledetta conversazione
barbosissima. Altri posti, altri nomi di gente che ci viveva e cosí via. Il peggio è che quel lavativo
aveva una di quelle fasullissime voci tanto Ivy Lea gue, quelle voci snob e strascicate. Pareva
proprio una ragazza. Non esitò a mettersi di mezzo tra me e Sally, quel bastardo. Per un attimo,
finito lo spettacolo, pensai perfino che salisse in tassí con noi, accidenti, perché ci accompagnò a
piedi per circa due isolati, ma doveva andare a pre ndere un cocktail insieme con un mucchio di
balordi. Mi pareva di vederli, tutti seduti in circ olo in qualche bar, coi loro dannati panciotti a
quadri, a criticare spettacoli, libri e donne con q uelle loro voci snob e strascicate. Mi stendono
secco, quei tipi là.
Quando finalmente salimmo in tassí odiavo un pochin o la vecchia Sally, dopo essermi sorbito per
circa dieci ore quel bastardo cafone di Andover. Er o proprio deciso a riportarla a casa sua e tutto

61/100 quanto – sul serio – quando lei disse: – Ho un'idea luminosa! – Aveva sempre delle idee luminose,
quella lí. – Sta' a sentire, – disse. – A che ora d evi essere a casa per cena? Voglio dire, hai molta
fretta o no? Devi essere a casa per un'ora precisa?
– Io? No. Nessun'ora precisa, – dissi. Mai fu detta verità piú sacrosanta, ragazzi. – Perché?
– Andiamo a pattinare sul ghiaccio a Radio City.
Ecco che razza di idee si faceva venire.
– A pattinare sul ghiaccio a Radio City? Adesso, vu oi dire?
– Solo un'oretta. Non ti va? Se non ti va …
– Non ho detto che non mi va, – dissi. – Ma certo. Se va a te .
– Sei proprio convinto? Non dire di sí, se non sei convinto. Perché in fondo a me n on me ne importa
un corno se ci andiamo o no.
Figuriamoci.
– Si possono prendere a nolo quegli incantevoli tut ú da pattinaggio, – disse la vecchia Sally. – Janet te
Cultz ne ha preso uno, la settimana scorsa.
Ecco perché smaniava tanto di andarci. Voleva veder si in uno di quei tutú che ti coprono sí e no il
sedere.
Cosí andammo, e dopo che ci avevano dato i pattini, diedero a Sally quel pezzettino di vestito
azzurro per scodinzolarci dentro. Però le stava mal edettamente bene, a dire íl vero. Devo
ammetterlo. E non crediate che non lo sapesse. Non faceva che camminarmi davanti, perché vedessi
com'era delizioso il suo sederino. Ed era proprio d elizioso, tra l'altro. Devo ammetterlo.
Ma il buffo è che eravamo i pattinatori piú schiapp ini di tutta quella maledetta pista. I piú
schiappini, senza scherzi. E c'erano degli autentic i fenomeni, tra l'altro. Le caviglie della vecchia
Sally continuavano a piegarsi in dentro fin quasi a toccare il ghiaccio. Non solo era uno spettacolo
ridicolo, ma dovevano farle un male cane. Le mie mi facevano male, almeno. Mi stavano facendo
morire, le mie. Dovevamo essere due sagome. E a peg giorare le cose, c'erano almeno duecento
ficcanaso che non avevano niente di meglio da fare che starsene lí in giro a guardare tutti quelli che
cascavano uno addosso all'altro.
– Vuoi che andiamo a un tavolo dentro a bere qualco sa o che so io? – finii col dirle.
– E l'idea piú luminosa che hai avuto in tutto il g iorno, – disse lei. Si stava ammazzando . Una cosa
brutale. Mi fece proprio pena.
Ci togliemmo quei maledetti pattini e andammo in qu el bar dove si può bere qualcosa e guardare i
pattinatori senza bisogno di rimettersi le scarpe. Appena ci sedemmo, la vecchia Sally si tolse i
guanti e io le diedi una sigaretta. Non aveva l'ari a tanto felice. Venne il cameriere e io ordinai una
coca cola per lei – che non beve – e un whisky e so da per me, ma quel figlio di cagna non volle
portarmelo, cosí presi una coca cola anch'io. Poi m i misi ad accendere fiammiferi. È una cosa che
faccio spesso, quando sono di un certo umore. Li la scio bruciare finché non posso piú tenerli in
mano, e allora li butto nel posacenere. È una speci e di tic nervoso.
Poi tutt'a un tratto, come un fulmine a ciel sereno , la vecchia Sally mi fa: – Sta' a sentire. Bisogna
che lo sappia. La vigilia di Natale vieni sí o no a d aiutarmi a decorare l'albero? Bisogna che lo
sappia -. Aveva ancora l'aria pizzicata per quella faccenda delle caviglie mentre pattinava.
– Ti ho scritto che venivo. Me l'hai domandato una ventina di volte. Certo che vengo.
– Bisogna che lo sappia, sul serio, – disse lei. E cominciò a girare lo sguardo per quella maledetta
sala.
Tutt'a un tratto, io smisi di accendere fiammiferi e mi chinai un po' sul tavolo verso di lei. Mi
giravano per la testa un sacco di cose. – Di' un po ', Sally, – dissi.
– Cosa? – disse lei. Stava guardando una ragazza da ll'altra parte della sala.
– Ti succede mai di averne fin sopra i capelli? – d issi. – Voglio dire, ti succede mai d'aver paura ch e
tutto vada a finire in modo schifo se non fai qualc osa? Voglio dire, ti piace la scuola e tutte quelle
buffonate?
– È una barba tremenda.
– Voglio dire, la odi? Lo so che è una barba tremen da, ma la odi, voglio dire?

62/100 – Be', non è proprio che la odio. Uno deve sempre.. .
– Be, io la odio. Ragazzi, se la odio , – dissi. – Ma non è solo questo. È tutto. Odio vi vere a New York
e via discorrendo. I tassí, e gli autobus di Madiso n Avenue, con i conducenti e compagnia bella che
ti urlano sempre di scendere dietro, e essere prese ntato a dei palloni gonfiati che chiamano angeli i
Lunt, e andare su e giú con gli ascensori ogni volt a che vuoi mettere il naso fuori di casa, e quegli
scocciatori sempre lí da Brooks, e la gente che non fa altro…
– Non gridare, per piacere, – disse la vecchia Sall y. Il che era buffo, perché non stavo gridando per
niente.
– Prendi le macchine, – dissi. Lo dissi a voce bass issima. – Prendi la maggior parte della gente,
hanno il pallino delle macchine. Sudano freddo per un graffio alla carrozzeria, e non la finiscono
piú di raccontarti quanti chilometri fanno con un l itro, e se prendono un nuovo modello già pensano
di cambiarlo con un altro ancora piú nuovo. A me no n mi piacciono nemmeno le macchine vecchie ,
figurati. Voglio dire, non mi interessano nemmeno. Preferirei avere un maledetto cavallo. Almeno
un cavallo è umano , Dio santo. Almeno un cavallo puoi…
– Non so nemmeno di che cosa stai parlando, – disse la vecchia Sally. – Salti di palo…
– Sai una cosa? – dissi io. – Probabilmente tu sei l'unica ragazza per cui adesso sono a New York o
in un posto qualunque. Se non ci fossi tu, probabil mente sarei a casa del diavolo. Nei boschi o in chi
sa che maledetto posto. Tu sei l'unica ragione per cui ci sono, praticamente.
– Sei carino, – disse. Ma si vedeva lontano un migl io che se cambiavo quel maledetto discorso le
facevo un piacere.
– Dovresti andare in un collegio maschile, una volt a. Provaci, una volta, – dissi. – È pieno di pallon i
gonfiati, e non fai altro che studiare, cosí impari quanto basta per essere furbo quanto basta per
poterti comprare un giorno o l'altro una maledetta Cadillac, e devi continuare a far la commedia che
ti strappi i capelli se la squadra di rugby perde, e tutto il giorno non fai che parlare di ragazze e di
liquori e di sesso, e tutti fanno lega tra loro in quelle piccole sporche maledette cricche. Quelli de lla
squadra di pallacanestro fanno lega tra loro, i cat tolici fanno lega tra loro, i maledetti intellettua li
fanno lega tra loro, quelli che giocano a bridge fa nno lega tra loro. Fanno lega perfino quelli che
appartengono a quel dannato Club del Libro del Mese ! Se cerchi di fare un discorso intell…
– Be', sta' a sentire, – disse la vecchia Sally. – C'è un mucchio di ragazzi che nella scuola trovano
molto piú di questo .
– Eccome! È proprio cosí, per certi. Ma io non ne cavo fuori altro. Vedi? Ecco il mio guaio. Proprio
questo è il mio maledettissimo guaio, – dissi. – No n mi riesce di cavar fuori niente da niente. Sono
fatto molto male. Sono fatto in modo schifo . Senza dubbio.
Allora, tutt'a un tratto, mi venne quell'idea.
– Sta' a sentire, – dissi. – Ho avuto un'idea. Che ne diresti di tagliare la corda? Ho avuto un'idea.
Conosco quel tale del Greenwich Village che può pre starci la macchina per un paio di settimane.
Andavamo alla stessa scuola e mi deve ancora dieci dollari. Possiamo fare cosí, domattina ce ne
andiamo nel Massachusetts e nel Vermont e tutto lí intorno, capisci? È bellissimo, laggiú, una
meraviglia -. Non stavo piú nella pelle dall'entusi asmo via via che ci pensavo, cosí allungai un po' i l
braccio e strinsi la stramaledetta mano della vecch ia Sally. Che dannato cretino! – Senza scherzi, –
dissi. – Ho circa centottanta dollari in banca. Pos so ritirarli domattina appena apre, e poi vado a
prendere la macchina di quel tale. Senza scherzi. A ndremo a stare in quei campeggi di casette di
legno o un posto cosí finché non restiamo a corto d i soldi. Poi, quando restiamo a corto, posso
trovarmi un lavoro in qualche posto e possiamo vive re in qualche posto con un ruscello e tutto
quanto, e dopo possiamo sposarci eccetera eccetera. Posso spaccare tutta la legna che ci occorre
d'inverno eccetera eccetera. Parola d'onore, ci div ertiremmo in un modo fantastico! Che ne dici?
Forza! Che ne dici? Vieni via con me? Te ne prego!
– Non si possono fare certe cose, – disse la vecchia Sally. Sembrava arr abbiatissima.
– Perché no? Perché diavolo non si può?
– Smettila di gridare, per piacere, – disse la vecc hia Sally. Il che era una cretinata, perché non sta vo
gridando per niente.

63/100 – Perché non si può? Perché?
– Perché non si può, ecco tutto. Tanto per comincia re, siamo praticamente due bambini . E poi, ti sei
fermato un momento a considerare che cosa faresti s e non trovassi un lavoro quando resti a corto di
soldi? Moriremmo di fame . Tutta questa storia è cosí assurda che non è nemm eno…
– Non è assurda. Un lavoro lo trovo. Non ti preoccu pare di questo. Non devi preoccupartene. Che ti
piglia? Non vuoi venire con me? Dillo , se non vuoi.
– Non è questo . Non è affatto questo, – disse la vecchia Sally. S tavo cominciando a odiarla, in certo
qual modo. – Avremo un sacco di tempo per far quest e cose, tutte queste cose. Voglio dire, dopo che
sarai andato all'università eccetera eccetera, e se ci sposeremo eccetera eccetera. Ci saranno un
sacco di posti meravigliosi dove andare. Tu sei sol tanto…
– Neanche per sogno. Non ci sarebbero un sacco di p osti meravigliosi dove andare eccetera
eccetera. Sarebbe tutta un'altra cosa, – dissi. Sta vo ricominciando a sentirmi depresso da morire.
– Cosa? – disse lei. – Non ti sento. Un po' strilli e un po'..
– Ho detto di no, che non ci sarebbero posti meravi gliosi dove andare dopo che avrò fatto
l'università e tutto quanto. Sturati le orecchie. S arebbe tutta un'altra cosa. Dovremmo scendere in
ascensore con le valige e tutto. Dovremmo telefonar e alla gente e salutarla e mandare cartoline dagli
alberghi e
via discorrendo. E io avrei un impiego, farei un sa cco di soldi, andrei in ufficio col tassí e con
l'autobus della Madison Avenue e leggerei i giornal i e giocherei a bridge tutto il tempo e andrei al
cinema a vedere un sacco di cortometraggi e di pros simamente e di cinegiornali. I cinegiornali.
Cristo onnipotente. C'è sempre qualche idiotissima corsa di cavalli, qualche gran dama che spacca
una bottiglia su una nave e uno scimpanzè in pantal oni su una dannata bicicletta. Non sarebbe
proprio la stessa cosa. Non capisci proprio quello che voglio dire.
– Può darsi! Ma può darsi che non lo capisci nemmen o tu, – disse la vecchia Sally. A quel punto ci
odiavamo a morte.
Si vedeva lontano un miglio che il tentativo di far e un discorso intelligente era del tutto sprecato.
Rimpiangevo con tutta l'anima d'averlo cominciato.
– Forza, andiamocene di qui, – dissi. – Se proprio vuoi saperlo, mi stai sulle scatole che non ne hai
un'idea.
Ragazzi ! A questa mia uscita montò su tutte le furie. Lo s o che non avrei dovuto dirlo, e in
circostanze normali probabilmente non l'avrei detto , ma lei mi stava deprimendo da morire. Di
solito io alle ragazze non dico mai frasi tanto for ti. Ragazzi , se montò su tutte le furie! Io non la
finivo piú di scusarmi, ma lei non volle accettare le mie scuse. Si mise perfino a piangere. E questo
mi spaventò un poco, perché avevo una certa fifa ch e andasse a casa a raccontare a suo padre che io
le avevo detto che mi stava sulle scatole. Suo padr e era uno di quei grossi bastardi taciturni, e non
aveva mai avuto una gran passione per me. Una volta aveva detto alla vecchia Sally che ero troppo
maledettamente rumoroso.
– Senza scherzi. Mi dispiace, – continuavo a dirle.
– Ti dispiace. Ti dispiace. Questa è proprio buffa, – disse lei. Stava ancora piangendo un poco, e
tutt'a un tratto a me dispiacque sul serio d'averlo detto.
– Andiamo, ti accompagno a casa. Senza scherzi.
– A casa posso andarci da sola, grazie. Se credi ch e permetta a uno come te di accompagnarmi a
casa, sei matto. Nessun ragazzo mi ha mai detto una cosa simile in tutta la mia vita.
A pensarci bene, tutta la faccenda era un po' buffa , in un certo senso, e a un tratto feci una cosa ch e
non avrei dovuto fare. Mi misi a ridere. E io ho un a di quelle stupide risate che fanno girare tutti.
Voglio dire che se mai mi capitasse di star seduto dietro di me al cinema o in un altro posto,
probabilmente mi sporgerei in avanti e mi pregherei di piantarla. La vecchia Sally s'infuriò peggio
che mai.
Io mi fermai ancora un poco, scusandomi e cercando di farmi perdonare, ma lei niente. Continuava
a dirmi di andar via e di lasciarla in pace. E fini i col farlo. Andai dentro a mettermi le scarpe e tu tto

64/100 quanto, poi me ne andai senza di lei. Non avrei dov uto, ma a quel punto ne avevo fin sopra i capelli,
accidenti.
Se proprio volete saperlo, non so nemmeno perché av essi cominciato tutta quella storia. Voglio
dire, di andarcene in qualche posto, nel Massachuse tts e nel Vermont e compagnia bella. È
probabile che non ce l'avrei portata nemmeno se fos se voluta venire. Non era proprio il tipo di
ragazza che uno si porta dietro. La cosa terribile, però, è che quando gliel'avevo chiesto dicevo sul
serio . Questa è la cosa terribile. Giuro davanti a Dio c he sono matto.

XVIII.

Quando lasciai la pista di pattinaggio avevo un po' di fame sicché andai in quel drug store , presi un
panino al formaggio e un latte al malto e poi entra i in una cabina telefonica. Pensavo che forse
potevo chiamare ancora la vecchia Jane per sentire se era già a casa. Voglio dire, avevo tutta la
serata libera e cosí pensai di chiamarla, e se era già a casa di portarla a ballare o vattelappesca in
qualche posto. Da quando la conoscevo non avevo mai ballato con lei né niente. Però l'avevo vista
ballare, una volta. Mi era parso che ballasse benis simo. Era stato al ballo del 4 luglio al circolo. N on
la conoscevo ancora molto bene, e soffiarla al suo ragazzo non mi sembrava una cosa da fare. Stava
con quel tipo terribile, Al Pike, quello che andava a Choate. Non lo conoscevo bene, ma lo si
vedeva sempre intorno alla piscina. Portava quei ca lzoncini da bagno di lastex bianchi, e si tuffava
sempre dal trampolino alto. Faceva tutto il giorno il tuffo a capriola, sempre quel vecchio tuffo
schifo. Non sapeva farne altri, ma lui si credeva u n campionissimo. Tutto muscoli e niente cervello.
Ad ogni modo, Jane quella sera aveva lui per cavali ere. Non arrivavo a capire come mai. Giuro che
non ci arrivavo. Quando cominciammo a stare insieme , le domandai come diavolo avesse potuto
prendersi per cavaliere un bastardo d'un bullo come Al Pike. Jane mi disse che non era un bullo.
Disse che aveva il complesso d'inferiorità. Si comp ortava proprio come se le facesse pena o che so e
non faceva mica per darmela a intendere. Lo pensava sul serio. È buffo, con le ragazze. Ogni volta
che gli nominate un autentico bastardo – mediocríss imo o presuntuosissimo e via discorrendo –
quando lo dite a una ragazza, lei vi racconta subit o che ha il complesso d'inferiorità. Può anche dars i
che ce l'abbia , ma questo non gli impedisce di essere un bastardo , dico io. Le ragazze. Non sai mai
quello che gli gira per la testa. Io una volta comb inai un appuntamento tra la compagna di stanza di
quella ragazza, quella Roberta Walsh, e un amico mi o. Si chiamava Bob Robinson e lui sí che aveva
realmente il complesso d'inferiorità. Si vedeva lontano un m iglio che sí vergognava dei suoi
genitori e tutto quanto, perché dicevano “a me mi p iace” e “a lei ci piace” e cose cosí, e poi non
erano molto ricchi. Ma non era un bastardo né nient e di simile. Era un tipo simpaticissimo. Ma a
questa compagna di Roberta Walsh non piacque affatt o. Disse a Roberta che era troppo presuntuoso
– e la ragione per cui lo giudicava presuntuoso era che lui le av eva accennato chi sa come di essere
uno dei capisquadra delle esercitazioni di dibattit o. Una piccolezza del genere, e lei lo giudicava
presuntuoso! Il guaio, con le ragazze, è che se gli piace un ragazzo può essere il piú gran bastardo
dell'universo ma loro dicono che ha il complesso d' inferiorità, e se non gli piace, può essere
simpaticissimo e avere il piú grande complesso d'in feriorità del mondo, loro dicono che è
presuntuoso. Perfino le ragazze piú in gamba fanno cosí. Ad ogni modo, richiamai la vecchia Jane,
ma non rispose nessuno, cosí dovetti riattaccare. A llora mi toccò di sfogliare la mia agendina per
vedere a chi diavolo potevo ricorrere per passare l a serata. Il guaio è che sulla mia agendina ci sono
segnate sí e no tre persone. Jane, quel tale, il pr ofessor Antolini, che era stato mio insegnante a
Elkton Hills, e il numero dell'ufficio di mio padre . Mi dimentico sempre di segnarci i nomi della
gente. Cosí andò a finire che chiamai il vecchio Ca rl Luce. Aveva preso la licenza a Whooton dopo
che me n'ero andato io. Aveva circa tre anni piú di me e non mi era molto simpatico, ma era un tipo
molto intellettuale – a Whooton era quello che avev a il Quoziente d'Intelligenza piú alto – e pensai
che forse non gli sarebbe dispiaciuto di venire a c ena con me in qualche posto e di fare una
conversazione un po' intellettuale. A volte aveva i l dono di chiarirvi le idee. Cosí lo chiamai.

