Carlo Goldoni E Il Nuovo Teatro Italiano!

CARLO GOLDONI E IL NUOVO TEATRO ITALIANO

INDICE

Premessa

Capitolo I – Vita e opere di Carlo Goldoni

Capitolo II – La commedia pre-goldoniana

Capitolo III – La riforma goldoniana

Capitolo IV – Goldoni e la commedia della vita

Conclusioni

Bibliografia

Premessa

“Goldoni scioglieva col suo dialogo

la fissita’ di quelle battute e scomponeva

la rigidezza delle maschere disfacendone a poco a poco la consistenza

ed esprimendola – spettacolo nuovo e ignoto – col giuoco di tutti i muscoli affrancati”.

Luigi Pirandello

Tutto quello che si e’ detto, si dice o si dira’ sul grande commediografo Carlo Goldoni non e’ mai abbastanza. I critici letterari non potranno mai esaurire il soggetto Carlo Goldoni e il suo teatro.

Il valore della sua opera ci e’ indicato dalla scoperta improvvisa che ne fecero, nel mondo, accademici e teatranti. Basti ricordare la fortuna che il suo teatro ebbe in tutta l’Europa sin dai suoi anni giovanili e lungo tutto il secolo, in alcuni casi quasi contemporaneamente alla prima presentazione dei suoi testi in Italia.

Giuseppe Petronio ne Il punto su Goldoni affermo’ nel 1986 sul rinnovamento del teatro effuatto Goldoni: “Goldoni non e’ un rivoluzionario, come non e’ rivoluzionaria quella borghesia veneziana di cui egli si fa portavoce; ma rivoluzionario e’ farsi portavoce di questo terzo stato, fare della commedia la tribuna da cui esso possa celebrare se stesso, le proprio virtu’, i propri seri interessi; e per questo, a far questo, Goldoni deve sovvertire il vecchio teatro delle maschere, ridare umana serieta’ e dignita’ alla maschere ridicole, spezzare le convenzioni teatrali che avevano ridotto i personaggi di commedia a pochi astratti tipi fissi e aprire il palcoscenico alla mirabile multiforme varieta’ dei caratteri e delle condizioni umane, in tutta la loro gamma, con tutte le loro innumerevoli sfumature. E in questo suo segreto rapporto con le forze vive del suo tempo, sono le radici dell’opera sua, e ne sono i caratteri, psicologici e artistici”.

Goldoni e’ l’unico scrittore italiano che ha vissuto due vite, una italiana e una francese, che ha subito due scacchi, dai teatri veneziani e dal mondo intellettuale parigino. Che li ha sofferti profondamente e che li ha messi in commedia, trasformando la pesantezza dell’umiliazione e della miseria nella leggerezza della comicita’ e dell’intelligenza.

Per Goldoni il teatro era tutto. Dentro ci mise i suoi malanni, le sue incertezze, I momenti bui, quelli luminosi delle estate veneziane viste dalle altane e nei campielli. Solo adesso i critici cominciano a vedere quante pieghe, spiragli, piccoli vortici, minimi abissi verso la profondita’ abbia il suo mondo e il suo genio, troppo a lungo considerate leggero e superficiale, e quale tipo di cultura riusci’ a possedere il veneziano paroncin, l’avventuriero onorato Carlo Goldoni.

Ho scelto come soggetto della mia tesi il nuovo teatro di Goldoni, perche’ mi piace il teatro, mi piaciono i sipari, le quinte, tutto il meccanismo visibile e invisibile del teatro e Goldoni e’ l’autore che segna l’inizio del teatro moderno. Scrivendo questa tesi, ci sono stati momenti in cui avrei voluto vivere al tempo della rappresentazione di una commedia di Goldoni, in un teatro del Settecento, nella platea, o dentro le quinte per osservare la preparazione degli artisti.

Nel primo capitolo della mia tesi ho cercato di delineare il ritratto di Goldoni, composto dai momenti principali della sua vita e dai piu’ importanti momenti della sua opera, da quando e’ nato a Venezia nel 1707, “in una casa grande e bella situata tra il ponte di Nomboli e quello di Donna Onesta, all’angolo della via di Ca’ Cent’anno nella parocchia di San Toma’”, e fin quando mori’ malato e povero a Parigi nel 1793.