65/100 Andava all'università Columbia, adesso, ma abitava nella Sessantacinquesima Strada e via
discorrendo, e io sapevo che era a casa. Quando ven ne al telefono, mi disse che a cena era
impegnato, ma che potevamo bere qualcosa insieme al le dieci al Wicker Bar nella
Cinquantaquattresima. Credo che fosse alquanto stup ito di sentirmi. Una volta l'avevo definito
culone fanatico.
Dovevo ammazzare un bel po' di tempo fino alle diec i, sicché finii con l'andare a vedere un film a
Radio City. Probabilmente non potevo fare niente di peggio, ma era vicino, e non mi venne in
mente altro. Entrai che era già cominciato lo stram aledetto varietà. Le Rockettes scalciavano a tutta
forza, come fanno quando si mettono tutte in fila t enendosi abbracciate per la vita. Il pubblico
applaudiva come impazzito, e un tizio dietro di me continuava a dire alla moglie: “Sai che cos'è
questa. Precisione, ecco che cos'è”. Mi lasciò secc o. Poi, dopo le Rockettes, venne fuori un tale in
frack corto e pattini a rotelle, e si mise a pattin are sotto un mucchio di tavolini, e intanto raccont ava
barzellette. Pattinava benissimo e tutto quanto, ma io non riuscivo a divertirmi perché continuavo a
immaginarmelo che si esercitava per fare il tipo che pattina sul palcoscenico. Mi pareva una cosa
cosí stupida. Sarà che non ero in vena. Poi, dopo d i lui, ci fu quel numero di Natale che a Radio
City fanno tutti gli anni. Frotte di angeli che ven gono fuori dai palchi e da tutte le parti, dovunque ti
giri c'è gente che porta crocifissi e roba simile, e tutti quanti – sono migliaia – cantano come matti
Venite tutti o Fedeli ! Ve li raccomando io. Passa per un numero maledett amente religioso, lo so, e
anche carino e via dicendo, ma io non vedo proprio che cosa ci sia di carino e di religioso in un
mucchio di attori che trascinano crocifissi avanti e indietro per il palcoscenico, Dio santo. Quando
finírono tutto quanto e cominciarono a tornarsene n ei palchi, si vedeva lontano un miglio che
morivano dalla voglia di fumarsi una sigaretta o ch e so io. L'anno prima l'avevo visto con la vecchia
Sally Hayes, e lei non la finiva piú di dire che er a una meraviglia, e i costumi e questo e quest'altr o.
Io avevo detto che se il vecchio Gesú l'avesse vist o, come minimo avrebbe vomitato – tutti quei
costumi da carnevale e compagnia bella. Sally mi av eva detto che ero un ateo sacrilego. È
probabile. A Gesú piacerebbe veramente una cosa sola, il tizio che suona i timpani nell'o rchestra.
Sarà da quando avevo otto anni che lo sto a guardar e. Io e mio fratello Allie, se eravamo coi nostri
genitori e compagnia bella, cambiavamo sempre di po sto e andavamo avanti per poterlo guardare. È
il piú bravo timpanista che abbia mai veduto. Duran te ogni pezzo gli capiterà di percuotere i suoi
timpani sí e no un paio di volte, ma non ha mai l'a ria annoiata quando sta lí senza far niente. Poi,
quando li percuote, lo fa in un modo cosí carino e dolce, con quell'espressione tesa sul viso. Una
volta, quando andammo a Washington con papà, Allie gli mandò una cartolina, ma scommetto che
non l'ha mai ricevuta. Non sapevamo bene come indir izzarla. Finito quel numero di Natale,
cominciò lo stramaledetto film. Era talmente schifo che non riuscivo a staccarne gli occhi. Parlava
di quell'inglese, Alec vattelappesca, che ha fatto la guerra e in ospedale perde la memoria e via
discorrendo. Esce dall'ospedale col bastone e zoppi coni zoppiconi gira dappertutto, per tutta
Londra, senza sapere chi diavolo è lui. In realtà è un duca, ma lui non lo sa. Poi incontra quella
ragazza carina e tanto alla buona che prende l'auto bus. Il suo dannato cappellino vola via e lui lo
acchiappa, e poi tutti e due vanno sull'imperiale, si siedono e si mettono a parlare di Charles
Dickens, il loro autore preferito e via discorrendo . Lui se ne va in giro con una copia di Oliver Twist
sotto il braccio, e lei pure. Ancora un po' e vomit avo. Ad ogni modo, s'innamorano subito, visto che
hanno tutti e due il pallino di Charles Dickens e c ompagnia bella, e lui la aiuta a mandare avanti la
sua casa editrice. Perché la ragazza ha una casa ed itrice. Però non le va tanto bene, perché suo
fratello beve come una spugna e spende tutti í sold i. È un tipo molto amareggiato, il fratello, perché
ha fatto la guerra come medico e adesso non può piú operare perché ha i nervi a pezzi, e cosí si
sbornia tutto il tempo, però è un tipo abbastanza i n gamba e tutto quanto. Ad ogni modo, il vecchio
Alec scrive un libro e la ragazza glielo pubblica, e tutti e due fanno soldi a palate. E hanno già
deciso di sposarsi quando salta fuori quell'altra r agazza, la vecchia Marcia. Marcia era la fidanzata
di Alec prima che lui perdesse la memoria, e lo ric onosce in quel negozio dove lui firma autografi.
Dice ad Alec che lui in realtà è un duca e via disc orrendo, ma lui non ci crede e non vuole andare
con lei a vedere sua madre e compagnia bella. Sua m adre è cieca come un pipistrello. Ma l'altra

66/100 ragazza, quella tanto alla buona, lo costringe ad a ndare. Lei è molto nobile e via discorrendo. Cosí
lui va. Però ancora non gli torna la memoria, nemme no quando il suo cane danese gli salta addosso
dalla gioia e sua madre gli passa le dita su tutto il viso e gli porta l'orsacchiotto di pezza per il quale
andava matto da bambino. Poi un bel giorno certi ra gazzi stanno giocando a cricket sul prato, e
pum, gli arriva una palla in testa. Ecco che allora gli torna di colpo la memoria e lui va dentro e
bacia sua madre sulla fronte e via discorrendo. All ora si rimette a fare il duca, e dimentica tutto
quanto della bambola tanto alla buona che ha la cas a editrice. Vi racconterei anche il resto della
storia, ma come niente finisce che vomito. Non è ch e ve lo guasterei o qualcosa del genere. Non c'è
niente da guastare, Cristo santo. Ad ogni modo, fin isce che Alec e la bambola alla buona si sposano,
e il fratello che beve come una spugna si rimette i n sesto i nervi e opera la madre di Alec che torna a
vederci, e poi il fratello-spugna e la vecchia Marc ia si mettono a filare. Finisce che stanno tutti
seduti intorno a un lunghissimo tavolo e ridono a c repapelle perché arriva il danese con una frotta di
cuccioli. Tutti avevano creduto che fosse maschio, immagino, o qualche cretinata del genere. Io vi
dico solo di non andare a vederlo, se non volete vo mitarvi addosso.
Una cosa mi colpí, e fu una signora seduta vicino a me che pianse durante tutto quel dannato film.
Piú balordo diventava e piú lei piangeva. Avreste p otuto pensare che piangeva perché aveva il cuore
tenero come il burro, ma io le stavo seduto vicino e non era vero niente. Con lei c'era un ragazzino
che si annoiava a morte e aveva bisogno di andare a l gabinetto, e lei mica ce l'ha voluto portare.
Continuava a dirgli di star fermo e di fare il brav o. Quella aveva il cuore tenero suppergiú come un
lupo, accidenti. Prendete la gente che si consuma g li stramaledetti occhi a forza di piangere per le
cretinate balorde dei film, e nove volte su dieci i n fondo in fondo sono degli schifosi bastardi. Senz a
scherzi.
Finito il film, mi incamminai verso il Wicker Bar d ove dovevo incontrarmi col vecchio Carl Luce, e
strada facendo mi misi a pensare un po' alla guerra e tutto quanto. Quei film di guerra mi fanno
sempre quest'effetto. Non credo che potrei sopporta rlo, se dovessi andare in guerra. Non potrei
proprio. Non sarebbe tanto brutto se si limitassero a prendervi e a spararvi o qualcosa del genere,
ma è che bisogna stare nell'esercito cosí a lungo, accidenti. Questo è il guaio. Mio fr atello D. B. è
stato nell'esercito quattro maledettissimi anni. Ha fatto anche la guerra – è sbarcato in Normandia e
via discorrendo – ma in realtà credo che piú della guerra odiasse l'esercito. Io ero ancora un
ragazzino, a quell'epoca, ma mi ricordo quando veni va a casa in licenza eccetera eccetera e
praticamente non faceva altro che starsene sdraiato sul letto. Non veniva quasi mai nemmeno nella
stanza di soggiorno. Dopo, quando passò l'oceano e si trovò in guerra e via discorrendo, non fu
ferito né niente e non dové sparare nessuno. Non do veva far altro che scarrozzare tutto il giorno un
bullo di generale in una macchina del Comando. Una volta disse a me e ad Allie che se avesse
dovuto sparare qualcuno, non avrebbe saputo da che parte sparare. Disse che nell'esercito c'erano
tanti di quei bastardi da far concorrenza ai nazist i. Mi ricordo che Allie una volta gli domandò se in
fondo per lui non era una fortuna d'essere in guerr a, visto che era uno scrittore e c'erano tante cose
su cui scrivere e via dicendo. Lui mandò Allie a pr endere il suo guantone da baseball e poi gli
domandò chi avesse scritto le piú belle poesie di g uerra, se Rupert Brooke o Emily Dickinson. Allie
disse Emily Dickinson. Io di tutto questo non ne so molto, perché non leggo troppe poesie, ma so
che diventerei pazzo se dovessi stare nell'esercito e trovarmi tutto il tempo con un mucchio di gente
come Ackley e Stradlater e il vecchio Maurice, marc iando con loro e via discorrendo. Un tempo
sono stato nei boy scout per circa una settimana, e mi era insopportabile p erfino guardare la nuca
del tipo davanti a me. Stavano sempre a dirti di gu ardare la nuca di quello davanti. Giuro che se c'è
un'altra guerra, tanto vale che mi prendano e mi me ttano davanti al plotone d'esecuzione. Non mi
opporrei. Quello che mi colpisce di D. B., però, è che lui odiava tanto la guerra, eppure l'estate
scorsa mi ha fatto leggere quel libro, Addio alle armi . Ha detto che era fantastico. Ecco quello che
non arrivo a capire. Parlava di quel tale che si ch iamava tenente Henry e passava per un tizio in
gamba e via discorrendo. Non capisco come D. B. pot esse odiare tanto l'esercito e la guerra e tutto
quanto, e poi trovare bello un libro fasullo come q uello lí. Voglio dire, insomma, che non capisco
come potesse piacergli un libro fasullo come quello , se gli piaceva il libro di Ring Lardner, o

67/100 quell'altro per cui fa una malattia, Il grande Gatsby . D. B. si è arrabbiato quando gliel'ho detto, e ha
detto che ero troppo giovane per apprezzarlo eccete ra eccetera, ma io non credo. Gli ho risposto che
Ring Lardner mi piaceva e anche Il grande Gatsby eccetera eccetera. E lo pensavo sul serio. Per Il
grande Gatsby ci vado matto. Il vecchio Gatsby. Quella vecchia s agoma. Mi lasciava secco. Ad
ogni modo, sono quasi contento che abbiano inventat o la bomba atomica. Se c'è un'altra guerra,
vado a sedermici sopra, accidenti. E ci vado volont ario, lo giuro su Dio.

XIX.

Caso mai non foste di New York, il Wicker Bar sta i n quella specie di albergo chic, il Seton. Un
tempo ci andavo spessissimo, ma ora non ci vado piú . Ho smesso un po' alla volta. È uno di quei
posti che passano per sofisticatissimi e via discor rendo, e i palloni gonfiati ci si· buttano
all'arrembaggio. Un tempo c'erano quelle due bambol e francesi, Tina e Janine, che si presentavano a
sonare il piano e a cantare almeno tre volte tutte le sere. Una sonava il piano – un autentico schifo e
l'altra cantava, e per lo piú erano canzoni o alqua nto sconce o in francese. Quella che cantava, la
vecchia Janine, prima di cominciare bisbigliava sem pre qualcosa in quel dannato microfono.
Diceva: “E adesso ci piace darvi la nostra impressi one de Vulè vu Fransé. È la istorria di una
piccola rragazza franscese che arrrriva in una grra nde scittà, prroprrio come New Yorrk, e diviene
amorrosa di un piccolo rragazzo di Brruklín. Sperri amo che vi piasce”. Poi, quando aveva finito di
bisbigliare e di far la smorfiosa a tutto spiano, c antava una canzonetta idiota, un po' in inglese e u n
po' in francese, e mandava in sollucchero tutta que ll'assemblea di polli. Se ve ne stavate là seduto
per un pezzo a sentire tutti quei polli che applaud ivano e via discorrendo, arrivavate a odiare il
mondo intero, ve lo giuro. Era uno schifoso anche i l barista. Uno snob di prima forza. Non si
degnava nemmeno di parlarvi, se non eravate un pezz o grosso o una celebrità o qualcosa del genere.
E se eravate un pezzo grosso o una celebrità o qual cosa del genere, era ancora piú rivoltante.
Puntava dritto su di voi e con quel largo sorriso a ffascinante, come se fosse chi sa che personaggio,
visto che lo conoscevate, vi diceva: “Allora! Che s i fa nel Connecticut?” oppure “Che si fa in
Florida?” Era un posto tremendo, parola d'onore. Io un po' alla volta ho smesso di andarci.
Era un po' presto quando arrivai. Mi sedetti al bar – c'era parecchia gente – e ordinai un paio di
whisky e soda prima ancora che il vecchio Carl Luce comparisse. Li ordinai stando in piedi per far
vedere quant'ero alto eccetera eccetera, cosí non p ensavano che ero un minorenne della malora. Poi
me ne stetti un po' a guardare tutti quei palloni g onfiati. Un tale vicino a me stava facendo un sacco
di manfrine con la bambola che era con lui. Continu ava a dirle che aveva le mani aristocratiche. Mi
lasciò secco. Al fondo del bar c'era pieno di finoc chi. Non che ce l'avessero proprio scritto in facci a
– voglio dire, non è che avessero i capelli troppo lunghi né niente ma che erano finocchi si vedeva.
Finalmente ecco arrivare il vecchio Luce.
Il vecchio Luce. Che sagoma. Quando studiavo a Whoo ton me l'avevano dato come Compagno
Anziano. Ma l'unica cosa che faceva erano tutti que i discorsi sul sesso e compagnia bella, la sera
tardi, quando nella sua stanza c'erano un sacco di ragazzi. Era informatissimo sulle cose del sesso,
soprattutto sui pervertiti e compagnia bella. Ci pa rlava sempre di tutti quei tipi loschi che vanno
amoreggiando con le pecore, e quei tipi che se ne v anno in giro con un paio di mutandine da donna
cucite nella fodera del cappello e via discorrendo. E finocchi e lesbiche. Il vecchio Luce sapeva chi
erano tutti i finocchi e le lesbiche degli Stati Un iti. Non avevate che da nominare qualcuno –
chiunque – e il vecchio Luce vi diceva se era finocchio o n o. Talvolta era difficile credere che certe
persone fossero finocchi e lesbiche come pretendeva lui, attori del cinema e gente cosí. Lui diceva
che erano finocchi certi individui che erano addiri ttura sposati, Dio santo! Noi continuavamo a
ripetergli “Vuoi dire che Joe Blow è un finocchio? Joe Blow ? Quel tipaccio grosso con la grinta,
quello che fa sempre le parti da gangster e da cowb oy?” E il vecchio Luce: “Ma certo”. Diceva
sempre “Ma certo”, lui. Diceva che non contava nien te se uno era sposato. Diceva che in tutto il
mondo metà degli uomini sposati sono finocchi e nem meno lo sanno. Diceva che uno come niente
può diventare finocchio dalla sera alla mattina, se ne ha tutte le caratteristiche e via discorrendo. Ci

68/100 metteva addosso una paura infernale. Io vivevo aspe ttandomi di diventare finocchio o qualcosa del
genere. Il buffo, col vecchio Luce, è che io pensav o che fosse un po' finocchio anche lui, in un certo
senso. Diceva sempre “Prova un po' se questo ti cal za”, e poi ti stuzzicava il didietro a tutta forza
mentre tu te ne andavi per il corridoio. E ogni vol ta che andava al gabinetto non c'era caso che
chiudesse quella maledetta porta, e mentre tu ti la vavi i denti o che so io, lui chiacchierava . Se
queste non son cose da finocchi, dico io. Sul serio . Ho conosciuto un sacco di autentici finocchi, a
scuola e via discorrendo, e fanno sempre cose del g enere, ed ecco perché ho sempre avuto i miei
bravi sospetti sul vecchio Luce. Però era un tipo m olto intelligente. Sul serio.
Quando t'incontrava non c'era caso che ti salutasse . Appena si fu seduto, per prima cosa disse subito
che poteva trattenersi soltanto un paio di minuti. Aveva un appuntamento, disse. Poi ordinò un
martini secco. Disse al barista che lo voleva molto secco e senza oliva.
– Ehi, ti ho procurato un finocchio, – gli dissi. – In fondo al bar. Non guardare subito. Te l'ho tenu to
in serbo.
– Da crepare dal ridere, – disse lui. – Sempre lo s tesso vecchio Caulfield. Quando ti decidi a
crescere?
Gli facevo girar le scatole da morire. Sul serio. L ui però mi divertiva. Era uno di quei tipi che mi
divertono immensamente.
– Come va la tua vita sessuale? – gli domandai. Non poteva soffrire che gli faceste domande di
questo genere.
– Calma, bello, – disse. – Siediti comodo e calmati , Cristo santo.
– Sono calmissimo, – dissi. – Come va alla Columbia ? Ti piace?
– Certo che mi piace. Se non mi piacesse non ci sar ei andato, – disse. Sapeva essere alquanto
barboso anche lui, certe volte.
– Che cosa stai studiando? – gli domandai. – Perver titi? – Scherzavo, naturalmente.
– Cosa credi di fare, lo spiritoso?
– No. Stavo solo scherzando, – dissi. – Sta' a sent ire, Luce. Tu sei un intellettuale. Mi occorre il t uo
consiglio. Mi trovo in un tremendo…
Lui emise un profondo gemito. – Senti , Caulfield. Se vuoi che stiamo qui a berci qualcos a in santa
pace, e ad avere in santa pace un tranquillo scambio di…
– Va bene, va bene, – dissi. – Calmati -. Era chiar o che non gli andava di parlare di cose serie con
me. Ecco il guaio, con questi intellettuali. Se non va a loro , non vogliono mai parlare di cose serie.
Cosí andò a finire che mi misi a parlare di cose ge nerali. – No, senza scherzi, come va la tua vita
sessuale? – gli domandai. – Ti scorrazzi ancora que lla bambola con cui te la facevi ai tempi di
Whooton? Quella con quel fantastico…
– Buon Dio, no, – disse lui.
– Come mai? Che ne è successo?
– Non ne ho la piú pallida idea. Per quel che ne so io, a quest'ora probabilm ente sarà la Regina delle
Puttane del New Hampshire, visto che me lo domandi.
– Questo non è bello da parte tua. Se era tanto gen tile da lasciarti provare un rapporto erotico con l ei
ogni volta che volevi, almeno non dovresti parlarne in questo modo.
– Oh, Dio! – disse il vecchio Luce. – Vuoi proprio che facciamo una tipica conversazione alla
Caulfield? Dimmelo subito.
– No, – dissi io, – ma non è bello da parte tua lo stesso. Se era tanto civile e carina da lasciarti.. .
– Non possiamo proprio piantarla di pensare a quest e cose insopportabili?
Non dissi niente. Avevo una certa paura che si alza sse e tagliasse la corda, se non chiudevo il becco.
Cosí andò a finire che mi ordinai un altro bicchier e. Avevo una gran voglia di sbronzarmi da non
poterne piú.
– Con chi te la fai, adesso? – gli domandai. – Se t i va di dirmelo.
– Non la conosci.
– Sí, ma chi è? Come niente la conosco.
– Una ragazza che vive al Village. Una scultrice. S e proprio devi saperlo.

69/100 – Davvero? Senza scherzi? Quanti anni ha?
– E chi gliel'ha mai domandato, Dio santo!
– Be', suppergiú.
– Direi che è vicina ai quaranta , – disse il vecchio Luce.
– Vicina ai quaranta? Davvero? E ti piace? – gli do mandai.
– Ti piacciono cosí vecchie? – Glielo domandavo per la semplice ragione che lui era proprio un'arca
di scienza sulle cose del sesso e compagnia bella. Era uno dei pochi individui dei quali sapevo di
sicuro che erano un'arca di scienza. Aveva perso la sua verginità quando aveva appena quattordici
anni, nel
Nantucket. Sul serio.
– Mi piace una persona matura, se è questo che vuoi dire. Ma certo.
– Davvero? Perché? Sul serio, sono meglio dal punto di vista sessuale e compagnia bella?
– Sta' a sentire. Chiariamo subito una cosa, Staser a mi rifiuto di rispondere a ogni qualsivoglia
domanda tipo Caulfield. Quando diavolo ti deciderai a crescere?
Per un po' non dissi niente. Per un po' lasciai per dere, Poi il vecchio Luce ordinò un altro martini e
disse al barista di farlo molto piú secco.
– Sta' a sentire. Da quanto tempo te la fai con lei , con questa bambola che fa la scultrice? – gli
domandai, Mi interessava proprio. – La conoscevi gi à, quando stavi a Whooton?
– Figurati ! È arrivata in America pochi mesi fa,
– Davvero? Da dove?
– Si dà il caso che venga da Shangai,
– No, senza scherzi! È cinese, Cristo?
– Naturale.
– No, senza scherzi! E ti piace? Che sia cinese?
– Naturale.
– Perché? Mi interesserebbe proprio di saperlo, sul serio.
– Si dà il caso ch'io trovi la filosofia orientale piú soddisfacente di quella occidentale, ecco tutto ,
Visto che me lo domandi .
– Davvero? Cosa vuoi dire, con “filosofia”? Vuoi di re il sesso e compagnia bella? In Cina è meglio,
vuoi dire? È questo che vuoi dire?
– Non necessariamente in Cina , Cristo santo, L'Oriente , ho detto io. Dobbiamo proprio continuare
questa futile conversazione?
– Sta' a sentire, parlo sul serio, – dissi, – Non s to scherzando. Perché è meglio in Oriente?
– È troppo complicato per parlarne, Dio santo, – di sse il vecchio Luce. – Si dà il caso che quelli
considerino il sesso come un'esperienza tanto fisic a quanto spirituale, ecco tutto, se credi che…
– Anch'io! Anch'io lo considero una comesichiama, u n'esperienza fisica e spirituale e tutto quanto.
Sul serio. Ma secondo con chi diavolo lo faccio. Se lo faccio con una che nemmeno mi…
– Non parlare cosí forte , Dio santo, Caulfield. Se non riesci a tener bassa la voce, lasciamo perdere
tutto questo…
– D'accordo, ma sta' a sentire, – dissi. Ero preso dall'entusiasmo e in realtà parlavo un po' troppo
forte. Certe volte parlo un po' forte quando mi ent usiasmo. – Voglio dire questo, però, – dissi. – Lo
so che dovrebbe essere una cosa fisica e spirituale e artistica e via discorrendo. Ma quello che
voglio dire è che non puoi farlo con chiunque , qualunque ragazza con cui ti metti a pomiciare e via
discorrendo, e riuscire a trasformarlo in quel modo . Puoi, tu?
– Lasciamo perdere, – disse il vecchio Luce. – Ti s ecca?
– D'accordo, ma sta' a sentire. Tu e quella bambola cinese, mettiamo. Cos'è che va tanto bene tra voi
due?
– Piantala , ti ho detto.
Stavo diventando un po' troppo indiscreto. Me ne re ndo conto. Ma quello era uno dei lati seccanti di
Luce. Quando eravamo a Whooton, lui si faceva racco ntare per filo e per segno le cose piú intime
che succedevano a te , ma se facevi qualche domanda indiscreta a lui , si arrabbiava. A questi

70/100 intellettuali non garba di fare un discorso intelle ttuale con te se non sono loro a manovrare le cose.
Vogliono sempre che stai zitto quando stanno zitti loro , che ti chiudi in camera quando si chiudono
in camera loro . Quando stavo a Whooton, se c'era
una cosa che il vecchio Luce non poteva sopportare – e si vedeva lontano un miglio – era che
quando aveva finito di tenere circolo nella sua sta nza con tutti quei discorsi sul sesso noi
continuassimo a chiacchierare un po' per conto nost ro. Io e gli altri, dico. Nella stanza di qualcun
altro. Il vecchio Luce non poteva sopportarlo. Quan do aveva finito d'essere il primo attore, voleva
sempre che ognuno tornasse nella propria stanza e t enesse il becco chiuso. Aveva paura di una cosa
sola, che qualcuno dicesse qualcosa di piú intellig ente di quello che aveva detto lui . Mi divertiva
proprio.
– Forse andrò in Cina. Ho una vita sessuale che è u no schifo, – dissi.
– Logico. La tua mente è immatura,.
– È vero. È proprio vero. Lo so, – dissi, – Sai qua l è il mio guaio? Con una ragazza, se non è una che
mi piace proprio da matto, non mi riesce a diventar e sessuale; dico, veramente sessuale. Deve
proprio piacermi moltissimo, voglio dire, se no, tutto il mio maled etto desiderio per lei va a farsi
benedire eccetera eccetera. Accidenti, questo limit a la mia vita sessuale in un modo pauroso. La mia
vita sessuale è un disastro.
– Ma è naturale, Dio santo. Te l'ho detto l'ultima volta che ci siamo visti, di che cosa avevi bisogno
tu.
– Andare da un psicanalista e via discorrendo, vuoi dire?- domandai. Mi aveva detto che avrei
dovuto fare proprio questo. Suo padre era psicanali sta eccetera eccetera,
– È affar tuo, Dio santo. Non me ne importa un acci dente, a me, di quello che fai della tua vita.
Per un po' non dissi niente. Pensavo.
– Supponendo che andassi da tuo padre e mi facessi psicanalizzare e tutto quanto, – dissi. – Che cosa
mi farebbe, lui? Voglio proprio sapere, che cosa mi farebbe?
– Non ti farebbe un accidente. Lui parlerebbe a te e tu parleresti a lui, Dio santo, ecco tutto, Tanto
per cominciare, ti aiuterebbe a riconoscere i tuoi schemi mentali.
– I che?
– I tuoi schemi mentali. La tua mente lavora", Sta' un po' a sentire. Mica mi metto a farti un corso
elementare di psicanalisi, io. Se t'interessa, chia malo al telefono e prendi appuntamento. Se no
arrangiati. Sapessi quanto me ne infischio, se devo esser franco.
Gli misi una mano sulla spalla. Ragazzi, mi diverti va proprio. – Sei un vero gran bastardo d'amico, –
gli dissi. – Lo sai?
Lui stava guardando l'orologio. – Devo fílarmela, – disse, e si alzò. – Contentissimo d'averti visto – .
Chiamò il barista e gli disse di portargli il suo c onto.
– Ehi, – dissi io, proprio prima che scappasse via. – A te ti ha mai psicanalizzato, tuo padre?
– A me? Perché me lo domandi?
– Cosí. Ma ti ha psicanalizzato, sí o no? L'ha fatt o?
– Non esattamente. Entro certi limiti, mi ha aiutat o ad adattarmi , ma non è stata necessaria
un'analisi approfondita. Perché me lo domandi?
– Cosí. Ero curioso di saperlo.
– Bene. Vacci piano, – disse. Stava lasciando la ma ncia e compagnia bella e stava per andarsene.
– Bevi ancora un bicchiere, – gli dissi. – Per piac ere. Sono solo come un cane. Senza scherzi.
Ma lui disse che non poteva. Era tardi, disse, e an dò via.
Il vecchio Luce. Era uno che ti stava sulle scatole come pochi, ma senza dubbio aveva un
vocabolario di prim'ordine.
Quando ero a Whooton, non c'era nessun ragazzo che gli stesse a pari quanto a ricchezza di parole.
Ce lo portavano a esempio.

XX.

71/100
Me ne restai là seduto a sbronzarmi e ad aspettare che comparissero la vecchia Tina e la vecchia
Janine a fare la loro solita solfa, ma non c'erano piú. Comparve un tipo di finocchio dalle chiome
ondulate che sonava il piano, e poi venne fuori a c antare quella nuova bambola, Valencia. Non era
niente di speciale, ma sempre meglio di Tina e Jani ne, e se non altro cantava belle canzoni. Il piano
stava proprio vicino al bar dov'ero seduto io e com pagnia bella, e la vecchia Valencia era lí in piedi
praticamente a un passo da me. Io mi misi a spoglia rla con gli occhi, ma quella fece finta di non
avermi nemmeno visto. Non l'avrei fatto, probabilme nte, ma mi stavo prendendo una sbornia
dell'accidente. Quando finí di cantare, se la filò dalla sala cosí in fretta che non ebbi nemmeno la
possibilità di invitarla a bere qualcosa con me, al lora chiamai il capo cameriere. Gli dissi di
domandare alla vecchia Valencia se voleva sedersi a bere con me. Lui disse che andava a
domandarglielo. Ma figuriamoci se le disse qualcosa . La gente non porta mai le ambasciate a
nessuno.
Ragazzi, restai seduto a quel maledetto bar fin ver so l'una prendendomi una solennissima sbornia. A
momenti ci vedevo doppio. Stavo attentissimo a una cosa sola, però, a non diventare turbolento né
niente. Non volevo che qualcuno si accorgesse di me o vattelappesca e mi domandasse quanti anni
avevo. Ma ragazzi, a momenti ci vedevo doppio. Quan do fui proprio ciucco, ricominciai quella
stupida commedia della pallottola in pancia. Ero l' unico in quel bar con una pallottola in pancia.
Continuavo a tenere la mano sotto la giacca, sulla pancia e compagnia bella, perché il sangue non
mi gocciolasse dappertutto. Non volevo far sapere n emmeno che ero ferito, a nessuno. Nascondevo
il fatto che ero un figlio d'un cane di ferito. Be' , poi andò a finire che mi venne voglia di fare una
telefonata alla vecchia Jane per sapere se era già a casa. Sicché pagai il conto e tutto quanto. Poi
uscii dal bar e andai dove c'erano i telefoni. Cont inuavo a tenermi la mano sotto la giacca per
evitare che il sangue gocciolasse. Ragazzi, che sbo rnia! Ma quando entrai in quella cabina
telefonica, non ero piú molto in vena di chiamare J ane. Ero troppo sbronzo, mi sa. Allora andò a
finire che chiamai la vecchia Sally. Dovetti fare u na ventina di numeri prima di azzeccare quello
giusto. Ragazzi, e chi ci vedeva!
– Pronto! – dissi, quando a quel dannato telefono r ispose qualcuno. Urlai, quasi, tanto ero sbronzo.
– Chi parla? – disse quella gelida voce da gran dam a.
– Sono io. Holden Caulfield. Mi fa parlare con Sall y, per favore.
– Sally dorme . Io sono la nonna di Sally. Perché chiama cosí tar di, Holden? Ma lo sa che ora è?
– Sí. Voglio parlare con Sally. Importantissimo. Me la passi.
– Sally dorme , giovinotto. La chiami domani. Buonanotte.
– La svegli! La svegli, dico! Dai, forza!
Allora si sentí un'altra voce. – Holden, sono io -. Era la vecchia Sally. – Cos'è quest'idea brillante ?
– Sally? Sei tu?
– Sí, e smettila di gridare. Sei ubriaco?
– Sí. Sta' a sentire. Ehi, sta' a sentire. Vengo la vigilia di Natale. D'accordo? A decorarti quel
maledetto albero. D'accordo? Ehi, Sally, d'accordo?
– Sí. Sei ubriaco. Ora va' a letto. Dove sei? Chi c 'è con te?
– Sally? Vengo a decorarti l'albero, d'accordo? D'a ccordo, si o no?
– Sí . Ora va' a letto. Dove sei? Chi c'è con te?
– Nessuno. Me, io e me stesso -. Ragazzi, che sborn ia!
Stavo perfino reggendomi ancora la pancia. – Mi han no impiombato. Gli scagnozzi di Rocky mi
hanno impiombato. Lo sai? Sally, lo sai?
– Non ti sento. Ora va' a letto. Devo lasciarti. Ch iamami domani.
– Ehi, Sally! Vuoi che ti decori l'albero? Vuoi? Eh ?
– Sí ! Buonanotte. Vattene a casa e mettiti a letto.
E riattaccò.
– 'Notte. 'Notte. Piccola Sally. Sally adorata teso ro, – dissi. Ve lo figurate, quant'ero sbronzo? Poi
riattaccai a mia volta. Mi immaginai che probabilme nte era appena tornata a casa da un

72/100 appuntamento. La vidi fuori coi Lunt e compagnia be lla in qualche posto, e quel lavativo che
andava ad Andover. Tutti quanti che nuotavano in un a maledetta teiera e si dicevano cose molto
intellettuali e facevano gli irresistibili e i balo rdi. Mi mordevo le mani all'idea di averle telefona to.
Quando sono sbronzo, ammattisco.
Restai in quella dannata cabina telefonica per un p ezzo. Continuavo a reggermi al telefono, in certo
qual modo, se no crollavo. Non mi sentivo in gran f orma, se volete proprio saperlo. Finalmente,
però, uscii di là e andai alla toletta degli uomini , urlando come un cretino, e riempii un lavabo di
acqua fredda. Poi ci tuffai dentro la testa fino al le orecchie. Non mi curai nemmeno di asciugarla né
niente. Che quella figlia di puttana gocciolasse, a men. Poi andai al termosifone vicino alla finestra e
mi ci sedetti sopra. Era caldo e gradevole. Mi face va sentir bene perché stavo tremando come un
idiota. È una cosa buffa, quando mi sbronzo tremo s empre a tutto spiano.
Non avevo nient'altro da fare, sicché me ne restai seduto sul termosifone a contare quei piccoli
riquadri bianchi del pavimento. Mi stavo inzuppando . L'acqua mi gocciolava sul collo a litri e finiva
tutta sul colletto e sulla cravatta e compagnia bel la, ma non me ne importava un accidente. Ero
troppo ciucco per badarci. Poi, non era passato mol to, quel tale che sonava il piano per la vecchia
Valencia, quella specie di finocchio tutto ondulato , entrò per pettinarsi i riccioli d'oro. Mentre si
stava pettinando attaccammo un po' discorsa, per qu anto non è che lui fosse tanto cordiale.
– Ehi. Vede quella bambola di Valencia, adesso che torna nel bar? – gli domandai.
– È estremamente probabile, – disse lui. Bastardo s piritoso. Tutti quelli che incontro io sono dei
bastardi spiritosi.
– Senta. Le porga i miei ossequi. E le domandi se q uel maledetto cameriere le ha fatto la mia
ambasciata, le spiace?
– Perché non te ne vai a casa, bello? Quanti anni h ai, a proposito?
– Ottantasei. Senta. Le porga i mie ossequi. Intesi ?
– Perché non te ne vai a casa, bello?
– Perché no. Ragazzi, lo sa sonare proprio, lei, qu el maledetto piano! – gli dissi. Lo stavo solo
lisciando. Sonava il piano in modo schifo, se propr io volete saperlo. – Dovrebbe andare alla radio, –
dissi. – Uno bello come lei. Tutti quei dannati ric cioli d'oro. Le occorre un agente?
– Vattene a casa, bello, su da bravo. Vattene a cas a e fatti un bel sonno.
– Non ho una casa dove andare. Senza scherzi, le oc corre un agente?
Non mi rispose. Si limitò ad uscire. Aveva finito d i pettinarsi e di lisciarsi e via discorrendo, e co sí
se ne andò. Come Stradlater. Questi apolli sono tut ti uguali. Quando si sono pettinati ben bene i loro
stramaledetti capelli, ti piantano in asso.
Quando alla fine scesi dal termosifone e mi diressi al guardaroba, stavo piangendo e tutto quanto.
Vattelappesca perché, ma piangevo. Forse perché mi sentivo cosí maledettamente solo e depresso,
immagino. Poi, quando arrivai al guardaroba, Dio so lo sa dove avevo messo quel maledetto
scontrino. Là ragazza del guardaroba fu molto carin a, però. Mi diede il soprabito lo stesso. E il mio
disco di Little Shirley Beans – che ce l'avevo ancora e via discorrendo. Le died i un dollaro perché
era stata cosí carina, ma lei non volle prenderlo. Continuava a dirmi di andare a casa e di mettermi a
letto. Feci qualche tentativo di darle un appuntame nto per quando smontava dal lavoro, ma lei non
volle. Disse che era abbastanza vecchia per essere mia madre e via discorrendo. Io le feci vedere i
miei stramaledetti capelli bianchi e le dissi che a vevo quarantadue anni – per scherzo, naturalmente.
Era carina, però. Le feci vedere quel mio dannato b erretto rosso da cacciatore e le piacque. Prima
che uscissi me lo fece mettere perché avevo ancora i capelli fradici. Era proprio in gamba.
Quando uscii non mi sentivo piú tanto sbronzo, ma e ra tornato un gran freddo e cominciai a battere
i denti come un dannato. Non riuscivo a trattenermi . Andai fino alla Madison Avenue e mi misi ad
aspettare un autobus, perché non avevo quasi piú so ldi e dovevo cominciare a far economia sui tassí
e via discorrendo. E del resto, non sapevo nemmeno dove andare. Cosí andò a finire che mi
incamminai verso il parco. Mi venne l'idea di andar e a quel laghetto per vedere che diavolo
facessero le anitre, se c'erano o no. Ancora non sa pevo se c'erano o no. Il parco non era molto

73/100 lontano e io non avevo nessun altro posto dove anda re – non sapevo nemmeno dove sarei andato a
dormire – cosí andai là. Non avevo sonno né niente. Avevo solo una malinconia del diavolo.
Poi, proprio mentre entravo nel parco, successe una cosa terribile. Mi cadde di mano il disco della
vecchia Phoebe. Si ruppe in cinquanta pezzi a dir p oco. Era in una grossa busta e tutto quanto, ma si
ruppe lo stesso. A momenti piangevo, mi sentivo in un modo terribile, ma non feci altro che tirare
fuori i pezzi dalla busta e mettermeli nella tasca del soprabito. Non servivano piú a un accidente, ma
non me la sentivo di buttarli via. Poi andai nel pa rco. Ragazzi, che buio!
Ho passato a New York tutta la mia vita e conosco C entral Park come le mie tasche, perché da
bambino ero sempre là a pattinare e a scorrazzare i n bicicletta, ma quella notte sudai sette camicie a
trovare quel lago. Sapevo benissimo dov'era – era proprio a due passi da Central Park South e via
discorrendo – ma non mi riusciva di trovarlo. Dovev o essere piú ciucco di quanto credessi.
Continuavo a camminare, un passo dietro l'altro, e intorno a me tutto diventava sempre piú buio e
sempre piú spettrale. Non vidi un'anima per tutto i l tempo che restai nel parco. Meglio cosí.
Probabilmente avrei fatto un balzo di almeno un chi lometro, se avessi incontrato qualcuno. Poi, alla
fine, lo trovai. Era mezzo gelato e mezzo no, ecco com'era. Ma non vidi nemmeno un'anitra. Feci
tutto il giro di quel maledetto lago – a un certo p unto per poco non ci cascavo dentro , anzi – ma non
vidi un'anitra neanche a pagarla. Pensai che forse non ce n'erano, come niente dormivano o che so
io vicino all'orlo dell'acqua, vicino all'erba e co mpagnia bella. Fu cosí che per poco non ci cascavo
dentro. Ma non ne trovai neanche una.
Alla fine mi sedetti su quella panchina, e là non c 'era quel buio d'inferno. Ragazzi, stavo ancora
tremando come un idiota, e con tutto che avevo in t esta il mio berretto da cacciatore i capelli, dietr o,
mi si erano come riempiti di piccoli pezzetti di gh iaccio. Questo mi preoccupava. Come niente mi
prendevo la polmonite e morivo, pensai. Allora mi m isi a figurarmi i milioni di balordi che
sarebbero venuti al mio funerale eccetera eccetera. Mio nonno di Detroit, quello che quando andate
in autobus con lui dice forte i numeri delle strade , e le mie zie – ho una cinquantina di zie – e tutt i
quei pidocchiosi dei miei cugini. Che ciurma ci sar ebbe stata! Vennero tutti quando morí Allie, tutta
quella dannata banda di cretini. Ho quella zia cret ina con l'alito cattivo che non la finiva piú di di re
che Allie aveva un'aria cosí serena , lí disteso. Me l'ha raccontato D. B. Io non c'ero . Stavo ancora in
ospedale. Ero dovuto andare in ospedale e tutto qua nto, dopo essermi fatto male alla mano. Ad ogni
modo continuavo a preoccuparmi che stavo buscandomi una polmonite, ma tutti quei pezzetti di
ghiaccio nei capelli, e che sarei morto. Mi dispiac eva enormemente per mia madre e mio padre.
Soprattutto per mia madre, perché non si era ancora ripresa dopo mio fratello Allie. Continuavo a
raffigurarmela che non sapeva cosa fare di tutti i miei vestiti e l'attrezzatura sportiva e compagnia
bella. Una sola cosa andava bene: sapevo che non av rebbe permesso alla vecchia Phoebe di andare
al mio maledetto funerale, perché era soltanto una ragazzina. Questa era l'unica cosa che andasse
bene. Poi pensai a tutti loro in gruppo che mi ficc avano in un dannato cimitero e via discorrendo,
col mio nome sulla lapide e via discorrendo. In mez zo a tutti quei morti. Ragazzi, quando morite vi
servono di tutto punto. Spero con tutta l'anima che quando morirò qualcuno avrà tanto buonsenso di
scaraventarmi nel fiume o qualcosa del genere. Qual unque cosa, piuttosto che ficcarmi in un
dannato cimitero. La gente che la domenica viene a mettervi un mazzo di fiori sulla pancia e tutte
quelle cretinate. Chi li vuole i fiori, quando sei morto? Nessuno.
Quando fa bel tempo, i miei genitori vanno spessiss imo a mettere un mazzo di fiori sulla tomba del
vecchio Allie. Sono andato con loro un paio di volt e, poi ho smesso. Tanto per cominciare, non mi
diverte proprio vederlo in quel cimitero pazzesco. In mezzo ai morti e alle tombe e compagnía bella.
Ancora ancora quando c'era il sole, ma ben due volt e – due volte – eravamo là quando cominciò a
piovere. Era spaventoso. Pioveva sulla sua lapide s chifa, e pioveva sull'erba sulla sua pancia.
Dappertutto, pioveva. Tutti quelli che erano andati a visitare il cimitero si misero a correre a gambe
levate verso le loro automobili. Fu questo a farmi quasi impazzire. Tutti quanti potevano correre
nelle loro automobili e aprire la radio e tutto qua nto e poi andare a cena in qualche posto gradevole
– tutti, fuorché Allie. Non potevo sopportarlo. Lo so che al cimitero c'è soltanto il suo corpo
eccetera eccetera e che la sua anima è in cielo e t utte quelle cretinate, ma non potevo sopportarlo lo

74/100 stesso. Vorrei soltanto che non fosse là. Voi non l o conoscevate. Se l'aveste conosciuto, capireste
cosa voglio dire. Ancora ancora quando c'è il sole, ma il sole viene fuori quando gli gira.
Dopo un po', tanto per togliermi dalla testa quell' idea che mi buscavo la polmonite e via
discorrendo, tirai fuori i miei soldi e mi misi a c ontarli alla luce schifa del lampione. Tutto quello
che mi restava erano tre colpi da uno, cinque da un quarto e un nichel – ragazzi, avevo speso un
patrimonio da quando ero partito da Pencey. Allora andò a finire che mi avvicinai al lago e feci a
rimbalzello con le monete da un quarto e il nichel, là dove non c'era il ghiaccio. Perché lo feci non
lo so, ma so che lo feci. Forse pensavo che mi avre bbe tolto dalla testa quell'idea di buscarmi la
polmonite e di morire, immagino. Però non me la tol se.
Cominciai a pensare che effetto avrebbe fatto alla vecchia Phoebe se mi fossi buscato la polmonite e
fossi morto. Erano idee da asilo infantile, ma non riuscivo a smetterla. Sarebbe stata molto male se
fosse successa una cosa simile. Le vado proprio a g enio. Voglio dire, mi vuole molto bene. Sul
serio. Ad ogni modo, non riuscivo a togliermi dalla testa quell'idea sicché alla fine mi venne in
mente quello che avrei fatto, mi venne in mente che era meglio se andavo a casa di nascosto e
vedevo Phoebe, nell'ipotesi che fossi morto e via d iscorrendo. Avevo la mia chiave e tutto quanto,
sarei entrato di nascosto nell'appartamento, piano piano e tutto quanto, e mi sarei fermato il tempo
di far quattro chiacchiere con lei. L'unica cosa ch e mi preoccupava era la porta d'ingresso. Cigola
come una dannata. È una casa piuttosto vecchia, la nostra, e l'amministratore è un bastardo sfaticato,
e tutto cigola e scricchiola. Avevo paura che i mie i genitori mi sentissero entrare. Ma decisi che
avrei tentato lo stesso.
Cosí me ne uscii subito dal parco e andai a casa. F eci tutta la strada a piedi. Non era tanto lontano, e
io non ero stanco e nemmeno piú sbronzo. C'era solo un freddo terribile, e nemmeno un cane in
giro.

XXI.

Quando arrivai a casa, mi toccò il piú gran colpo d i fortuna che avessi avuto da anni: all'ascensore
non c'era Pete, il solito lift del turno di notte. C'era un tizio nuovo che non avevo mai visto, sicch é
pensai che se non andavo proprio a sbattere faccia a faccia contro i miei e compagnia bella, potevo
dare un salutino alla vecchia Phoebe e poi filarmel a senza che nessuno sapesse nemmeno che ero
stato là. Fu proprio una fortuna fantastica. A rend ere tutto piú facile, il nuovo lift apparteneva all a
categoria dei deficienti. Con tono molto disinvolto , gli dissi di portarmi dai Dickstein. I Dickstein
erano quelli che occupavano l'appartamento vicino a l nostro sullo stesso piano. Poi mi tolsi il
berretto da cacciatore per non avere l'aria sospett a né niente, ed entrai nell'ascensore come se avess i
una gran premura.
Lui aveva già chiuso le porte e tutto quanto e stav a per portarmi su, quando si gira e mi fa: – Non
sono in casa. Sono a un ricevimento al quattordices imo piano.
– Non importa, – dissi io. – Devo aspettarli. Sono il nipote.
Lui mi diede quella specie d'occhiata idiota piena di sospetto. – Sarà meglio che aspetti nell'atrio,
amico, – disse.
– Magari, parlo sul serio, – dissi. – Ma ho male a una gamba. Devo tenerla in una certa posizione.
Credo che farò meglio a sedermi nella poltrona che c'è davanti alla loro porta.
Non aveva la minima idea di che diavolo stessi parl ando, perciò disse “Oh!” e mi portò su.
Magnifico, ragazzi. È buffo. Basta che diciate qual cosa che nessuno capisce e fate fare agli altri
tutto quello che volete.
Uscii al nostro piano – zoppicando come un dannato – e mi diressi verso il corridoio dei Dickstein.
Poi, quando sentii chiudersi le porte dell'ascensor e, feci dietro front e andai verso casa nostra. Me la
stavo cavando benissimo. Non mi sentivo piú nemmeno sbronzo. Allora tirai fuori la chiave e aprii
la porta, piano da morire. Poi, con tutte le cautel e e via dicendo, entrai e chiusi la porta. Avrei
proprio dovuto fare il ladro.