Ho cercato di delineare in questo primo capitolo gli incontri fortunati di Goldoni come mi piace chiamarli: con Bonafede Vitali da Parma, detto anche l’Anonimo e la sua compagnia per cui inizia la pratica del teatro, con Giuseppe Imer del Teatro quello che introduce Goldoni al mestiere del teatro San Samuele di Venezia, con Girolamo Medebach del Teatro Sant’Angelo, con la cui compagnia si lega per quattro anni con l’obbligo di comporre sedici nuove commedie, con Vendramin del Teatro San Luca, con cui firma un contratto per dieci anni, obbligandosi a scrivere otto commedie all’anno, con la Comedie’ Italienne di Parigi.

Per capire meglio il contesto in cui e’ nata la riforma goldoniana, il secondo capitolo l’ho dedicato al teatro che ha preceduto la riforma di Goldoni, e specialmente alla commedia. La commedia fino a Goldoni era rappresentata dalla Commedia dell’Arte, un’arte del corpo e della maschera, in cui gli attori comunicano con la bravura tecnica e l’espressivita’ del corpo, improvvisando con la parola sulla base di intrecci e scene tipiche. In mancanza di un testo scritto, nella Commedia dell’Arte era essenziale la tecnica di recitazione e la capacita’ dei comici di attirare l’attenzione del pubblico, ma questo fenomeno riduceva il teatro a spettacolo “effimero”, affidato solo all’estro e all’improvvisazione dell’interprete.

I testi di queste commedie erano poco curati, e spesso mai pubblicati, percio’ il confronto di questa commedia con il teatro del resto d’Europa penalizzava molto il teatro italiano.

Se e’ vero che gli attori italiani della commerdia dell’arte e i scenografi italiani operano sui palcoscenici europei con un successo straordinario, e’ altrettanto vero che lo spettacolo non puo’ sostituire il testo, che resta il fondamento di qualsiasi civilta’ teatrale. La crisi della drammaturgia italiana era dunque un fenomeno sotto gli occhi di tutti.

Gli autori teatrali italiani sono pocchissimi rispetto a quelli del grande teatro europeo: Shakespeare, Calderon della Barca, Moliere ecc.

Fu questo il contesto in cui nacquero le commedie goldoniane della vita. Fu questo il periodo cha ha preceduto la riforma goldoniana, a cui ho dedicato tutto il terzo capitolo.

Riforma vuol dire che Goldoni non invento’ nulla di nuovo, ma muto’, cambio’, aggiorno’ e miglioro’ quello che era prima di lui. Con Goldoni, la commedia diventa genere letterario, mentre prima era solo mestiere.

La riforma goldoniana del teatro non fu una svolta improvvisa o una rivoluzione, ma un graduale mutamento che Goldoni impose al pubblico, agli attori, agli impresari in anni di lavoro, perche’ sentiva l’esigenza di abituare gradualmente al nuovo genere di commedia gli attori e il pubblico.

Da un lato, infatti, Goldoni supera ma non rinnega gli insegnamenti della Commedia dell'arte. Del resto, sarebbe stato un errore imperdonabile per un commediografo disfarsi di quell'enorme patrimonio di creativita’ e di mestiere nel tradurre sulla scena una qualsiasi vicenda. Sostituiti gradualmente intrecci avventurosi, maschere e scenari esotici con vicende realistiche, personaggi comuni e ambientazioni familiari, andava pur sempre conservata quella tecnica teatrale fatta di una giusta scansione del ritmo, di un'appropriata successione di varie situazioni sceniche, d'una calibrata miscela dei toni e dei personaggi. Inoltre, la stessa abilita’ degli attori professionisti, se era indispensabile per le funamboliche improvvisazioni della vecchia commedia, a ben vedere non era meno necessaria per rendere credibile un personaggio realistico, per disegnarne il carattere con le piu’ sottili sfumature psicologiche. Percio’ in Goldoni la vecchia arte rappresentativa non muore, ma si trasfonde in un teatro diverso, più moderno, destinato a perdurare sino ai giorni nostri.