75/100 Nell'ingresso c'era un buio del diavolo, naturalmen te, e naturalmente non potevo accendere la luce.
Dovevo stare attento a non urtare contro qualcosa p er non fare rumore. Ma sapevo senz'ombra di
dubbio di essere a casa. Nel nostro ingresso c'è un odore buffo come non si sente in nessun altro
posto. Non so che diavolo sia. Non è di cavolfiore e non è un profumo – non so che diavolo sia, ma
uno sa subito che è a casa. Feci per togliermi il s oprabito e appenderlo nell'armadio dell'ingresso,
ma quell'armadio è pieno di grucce che sbattono com e dannate quando aprite lo sportello, cosí me
lo tenni addosso. Poi mi incamminai molto ma molto cautamente verso la camera della vecchia
Phoebe. Sapevo che la donna di servizio non mi avre bbe sentito perché ha un timpano solo. Aveva
un fratello, mi aveva raccontato una volta, che qua ndo lei era bambina le aveva infilato una paglia
nell'orecchio. Era sorda come un campanaro e via di scorrendo. Ma i miei genitori ci sentivano come
due dannati segugi, soprattutto mia madre. Sicché f eci proprio piano pianissimo, quando passai
davanti alla loro porta. Trattenni perfino il respi ro, Dio santo. Mio padre potete dargli una
seggiolata sulla testa e non si sveglia, ma mia mad re basta che tossite in qualche plaga della Siberia
e lei vi sente. È nervosa da non dirsi. Metà del te mpo sta su tutta la notte a fumare.
Finalmente, dopo un'oretta, arrivai nella camera de lla vecchia Phoebe. Lei non c'era, però. Me n'ero
dimenticato. Mi ero dimenticato che dorme sempre ne lla camera di D. B., quando lui è a Hollywood
o vattelappesca. Le piace perché è la camera piú gr ande della casa. E anche perché c'è quell'enorme
vecchia scrivania da pazzi che D. B. ha comprato da una gran dama alcolizzata di Philadelphia, e
quell'enorme letto gigantesco che è largo una quind icina di chilometri e lungo altrettanto. Il letto
non so dove l'abbia. comprato. Ad ogni modo, alla v ecchia Phoebe piace dormire nella camera di D.
B. quando lui non c'è, e lui glielo permette. Dovre ste vederla quando fa i compiti o chi sa che a
quella scrivania da matti. È quasi enorme come il l etto. E quando lei fa i compiti quasi non si riesce
a vederla. Queste sono le cose che le piacciono, pe rò. La sua camera non le piace perché è troppo
piccola, dice. Dice che le piace espandersi. Mi las cia proprio secco. Che diavolo ha da espandere la
vecchia Phoebe? Niente!
Ad ogni modo entrai nella camera di D. B., piano da morire, e accesi la lampada sulla scrivania. La
vecchia Phoebe non si svegliò nemmeno. Dopo aver ac ceso la luce eccetera eccetera, me ne restai
per un po' a guardarla. Stava lí addormentata, col viso quasi sull'orlo del cuscino. Aveva la bocca
semiaperta. È buffo. Prendete gli adulti, sono brut ti forte quando dormono e se ne stanno là con la
bocca aperta, ma i bambini no. I bambini non c'è ni ente da ridire. Magari hanno anche sbavato tutto
il cuscino, ma non c'è niente da ridire lo stesso.
Girellai per la camera, pianissimo eccetera ecceter a, e per un po' guardai tutto quello che c'era.
Miracolo, mi sentivo in gamba. Non sentivo nemmeno piú che stavo per buscarmi la polmonite o
chi sa che. Mi sentivo proprio bene, miracolo. I ve stiti della vecchia Phoebe stavano sulla sedia
vicino al letto. È molto ordinata, per essere una b ambina. Voglio dire, non butta la sua roba di qua e
di là come tutti i ragazzini, Non è un'arruffona. A veva appeso alla spalliera della sedia la giacchett a
di quel vestitino marrone bruciato che mamma le ave va comprato nel Canada. La camicetta e il
resto erano sul sedile,
Le scarpe coi calzini erano sul pavimento, proprio sotto la sedia, l'una accostata all'altra. Non avev o
mai visto quelle scarpe. Erano nuove. Erano quei mo cassini color cuoio, un po' come quelli che ho
io, e andavano benissimo con quel vestito che mamma le aveva comprato nel Canada. Mamma la
veste carína. Sul serio. In certe cose ha un gusto fantastico, mia madre. Per comprare i pattini o rob a
del genere è negata, ma in fatto di vestiti nessuno la batte. Voglio dire, Phoebe porta sempre dei
vestiti da lasciarvi secco. Prendete la maggior par te dei ragazzini, anche se i genitori sono ricchi
sfondati, di solito portano certi vestiti tremendi. Vorrei farvi vedere la vecchia Phoebe con quel
vestito che mamma le ha comprato nel Canada. Senza scherzi.
Mi sedetti alla scrivania del vecchio D. B. e guard ai quello che c'era sopra. Era quasi tutta roba di
Phoebe, di scuola e compagnia bella. Libri, sopratt utto. Quello in cima era intitolato L'aritmetica è
divertente ! Aprii la prima pagina e ci diedi un'occhiata. Ecc o che cosa ci aveva scritto la vecchia
Phoebe:
Phoebe Weatherfield Caulfield
4 B-i

76/100 Restai secco. Il suo secondo nome è Josephine, Dio santo, non Weatherfield. Però non le piace.
Ogni volta che la vedo, si è pescato un altro secon do nome.
ll libro sotto l'aritmetica era di geografia, e il libro sotto quello di geografia era di ortografia. Lei è
molto brava in ortografia. È molto brava in tutto, ma in ortografia piú che nel resto. Poi, sotto il
libro di ortografia, c'erano un mucchio di notes. N e avrà cinquantamila. Mai vista una ragazzina con
tanti notes. Aprii quello sopra e guardai la prima pagina. C'era scritto:
Bernice troviamoci a ricreazione devo dirti
una cosa importantissima.
Su quella pagina non c'era altro. Sulla pagina dopo c'era scritto:
Perché nell'Alaska sudorientale ci sono tante
fabbriche di scatolame?
Perché c'è tanto salmone.
Perché ci sono foreste pregiate?
Perché il clima è quello giusto.
Che cosa ha fatto il nostro governo per
migliorare la vita degli esquimesi dell'Alaska?
studiare per domani!!!
Phoebe Weatherfield Caulfield
Phoebe Weatherfeld Caulfield
Phoebe Weatherfield Caulfield
Phoebe W. Caulfield
Phoebe Weatherfield Caulfield Esq.
Per favore passare a Shirley!!!
Shirley tu hai detto che sei sagittario
ma sei soltanto toro quando vieni a casa mia
porta i pattini.
Stavo seduto là alla scrivania di D. B. e mi lessi tutto il notes. Non mi ci volle molto, e io sono
capace di passare tutto il giorno e tutta la notte a leggere cose di questo genere, il notes di un
pivello, che sia Phoebe o vattelappesca. I notes de i pivelli mi lasciano secco. Poi accesi un'altra
sigaretta – era l'ultima. Devo averne fumati tre pa cchetti almeno, quel giorno. Poi, finalmente, la
svegliai. Voglio dire, non potevo mica passate tutt a la vita seduto a quella scrivania, e del resto
avevo paura che da un momento all'altro mi piombass ero tra capo e collo i miei genitori e prima
volevo almeno salutarla. Cosí la svegliai.
Lei non ci vuole niente a svegliarla. Voglio dire, non c'è bisogno di gridare né niente. In pratica,
basta sedersi sul suo letto e dirle “Svegliati, Pho ebe”, e pam, eccola sveglia.
– Holden ! – disse subito. Mi buttò le braccia al collo ecce tera eccetera. È molto affettuosa. Voglio
dire, è molto affettuosa, per essere una bambina. C erte volte è perfino troppo affettuosa. Io le diedi
un bacetto e lei disse: – Quando sei ritornato? – E ra felice come una pasqua. Si vedeva lontano un
miglio.
– Parla piano. Adesso. Come stai, prima di tutto?
– Bene. Hai avuto la mia lettera? Ti ho scritto ben cinque pagine…
– Sí, parla piano. Grazie.
Mi aveva scritto quella lettera. Io però non ero ri uscito a risponderle. Non parlava che di quella
recita di scuola nella quale aveva una parte. Mi av eva detto di non prendere impegni né niente per
venerdí, perché dovevo andare a vederla.
– Come va la recita? – le domandai. – Come hai dett o che è intitolata?
– Parata di Natale per gli Americani. È uno schifo, ma io faccio Benedict Arnold. Praticamente è la
parte principale, – disse. Ragazzi, era altro che s veglia. Si entusiasma moltissimo quando vi racconta
queste cose. – Comincia che io sto morendo. E allor a la vigilia di Natale viene questo fantasma e mi
domanda se non mi vergogno eccetera eccetera. Sai, perché ho tradito il mio paese eccetera
eccetera. Ci vieni? – Si era messa a sedere sul let to e via dicendo. – È di questo che ti ho scritto. Ci
vieni?
– Certo che ci vengo. Ci vengo senz'altro.
– Papà non può venire. Va in California in aereo, – disse.

77/100 Ragazzi, era altro che sveglia. A lei le bastano sí e no due secondi per svegliarsi completamente.
Stava seduta sul letto mezzo inginocchiata – e tene va stretta la mia dannata mano.
– Senti un po'. Mamma aveva detto che venivi a casa mercoledí , – disse. – Ha detto mercoledí .
– Sono venuto via prima, parla piano. Svegli tutti.
– Che ora è? Torneranno a casa molto tardi, ha dett o la mamma. Sono andati a un ricevimento a
Norwalk nel Connecticut, – disse la vecchia Phoebe. – Indovina cosa ho fatto oggi! Che film ho
visto. Indovina!
– Non lo so. Senti, non hanno detto a che ora…
– Il medico , – disse la vecchia Phoebe. – È un film speciale c he davano alla Fondazione Lister. Lo
davano un giorno solo, oggi era l'unico giorno. Par la di questo medico del Kentucky eccetera
eccetera che mette una coperta sul viso di quella b ambina che è storpia e non può camminare.
Allora lo mandano in prigione eccetera.eccetera. Er a bellissimo.
– Sta' a sentire un momentino. Non hanno detto a ch e ora…
– A lui gli dispiace, al medico. È per questo che l e mette quella coperta sul viso eccetera eccetera e
la fa soffocare. Poi loro lo mandano in prigione pe r tutta la vita, ma quella bambina che lui le ha
messo la coperta sulla testa va sempre a trovarlo e lo ringrazia per quello che ha fatto. Lui
ammazzava per pietà. Solo che lui lo sa che si meri ta di andare in prigione, perché un medico non
deve portar via le cose a Dio. Ci ha portato la mam ma di quella ragazza che sta in classe con me,
Alice Holmborg. È la migliore amica. È l'unica raga zza di tutta…
– Vuoi aspettare un momentino? – dissi. – Ti sto domandan do una cosa. Hanno detto a che ora
sarebbero tornati, o no?
– No, ma molto tardi. Papà ha preso la macchina e t utto, cosí non dovevano preoccuparsi per i treni.
Ci abbiamo messo la radio, adesso! Solo che mamma h a detto che nessuno può capirla quando
siamo in mezzo al traffico.
Io cominciai un po' a rilassarmi. Voglio dire che f inalmente smisi di star li a pensare se mi
beccavano in casa o no. Mandai tutto all'inferno. S e mi beccavano, amen.
Avreste dovuto vedere la vecchia Phoebe. Portava qu el pigiama azzurro con gli elefanti rossi sul
colletto. Andava matta per quegli elefanti.
– Dunque era un bel film, eh – dissi io.
– Magnifico, solo che Alice aveva il raffreddore e sua madre non la finiva piú di domandarle se si
sentiva l'influenza. Proprio sul piú bello del film . Nei punti piú importanti, sua madre mi si buttava
tutta addosso e domandava ad Alice se si sentiva l' influenza. Che nervi mi ha fatto venire!
Allora le dissi del disco. – Senti, ti avevo compra to un disco, – le dissi. – Però l'ho rotto venendo a
casa -, Tirai fuori i pezzi dalla tasca del soprabi to e glieli feci vedere, – Ero sborniato, – dissi.
– Dammi i pezzi, – disse lei. – Li conservo -, Me l i tolse subito di mano e li mise nel cassetto del
comodino, Mi lascia secco, quella ragazzina.
– D. B. viene per Natale? – le domandai.
– Chi lo sa, forse, ha detto la mamma. Dipende. Può darsi che debba stare a Hollywood per scrivere
un film su Annapolis.
– Annapolis, Dio santo!
– È una storia d'amore eccetera eccetera, Indovina chi lo farà! Che attore. Indovina!
– Ma che me ne importa. Annapolis, Dio santo. Che n e sa D. B. di Annapolis, Dio santo? Che ha da
fare questa roba mi racconti che scrive lui? – diss i. Ragazzi, queste sono le cose che mi fanno
diventare matto. Quella maledetta Hollywood,-
Che ti sei fatta al braccio? – le domandai. Mi ero accorto che aveva sul gomito un grosso cerotto.
Me n'ero accorto perché il suo pigiama era senza ma niche.
– Curtis Weintraub, che è un ragazzo che sta in cla sse con me, mi ha dato una spinta mentre
scendevo le scale del parco. – disse lei. – Vuoi ve dere? – E cominciò a staccarsi il cerotto dal
braccio.
– Lascialo stare. Perché ti ha dato una spinta?

78/100 – Non lo so. Mi odia, credo, – disse la vecchia Pho ebe.- Io e quell'altra ragazza, Selma Atterbury, gl i
abbiamo sporcato d'inchiostro e altra roba tutta la giacca a vento.
– Questo non è carino. Non sei mica una bambina, Di o santo, no?
– No, ma ogni volta che vado al parco lui mi segue dappertutto. Sta sempre a seguirmi. Mi dà sui
nervi.
– Probabilmente gli piaci . Non è un buon motivo per sporcargli d'inchiostro tutta…
– Non voglio piacergli, – disse lei. Poi cominciò a guardarmi in modo strano. – Holden, – disse, –
com'è che non sei venuto mercoledí ?
– Come?
Ragazzi, quella non si può perderla d'occhio un mom ento. Se credete che non sia furba, siete matti.
– Com'è che non sei venuto mercoledí ? – mi domandò. – Non ti sarai mica fatto buttare f uori o
qualcosa del genere, per caso?
– Te l'ho detto. Ci hanno fatto partire prima. Hann o fatto andar via tutti…
– Ti hanno buttato fuori ! Ti hanno buttato fuori ! – disse la vecchia Phoebe. Poi mi diede un pugno
sulla gamba. È molto portata a dar pugni, quando le gira. – Ti hanno buttato fuori ! Oh, Holden ! – Si
teneva la mano sulla bocca eccetera eccetera. È mol to emotiva, parola d'onore.
– Chi l'ha detto che mi hanno buttato fuori? Nessun o ha detto che…
– È cosí . È cosí , – disse lei. Poi mi mollò un altro pugno. Se cred ete che non fa male, siete scemi. –
Papà ti ammazza ! – disse. Poi si buttò a pancia sotto sul letto e si mise sul viso quel dannato
cuscino. Lo fa spessissimo. È proprio matta, certe volte.
– E smettila, avanti! – dissi. – Nessuno si sogna d i ammazzarmi. Nessuno si sogna nemmeno…
Andiamo, Phoebe, togliti quel maledetto arnese dall a faccia. Nessuno si sogna di ammazzarmi.
Lei però non se lo volle togliere. Nessuno può farl e fare una cosa, se lei non vuole. Continuava a
dire “Papà ti ammazza ” e nient'altro. Non si riusciva nemmeno a capirla, con quel dannato cuscino
sulla faccia.
– Nessuno si sogna di ammazzarmi. Usa il cervello. Tanto per cominciare, me ne vado. Posso fare
una cosa, trovare lavoro per un po' di tempo in un ranch o roba simile, Conosco un tale che ha il
nonno che ha un ranch nel Colorado, Posso trovarmi un lavoro laggiú, – dissi. – Quando me ne vado,
se me ne vado, mi terrò in contatto con te eccetera eccetera. Dai, togliti quell'affare dalla faccia.
Dai, su, Phoebe. Per favore. Per favore, vuoi togli ertelo?
Ma non voleva toglierselo. Cercai di strapparglielo , ma è forte come un demonio. Lottare con lei è
una fatica, Ragazzi, se vuole tenersi un cuscino su lla faccia, se lo tiene . – Phoebe, per favore . Vieni
fuori di lí, – continuavo a dirle. – Dai, forza… Ehi, Weatherfield, vieni fuori.
Ma non ne volle sapere. Certe volte non c'è verso d i ragionarci. Alla fine mi alzai, andai nella stanz a
di soggiorno, presi un po' di sigarette dalla scato la sul tavolo e me ne misi qualcuna in tasca. Ero
stanco morto.

XXII.

Quando tornai, il cuscino dalla faccia se l'era tol to – questo lo sapevo – ma ancora non voleva
guardarmi, con tutto che stava sdraiata sulla schie na eccetera eccetera. Quando girai intorno al letto
e mi sedetti di nuovo, lei volse quella sua faccia stralunata dall'altra parte. Mi stava mettendo al
bando con tutti i crismi. Proprio come la squadra d i scherma di Pencey, quella volta che avevo
lasciato sulla metropolitana tutti quei dannati fio retti.
– Come sta la vecchia Hazel Weatherfield? – dissi. – Stai scrivendo dei nuovi racconti su di lei?
Quello che mi hai mandato ce l'ho in valigia. È all a stazione. È bellissimo.
– Papà ti ammazza .
Ragazzi, quando le viene un pallino non c'è niente da fare.
– Ma no che non mi ammazza. Male che vada, mi dà un altro liscio e busso e poi mi spedisce a
quella maledetta scuola militare. Questo è tutto qu ello che mi fa. E tanto per cominciare , io non ci
sarò nemmeno. Sarò via. Sarò… probabilmente sarò nel Colorado in quel ranch.

79/100 – Non farmi ridere. Non sai nemmeno andare a cavall o.
– Chi non sa andare a cavallo? Figurati se non so a ndare a cavallo! Certo che ci so andare. Possono
insegnartelo in due minuti, – dissi. – Smettila di stuzzicartelo -. Si stava stuzzicando il cerotto ch e
aveva sul braccio. – Chi ti ha tagliato i capelli i n quel modo? – le domandai. Mi ero appena accorto
in che stupido modo le avevano tagliato i capelli. Erano troppo corti.
– Non ti riguarda, – disse. Certe volte sa tirare f uori un'aria molto sostenuta. Sa essere
sostenutissima. – Mi figuro che hai fatto fiasco in tutte le materie anche stavolta, – disse,
sostenutissima. Era perfino un po' buffo, in un cer to senso, Certe volte pare un accidente di
professoressa, e non è che una ragazzina.
– E invece no, – dissi. – In inglese sono passato – , Poi, tanto per fare una cosa, le diedi un pizzico sul
didietro. Lo teneva lí puntato in aria, da come sta va appoggiata sul fianco. Non ce l'ha quasi
nemmeno, il didietro. Non la pizzicai forte, ma lei cercò lo stesso di darmi un colpo sulla mano,
però fece cilecca.
Poi, tutt'a un tratto, disse: – Oh, ma perché l'hai fatto? – Voleva dire perché mi ero fatto buttare f uori
un'altra volta. Mi diede una certa tristezza, come lo disse.
– O Dio, Phoebe, non stare a far domande. Ne ho pie ne le tasche di tutti quanti che mi domandano la
stessa cosa,- dissi. – Ci sono perché da vendere. E ra una delle scuole peggiori che mi sia mai
capitata. Piena di gente balorda, E gretta, mai vis ta tanta gente gretta in vita tua. Per esempio, se si
stava a far quattro chiacchiere nella stanza di qua lcuno e c'era uno che voleva entrare, be', se era d i
quei tipi un po' svitati e coi brufoli non c'era ve rso che lo facessero entrare, (chiudevano sempre la
porta a chiave, quando qualcuno voleva entrare. E a vevano fatto quella dannata società segreta nella
quale sono entrato per pura vigliaccheria. C'era qu el rompiscatole coi brufoletti, Robert Ackley, che
voleva entrare, ha fatto di tutto per spuntarla, ma quelli non l'hanno voluto. Solo perché era un
rompiscatole coi brufoletti. Non mi va giú nemmeno di parlarne. Era una scuola schifa. Parola. – La
vecchia Phoebe non disse niente, ma stava a sentire . Lo capivo dalla sua nuca, che stava a sentire.
Sta sempre a sentire se le dite una cosa. E il buff o è che il piú delle volte capisce di che diavolo
state parlando. Sul serio. Continuai a parlare del vecchio Fencey. Quasi ci provavo gusto.
– Erano balordi anche quel paio di professori simpatici che avevamo, perfino quelli, – dissi. – C'era
quel vecchietto, il professor Spencer. Sua moglie c i dava sempre la cioccolata calda e tutta quella
roba là, ed erano veramente simpaticissimi. Ma dove vi vederlo durante la lezione di storia quando
capitava in classe il vecchio Thurmer, il preside, e si sedeva in fondo all'aula. Quello non faceva ch e
entrare nelle classi e starsene in fondo per delle mezz'ore. Erano visitine in incognito o giú di lí.
Dopo un po' che se ne stava seduto là, sul piú bell o si metteva a interrompere il vecchio Spencer per
dire un sacco di spiritosaggini antidiluviane. E il vecchio Spencer a ridacchiare e a sbavare sorrisi
da ammazzarsi, neanche se Thurmer fosse stato uno s tramaledetto principe o che so io.
– Non bestemmiare tanto.
– Roba da vomitare, te lo giuro, – dissi. – E poi, il Giorno dei Veterani. A Pencey c'è questa festa, il
Giorno dei Veterani, e tutti i lavativi che si sono laureati là verso il 1776 ci tornano per passeggia re
avanti e indietro con mogli e figli e compagnia bel la. Avresti dovuto vedere quel vecchio che avrà
avuto cinquant'anni. Be', un bel momento è venuto n ella nostra stanza, ha bussato alla porta e ci ha
domandato se ci seccava che usasse la stanza da bag no. La stanza da bagno sta in fondo al corridoio
– non so proprio perché diavolo l'ha domandato a noi . Sai che ha detto? Ha detto che voleva vedere
se su una delle porte dei gabinetti c'erano ancora le sue iniziali. Figurati che una novantina d'anni fa
aveva scolpito le sue maledette stupide tristi bacu cche iniziali su una delle porte dei gabinetti.
Voleva vedere se c'erano ancora. Cosí io e il mio c ompagno l'abbiamo portato nella stanza da bagno
eccetera eccetera, e siamo dovuti restare là mentre lui cercava le sue iniziali su tutte le porte dei
gabinetti. E ha continuato a parlare tutto íl tempo , raccontandoci che i giorni piú felici della sua v ita
erano stati quelli di Pencey e dandoci un sacco di consigli per il futuro e tutto quanto. Ragazzi,
quanto mi ha depresso! Non dico che fosse un cattiv o diavolo – non lo era. Ma non c'è bisogno di
essere un cattivo diavolo per deprimere la gente, p uoi riuscirci anche se sei una bravissima persona.
Per deprimere la gente basta che ti metti a dare un sacco di consigli fasulli mentre cerchi le tue