Ecco alcuni obiettivi della riforma goldoniana: la Commedia dell’arte di basava sulle maschera, sui tipi, cioe’ su personaggi stereotipati e fissi, Goldoni porta sulla scena personaggi veri, con una loro psicologia, creando la commedia di carattere; la commedia dell’arte si basava su trame complicate e inverosimili, Goldoni crea un teatro impostato sull’analisi psicologica del personaggi; la commedia dell’arte era a soggetto, cioe’ non scritta interamente e gli attori dovevano improvvisare, mentre Goldoni scrisse interamente le sue commedie; Goldoni creo’ una lingua viva nelle sue commedie, risolvendo cosi’ anche il problema della lingua teatrale.

Il quarto capitolo e’ dedicato alla commedia della vita di Goldoni, cioe’ all’analisi dei testi e delle novita’ portate da Goldoni nel teatro.

Le prime opere goldoniane sono ancora sul modello dei canovacci della commedia dell’arte, mentre le successive, affrontano temi diversi legati ai contrasti interni della societa’ del tempo, soprattutto tra borghesi ed aristocratici.

Ecco alcune commedie analizzate nel quarto capitolo: Il Teatro comico che rappresenta la commedia manifesto della riforma teatrale che Carlo Goldoni, Momolo cortesan, in cui la parte del protagonista e’ interamente scritta, La donna di garbo che e’ la prima commedia in cui tutte le parti sono interamente scritte, La vedova scaltra e’ la seconda commedia goldoniana scritta in ogni sua parte dall’autore e completamente priva di maschere, La locandiera, una delle commedie mature e originali, recitata da secoli sui piu’ famosi palcoscenici del mondo e interpretata dalle piu’ famose attrici lungo gli anni, I rusteghi e Le baruffe chiozzotte, lavori goldoniani di maturita’, considerati veri capolavori teatrali e recitati sui palcoscenici internazionali.

CAPITOLO I

Vita e opere di Carlo Goldoni

In 86 anni di vita intensa, vissuta tra nobili, borghesi e popolo, tra attori, primedonne e capocomici, intersecata ripetutamente da viaggi, aspre polemiche letterarie, attivita’ nei teatri, successi e delusioni, soggiorni nelle case e nelle ville degli amici e degli estimatori, contrassegnata da amori, dal gioco, dai minuti piaceri della tavola, da riflussi di una malattia di nervi dovuta alla fatica e all’apprensione, si compi’ la parabola esistenziale del grande poeta di teatro Carlo Goldoni.

Amo’ la vita e la gente, le maschere e gli attori, il pubblico che lo attraeva nella veste di osservatore divertito, appassionato e critico, e, attraverso questi amori, amo’ perdutamente il teatro aiutandolo a riscattarsi dal baratro di pressappochismo in cui si era cacciato, a sublimare la propria essenza artistica in un artigianato dai netti contorni di professionalita’, a tornare ad essere luogo di gioco intellettuale, specchio della vita, palestra di dibattito, osservatorio sulle amenita’ e sulle dolci tristezze del mondo.

Il secolo in cui visse e i due successivi, fino ai nostri tempi, hanno visto l’evolversi e l’affermarsi, attraverso gli studi e la pratica del palcoscenico, del suo capolavoro di scrittura teatrale e poetica, imposto all’attenzione e all’interesse dell’Europa e del mondo.

Carlo fu il tipico figlio del suo secolo, aperto e gaudente, cui convengono le parole dell’autobiografico personaggio Guglielmo: “vo’ stare allegro, vo’ divertirmi, non voglio pensare ai guai, anzi voglio rider di tutto, e fissure in me la massima che l’uomo di spirito deve essere superior ai colpi della fortuna”.

Carlo Goldoni nasce il 26 febbraio 1707 a Venezia, nel palazzo dei Centani a San Toma’, da Giulio e da Margherita Savioni. Ecco cosa scrive Goldoni nell’inizio dei Memoires, scritti e pubblicati a Parigi nel 1787:

“Sono nato a Venezia, l’anno 1707, in una casa grande e bella situata tra il ponte di Nomboli e quello di Donna Onesta, all’angolo della via di Ca’ Cent’anno nella parocchia di San Toma’.”

Vive un’infanzia movimentata, come d’altronde un po’ tutta la sua vita, diviso tra la madre che dimora a Venezia e il padre che a causa degli impegni di lavoro e’ costretto a trascorrere molto tempo lontano da Venezia.

Dal nonno che era un grande amante del teatro, Carlo eredita la passione per il teatro, l’umor gaio e socievole.

Nel 1712 il nonno muore, lasciando molti debiti e una precaria situazione economica, tanto che la famiglia e’ costretta a tagliare molto le spese. Sono anni difficili, dedicati allo studio e nei momenti d’ozio si divole.

Nel 1712 il nonno muore, lasciando molti debiti e una precaria situazione economica, tanto che la famiglia e’ costretta a tagliare molto le spese. Sono anni difficili, dedicati allo studio e nei momenti d’ozio si diverte a leggere commedie, soprattutto quelle del Cicognini, che hanno l’arte di divertire e spesso anche di commuovere, tenendo desta l’attenzione del lettore fino allo scioglimento finale. Ad imitazione delle letture del Cicognini, a nove anni scrive perfino una commedia per intero, che mando’ al padre, che si trovava in Roma e in quel tempo aveva conseguito la laurea in medicina e andra’ a Perugia per esercitare la professione.

A Perugia nell’autunno del 1716 Carlo raggiunge il padre, e per tre anni viene collocato nel collegio dei gesuiti dove studia grammatica e retorica. Terminato il corso di Retorica, nel 1719 Goldoni viene inviato dal padre a Rimini, nel collegio dei Domenicani dove studia filosofia.

Durante il secondo anno a Rimini conosce una compagnia di Comici, fa amicizia con il capocomico Florindo de’ Maccheroni e “una troupe di comici che mi parve deliziosa”.

Un giorno, abbandona gli studi di filosofia e fugge da Rimini sulla barca dei comici per andare a Chioggia, troncando per sempre il corso degli studi di filosofia.

Perdonato dalla madre e dopo poco anche dal padre, Carlo frequento’ per qualche tempo lo studio legale veneziano dello zio Gianpaolo Indric prima di essere iscritto dal genitore al Collegio Ghislieri di Pavia. Visto che i posti gratuiti spettavano solo ai chierici, il giovane Carlo diventa anche chierico.

Nel periodo pavese Goldoni “matura il suo ingegno” leggendo le principali opere del teatro antico e moderno, soprattutto Molière, e confrontando le messinscene del comico francese con quelle delle compagnie italiane, sente la inadeguatezza della commedia dell’arte ed ha la prima idea della riforma del teatro nel solco della tradizione di quello classico e di quello francese sul piano della rappresentazione scenica.

Cosi’ si forma la sua cultura teatrale: Plauto, Terenzio, i grandi classici, e inoltre il repertorio comico secentesco di miglior “mestiere” come quello di Cicognini. Un mestiere che non si insegna nelle scuole, che ha a che fare con l’ingegno e con un attivo rapporto con il lettore o con lo spettatore teatrale.

Durante il terzo anno viene espulso dal collegio Ghislieri, per Il colosso, satira contro le donne di Pavia che “doveva offendere la delicatezza di parecchie famiglie oneste e rispettabili”.

Lo “spirito ambulatorio” ereditato dal padre, che era medico e costretto di seguito a viaggiare molto, assomiglia molto a quello delle compagnie teatrali, costrette a viaggiare per sopravvivere. L’abitudine al viaggio, che il padre gli regala, rappresenta il teatro e anche qualcosa di piu’: curiosita’, desiderio di conoscere il mondo attraverso la pratica, e anche la filosofia dell’uomo, dedizione all’esperienza e leggerezza.

Il mestiere del padre e il suo amore per i viaggi conducono il giovane Carlo da un colleggio all’altro, da una citta’ all’altra. Pero’ Venezia restera’ per sempre il suo grande amore: “citta’ talmente straordinaria, che e’ impossibile farsene un’idea senza averla vista”, citta’ del teatro e citta’–teatro, con quinte, passaggi, scene, labirintico seguito di sorprendenti visioni.

Cacciato dal Collegio Ghisleri, Carlo raggiunge il padre a Udine e qui fa pratica di legge presso il giureconsulto Movelli, dal quale impara, in sei mesi, piu’ che in tre anni di collegio.