80/100 iniziali sulla porta di un gabinetto – non hai da f are altro. Non lo so. Forse l'avremmo sopportato
meglio se non fosse stato completamente spompato. E d era cosí spompato solo perché aveva fatto
tutte le scale, e mentre cercava le sue iniziali co ntinuava ad ansimare, con quelle ridicole narici
disgraziate, e intanto continuava a dire a me e a S tardlater di cavar fuori da Pencey tutto quello che
potevamo. Dio, Phoebe! Non posso spiegartelo. Non m i piaceva niente di quello che succedeva a
Pencey, ecco tutto. Non posso spiegartelo!
Allora la vecchia Phoebe disse qualcosa, ma non riu scii a sentirla. Aveva l'angolo della bocca
schiacciato contro il cuscino e non riuscii a senti rla.
– Come? – dissi. – Tira via la bocca di là. Non rie sco a sentirti, se tieni la bocca in quel modo.
– A te non ti piace niente di quello che succede.
Quando disse cosí mi fece sentire ancora piú depres so.
– Ma sí che mi piace! Sí che mi piace! Naturale che mi piace. Non dire cosí. Perché diavolo dici
cosí?
– Perché non ti piace. Non ti piace nessuna scuola. Non ti piacciono un milione dí cose. Non ti
piace.
– Invece sí! Qui hai torto, è proprio qui che hai t orto! Perché diavolo devi dire cosí? – dissi. Ragaz zi,
quanto mi deprimeva.
– Perché non ti piace, – disse. – Dinne una.
– Una? Una cosa che mi piace? – dissi. – D'accordo.
Il guaio era che non riuscivo a concentrarmi troppo . È difficile concentrarsi, certe volte.
– Una cosa che mi piace molto, vuoi dire? – le doma ndai.
Ma lei non mi rispose. Stava tutta scontorta e capo volta dall'altra parte del letto. A mille miglia di
distanza. – Avanti, rispondimi, – dissi. – Una cosa che mi piace molto, o che mi piace soltanto?
– Che ti piace molto.
– Benissimo, – dissi. Ma il guaio era ché non riusc ivo a concentrarmi. Quasi tutto quello che mi
venne in mente furono quelle due suore che se ne an davano in giro a fare la questua con quei vecchi
cestini di paglia mezzo rotti. Soprattutto quella c on gli occhiali dalla montatura di metallo. E quel
ragazzo che avevo conosciuto a Elkton Hills. C'era questo ragazzo, a Elkton Hills, si chiamava
James Castle, che non volle ritrattare quello che a veva detto di quel pallone gonfiato di Phil Stabile .
James Castle aveva detto di lui che era un pallone gonfiato, e uno degli sporchi amici di Stabile era
andato a rifischiarglielo. Allora Stabile, con altr i sei o sette luridi bastardi, andò nella stanza di
James Castle, entrò, chiuse a chiave quella maledet ta porta e cercò di fargli ritirare quello che avev a
detto, ma lui niente. Allora gli saltarono addosso. Non vi dico davvero quello che gli hanno fatto – è
troppo rivoltante – ma lui non volle ritrattare lo stesso, il vecchio James Castle. E dovevate vederlo .
Era un piccoletto magro che pareva un soffio, con c erti polsi sottili come fiammiferi. Andò a finire
che invece di ritrattare quello che aveva detto si buttò dalla finestra. Io stavo alla doccia e via
discorrendo, eppure lo sentii che piombava giú. Ma pensai che fosse caduta dalla finestra qualcosa,
una radio, una scrivania, qualcosa, insomma, non un ragazzo né niente di simile. Poi sentii tutti che
correvano per il corridoio e per le scale, e allora mi misi la vestaglia e corsi giú anch'io; e là c'e ra il
vecchio Jatnes Castle, là sugli scalini di pietra e ccetera eccetera. Era morto, e c'erano denti e sang ue
dappertutto e nemmeno un cane che se la sentisse di andargli vicino, aveva addosso quel maglione
col collo alto che gli avevo prestato io. Quelli ch e stavano nella stanza con lui li espulsero e basta .
Non finirono nemmeno in galera.
Ma fu quasi tutto quello che mi riusci di pensare. Quelle due suore che avevo visto a colazione e
quel James Castle che avevo conosciuto a Elkton Hil ls. Il buffo è che James Castle quasi non lo
conoscevo nemmeno, se proprio volete saperlo, era u no di quei tipi che stanno sempre zitti.
Facevamo lo stesso corso di matematica, ma stava lo ntanissimo, dall'altra parte dell'aula, e non si
alzava quasi mai per dire la lezione o per andare a lla lavagna o roba del genere. Certi ragazzi, a
scuola, non si alzano quasi mai per dire la lezione o per andare alla lavagna. Credo che l'unica volta
che ci siamo parlati è stato quando mi ha chiesto s e potevo prestargli il mio maglione col collo alto.
E quando me l'ha chiesto per poco non ci restavo se cco, tanto ero meravigliato eccetera eccetera. Mi

81/100 ricordo che quando me l'ha chiesto stavo ai gabinet ti a lavarmi i denti. Mi disse che suo cugino
veniva a prenderlo per fare una gita in macchina e via discorrendo. Non sapevo nemmeno che
sapesse che avevo un maglione col collo alto. Di lui sapevo soltanto che all'appello il suo nome era
subito prima del mio. Cabel R., Cabel W., Castle, C aulfield – me ne ricordo ancora. Se volete
saperlo, quel maglione stavo per non prestarglielo. Proprio perché non lo conoscevo tanto bene.
– Come? – dissi alla vecchia Phoebe. Mi aveva detto qualcosa ma non l'avevo sentita.
– Non riesci a trovare nemmeno una cosa.
– Ma si. Ma si.
– Be', allora dilla.
– Mi piace Allie, – dissi. – E mi piace fare quello che sto facendo adesso. Stare seduto qui con te a
parlare, e a pensare alle cose, e…
– Allie è morto . Dici sempre la stessa cosa! Se uno è morto eccete ra eccetera e sta in cielo , non è
veramente…
– Lo so che è morto! Credi che non lo sappia? Ma mi può ancora piacere, no? Non è mica che uno
non ti piace piú solo perché è morto, Dio santo, sp ecie se è mille volte meglio della gente viva che
conosci e compagnia bella.
La vecchia Phoebe non disse niente. Quando non trov a niente da dire, non dice piú mezza dannata
parola.
– Ad ogni modo, mi piace ora, – dissi. – Proprio ad esso, voglio dire. Stare seduto qui con te a fare
quattro chiacchiere e a scherzare…
– Questa non è una vera cosa!
– È una vera cosa eccome! Certo che lo è. Perché di avolo non lo è? La gente non crede mai che una
cosa sia una vera cosa. Ne ho arcipiene le maledett e tasche.
– Smettila di bestemmiare. Va bene, dimmi qualcos'a ltro. Dimmi che cosa ti piacerebbe essere .
Come uno scienziato. O un avvocato o qualche cosa.
– Non potrei essere uno scienziato. In scienze sono una schiappa.
– Be', un avvocato, come papà e compagnia bella.
– Gli avvocati sono in gamba, direi, ma non mi atti ra,- dissi. – Voglio dire, sono in gamba se vanno
in giro tutto il tempo a salvare la vita degli inno centi e roba simile, ma se sei avvocato queste cose
non le fai. Tutto quello che fai è accumulare soldi giocare a golf giocare a bridge comprare
macchine bere martini e aver l'aria dell'alto papav ero. E del resto! Anche se te ne vai in giro a
salvare la vita della gente e via discorrendo, chi ti dice che lo fai perché vuoi veramente salvare la
vita della gente, e non perché in realtà quello che vuoi è soltanto di essere un fenomeno d i
avvocato, con tutti quanti che ti danno manate sull a schiena e ti fanno le congratulazioni in tribunal e
quando il maledetto processo è finito e i giornalis ti e tutti quanti, come si vede in quegli sporchi
film? Chi ti dice che non sei uno sbruffone? Non lo sapresti mai , ecco il guaio.
Non sono ben sicuro che la vecchia Phoebe capisse d i che cavolo parlavo. Voglio dire, in fondo non
è che una bambina e via discorrendo. Però stava a s entire, almeno. Se qualcuno almeno vi sta a
sentire non è tanto brutto.
– Papà ti ammazza. Vedrai che ti ammazza , – disse.
Ma io non la sentivo. Stavo pensando a un'altra cos a – una cosa pazzesca. – Sai cosa mi piacerebbe
fare? – dissi. – Sai cosa mi piacerebbe fare? Se po tessi fare quell'accidente che mi gira, voglio dire .
– Cosa? Smettila di bestemmiare.
– Sai quella canzone che fa “Se scendi tra i campi di segale, e ti prende al volo qualcuno”? Io
vorrei…
– Dice “Se scendi tra i campi di segale, e ti viene incontro qualcuno”, – disse la vecchia Phoebe. – È
una poesia. Di Robert Burns.
– Lo so che è una poesia di Robert Burns.
Però aveva ragione lei. Dice proprio “ Se scendi tra i campi di segale, e ti viene inco ntro qualcuno”.
Ma allora non lo sapevo.

82/100 – Credevo che dicesse “E ti prende al volo qualcuno ”,- dissi. – Ad ogni modo, mi immagino sempre
tutti questi ragazzini che fanno una partita in que ll'immenso campo di segale eccetera eccetera.
Migliaia di ragazzini, e intorno non c'è nessun alt ro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io s to
in piedi sull'orlo di un dirupo pazzesco. E non dev o fare altro che prendere al volo tutti quelli che
stanno per cadere dal dirupo, voglio dire, se corro no senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori
da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare al tro tutto il giorno. Sarei soltanto l'acchiappatore
nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l'unica cosa che mi piacerebbe veramente fare.
Lo so che è una pazzia.
La vecchia Phoebe non disse niente per molto tempo. Poi, quando finalmente si decise a dire
qualcosa, tutto quello che disse fu: – Papà ti amma zza.
– E se lo fa me ne strainfischio, – dissi io. Poi m i alzai dal letto perché volevo fare una cosa, vole vo
telefonare a quel tale che era stato mio professore d'inglese a Elkton Hills, il professor Antolini.
Adesso stava a New York. Aveva lasciato Elkton Hill s. Aveva accettato l'incarico di professore
d'inglese all'università di New York. – Devo fare u na telefonata – dissi a Phoebe. – Torno subito.
Non addormentarti -. Non volevo che si addormentass e mentre stavo nella stanza di soggiorno. Non
si sarebbe addormentata, lo sapevo, ma glielo dissi lo stesso tanto per essere sicuro.
Mentre andavo verso la porta, la vecchia Phoebe dis se- Holden! – e io mi girai.
Si era seduta sul letto. Era cosí carina. – Sto pre ndendo lezioni di rutto da quella ragazza, Phyllis
Margulies, – disse.
– Sta' a sentire.
Stetti a sentire, e sentii qualcosa, ma non molto. – Brava, – dissi. Poi andai nella stanza di soggior no
a telefonare a quel mio vecchio professore, il prof essor Antolini.

XXIII.

Feci quella telefonata a tutta velocità, perché ave vo paura che sul piú bello i miei mi piombassero
tra capo e collo. Però non successe. Il professor A ntolini fu molto gentile. Mi disse che potevo
andare anche subito, se volevo. Mi sa che li avevo svegliati, lui e sua moglie, perché ci misero un
secolo a rispondere al telefono. Per prima cosa, mi domandò se c'era qualcosa che andava male, e io
gli dissi di no. Però gli dissi che mi avevano butt ato fuori da Pencey. Pensai che tanto valeva
dirglielo. A quella notizia lui disse: – Dio buono! – Aveva un gran senso umoristico e via
discorrendo. Mi disse che se ne avevo voglia potevo andare anche subito.
Era forse il miglior professore che abbia mai avuto , quell'Antolini. Era abbastanza giovane, non
molto piú anziano di mio fratello D. B., ed era un tipo col quale potevi scherzare senza perdere il
rispetto che avevi per lui. Era stato proprio lui, alla fine, a raccogliere quel ragazzo che si era
buttato dalla finestra, quel James Castle di cui vi ho parlato. Il vecchio professor Antolini gli avev a
sentito il polso eccetera eccetera, e poi si era to lto la giacca, l'aveva messa addosso a James Castle e
l'aveva portato cosí in braccio per tutta la strada fino all'infermería. Non glien'era importato un
accidente che la sua giacca si fosse tutta sporcata di sangue.
Quando tornai nella camera di D. B., la vecchia Pho ebe aveva aperto la radio. Stavano facendo
musica da ballo. Ma lei la teneva bassa per non far la sentire alla cameriera. Avreste dovuto vederla.
Stava seduta proprio in mezzo al letto, fuori delle coperte, con le gambe incrociate come un
buddista. Stava sentendo la musica. È fantastica, P hoebe.
– Vieni, – le dissi. – Ti va di ballare? – Era anco ra piccolissima quando le avevo insegnato a ballare e
via discorrendo.
Era un'ottima ballerina. Voglio dire, io le avevo i nsegnato solo qualche cosa. Lei aveva imparato
quasi tutto da sola: insegnare a ballare sul serio a qualcuno è impossibile.
– Tu hai le scarpe, – disse lei.
– Me le tolgo. Vieni.

83/100 Saltò letteralmente giú dal letto, aspettò che mi t ogliessi le scarpe e poi ballammo per un po'. È
proprio brava, accidenti.
Non mi piace la gente che balla coi bambini, perché il piú delle volte è uno spettacolo tremendo.
Voglio dire, se sei a un ristorante e vedi qualche vecchio che porta la sua bambina sulla pista. Di
solito continua a tirarle su il vestito di dietro, e la ragazzina ad ogni modo balla di peste ed è uno
spettacolo tremendo, ma io con Phoebe non ballo mai in pubblico né niente.
Lo facciamo solo a casa, per scherzo. E con lei è d iverso, ad ogni modo, perché sa ballare . Ti segue
in tutto quello che fai. Se la tieni ben stretta, v oglio dire, perché cosí non conta se hai le gambe
tanto piú lunghe delle sue. Lei ti viene dietro. – Puoi fare i passi incrociati, o certi tuffi da bull o,
perfino un po' di jitterbug, e lei ti viene dietro benissimo. Puoi fare persino il tango , Dio santissimo!
Facemmo quattro balli o giú di li. Tra un ballo e l 'altro lei è buffissima. Resta ferma in posizione.
Non vuole nemmeno parlare, niente! Bisogna restare tutt'e due in posizione e aspettare che
l'orchestra riattacchi. E fantastica, proprio. Non devi nemmeno ridere, niente! Ad ogni modo,
facemmo quei quattro balli e poi spensi la radio. L a vecchia Phoebe tornò a saltare sul letto e s'infi lò
sotto le coperte. – Sto migliorando, vero? – mi dom andò, – Eccome! – dissi io. Mi sedetti un'altra
volta sul letto vicino a lei. Avevo un po' d'affann o. Fumavo come un turco e quasi non avevo piú
fiato. Lei non aveva nemmeno un po' d'affanno.
– Sentimi la fronte, – mi disse tutt'a un tratto,
– Perché?
– Sentimela . Una volta sola, su.
Gliela toccai. Però non sentii proprio niente.
– Scotta molto? – disse.
– No. Dovrebbe scottare?
– Sí, la faccio scottare io. Sentimela ancora.
La toccai ancora, ma anche stavolta non sentii nien te, però le dissi: – Mi pare che cominci, adesso -.
Non volevo proprio che le venisse un maledetto comp lesso d'inferiorità. Lei fece di sí con la testa. –
Posso farla andare molto piú su del termonetro.
– Ter mome tro. Chi te l'ha detto?
– E stata Alice Holmborg a farmi vedere come si fa, si incrociano le gambe e si trattiene il respiro e
si pensa a una cosa molto calda, proprio caldissima . Un termosifone o una cosa cosí. Allora la
fronte ti diventa cosí bollente che puoi scottare l a mano di una persona.
Mi lasciò secco. Tirai via la mano dalla sua fronte come se stessi correndo un pericolo mortale. –
Grazie d'avermelo detto, – esclamai.
– Oh, la tua non l'avrei scottata. Avrei smesso prima che diven tasse troppo… Sttt ! – Poi, con una
sveltezza incredibile, balzó a sedere sul letto. Qu ando fece cosí mi spaventò a morte. – Che ti
piglia?- dissi.
– La porta di casa! – disse in un concitato bisbigl io.- Sono loro!
Balzai su di scatto e corsi a spengere la luce sull a scrivania. Poi schiacciai la sigaretta contro la
suola e me la misi in tasca. Poi sventolai l'aria c ome un forsennato per disperdere íl fumo – non
avrei dovuto fumare, Dio santissimo! Poi afferrai l e scarpe, mi infilai nel ripostiglio e chiusi la
porta. Ragazzi, il cuore mi batteva come un tamburo .
Sentii mia madre che entrava nella camera.
– Phoebe? – disse. – Smettiamola, adesso. Ho visto la luce, signorina.
– Salve! – sentii che diceva la vecchia Phoebe. – N on riuscivo a dormire. Ti sei divertita?
– Moltissimo, – disse mia madre, ma era chiaro che non era vero. Non ci prova mai molto gusto,
quando va fuori.- Si può sapere perché sei sveglia? Stai abbastanza calda?
– Sí che sto calda. È solo che non riuscivo a dormi re.
– Phoebe, hai fumato una sigaretta qua dentro? Famm i il piacere di dire la verità, signorina.
– Cosa? – disse la vecchia Phoebe.
– Mi hai sentita.

84/100 – Ne ho soltanto accesa una per un attimo. Ci ho da to soltanto una boccata . Poi l'ho buttata dalla
finestra.
– Si può sapere perché ?
– Non potevo dormire.
– Non mi piace, Phoebe. Non mi piace affatto, – dis se mia madre. – Vuoi un'altra coperta?
– No, grazie. 'Notte, – disse la vecchia Phoebe. St ava cercando di liberarsi di lei, si capiva
benissimo.
– Com'era il film? – disse mia madre.
– Bellissimo. Tolta la mamma di Alice. Per tutto il film non ha fatto altro che buttarmisi addosso per
domandarle se si sentiva l'influenza. Siamo tornate in tassi.
– Fammi sentire la fronte.
– Ma non mi sono presa niente. Non aveva mica nient e, lei. Era solo sua madre.
– Bene. Dormi, adesso. Com'era la cena?
– Uno schifo, – disse Phoebe.
– Hai sentito quello che ha detto tuo padre su ques ta parola. Che cosa vuol dire, era uno schifo? Hai
mangiato una deliziosa cotoletta di agnello. Ho fat to a piedi tutta Lexington Avenue proprio per…
– La cotoletta andava benissimo, ma Charlene mi respira sempre addosso tutte le volte che mi mette
davanti qualche cosa. Respira sui piatti e compagni a bella. Respira su tutto.
– Bene. Dormi, ora. Da' un bacio alla mamma. Hai de tto le preghiere?
– Le ho dette in bagno. 'Notte.
– Buonanotte. Mettiti subito a dormire. Ho un mal d i capo feroce, – disse mia madre. Soffre molto di
mal di capo. Sul serio.
– Prendi qualche aspirina, – disse la vecchia Phoeb e.- Holden verrà mercoledí, vero?
– A quanto ne so io, sí. Mettiti sotto, adesso. Ben e giú,
Sentii mia madre uscire e chiudere la porta. Aspett ai un paio di minuti. Poi uscii dal ripostiglio. E
piombai in pieno addosso alla vecchia Phoebe, perch é era buio pesto e lei era scesa dal letto per
venire ad avvertirmi. – Ti ho fatto male? – dissi. Bisognava bisbigliare, adesso, perché erano tutti e
due a casa. – Devo filarmela, – dissi. Trovai nel b uio l'orlo del letto, mi sedetti e cominciai a
mettermi le scarpe. Ero alquanto nervoso. Non lo ne go.
– Non andartene adesso , – bisbigliò Phoebe. – Aspetta che dormano!
– No. Adesso. Adesso è il momento migliore, – dissi . – Lei sarà in bagno e papà aprirà la radio per il
notiziario e compagnia bella. Adesso è il momento m igliore -. Quasi non riuscivo ad allacciarmi le
stringhe, con quel maledetto nervosismo che mi era preso. Non che se mi avessero colto li a casa mi
avrebbero ammazzato o chi sa che, ma sarebbe stato molto spiacevole co n quel che segue. – Dove
diavolo sei? – dissi alla vecchia Phoebe. Era cosí buio che non riuscivo a vederla.
– Qui -. Stava in piedi proprio vicino a me. Non la vedevo nemmeno.
– Ho quelle maledette valige alla stazione, – dissi . – Sta' a sentire, Phoebe. Hai un po' di soldi, tu ? Io
sono praticamente a terra.
– Solo quelli di Natale. Per i regali eccetera. Non ho ancora fatto nessuna spesa.
– Oh! – Non volevo portarle via i soldi di Natale.
– Ne vuoi un po'? – disse.
– Non voglio portarti via i soldi di Natale.
– Posso prestartene un po', – disse lei. Poi sentii che andava alla scrivania di D. B., apriva un milione
di cassetti e tastava con la mano. Pareva di star n ella pece, il buio che c'era nella stanza. – Se te ne
vai, non vieni a vedermi recitare, – disse. La sua voce aveva un tono strano, quando disse cosí.
– Ma sí che vengo. Non me ne vado prima della tua r ecita. Credi che voglia perderla? – dissi. –
Probabilmente va a finire che starò a casa del prof essor Antolini fin verso giovedí sera. Poi verrò a
casa. Se mi è possibile ti telefono.
– Tieni, – disse la vecchia Phoebe. Stava cercando di darmi i soldi, ma non riusciva a trovare la mia
mano.
– Dove?

85/100 Mi mise i soldi in mano.
– Ehi, non mi occorre tanto, – dissi. – Dammi solo due dollari, bastano. Senza scherzi, tieni -. Cerca i
di ridarglieli, ma lei non volle prenderli.
– Puoi tenerli tutti. Poi me li ridai. Portali alla recita,
– Quant'è, Dio santo?
– Otto dollari e ottantacinque cents. Sessantacinque cents. Ho speso qualcosa.
Allora, tutt'a un tratto, mi misi a piangere. Non p otevo trattenermi. Piangevo in modo da non farmi
sentire, ma piangevo. La vecchia Phoebe si prese un o spavento da morire, quando mi misi a
piangere, e mi venne vicino e cercò di farmi smette re, ma quando uno comincia non può mica
smettere di punto in bianco, accidenti! Stavo ancor a seduto sull'orlo del letto, quando cominciai, e
lei mi mise il braccio intorno al collo, e anch'io l'abbracciai, però non riuscii a smettere per un be l
pezzo. Pensai che stavo per morire soffocato o giú di lí.
Ragazzi, che spavento si prese la vecchia Phoebe! Q uella maledetta finestra era aperta eccetera
eccetera, e io sentivo che Phoebe stava tremando tu tta, perché addosso non aveva che il pigiama.
Cercai di farla tornare a letto, ma lei niente. All a fine smisi, ma mi ci volle proprio un sacco di
tempo. Allora finii di abbottonarmi il soprabito e tutto quanto. Le dissi che mi sarei tenuto in
contatto con lei. Lei mi disse che potevo dormire c on lei, se volevo, ma io dissi di no, che facevo
meglio a filarmela, che il professor Antolini mi st ava aspettando e compagnia bella. Poi tirai fuori
dalla tasca del soprabito il mio berretto da caccia tore e glielo diedi. A lei piacciono quei cappelli
matti. Non lo voleva, ma glielo feci prendere per f orza, Scommetto che ha dormito con quel berretto
in testa. I cappelli cosí le piacciono da morire. P oi le dissi un'altra volta che se mi fosse stato
possibile le avrei telefonato e andai via.
Uscire di casa fu estremamente piú facile di quanto era stato entrare, chi sa perché. Tanto per
cominciare, non me ne importava quasi piú niente se mi pescavano. Davvero. Pensai che se mi
pescavano amen. Quasi lo desideravo, in un certo se nso. Invece di prendere l'ascensore, feci tutte le
scale fin giú. Le scale di servizio. Per poco non m i rompevo il collo, inciampando in circa dieci
milioni di secchi dell'immondizia, ma uscii magnifi camente. Il ragazzo dell'ascensore non mi vide
nemmeno. Come niente pensa che sono ancora dai Dickstein.

XXIV.

Il professore e la signora Antolini stavano in quel l'appartamento molto chic sulla Sutton Place, con
una stanza di soggiorno che per andarci si scendono due scalini e il bar e tutto quanto. C'ero stato
parecchie volte perché, dopo che avevo lasciato Elk ton Hills, il professor Antolini era venuto spesso
a pranzo da noi per sapere come me la cavavo. Allor a non era sposato. Poi, quando si era sposato,
ero andato spesso a giocare a tennis con lui e con la signora giú al circolo di tennis del West Side, a
Forest Hills a Long Island. La signora Antolini era socia. Era stracarica dí quattríni. Aveva una
sessantina d'anni piú del professor Antolini, ma se mbrava che andassero molto d'accordo. Tanto per
cominciare, erano tutt'e due molto intellettuali, s pecie il professor Antolini, solo che a starci insi eme
era piú brillante che intellettuale, un po' come D. B. La signora Antolini era un tipo serissimo.
Aveva un'asma tremenda. Avevano letto tutti i racco nti di D. B. sia lui che lei – anche la signora – e
quando D. B. andò a Hollywood il professor Antolini gli telefonò per dirgli di non andarci. Lui c'era
andato lo stesso, con tutto che il professor Antoli ni gli aveva detto che quando uno sa scrivere come
D. B. non ha niente da spartire con Hollywood. Prop rio quello che dicevo io, stringi stringi.
Sarei voluto andare a piedi fino a casa loro, perch é se non ci ero tirato per i capelli non mi andava di
spendere neanche un centesimo dei soldi di Natale d i Phoebe, ma quando uscii mi sentii strano.
Come un po' stordito. Allora presi un tassí. Non mi andava, ma lo presi. E mi ci volle un sacco di
tempo solo per trovarlo .
Fu il vecchio professor Antolini ad aprirmi la port a quando sonai – dopo che il ragazzo
dell'ascensore si era finalmente deciso a portarmi su, quel bastardo. Era in vestaglia e pantofole, e

86/100 aveva un cocktail in mano. Era un tipo molto sofist icato, e un bevitore tutt'altro che disprezzabile. –
Holden, ragazzo mio! – disse. – Dio santo, questo è cresciuto ancora mezzo metro. Mi fa piacere
vederti.
– Come sta, professore? Come sta la signora?
– Stiamo come pascià tutti e due. Dammi quel soprab ito -. Mi tolse il soprabito e lo appese. – Mi
aspettavo di vederti con un neonato tra le braccia. Senza sapere dove sbattere la testa. Con fiocchi d i
neve sulle ciglia -. Era proprio un gran burlone, c erte volte. Si girò e gridò verso la cucina. – Lill ian!
Arriva questo caffè? – La signora Antolini si chiam ava Lillian.
– È pronto! – gridò lei di rimando. – C'è Holden? S alve, Holden!
– Salve, signora Antolini.
Si gridava sempre, in quella casa. Era perché quei due non stavano mai contemporaneamente nella
stessa stanza. Una cosa un po' buffa.
– Siediti, Holden, – disse il professor Antolini. S i vedeva lontano un miglio che era un po' brillo. A
guardare la stanza, pareva che ci fosse appena stat o un ricevimento. C'erano bicchieri dappertutto e
piatti con le noccioline dentro. – Scusa questa bar aonda, – disse. – Sono venute a trovarci certe
persone di Buffalo, amici della signora Antolini… Dei veri bufali, in realtà.
Mi misi a ridere, e la signora Antolini mi gridò qu alcosa dalla cucina, ma io non capii. – Cosa ha
detto? – domandai al professore.
– Ha detto di non guardarla quando viene. Si è appe na alzata dal letto. Prendi una sigaretta. Fumi,
adesso?
– Grazie, – dissi. Presi una sigaretta dalla scatol a che mi porgeva. – Una volta ogni tanto. Non sono
un fumatore accanito.
– Ci scommetto proprio, – disse. Mi accese la sigar etta con quel grosso accenditore da tavolo. –
Dunque. Fra te e Pencey tutto è finito, – disse. Di ceva sempre cose di questo genere. A volte mi
divertiva un mondo e a volte no. Direi che esagerav a un po' troppo . Non dico che non fosse
spiritoso e tutto quanto – lo era – ma certe volte ti urta i nervi quando uno dice sempre frasi come
“Dunque fra te e Pencey tutto è finito”. Certe volt e esagera un po' troppo anche D. B.
– Cosa è successo? – mi domandò il professor Antoli ni.- Come sei andato in inglese? Se sei andato
male in inglese ti metto alla porta immediatamente, tu piccolo fenomeno in componimenti!
– Oh, in inglese sono passato. Facevamo soprattutto letteratura, però. In tutto il trimestre ho fatto
solo due temi,- dissi. – Però sono stato bocciato i n Esposizione Orale. C'era da fare questo corso
obbligatorio di Esposizione Orale, a Pencey. E qui mi hanno bocciato.
– Perché?
– Oh, non lo so -. Non mi andava tanto di parlarne. Mi sentivo ancora un po' stordito o che so io, e
tutt'a un tratto mi era venuto un mal di capo del d iavolo. Sul serio. Ma si capiva benissimo che a lui
interessava, e cosí gliene parlai un poco. – Per un corso in cui bisogna alzarsi in classe e fare un
discorsetto. Sa come. Spontaneo e via dicendo. E se ci si mette a divagare, gli altri devono gridar
piú in fretta che possono “Fuori tema!”. Roba che m i faceva diventare matto. Ho preso tre.
– Perché?
– Oh, non lo so. Quella storia del fuori tema mi da va sui nervi. Non lo so. Il guaio è che a me piace
quando uno va fuori tema. E piú interessante eccete ra eccetera.
– Non vuoi che uno resti in argomento quando ti rac conta una cosa?
– Oh, certo! Mi piace che uno resti in argomento e tutto quanto. Ma non mi piace che ci resti troppo .
Non lo so. Non mi piace quando uno resta sempre in argomento, credo. I ragazzi che prendevano i
voti piú alti in Esposizione Orale erano quelli che restavano sempre in argomento, questo lo
riconosco. Ma c'era quel ragazzo, Richard Kinsella. Lui non restava molto in argomento, e gli altri
non facevano che urlargli “Fuori tema!” Era terribi le, prima di tutto perché era un tipo molto
nervoso – era un tipo molto nervoso, voglio dire – tutte le volte che toccava a lui di fare un discors o
gli tremavano sempre le labbra, e se stavi seduto i n fondo alla classe non riuscivi quasi a sentirlo.
Però, quando smettevano un pochino di tremargli le labbra, io i suoi discorsi li trovavo migliori di
tutti gli altri. Però si è preso una bocciatura anc he lui, praticamente.

87/100 A forza di gridargli “Fuori tema!” tutto il tempo, gli hanno fatto prendere un cinque. Quel discorso
sulla fattoria che suo padre aveva comprato nel Ver mont, per esempio. Lui parlava, e loro non
hanno fatto altro che gridargli “Fuori tema!”, e il professore, il professor Vinson, gli ha messo
quattro perché non aveva detto che specie di animal i e di piante e di cose c'erano nella fattoria
eccetera eccetera. Quello che faceva Richard Kinsel la era che cominciava a parlare di quelle cose,
poi, tutt'a un tratto, si metteva a parlare di quel la lettera che suo zio aveva scritto a sua madre, e che
suo zio aveva avuto la poliomielite e via discorren do a quarantadue anni, e che voleva che nessuno
andasse a trovarlo in ospedale perché voleva che ne ssuno lo vedesse con l'apparecchio ortopedico.
Non c'entrava molto con la fattoria, lo riconosco, ma era simpatico . È simpatico quando uno ti parla
di suo zio. Soprattutto quando cominciano a parlart i della fattoria del padre, e poi tutt'a un tratto gli
interessa di piú lo zio. Voglio dire, è una porcata continuare a gridargli “Fuori tema!” quando lui è
cosí simpatico e pieno di entusiasmo… Non lo so. È difficile da spiegare -. E non mi sentivo
nemmeno in vena di provarmici. Tanto per cominciare , avevo quel mal di capo fenomenale cosí
tutt'a un tratto. Pregavo Dio che la vecchia signor a Antolini si decidesse a venire col caffè. Ecco un a
cosa che mi manda fuori dei gangheri – se uno dice che il caffè è pronto quando non è vero, voglio
dire.
– Holden… una breve domanda pedagogica e un po' p edantesca. Non ti pare che ogni cosa debba
arrivare a tempo e luogo? Non ti pare che se uno co mincia a parlarti della fattoria di suo padre,
dovrebbe rimanere nel tema, e poi passare a parlarti dell'apparecchio ortopedico del lo zio? Oppure ,
visto che l'apparecchio di suo zio è un argomento c osí stimolante, non avrebbe dovuto sceglierlo
subito come tema al posto della fattoria?
Non avevo molta voglia di pensare e di rispondere e tutto. Mi faceva male la testa e mi sentívo a
terra. Mi faceva un po' male perfino lo stomaco, se proprio volete saperlo.
– Sí… non lo so. Penso di sí. Voglio dire, penso che come argomento avrebbe dovuto scegliere suo
zio invece della fattoria, se lo interessava di piú . Ma è questo che voglio dire, un sacco di volte un o
non sa che cosa lo interessa di piú finché non comi ncia a parlare di una cosa che non lo interessa di
piú. Certe volte non si può evitarlo. Quello che pe nso è che uno va lasciato in pace, se almeno è
interessante e si fa prendere dall'entusiasmo per q ualche cosa. A me piace, quando uno si
entusiasma di qualche cosa. È simpatico. È che lei non ha conosciuto quel professore, il professor
Vinson. Certe volte era roba da farti diventare mat to, lui e il suo dannato corso. Voglio dire, non
faceva altro che raccomandarti di unificare e di se mplificare. Con certe cose non si può, è chiaro.
Voglio dire, non è che uno può semplificare e unifi care qualcosa solo perché un altro vuole cosí. Lei
non ha conosciuto quello là, il professor Vinson. E ra molto intelligente e tutto quanto, voglio dire,
ma si vedeva lontano un miglio che non era certo un 'aquila.
– Finalmente ecco il caffè, signori, – disse la sig nora Antolini. Era entrata portando quel vassoio co l
caffè e i dolci e altra roba. – Holden, non mi guar dare nemmeno con la coda dell'occhio. Faccio
spavento.
– Salve, signora, – dissi. Feci per alzarmi e tutto quanto, ma il professor Antolini mi acchiappò per la
giacca e mi tirò un'altra volta giú a sedere. La ve cchia signora Antolini aveva la testa piena di queg li
arnesi per arricciare i capelli, ed era senza rosse tto né niente. Non era certo una Venere. Pareva
proprio vecchia e tutto quanto.
– Ve lo lascio qui. Servitevi, voi due, – disse. Po sò il vassoio sul tavolo da fumo, spingendo da part e
tutti quei bicchieri. – Come sta la mamma, Holden?
– Bene, grazie. Non la vedo da un po', ma l'ultima volta…
– Caro, se Holden ha bisogno di qualche cosa, sta t utto nell'armadio della biancheria. Sull'ultimo
ripiano. Io sono stanca morta, – disse la signora A ntolini. E si vedeva. – Saprete preparare il divano
da soli, voi due, no?
– Pensiamo a tutto noi. Tu va' di corsa a letto, – disse il professor Antolini. Diede un bacio alla
signora e lei mi augurò la buonanotte e se ne andò in camera. Stavano sempre a baciarsi in pubblico,
quei due. Io presi un po' di caffè e circa la metà di un dolce duro come un sasso o quasi. Ma il

88/100 professor Antolini prese solo un altro cocktail. E li fa belli forti, tra l'altro, si capisce benissim o.
Rischia di finire alcolizzato, se non ci va piano.
– Un paio di settimane fa ho pranzato con tuo padre ,- disse tutt'a un tratto. – Lo sapevi?
– No, non lo sapevo.
– Naturalmente lo capisci che è molto preoccupato p er te.
– Lo so. Questo lo so, – dissi.
– A quanto pare, prima di telefonarmi aveva ricevut o dal tuo ultimo preside una lunga lettera
piuttosto penosa, nella quale lo si informava che t u non ti impegnavi affatto. Saltavi i corsi. Ti
presentavi regolarmente impreparato. Insomma, eri d el tutto…
– Non saltavo nessun corso. Mica lo permettono. Ce n'erano un paio che una volta al secolo mi
risparmiavo di andarci, per esempio quell'Esposizio ne Orale che le ho detto prima, ma non ho mai
saltato i corsi.
Non avevo la minima voglia di parlarne. Il caffè mi faceva sentire un po' meglio con lo stomaco, ma
avevo ancora quel tremendo mal di capo.
Il professor Antolini si accese un'altra sigaretta. Fumava come un turco. Poi disse: – Francamente,
non so che diavolo dirti, Holden.
– Lo so. Parlare con me è un problema difficile. Me ne rendo conto.
– Ho l'impressione che tu ti stia deliberatamente p reparando a un capitombolo, un terribile
capitombolo. Ma, onestamente, non so di che genere. .. Mi senti?
– Sí.
Era chiaro che stava cercando di concentrarsi eccet era eccetera.
– Può essere di quel genere per cui a trent'anni te ne stai seduto in un bar odiando tutti quelli che
entrano se appena appena hanno l'aria d'aver giocat o a rugby in un'università, oppure, puoi
racimolare quel tanto di istruzione che basta per o diare la gente che dice “Tolto io, c'erano tutti”. O
forse finirai in qualche ufficio, a scaraventare ca ncelleria sulla testa della stenografa piú vicina. Non
lo so, francamente. Ma tu sai dove voglio arrivare, almeno?
– Sí. Certo, – dissi. E lo sapevo, infatti. – Però tutta quella storia dell'odio è sbagliata. Voglio d ire,
odiare quelli che giocano a rugby e compagnia bella . Sbagliatissima. Non odio mica tanta gente, io.
Posso odiarli per un poco , magari, questo sí, come Stradlater, un tale che c 'era a Pencey, e
quell'altro, Robert Ackley. Ogni tanto li odiavo proprio , questo è vero, ma non durava mai molto,
ecco. quello che voglio dire. Dopo un po', se non l i vedevo, se non venivano in camera, o se non li
vedevo in sala da pranzo per due volte di seguito, sentivo perfino la loro mancanza. Dico davvero,
sentivo perfino la loro
mancanza.
Per un poco il professor Antolini non disse niente. Si alzò, prese un altro cubetto di ghiaccio, lo
mise nel suo cocktail, poi tornò a sedersi. Era chi aro che stava pensando. Io però avrei voluto con
tutta l'anima che continuasse quel discorso la matt ina dopo, anziché in quel momento, ma lui era
partito in quarta. La gente ha sempre la smania di discutere quando tu non ce l'hai.
– Benissimo. Ora stammi a sentire un momento… può darsi che non esprima tutto questo in modo
memorabile come vorrei, ma tra un giorno o due ti s criverò una lettera. Allora ti riuscirà tutto
chiaro. Ma adesso sta' a sentire, ad ogni modo -.
Ricominciò a concentrarsi. Poi disse: – Il capitomb olo che secondo me ti stai preparando a fare… è
un tipo speciale di capitombolo, orribile. A chi pr ecipita non è permesso di accorgersi né di sentirsi
quando tocca il fondo. Continua soltanto a precipit are giú. Questa bella combinazione è destinata
agli uomini che, in un momento o nell'altro della l oro vita, hanno cercato qualcosa che il loro
ambiente non poteva dargli. O che loro pensavano ch e il loro ambiente non potesse dargli. Sicché
hanno smesso di cercare. Hanno smesso prima ancora di avere veramente cominciato. Mi segui?
– Sí, professore.
– Sicuro?
– Sí.
Si alzò e andò a versarsi un altro cicchetto. Poi s i sedette di nuovo. Per un pezzo non disse niente.

89/100 – Non voglio spaventarti, – disse poi. – Ma non ste nto affatto a vederti morire nobilmente, in un
modo o nell'altro per una causa indicibilmente igno bile -. Mi diede una strana occhiata. – Se ti
scrivo una cosa, la leggi con attenzione? E la cons ervi?
– Sí. Ma certo, – dissi. E l'ho fatto, anche. Ho an cora il foglietto che mi ha dato.
Si avvicinò a quella scrivania dall'altra parte del la stanza e senza nemmeno sedersi scrisse qualcosa
su un pezzo di carta, poi tornò e si sedette con qu el foglio in mano. – Per quanto sembri strano,
questo non l'ha scritto un poeta di mestiere, l'ha scritto uno psicanalista che si chiamava Wilhelm
Stekel, ecco quello che… mi segui ancora?
– Ma sí, certo.
– Ecco quello che ha detto: “Ciò che distingue l'uo mo immaturo è che vuole morire nobilmente per
una causa, mentre ciò che distingue l'uomo maturo è che vuole umilmente vivere per essa”.
Si chinò in avanti e me lo porse. Io lo lessi subit o appena lui me lo diede, e poi lo ringraziai eccet era
eccetera e me lo misi in tasca. Era stato gentile a prendersi tutto quel disturbo, sul serio. Ma il fa tto
era che non mi sentivo di concentrarmi, ragazzi, tu tt'a un tratto mi sentivo cosí maledettamente
stanco .
Ma si vedeva lontano un miglio che lui non era stan co per niente. Tanto per cominciare, era brillo
forte. – Io credo, – disse, – che uno di questi gio rni ti toccherà di scoprire dove vuoi andare. E all ora
devi metterti subito in marcia. Ma immediatamente. Non puoi permetterti di perdere un minuto. Tu
no.
Feci di sí con la testa perché lui mi guardava in f accia e via discorrendo, ma non ero troppo sicuro
di capire che diavolo avesse in mente. Ero quasi sicuro di saperlo, ma in quel momento non ci avrei
giurato. Ero troppo stanco, accidenti.
– E mi dispiace dirtelo, – continuò, – ma credo che non appena comincerai a vedere chiaramente
dove vuoi andare, il tuo primo impulso sarà di appl icarti allo studio. Per forza. Sei uno studioso, ch e
ti piaccia o no. Smanii di sapere. E io credo che n on appena ti sarai lasciato dietro tutti i professo ri
Vines e i loro temi ora…
– I professori Vinson, – dissi io. Voleva dire tutt i i professori Vinson, non tutti i professori Vines .
Però non avrei dovuto interromperlo.
– D'accordo, i professori Vinson. Non appena ti sar ai lasciato dietro tutti i professori Vinson, allor a
comincerai ad andare sempre piú vicino, se sai volerlo e se sai cercarlo e aspettarlo, a quel genere di
conoscenza che sarà cara, molto cara al tuo cuore. Tra l'altro, scoprirai di non essere il primo che i l
comportamento degli uomini abbia sconcertato, impau rito e perfino nauseato. Non sei affatto solo a
questo traguardo, e saperlo ti servirà d'incitament o e di stimolante . Molti, moltissimi uomini si sono
sentiti moralmente e spiritualmente turbati come te adesso. Per fortuna, alcuni hanno messo nero su
bianco quei loro turbamenti. Imparerai da loro… s e vuoi. Proprio come un giorno, se tu avrai
qualcosa da dare, altri impareranno da te. È una be lla intesa di reciprocità. E non è istruzione. È
storia. È poesia -. Si interruppe e mandò giú un be l sorso di cocktail. Poi ricominciò. Ragazzi, era
proprio partito in quarta. Meno male che non avevo cercato di fermarlo né niente. – Non sto
cercando di dirti, – prosegui, – che soltanto gli u omini colti e preparati sono in grado di dare al
mondo un contributo prezioso. Non è vero. Ma sosten go che gli uomini colti e preparati, se sono
intelligenti e creativi, tanto per cominciare, e qu esto purtroppo succede di rado, tendono a lasciare,
del proprio passaggio, segni di gran lunga piú prez iosi che non gli uomini esclusivamente
intelligenti e creativi. Tendono ad esprimersi con piú chiarezza, e di solito hanno la passione di
seguire i propri pensieri sino in fondo. E, cosa im portatissima, nove volte su dieci sono piú modesti
dei pensatori non preparati. Mi segui, di'. – Sí, p rofessore.
Ancora una volta non disse niente per un pezzo. Non so se vi sia mai capitato, ma è un po' faticoso
starsene là seduto aspettando che uno dica qualcosa mentre pensa eccetera eccetera, sul serio. Mi
sforzavo di non sbadigliare. Non è che mi annoiassi , per niente, ma tutt'a un tratto mi era venuto un
sonno del diavolo.
– Gli studi accademici ti renderanno un altro servi gio, se li prosegui per parecchio tempo,
cominceranno a farti capire che taglia di mente hai . Che cosa le va bene e, forse, che cosa non le va

90/100 bene. Dopo un poco, comincerai a capire a che speci e di pensieri dovrebbe attenersi la tua
particolare taglia di mente. Per dirne una, questo può farti risparmiare tutto il tempo che perderesti a
provarti idee che non ti si addicono, che non sono adatte a te. Comincerai a conoscere le tue vere
misure e a vestire la tua mente attenendoti a quell e.
Allora, tutt'a un tratto, sbadigliai. Razza di bast ardo maleducato, ma chi ce la faceva piú. Però il
professor Antolini si mise a ridere. – Andiamo, – d isse, e si alzò. – Prepariamo il tuo divano.
Lo seguii, e lui andò a quell'armadio e cercò di pr endere dall'ultimo ripiano lenzuola, coperte e
vattelappesca, ma con quel bicchiere di cocktail in mano non ci riusciva. Allora se lo scolò tutto,
posò il bicchiere per terra e poi tiro giú la roba. Io lo aiutai a portarla sul divano. Facemmo il let to
insieme. Non è che lui fosse un fenomeno. Non rimbo ccava niente come si deve. Ma chi se ne
infischiava. Roba che potevo dormire in piedi, tant o ero stanco.
– Come stanno tutte le tue donne?
– Magnificamente -. La mia eloquenza si sprecava, m a non mi sentivo in vena.
– Come sta Sally? – Conosceva la vecchia Sally Haye s. Una volta gliel'avevo presentata.
– Benissimo. L'ho vista oggi pomeriggio -. Ragazzi, pareva che fossero passati vent'anni! – Non
abbiamo piú molto in comune.
– Carina da morire. E quell'altra ragazza? Quell'al tra di cui mi hai parlato, quella del Maine.
– Oh, Jane Gallagher. Sta bene. Domani probabilment e le telefono.
Avevamo finito di fare il letto. – È tutto tuo, – d isse il professor Antolini. – Ma non so che diavolo
farai delle gambe, però.
– Oh, va benissimo. Sono abituato ai letti corti, – dissi.
– Grazie mille, professore. Stanotte mi avete propr io salvato la vita, lei e la signora.
– Il bagno sai dov'è. Se hai bisogno di qualcosa la ncia un urlo. Io per un po' resto in cucina; ti dà
fastidio la luce?
– No, macché, no davvero. Grazie mille.
– Bene. Buonanotte, bello.
– Buonanotte. Grazie mille.
Lui se ne andò in cucina e io andai nel bagno a spo gliarmi e tutto quanto. Non potei lavarmi i denti
perché non avevo lo spazzolino. Non avevo nemmeno i l pigiama e il professor Antolini si era
dimenticato di prestarmene uno. Sicché me ne tornai nella stanza di soggiorno, spensi quella piccola
lampada vicino al divano e poi me ne andai a letto con addosso soltanto gli slip. Altro che corto,
quel divano, ma avrei potuto davvero dormire in pie di senza batter ciglio. Rimasi sveglio si e no un
paio di secondi, ripensando a tutto quello che mi a veva detto il professor Antolini. Sul fatto di
scoprire la taglia della propria mente eccetera ecc etera. Era proprio un tipo in gamba, Ma non
riuscivo a tenere gli occhi aperti e mi addormentai .
Poi successe una cosa. Mi secca perfino di parlarne . Tutt'a un tratto mi svegliai. Non so che ora
fosse, niente, ma mi svegliai. Mi sentivo qualcosa sulla testa, la mano di qualcuno. Ragazzi, mi
venne proprio un accidente! Be', era la mano del pr ofessor Antolini. Era andata a finire che si era
seduto per terra vicino al divano, al buio e tutto quanto, e mi stava dio sa se accarezzando o
coccolando quella stramaledetta testa. Ragazzi, giu ro che feci un balzo di mezzo chilometro.
– Che diavolo sta facendo? – dissi.
– Niente! Sto semplicemente seduto qui, in ammirazi one,
– Ma che sta facendo, insomma? – dissi un'altra vol ta, Non sapevo che diavolo dire; be', ero
imbarazzato in modo tremendo.
– Che ne diresti di parlare a bassa voce? Sto sempl icemente seduto qui…
– Io devo andarmene, ad ogni modo, – dissi. Ragazzi , quant'ero nervoso! Cominciai a infilarmi al
buio quei maledetti calzoni. Quasi non riuscivo a m ettermeli, tant'era l'accidente di nervoso che
avevo addosso. Tra scuola e compagnia bella, conosc o piú dannati pederasti io che tutta la gente che
avete incontrata in vita vostra, e gli pigliano gli accessi sempre quando nelle vicinanze ci sono io .