Ogni episodio dell’adolescenza finisce in teatro, quasi che Goldoni voglia convincere il lettore che il suo teatro comincia molto prima delle opere documentabili: teatro la scuola, i rapporti con i coetanei e specialmente con le donne. I suoi Memoires infatti devono “servire alla storia del suo teatro”.

A ventunanni decide di entrare nei pubblici uffici della Repubblica, prima come semplice aggiunto nella Cancelleria penale della podesteria di Chioggia (1728-1729) e poi quale coadiutore in quella di Feltre (1729-1730). Presso il palazzo pretorio di Feltre si trovava una sala da teatro. Goldoni con una compagnia di dilettanti, mette in scena due opere di Metastasio, Didone e Siroe e rappresenta alcune sue composizioni, composte in quei mesi, due Intermezzi a tre voci, il Buon vecchio e la Cantatrice, per i quali viene molto festeggiato come attore e come autore. Questo e’ l’inizio della carriera teatrale di Goldoni.

Nel 1730 il padre di Goldoni ottiene un posto a Bagnocavallo a Ravenna. Nel settembre Carlo raggiunge la famiglia nella nuova residenza, ma il soggiorno dura poco, perche’ qualche mese dopo agli inizi del 1731, muore all’improvviso il padre. Carlo allora ritorna a Venezia portando con se’ la madre e riprende lo studio delle leggi. Nell’ottobre di quello stesso anno ottiene presso l’Universita’ di Padova la laurea dottorale e il 20 maggio dell’anno successivo viene nominato avvocato veneziano.

La professione di avvocato e il teatro sono contigue per motive strutturali: la recita dell’attore assomiglia all’arringa dell’avvocato nella retorica del discorso e nella finalita’ della convinzione e della commozione del pubblico.

Un nuovo amore produce un’incauta promessa di matrimonio con una giovane allevata nel lusso, le spese che ne conseguono lo sommergono di debiti. Si pente subito, e per evitare la rovina, abbandona Venezia e va a Milano.

A Milano nel 1733, Goldoni decide anche il suo destino di autore comico. Qui conosce Bonafede Vitali da Parma, famoso medico e cantambanco, che si chiamava anche l’Anonimo e dilettandosi di teatro manteneva a sue spese una compagnia di attori. La sua compagnia si esibiva nelle piazze e nei teatri con farsette e canovacci. Della compagnia facevano parte ottimi attori come Gaetano Casali da Lucca, Silvio in arte, poi “onorato” primo amoroso al teatro San Samuele di Venezia, e il Pantalone Francesco Rubini.

Sara’ proprio Vitali quello che lo riportera’ al Teatro. Per la compagnia di Vitali, Goldoni allestisce un repertorio di farsette, canovacci, soliloqui, rimproveri, come la moda voleva, ed e’ sempre per lui che compone l’intermezzo per musica a due voci Gli sdegni amorosi tra Bettina putta de campielo e Buleghin barcariol venezian, titolo abbreviato poi in quello de Il gondolier veneziano, la sua prima opera giocosa rappresentata e poi stampata.

Goldoni, viaggiatore e avventuriero disponibile sempre a nuove esperienze, figlio di un medico che assomiglia all’Anonimo, trova in quest’ultimo la persona per cui iniziare la pratica del teatro, con gli attori e con il tipo di teatro allora di moda: l’intermezzo, genere e comico e musicale.

L’invasione franco-piemontesi in Lombardia nell’autunno del 1733, interruppe i tentativi teatrali di Goldoni. Dopo peregrinazioni per l’Emilia e la Lombardia, incontra per caso a Verona l’attore Gaetano Casali che recitava li’ con la compagnia veneziana del teatro di San Samuele di Venezia, diretta da Giuseppe Imer. Fatta amicizia con il capocomico e tornato con lui a Venezia, si impegna a scrivere per i teatri di cui era proprietario il nobile Michele Grimani.

Commedia dell’arte e intermezzi sono le forme piu’ popolari e piu’ “teatrali” dal punto di vista prima dell’attore, e poi dello scrittore. La conoscenza dell’Anonimo, della sua “compagnia volante” e la conoscenza di un capocomico come l’Imer sono essenziali a questo inizio.