91/100 – Devi andare dove ? – disse il professor Antolini. Faceva di tutto pe r sembrare maledettamente
disinvolto e calmo eccetera eccetera, ma non era da vvero tanto calmo, accidenti a lui. Ve lo
garantisco io.
– Ho lasciato alla stazione le valige e tutto quant o. È meglio che vada a prenderle, credo. C'è dentro
tutta la mia roba.
– Ci saranno anche domattina. Torna a letto, adesso . Vado a letto anch'io. Che ti prende?
– Non mi prende niente, è solo che in una delle val ige c'è tutto il denaro e il resto. Torno subito.
Prendo un tassí e torno subito -. Ragazzi, che casa micciola stavo facendo, lí al buio.
– Il fatto è che quel denaro non è mio. È di mia ma dre, e io…
– Non essere ridicolo, Holden. Torna a letto. Vado a letto anch'io. Il denaro lo troverai sano e salvo
anche domat…
– No, senza scherzi. Devo proprio andare. Davvero – . Ero già quasi tutto vestito, solo che non
riuscivo a trovare la cravatta. Non riuscivo a rico rdarmi dove diavolo avessi cacciato la cravatta. Mi
misi la giacca e tutto quanto senza la cravatta. Il professor Antolini adesso si era seduto nella
poltrona grande, un po' lontano da me, e mi fissava . Era buio e tutto quanto e non potevo vederlo
bene, ma sapevo benissimo che mi stava fissando. E continuava a sbevazzare, tra l'altro. Gli vedevo
in mano il suo fedelissimo bicchiere.
– Sei un ragazzo molto, molto strano.
– Lo so, – dissi. Non persi nemmeno tempo a cercare la cravatta. Cosí me ne andai senza. –
Arrivederci, professore, – dissi. – Grazie mille. D ico davvero.
Quando mi diressi verso la porta di casa lui mi ven ne dietro, e quando premetti il bottone
dell'ascensore lui si fermò su quella maledetta por ta. Si limitò a ripetere quel ritornello che ero “u n
ragazzo molto, molto strano”. Strano, accidenti a l ui! Poi rimase ad aspettare là sulla porta e via
discorrendo finché non venne quel maledetto ascenso re. Non ho mai aspettato tanto un ascensore in
tutta la mia maledetta vita. Giuro.
Mentre aspettavo l'ascensore non sapevo di che diav olo parlare, con lui che continuava a starsene là,
cosí dissi: – Mi metterò a leggere dei buoni libri. Sul serio -. Bisognava pure dire qualcosa ! Era
molto imbarazzante.
– Prendi le valige e torna a tutta velocità. Lascio la porta senza catenaccio.
– Grazie mille, – dissi. – Ci vediamo -. Finalmente era arrivato l'ascensore. Ci entrai e scesi giú.
Ragazzi, tremavo come un dannato. E sudavo, anche. Mi prende un sudore freddo del diavolo,
quando succede una di queste storie da invertiti. C ose del genere mi saranno già capitate una
ventina di volte da quando ero bambino. Non posso m andarle giú.

XXV.

Quando uscii, cominciava appena a far giorno. C'era anche un gran freddo, ma sudavo talmente che
mi fece piacere.
Non sapevo dove diavolo andare. Non volevo andare i n un altro albergo per non spendere tutti i
soldi di Phoebe. Cosí andò a finire che mi feci tut ta la strada a piedi fino a Lexington e presi la
metropolitana fino alla stazione centrale. Là c'era no le mie valige e compagnia bella e pensai di
dormire in quell'idiotissima sala d'aspetto dove ci sono tutte le panche. E feci proprio cosí. Per un
po' non fu tanto male perché c'era poca gente e pot ei stendere le gambe. Ma non mi va di parlarne.
Non è stata una cosa piacevole. Non ci provate. Dic o sul serio. Vi deprimerà.
Dormii soltanto fin verso le nove perché allora la sala d'aspetto fu invasa da milioni di persone e io
dovetti tirar giú le gambe. Non riesco a dormire be ne se devo tenere i piedi sul pavimento. Cosí mi
sedetti. Avevo ancora mal di capo. Peggio di prima. E dovevo essere depresso come non sono mai
stato in vita mia.
Con tutto che non volevo, mi misi a pensare al prof essor Antolini e mi domandai che cosa avrebbe
raccontato alla signora quando lei si fosse accorta che non avevo dormito da loro e via discorrendo.

92/100 Questo però non mi preoccupava troppo, perché sapev o che il professor Antolini era molto in
gamba e le avrebbe imbastito qualche scusa. Poteva dirle che ero andato a casa o una storia del
genere. Questo non mi preoccupava molto. Quello che mi preoccupava , invece, era il fatto di
essermi svegliato e di averlo trovato là a coccolar mi sulla testa eccetera eccetera. Voglio dire, mi
domandavo se per caso non mi fossi sbagliato nel pe nsare che stesse prendendosi dei passaggi da
finocchio. Mi domandavo, non sarà mica che gli piac e soltanto coccolare sulla testa la gente che
dorme. Uno come fa a essere sicuro di certe cose, v oglio dire è impossibile. Mi domandai perfino se
non fosse il caso di prendere le valige e tornare a casa sua, come avevo detto. Cominciai a pensare,
voglio dire, che anche se era un finocchio, con me era stato molto gentile. Pensavo che non si era
seccato per niente che gli avessi telefonato cosí t ardi, e anzi mi aveva detto di andare subito da lui ,
se ne avevo voglia. E che si era preso la briga di darmi tutti quei consigli sul fatto di trovare la t aglia
della propria mente eccetera eccetera, e che quando morí James Castle, quel ragazzo che vi ho
detto, soltanto lui gli era andato vicino . Pensavo a tutte queste cose. E piú ci pensavo, pi ú mi
deprimevo. Voglio dire, cominciai a pensare che for se sarei dovuto tornare a casa sua. Forse lui mi
stava accarezzando la testa tanto per fare una cosa . Piú ci pensavo, però, e piú tutta quella storia m i
faceva sentire depresso e sfasato. A peggiorare le cose, gli occhi mi facevano un male cane. Mi
dolevano e mi bruciavano, tanto avevo dormito poco. Per giunta mi stava venendo una specie di
raffreddore e io non avevo nemmeno un accidente di fazzoletto. Ne avevo nella valigia, ma non mi
andava proprio di tirarla fuori dalla cassetta e di aprirla in mezzo a tutta quella gente e compagnia
bella.
C'era là quella rivista che qualcuno aveva lasciato sulla panca vicino a me, e io mi misi a leggerla,
con l'idea che almeno per un po' mi avrebbe fatto s mettere di pensare al professor Antolini e a un
milione di altre cose. Ma cominciai a leggere un ma ledetto articolo che mi fece sentire quasi peggio.
Parlava degli ormoni. Ti raccontava che aspetto dov resti avere, faccia, occhi e tutto quanto, se i tuo i
ormoni sono a posto, e io quell'aspetto non ce l'av evo per niente. Ero il ritratto sputato
dell'individuo che nell'articolo aveva gli ormoni s quinternati. Cosí cominciai a preoccuparmi dei
miei ormoni. Poi lessi quell'altro articolo che spi egava come fai a capire se hai il cancro o no.
Diceva che se hai nella bocca qualche ferita che no n guarisce presto, è segno che probabilmente hai
un cancro. Io avevo quella ferita dentro al labbro da circa due settimane . Sicché mi misi in mente
che mi stava venendo il cancro. Quella rivista era proprio fatta apposta per tenerti allegro. Alla fin e
smisi di leggere e andai a fare una passeggiata. Mi ero messo in mente che avevo un cancro e che in
un paio di mesi sarei morto. Sul serio. Ne ero sicu rissimo. Non è che questo mi rendesse di umore
brillante.
Pareva proprio che stesse per piovere, ma io me ne andai lo stesso a fare la mia passeggiata. Tanto
per cominciare, pensai che dovevo far colazione. Fa me non ne avevo, ma pensai che dovevo almeno
mangiare qualcosa. Metter dentro qualcosa con un po ' di vitamine, voglio dire. Cosí mi incamminai
verso est, dove ci sono tutti quei bei ristoranti a buon mercato, perché non avevo nessuna intenzione
di spendere un sacco di soldi.
Strada facendo, passai davanti a quei due tizi che stavano scaricando da un camion quel grosso
albero di Natale. E uno continuava a dire all'altro : “Tieni su 'sto figlio di puttana! Tienilo su ,
Cristo!” Era proprio un modo splendido di parlare d i un albero di Natale! Però era anche un po'
buffo, in un senso terribile, e io mi misi un po' a ridere. Ma non avrei potuto fare niente di peggio ,
perché non appena mi misi a ridere mi parve d'esser e sul punto di vomitare. Sul serio. Cominciai
perfino, ma poi passò tutto. Non so perché. Voglio dire, non avevo mangiato roba che facesse male
né niente di simile, e di solito ho uno stomaco di struzzo. Ad ogni modo, riuscii a riprendermi e
pensai che sarei stato meglio sc mangiavo qualcosa. Cosí entrai in quel ristorante che aveva tutta
l'aria d'essere molto economico e presi frittelle e caffè. Solo che le frittelle non le mangiai. Non
riuscivo a mandarle giú. Il fatto è che quando uno si sente depresso per qualche cosa, ingoiare è un
vero problema. Però il cameriere fu molto gentile. Si riportò indietro le frittelle e non me le fece
pagare. Bevvi solo il caffè. Poi me ne andai e pres i a camminare verso la Quinta Avenue.

93/100 Era lunedí e via discorrendo e mancava poco a Natal e, e tutti i negozi erano aperti. Sicché non era
tanto spiacevole camminare per la Quinta Avenue. Er a alquanto natalizio. Fermi alle cantonate
c'erano tutti quei Babbi Natale macilenti che suona vano i loro campanellini, e suonavano
campanellini pure le ragazze dell'Esercito della Sa lvezza, quelle che vanno in giro senza rossetto né
niente. Io continuavo a guardarmi un po' intorno in cerca di quelle due suore che avevo incontrato a
colazione il giorno prima, ma non le vidi. Lo sapev o che non le avrei viste perché mi avevano detto
che erano venute a New York per insegnare, ma conti nuavo a cercarle lo stesso. Ad ogni modo, era
proprio Natale, cosí tutt'a un tratto. Milioni di r agazzini erano venuti giú in città con le madri e
salivano e scendevano dagli autobus, entravano e us civano dai negozi.
Magari ci fosse stata la vecchia Phoebe. Non è piú cosí piccola da perdere la testa nel reparto dei
giocattoli, ma si diverte a scherzare e a guardar l a gente. Due anni fa, a Natale, me la portai in gir o
per i negozi. Ci divertimmo un mondo. Fu da Bloomin gdale, mi pare. Andammo nel reparto
calzature e facemmo finta che lei – la vecchia Phoe be – volesse comprarsi un paio di quelle scarpe
da neve che arrivano fin sopra la caviglia, quelle con un milione di buchi per i lacci. Quel povero
disgraziato del commesso lo facemmo diventare matto . La vecchia Phoebe ne provò almeno venti
paia, e tutte le volte quel poveraccio doveva allac ciarle la scarpa fino in cima. Fu uno scherzo
feroce, ma la vecchia Phoebe non stava piú nella pe lle. Andò a finire che comprammo un paio di
mocassini e ce li facemmo mettere in conto. Il comm esso fu molto gentile. Mi sa che aveva capito
che stavamo scherzando, perché la vecchia Phoebe no n può fare a meno di ridacchiare.
Ad ogni modo, continuai a camminare per la Quinta A venue, senza cravatta eccetera eccetera. Poi,
tutt'a un tratto, cominciò a succedermi una cosa de ll'altro mondo. Ogni volta che arrivavo alla fine
di un isolato e scendevo da quel maledetto marciapi ede, avevo la sensazione che non sarei mai
arrivato dall'altra parte della strada. Mi pareva c he avrei continuato ad andare giú, giú, giú, e che
nessuno mi avrebbe piú rivisto. Ragazzi, mi venne u n accidente. Non potete nemmeno
immaginarvelo. Cominciai a sudare come dio sa che – tutta la camicia e la biancheria, tutto! Poi
cominciai a fare un'altra cosa. Ogni volta che arri vavo alla fine di un isolato, facevo finta di parla re
con mio fratello Allie. “Allie, – gli dicevo, – non farmi scomparire. Allie, non farmi scomparire.
Allie, non farmi scomparire. Per piacere, Allie”. E poi, quando raggiungevo l'altro marciapiede
senza essere scomparso, gli dicevo grazie . E poi tutto daccapo non appena arrivavo all'altra
cantonata. Ma io continuavo a camminare eccetera ec cetera. Avevo una certa paura di fermarmi,
credo – francamente, non me ne ricordo. So che mi f ermai soltanto un bel pezzo dopo la
Sessantesima, passato lo zoo e compagnia bella. All ora mi sedetti su quella panchina. Ero spompato
e sudavo ancora come non si sa che. Rimasi seduto u n'oretta, credo. Finalmente presi una decisione,
la decisione di andarmene. Decisi che non sarei piú tornato a casa e che non sarei mai piú andato in
un'altra scuola. Decisi che avrei visto soltanto la vecchia Phoebe per dirle addio e tutto quanto e
ridarle i suoi soldi di Natale, e che poi mi sarei diretto all'ovest con l'autostop. Quello che dovevo
fare, pensavo, era di andare al Holland Tunnel e fa rmi dare un passaggio, e poi farmi dare un altro
passaggio, e poi un altro e un altro, e in pochi gi orni sarei arrivato nell'ovest, in qualche bel
posticino pieno di sole dove nessuno mi conosceva e mi sarei trovato un lavoro. Pensai che potevo
trovar lavoro in qualche stazione di rifornimento a mettere benzina e olio nelle macchine. Ma non
m'importava che genere di lavoro. Fintanto che loro non mi conoscevano e io non conoscevo loro,
quello che dovevo fare, pensai, era far finta d'ess ere sordomuto, Cosí mi sarei risparmiato tutte
quelle maledette chiacchiere idiote e senza, sugo. Se qualcuno voleva dirmi qualche cosa, doveva
scrivermelo su un pezzo di carta e ficcarmelo sotto il naso. Dopo un po' ne avrebbero avuto piene le
tasche, e per il resto della vita non avrei piú sen tito chiacchiere. Tutti avrebbero pensato che ero u n
povero bastardo d'un sordomuto e mi avrebbero lasci ato in pace. Mi avrebbero fatto mettere olio e
benzina nelle loro stupide macchine, e in cambio mi avrebbero dato un salario eccetera eccetera, e
con quei soldi io mi sarei costruito una capanna da qualche parte e ci avrei passato il resto della mi a
vita. Me la sarei costruita vicino ai boschi, ma no n proprio nei boschi, perché volevo starmene in
pieno sole tutto il tempo. Mi sarei fatto da mangia re io stesso, e in seguito, se volevo sposarmi o
qualcosa del genere, avrei incontrato quella bella ragazza, sordomuta anche lei, e ci saremmo

94/100 sposati. Sarebbe venuta a vivere con me nella mia c apanna, e se voleva dirmi qualcosa doveva
scriverlo su un maledetto pezzo di carta, come tutt i gli altri. Se avessimo avuto dei figli li avremmo
nascosti in qualche posto. Potevamo comprargli un s acco di libri e insegnargli a leggere e a scrivere.
A forza di pensarci mi entusiasmai da matto. Quella faccenda di far finta di essere sordomuto era
cretina e lo sapevo, ma mi piaceva lo stesso pensar la. Però decisi davvero di andarmene all'ovest
eccetera eccetera. Prima volevo soltanto salutare l a vecchia Phoebe. Cosí, tutt'a un tratto, attravers ai
la strada correndo come un forsennato – a momenti m i facevo ammazzare, se proprio volete saperlo
– e andai da quel cartolaio a comprare un blocchett o di carta e una matita. Pensavo di scriverle un
biglietto per dirle dove ci saremmo incontrati, di modo ch'io potessi salutarla e restituirle í suoi s oldi
di Natale, e poi di portare il biglietto alla sua s cuola e di farglielo consegnare da qualcuno della
segreteria. Però mi cacciai in tasca il blocchetto e la matita e mi incamminai piú in fretta che potev o
verso la sua scuola – ero troppo frenetico per scri vere il biglietto nella cartoleria. Camminavo cosí in
fretta perché volevo che avesse il biglietto prima di andare a casa a pranzo, e non mi restava molto
tempo.
Sapevo dov'era la sua scuola, naturalmente, perché da ragazzino ci ero andato anch'io. Quando ci
arrivai fu strano.
Non ero tanto sicuro di ricordarmi com'era dentro, e invece sí. Era tale e quale come quando ci
andavo io. Dentro c'era lo stesso grande cortile ch e era sempre un po' buio, con le lampadine
protette da una gabbia perché non si rompessero se ci piombava sopra una palla. C'erano gli stessi
circoli bianchi verniciati su tutto il pavimento, p er le partite eccetera eccetera. E gli stessi vecch i
cerchi per la pallacanestro – le reti non c'erano, solo i legni con i cerchi. In giro non c'era nessun o,
probabilmente perché non era piú l'ora di ricreazio ne e non era ancora ora di pranzo. Vidi soltanto
un ragazzino piccolo, un ragazzino di colore, che s tava andando al gabinetto. Anche lui, proprio
come noi un tempo, portava infilato a mezzo nella t asca di dietro uno di quei permessi di legno per
far vedere che era autorizzato ad andare al gabinet to eccetera eccetera. Sudavo ancora, ma non
come prima. Andai fino alle scale, mi sedetti sul p rimo gradino e tirai fuori il blocchetto e la matit a
che avevo comprato. Le scale avevano lo stesso odor e di quando ero bambino io. Come se qualcuno
ci avesse appena fatto pipí. Le scale delle scuole hanno sempre quell'odore. Ad ogni modo, mi ci
sedetti e scrissi questo biglietto:

Cara Phoebe,
non posso piú aspettare fino a mercoledí, perciò è probabile che parta oggi stesso per l'ovest con
l'autostop. Troviamoci al Museo d'arte vicino alla porta alle 12 e un quarto, se puoi, e ti restituirò i
tuoi soldi di Natale. Non ho speso molto.
Con affetto,
HOLDEN

La scuola era praticamente a due passi dal museo, e lei comunque doveva passarci davanti per
andare a casa, perciò sapevo che poteva venire senz a difficoltà.
Poi cominciai a salire le scale verso la segreteria per dare il biglietto a qualcuno che glielo portas se
in aula. Lo piegai una decina di volte perché nessu no lo aprisse. In una dannata scuola non puoi
fidarti di nessuno. Ma sapevo che gliel'avrebbero d ato se io ero suo fratello e via discorrendo.
Però, mentre salivo le scale, tutt'a un tratto pens ai che stavo un'altra volta per vomitare. Solo che
non vomitai. Mi sedetti un istante e mi sentii megl io. Ma mentre stavo là seduto, vidi una cosa che
mi fece perdere le staffe. Qualcuno aveva scritto “ ca…” sul muro. Stavo proprio per perdere le
staffe, accidenti. Pensai che Phoebe e tutte le alt re ragazzine l'avrebbero visto e si sarebbero
domandate che diavolo significava, e allora qualche ragazzino sporcaccione gliel'avrebbe spiegato –
chi sa in che modo da furbastro, naturalmente – e p er un paio di giorni tutte loro sarebbero state a
pensarci e forse perfino a preoccuparsene . Avrei proprio voluto ammazzare quello che l'aveva
scritto. Mi figurai che doveva essere qualche vagab ondo pervertito che era sgattaiolato nella scuola
la sera tardi per orinare o chi sa che, e poi aveva scritto quella parola sul muro. Continuavo a

95/100 immaginarmi che lo coglievo in flagrante e gli spac cavo la testa sugli scalini di pietra fino a
lasciarlo morto stecchito e tutto insanguinato. Ma sapevo pure che non avrei avuto il coraggio di
farlo. Lo sapevo. Questo mi rendeva ancora piú depr esso. Quasi non avevo nemmeno il coraggio di
cancellare quella parola dal muro con la mano , se proprio volete saperlo. Avevo paura che qualch e
insegnante mi sorprendesse a cancellarla e pensasse che l'avevo scritta io . Però la cancellai lo
stesso, alla fine. Poi salii su in segreteria.
Il preside pareva che non ci fosse, ma una vecchia signora che doveva avere almeno cent'anni stava
seduta a una macchina da scrivere. Le dissi che ero il fratello di Phoebe Caulfield della 4 B-I, e le
chiesi se per favore poteva far avere a Phoebe il m io biglietto. Le dissi che era molto importante
perché mia madre era malata e non poteva preparare il pranzo per Phoebe, e che lei doveva
incontrarsi con me per andare a pranzo fuori. La ve cchia signora fu molto gentile, quanto a questo.
Prese il mio biglietto e chiamò un'altra signora ch e stava nell'ufficio accanto e quest'altra signora
andò a portarlo a Phoebe. Poi io e la vecchia signo ra centenaria facemmo quattro chiacchiere. Era
proprio simpatica e io le dissi che ero andato anch 'io in quella scuola, e anche i miei fratelli. Lei mi
domandò a che scuola andavo adesso e io le dissi ch e andavo a Pencey, e lei disse che Pencey era
un'ottima scuola. Non avrei avuto la forza di chiar irle le idee nemmeno se l'avessi voluto. Del resto,
se credeva che Pencey fosse un'ottima scuola, amen. Non fa certo piacere dire cose nuove a un
centenario. A quelli non va di sentirle. Poi, dopo un po', me ne andai. Fu buffo. Lei mi gridò
“Buona fortuna!” proprio come aveva fatto il vecchi o Spencer quando me n'ero andato da Pencey.
Dio, come detesto che la gente mi gridi “Buona fort una!” quando me ne vado da un posto! È
deprimente.
Scesi per un'altra scala, e vidi un altro “ca…” s ul muro. Cercai di cancellare con la mano anche
questo, ma questo l'avevano graffiato con un temper ino o vattelappesca. Non volle sparire. È
inutile, ad ogni modo. Anche ad avere un milione d' anni a disposizione, uno non riuscirebbe a
cancellare nemmeno la metà dei “ca…” lasciati com e firma nel mondo. Impossibile.
Guardai l'orologio nel cortile della ricreazione ed erano soltanto le dieci e venti, perciò dovevo
ammazzare un bel po' di tempo prima di vedere la ve cchia Phoebe. Però mi incamminai lo stesso
verso il museo. Non sapevo dove altro andare. Pensa i che magari potevo fermarmi a una cabina
telefonica per chiamare la vecchia Jane prima di co minciare il mio autostop verso l'ovest, ma non
mi sentivo in vena. Tanto per cominciare, non ero n emmeno sicuro che fosse già a casa per le
vacanze. Cosí andai al museo e mi misi a girellare.
Mentre aspettavo Phoebe nel museo, proprio vicino a lle porte e tutto quanto, mi si avvicinarono
quei due ragazzini per domandarmi se sapevo dove fo ssero le mummie. Quello piccolo, quello che
mi aveva parlato, aveva i calzoni sbottonati. Io gl ielo dissi. Allora lui se li abbottonò lí stesso do ve
si era fermato per parlarmi – non si prese nemmeno il disturbo di andare dietro una colonna o che so
io. Mi lasciò secco. Avrei voluto ridere, ma avevo paura che mi tornasse la voglia di vomitare, cosí
non lo feci. – Dove stanno le mummie, amico?- disse un'altra volta il ragazzino. – Lo sai?
Per un po' mi divertii a prendere in giro quei due. – Le mummie? E cosa sono? – domandai al
piccolo.
– Ma sí. Le mummie, quella gente morta. Quella che la seppelliscono nelle loro combe e tutto
quanto.
Combe. Mi lasciò secco. Voleva dire tombe.
– Com'è che voi due bei tipi non siete a scuola? – dissi.
– Non c'è scuola, oggi, – disse il ragazzino che pa rlava sempre lui. Le stava sparando grosse, quel
piccolo bastardo, com'è vero che sono vivo. Però, f inché non arrivava Phoebe, non avevo niente da
fare, cosí li aiutai a trovare il posto dove stavan o le mummie. Ragazzi, una volta avrei saputo
andarci a occhi chiusi, ma erano anni che non mette vo piede in quel museo.
– Vi interessano tanto le mummie, a voi due? – diss i.
– Altroché.
– Il tuo amico non sa parlare? – dissi.
– Mica è mio amico. È mio fratello.,

96/100 – E non sa parlare? – Guardai quello che non apriva mai bocca. – Non sai parlare per niente? – gli
domandai.
– Sí, – disse. – Non mi va.
Finalmente trovammo il posto dove stavano le mummie ed entrammo.
– Lo sai, tu, come seppellivano i morti gli egizian i? – domandai a quello piccolo.
– Nooo.
– Be', dovresti saperlo. È molto importante. Gli av volgevano la faccia in questi panni, che erano
trattati con qualche sostanza chimica segreta. Cosí loro potevano restare sepolti nelle tombe per
migliaia di anni, e la loro faccia non si decompone va né niente. Nessuno all'infuori degli egiziani sa
come si fa. Nemmeno la scienza moderna.
Per arrivare dove sono le mummie bisogna passare pe r quella specie di corridoio strettissimo dove
sulla parete ci sono le pietre che sono state prese proprio dalla tomba di quel faraone e via
discorrendo. Era alquanto spaventoso e si vedeva lo ntano un miglio che i due bulletti che mi
accompagnavano non si divertivano molto. Mi stavano attaccati alle costole, e quello che non apriva
mai bocca mi teneva addirittura per la manica. – An diamo, – disse al fratello. – Le ho già viste. Ehi,
forza! – Fece dietro front e via di corsa.
– Quello ha una fifa che se lo porta via, – disse l 'altro, -Ci vediamo! – E via di corsa anche lui.
Allora rimasi solo nella tomba. Non mi dispiacque, in un certo senso. Era cosí bello e tranquillo.
Poi, tutt'a un tratto, non indovinerete mai che cos a vidi sul muro. Un altro e “ca…”. Era scritto co n
la matita rossa o vattelappesca, proprio sotto la v etrina, sotto le pietre.
Questo è il vero guaio. Non puoi mai trovare un pos to bello e tranquillo, perché non esiste. Puoi
credere che esista, ma quando ci arrivi, il momento che vo lti gli occhi, viene qualcuno di soppiatto
e scrive “ca…” proprio sotto il tuo naso. Provate ci, una volta. Credo perfino che se un giorno morir ò
e mi porteranno in un cimitero, e io avrò una tomba e tutto quanto, sopra ci sarà scritto “Holden
Caulfield” e in che anno sono nato e in che anno so no morto, e poi, sotto, un bel “ca…”. Sono
pronto a giurarci.
Quando uscii dal posto dove stanno le mummie dovett i andare al bagno. Avevo un po' di diarrea, se
proprio volete saperlo. Di quella faccenda della di arrea me ne infischiavo, ma capitò un'altra cosa.
Mentre stavo uscendo dal gabinetto, proprio a un pa sso dalla porta, mi successe come di svenire. Mi
andò bene, però. Voglio dire, come niente potevo am mazzarmi quando caddi per terra, invece finí
che mi sdraiai su un fianco. Sul serio. Il braccio mi faceva un po' male per l'urto, ma non mi sentivo
piú quel maledetto capogiro.
Erano suppergiú le dodici e dieci, e allora tornai a fermarmi vicino alla porta per aspettare la
vecchia Phoebe, Pensavo che forse era l'ultima volt a che la vedevo. Qualcuno dei miei parenti, dico.
Mi immaginavo che probabilmente li avrei rivista, m a chi sa fra quanti anni. Forse sarei tornato a
casa verso i trentacinque anni, mi immaginavo, se p er caso quando si ammalava e voleva rivedermi
prima di morire, ma quella sarebbe stata l'unica ra gione per cui avrei lasciato la mia capanna e sarei
tornato. Sapevo che mia madre avrebbe avuto una cri si di nervi e avrebbe cominciato a piangere e
mi avrebbe scongiurato di restare a casa e di non t ornare nella mia capanna, ma io me ne sarei
andato lo stesso. Sarei stato indifferentissimo. L' avrei fatta calmare, e poi sarei andato dall'altra
parte della stanza di soggiorno, avrei tirato fuori il portasigarette e avrei acceso una sigaretta, fr eddo
come un blocco di ghiaccio. Gli avrei detto di veni rmi a trovare qualche volta, se ne avevano voglia,
ma senza insistere né niente. Avrei fatto cosí, la vecchia Phoebe l'avrei lasciata venire da me
d'estate e durante le vacanze di Natale e di Pasqua . E D.B.l'avrei fatto venire da me per un poco, se
voleva un bel posticino tranquillo per scrivere, ma nella mia capanna non poteva scrivere film, solo
racconti e libri. Avrei messo questa regola, che qu ando venivano a trovarmi nessuno poteva fare
cose fasulle. Se qualcuno cercava di fare cose fasu lle, doveva andarsene.
Tutt'a un tratto guardai l'orologio nel guardaroba e mancavano venticinque minuti all'una. Cominciò
a venirmi la paura che quella vecchia signora a scu ola avesse detto all'altra signora di non dare il
mio biglietto alla vecchia Phoebe. Cominciò a venir mi la paura che le avesse detto di bruciarlo o chi

97/100 sa che. Mi venne davvero una paura del diavolo. Vol evo assolutamente vedere la vecchia Phoebe,
prima di mettermi per strada. Voglio dire, avevo i suoi soldi di Natale e via discorrendo.
Finalmente la vidi. La vidi attraverso il pannello di vetro della porta. Quello che non riuscivo a
capire era perché si portasse dietro quella grossa valigia. Stava attraversando la Quinta Avenue e si
trascinava dietro quel maledetto valigione. Ce la f aceva a stento. Quando fui piú vicino, vidi che era
la mia valigia vecchia, quella che usavo quando sta vo a Dhooton. Non arrivavo a capire che diavolo
stesse facendo con quella valigia.
– Ehi, – disse quando mi fu vicina. Quell'accidente di valigia le aveva mozzato il respiro.
– Credevo che non venissi piú, – dissi io. – Che di avolo c'è in quell'arnese? Non mi serve niente. Me
ne vado come mi vedi. Non mi porto nemmeno le valig e che ho alla stazione. Che diavolo ci hai
messo , qui dentro?
Lei posò la valigia. – I miei vestiti, – disse. – I o vengo con te. Posso? D'accordo?
– Che? – dissi. A momenti cadevo, quando me lo diss e. Giuro davanti a Dio che a momenti cadevo.
Mi girò un po' la testa e pensai che stavo per sven ire un'altra volta o qualcosa del genere.
– Li ho portati giú con l'ascensore di servizio, co sí Charlene non mi vedeva. Non è pesante. Tutto
quello che c'è sono due vestíti e i miei mocassini e la biancheria e le calze e qualche altra cosa. No n
è pesante. Sentila una volta… Non posso venire co n te? Holden! Non posso? Ti prego .
– No. Chiudi il becco.
Pensai che stesse per venirmi un accidente. Voglio dire, non volevo dirle di chiudere il becco e via
discorrendo, ma pensai che sarei svenuto di nuovo.
– Perché non posso? Ti prego , Holden! Non farò niente, verrò solo con te, nient 'altro! Non mi
porterò nemmeno i vestiti, se non vuoi, mi porterò soltanto…
– Non puoi portarti niente. Perché non vieni. Vado da solo. Perciò chiudi il becco.
– Ti prego , Holden. Ti prego , lasciami venire. Sarò molto, molto, molto… tu n emmeno ti…-
– Tu non vieni . Ora chiudi il becco! Dammi quella valigia, – diss i. Le tolsi di mano la valigia. Avevo
quasi voglia di picchiarla. Per qualche istante pen sai che le avrei mollato un ceffone. Sul serio.
Lei cominciò a piangere.
– Mi pareva che dovevi restare a scuola e via disco rrendo. Mi pareva che in quella recita dovevi fare
Benedia Arnold e via discorrendo, – dissi. Lo dissi rabbiosissimo. – Che cosa vuoi fare? Non vuoi
piú far la recita, Dio santo? – Questo la fece pian gere ancora piú forte. Ci avevo gusto. Tutt'a un
tratto avrei voluto che le cadessero gli occhi dal gran piangere. La odiavo, quasi. Credo che la
odiavo soprattutto perché se veniva via con me non avrebbe piú fatto quella recita.
– Andiamo, – dissi. Tornai a salire le scale del mu seo. Pensai che non mi restava altra soluzione che
lasciare al guardaroba quell'accidente di valigia c he si era portata, e poi lei poteva ritirarla alle tre,
finita la scuola. Sapevo bene che non poteva portar sela a scuola. – Andiamo, ora, – dissi.
Ma lei non salí le scale con me. Non volle venire c on me. Io salii lo stesso, però, e portai la valigi a
al guardaroba e ritirai lo scontrino, poi tornai gi ú. Lei stava ancora là sul marciapiede, ma quando
mi avvicinai mi girò le spalle. In questo è maestra . Ti gira le spalle tutte le volte che gliene salta il
ticchio.
– Non vado piú in nessun posto. Ho cambiato idea. P erciò smettila di piangere e chiudi il becco, –
dissi. Il buffo era che quando le dissi cosí non st ava nemmeno piangendo. Glielo dissi lo stesso,
però. – Andiamo, adesso, ti riporto a scuola. Andia mo, su. Farai tardi.
Lei non mi rispose, niente. Feci un tentativo di pr enderla per mano, ma lei la tirò via. Continuava a
star girata dall'altra parte.
– Hai pranzato? Hai già pranzato? – le domandai.
Lei non mi rispose. Fece una cosa sola, si tolse il mio berretto rosso da cacciatore – quello che le
avevo dato io – e pari pari me lo scaraventò in fac cia. Poi tornò a girarmi le spalle.
Fu una cosa grande, però non dissi niente. Raccolsi il berretto e me lo cacciai nella tasca del
soprabito.
– Andiamo, su. Ti riporto a scuola, – dissi.
– Io a scuola non ci torno.

98/100 A questo punto non seppi che cosa dire. Restai là f ermo un paio di minuti.
– Devi tornare a scuola. Vuoi fare quella recita, no? Vuo i fare Benedict Arnold, no?
– No.
– Ma sí che vuoi. È piú che certo. Forza, su, andia mo,- dissi. – Tanto per cominciare, io non vado
piú in nessun posto. Te l'ho detto. Vado a casa. Va do a casa appena tu torni a scuola. Prima vado
giú alla stazione a prendere le valige, e poi vado dritto…
– Ti ho detto che io a scuola non ci torno, Tu fai quello che ti pare, ma io a scuola non ci torno, –
disse lei, – Perciò chiudi il becco -. Era la prima volta che mi diceva di chiudere il becco. Fu
terribile. Dio, fu proprio terribile, Peggio di una bestemmia. Ancora non voleva guardarmi e ogni
volta che tentavo di metterle una mano sulla spalla o che so io, lei si divincolava.
– Senti, vuoi fare una passeggiata? – le domandai, – Vuoi andare a piedi fino allo zoo? Se oggi non ti
faccio andare a scuola e andiamo a passeggio, la sm etti con tutte queste scemenze?
Non mi rispose, e cosí glielo dissi un'altra volta, – Se oggi ti lascio saltare la scuola e andiamo a fare
quattro passi, la smetti con le scemenze? Domani to rni a scuola e fai la brava ragazza?
– Forse, può darsi, – disse. Poi attraversò la stra da come un bolide, senza nemmeno guardare se
veniva qualche macchina. Certe volte è proprio matt a.
Però non la seguii. Sapevo che sarebbe stata lei a seguire me , e cosí mi incamminai verso il centro,
diretto allo zoo, sul marciapiede lungo il parco, e lei si incamminò verso il centro sull' altro dannato
marciapiede. Non mi guardava affatto, ma capivo ben issimo che probabilmente mi osservava con la
coda dell'occhio, quella stupida, per vedere dove a ndavo eccetera eccetera. Ad ogni modo, facemmo
cosí tutta la strada fino allo zoo. L'unica cosa ch e mi seccava era quando passava un autobus a due
piani, perché allora non potevo guardare l'altro ma rciapiede e non vedevo che diavolo stesse
facendo lei. Ma quando arrivammo allo zoo le gridai : – Phoebe! Io vado allo zoo! Andiamo, su! –
Non mi guardò, ma capii che mi aveva sentito, e qua ndo cominciai a scendere le scale per entrare
allo zoo mi girai, e vidi che lei attraversava la s trada per seguirmi eccetera eccetera.
Allo zoo la gente non era molta perché era una gior nata un po' schifa, ma c'era un crocchio intorno
allo stagno delle otarie e compagnía bella. Io feci per passare oltre, ma la vecchia Phoebe si fermò e
fece finta di guardare le otarie che mangiavano – u n tizio gli stava buttando dei pesci – cosí tornai
indietro. Pensai che era l'occasione buona per avvi cinarmi a lei eccetera eccetera. Le andai accanto,
mi fermai un po' dietro di lei e le posai le mani s ulle spalle, appena appena, ma lei piegò le
ginocchia e mi sgusciò via – ve l'ho detto che sa e ssere molto sostenuta, quando vuole. Rimase là
ferma a guardare mentre le otarie mangiavano, e io fermo dietro di lei. Non le misi piú le mani sulle
spalle né niente, perché se l'avessi fatto, stavolt a davvero che sarebbe scappata via. I ragazzini sono
buffi. Bisogna stare molto attenti a quello che si fa.
Quando ci allontanammo dalle otarie lei non volle c amminarmi vicino, però non si tenne troppo a
distanza. Lei camminava su un lato del marciapiede e io sull'altro. Non era l'ideale, ma sempre
meglio che vederla camminare lontana un miglio, com e prima. Ci avvicinammo a dare un'occhiata
agli orsi, lassú su quella collinetta, ma non c'era molto da vedere. Ce n'era fuori uno solo, l'orso
polare. L'altro, l'orso bruno, stava nella sua dann ata grotta e non volle uscire. Non se ne vedeva che
il didietro. Vicino a me c'era un ragazzetto con un cappello da cowboy che gli scendeva fino alle
orecchie che continuava a dire al padre: – Fallo ve nire fuori, papà. Fallo venire fuori !- Guardai la
vecchia Phoebe, ma lei niente, non rideva. Si capis ce subito quando i ragazzini ce l'hanno con voi.
Non ridono, niente da fare.
Lasciati gli orsi uscimmo dallo zoo, e dopo aver at traversato quella stradina nel parco, passammo
sotto una di quelle piccole gallerie dove c'è sempr e odore di orina. Di là si andava alla giostra. La
vecchia Phoebe continuava a non volermi parlare, pe rò adesso mi camminava quasi vicina. Io
l'afferrai di dietro per la cintura del soprabito, cosí, tanto per fare, ma lei si divincolò. Disse: – Tieni
le mani al posto tuo, per piacere -. Ce l'aveva anc ora con me. Ma non come prima. Ad ogni modo
continuavamo ad avvicinarci alla giostra e già si c ominciava a sentire quella musichetta saltellante
che suonano sempre. Stavano sonando Oh, Marie ! Sonavano quella stessa canzone da una

99/100 cinquantina d'anni, da quand'ero piccolo io . Ecco l'unica cosa simpatica delle giostre, suonan o
sempre le stesse canzonette.
– Credevo che d'inverno la giostra fosse chiusa , – disse la vecchia Phoebe. A conti fatti, era la prima
cosa che diceva. Probabilmente si era dimenticata c he doveva avercela con me.
– Forse perché è quasi Natale, – dissi. Non disse n iente, quando io dissi cosí. Probabilmente si era
ricordata che doveva avercela con me.
– Vuoi andare a fare un giro? – dissi. Sapevo che p robabilmente ne aveva voglia. Quand'era piccola
piccola, e Allie, D. B. e io la portavamo al parco con noi, andava matta per la giostra. Non si
riusciva a strapparla da quel dannato aggeggio.
– Sono troppo grande, – disse. Credevo che non mi a vrebbe risposto e invece sí.
– No che non lo sei. Vai pure. Io ti aspetto qui. V ai, su – dissi. Eravamo proprio lí, oramai. Sulla
giostra c'erano alcuni bambini, per lo piú molto pi ccoli, e i genitori li stavano aspettando lí avanti ,
seduti sulle panchine e via discorrendo. Allora fin í che andai allo sportello dove vendono i biglietti
e ne presi uno per la vecchia Phoebe. Poi glielo di edi. Lei mi stava proprio vicina. – Tieni, – le dis si·
– Aspetta un momento… prendi anche il resto dei t uoi soldi -. Feci per darle il resto dei soldi che mi
aveva prestato.
– Tienili tu. Tienili per me, – disse lei. Poi aggi unse subito: – Ti prego.
È deprimente, quando uno ti dice “Ti prego”. Se è P hoebe o qualcuno cosí, voglio dire. Mi sentii
depresso da morire. Però mi rimisi i soldi in tasca .
– Vieni a fare un giro anche tu? – mi domandò lei. Mi stava guardando in modo un po' buffo. Si
capiva che non ce l'aveva piú tanto .
– Il prossimo, magari. Adesso sto qui a guardarti, – dissi.
– Hai il biglietto?
– Sí.
– Vai, allora, io mi siedo su questa panchina. Sto a guardarti -. Andai a sedermi sulla panchina e lei
salí sulla giostra. Ne fece tutto il giro. Voglio d ire che ne fece proprio tutto il giro, una volta so la.
Poi si sedette su quel vecchio stallone scuro dall' aria malandata. Allora la giostra si mise in moto e
io guardai Phoebe che girava, girava. Sopra c'erano solo altri cinque o sei ragazzini, e la canzone
che stavano sonando era Fumo negli occhi . La sonavano in modo molto buffo, come se fosse ja zz.
Tutti i bambini si sforzavano di afferrare l'anello d'oro, anche la vecchia Phoebe, e io avevo un po'
paura che cadesse da quel maledetto cavallo, però n on dissi e non feci niente. Il fatto, coi bambini, è
che se vogliono afferrare l'anello d'oro, uno deve lasciarli fare senza dire niente. Se cadono, amen,
ma è un guaio se gli dite qualcosa. Finito il giro, lei scese dal suo cavallo e venne da me, – Stavolt a
vieni anche tu, – disse.
– No, sto solo a guardarti. Mi sa che sto solo a gu ardarti,- dissi. Le diedi un po' dei suoi soldi. –
Tieni. Prendi qualche altro biglietto.
Lei prese i soldi. – Non sono piú arrabbiata con te , – disse.
– Lo so. Sbrigati , ora ricomincia.
Allora, tutt'a un tratto, mi diede un bacio. Poi te se la mano e disse: – Sta piovendo. Comincia a
piovere.
– Lo so.
E allora lei fece una cosa che per poco non mi lasc iava secco: mi infilò la mano nella tasca del
soprabito, ne tirò fuori il mio berretto rosso da c acciatore e me lo mise in testa.
– Non lo vuoi tu ? – dissi.
– Per un po' puoi portarlo.
– D'accordo. Però adesso sbrigati. Finisce che perd i il giro. Non troverai piú il tuo cavallo né nient e.
Ma lei continuava a esitare.
– Lo pensavi proprio quello che hai detto? È vero c he non vai in nessun posto? È vero che dopo vai
a casa? – mi domandò.
– Sí, – dissi. E lo pensavo davvero. Non le stavo d icendo una bugia. Andai a casa davvero, dopo. –
Sbrigati , ora, – dissi, – Si sta muovendo.

100/100 Lei scappò via, comprò il suo biglietto e tornò su quella maledetta giostra appena in tempo. Poi ne
fece tutto il giro finché non ritrovò il suo cavall o. Allora ci montò sopra. Mi salutò con la mano, e
anch'io la salutai con la mano.
Ragazzi, cominciò a piovere che non vi dico. A secchi , ve lo giuro su Dio. I genitori e le madri e
tutti quanti corsero a mettersi proprio sotto il te tto della giostra per non bagnarsi come pulcini
eccetera eccetera, ma io me ne restai per un pezzo su quella panchina. Ero bagnato fradicio,
soprattutto il collo e i calzoni. Il berretto da ca cciatore mi riparava davvero, e molto, in un certo
senso, ma ero fradicio lo stesso. Me ne infischiavo , però. Mi sentivo cosí maledettamente felice,
tutt'a un tratto, per come la vecchia Phoebe contin uava a girare intorno intorno. Mi sentivo cosí
maledettamente felice che per poco non mi misi a ur lare, se proprio volete saperlo. Non so perché.
Era solo che aveva un'aria cosí maledettamente carina , lei, là che girava intorno intorno, col suo
soprabito blu eccetera eccetera.
Dio, peccato che non c'eravate anche voi.

XXVI.

Ecco tutto quello che sono disposto a raccontarvi. Probabilmente potrei dirvi quello che feci quando
andai a casa, e come mi sono ammalato e via discorr endo, e a che scuola dovrei andare in autunno
quando sarò uscito da qui, ma non ne ho voglia. Sul serio. Ora come ora, queste cose non mi
interessano molto. Un sacco di gente, soprattutto q uesto psicanalista che c'è qui, continuano a
domandarmi se quando tornerò a scuola a settembre m i metterò a studiare. È una domanda cosí
stupida, secondo me. Voglio dire, come fate a saper e quello che farete, finché non lo fate ? La
risposta è che non lo sapete. Credo di sí, ma come faccio a saperlo? Giuro che è una d omanda
stupida.
D. B. non è tremendo come gli altri, ma anche lui c ontinua a farmi un sacco di domande. L'altro
sabato è venuto in macchina con quella bambola ingl ese che prenderà parte al nuovo film che lui sta
scrivendo. Era una posatrice fenomenale, ma bella d a morire. Ad ogni modo, quando a un certo
momento è andata alla toletta delle signore, che st a a casa del diavolo nell'altro reparto, D. B. mi h a
domandato che cosa ne pensavo io di tutta questa st oria che ho appena finito di raccontarvi. Non ho
saputo che accidente dirgli. Se proprio volete sape rlo, non so che cosa ne penso. Mi dispiace di
averla raccontata a tanta gente. Io, suppergiú, so soltanto che sento un po' la mancanza di tutti quelli
di cui ho parlato. Perfino del vecchio Stradlater e del vecchio Ackley, per esempio. Credo di sentire
la mancanza perfino di quel maledetto Maurice. È bu ffo. Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo
fate, finisce che sentite la mancanza di tutti.

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