Giuseppe Imer e’ quello che introduce Goldoni al mestiere del teatro. Da lui Carlo riceve i primi soldi e il primo successo per la tragicommerdia Belisario.

Nel 1736 la compagnia del San Samuele deve trascorrere la primavera a Genova per una serie di recite al teatro Falcone e il direttore Imer decide di portare con se’ anche Goldoni. Proprio a Genova avviene uno dei fatti piu’ importanti nella vita del nostro autore: si innamora e sposa Nicoletta Conio, giovane figlia d’un notaio, e nell’ottobre la porta con se’ a Venezia.

L’anno dopo, 1737, a Goldoni ormai trentenne, che gia’ dirigeva gli spettacoli musicali del teatro di San Samuele per la fiera dell’Ascensione, viene affidata anche la direzione del teatro d’opera di San Giovanni Grisostomo. Il San Giovanni Grisostomo era specializzato in tragedie, tragicommedie e opera in musica, e percio’ era dotato di un’attrezzatura formidabile per scenografie e macchine sceniche. Divento’ teatro privilegiato per le grandi opere musicali e il ballo e, prima della riforma comica goldoniana, centro della vita teatrale veneziana.

Il 1738 e’ il primo anno importante nella vita artistica del Goldoni. Insieme con il famoso Antonio Sacchi che interpretava la parte di Arlecchino, entra nella compagnia Imer il “pantalone” Golinetti, che recitava molto bene anche con la faccia scoperta cioe’ senza maschera. Con questi Goldoni tenta una strada nuova per il teatro, nel tentativo di abbandonare la commedia dell’arte e di improvvisazione, scrivendo le varie scene che gli attori avrebbero dovuto poi imparare a memoria. Compone la sua prima commedia di carattere, Momolo cortesan, e porta sulla scena un personaggio vivo che il teatro comico italiano non conosceva, gioviale rappresentante della sana borghesia delle lagune venete. Goldoni comincia adesso a progettare il passaggio dall’improvvisazione alla scrittura.

Tra il 1940 e il 1743, Goldoni assume la carica di console della Repubblica di Genova presso la Repubblica di Venezia. Nascono in questo periodo il melodramma Oronte, la commedia in tre atti La bancarotta, La donna di garbo, che verra’ recitata solo quattro anni più tardi, e L’Impostore.

Nel 1745 deve tornare alla professione di avvocato, trasferendosi a Pisa.

A Pisa gli arriva all’improvviso da Venezia una lettera dell’Antonio Sacchi proponendogli il soggetto di una nuova commedia: Il servitore di due padroni, percio’ di giorno lavorava come avvocato e di sera come commediografo. La commedia riscuote un enorme successo, tanto che gliene viene chiesta un’altra: nasce Il figlio di Arlecchino perduto e ritrovato, che gli da’ una grande notorieta’ anche fuori dall’Italia, soprattutto in Francia. Sempre nel suo soggiorno di Pisa conosce l’attore Pantalone Cesare D’Arbes, della compagnia comica che in quel tempo recitava a Livorno ed era diretta da Medebach: per lui Goldoni scrive Tonin bellagrazia (Il frappatore), sul modello di una vecchia commedia dell’arte (Pantalon paroncin). Intanto anche Medebach si presenta al Goldoni e ottiene di rappresentare La donna di garbo. Nasce da qui nel 1747 il sodalizio del commediografo con la compagnia di Medebach.

La donna di garbo e’ messa in scena da Goldoni nell’estate del 1747 a Livorno, rappresentata da Teodora Medebach, con un seguito di polemiche per il suo contenuto, giudicato inverosimile e inaccettabile: la figlia di una lavandaia che sa leggere e chiamarsi “di garbo”, quando conduce tutto il gioco nel suo interesse e contro la verita’.

Medebach lo convince nel 1747 a lasciare Pisa per Venezia.

Il 1748 e’ indubbiamente un anno molto importante nella vita del Goldoni e nella storia del teatro comico italiano. La sera di San Stefano, 26 dicembre, i veneziani che gremivano la platea e i palchi del Sant’Angelo applaudivano al trionfo di Rosaura, rappresentata da Teodora Medebach, la Vedova scaltra.

Medebach sara’ una persona fondamentale nella vita artistica di Goldoni, perche’ esige da lui commedie sempre nuove e diverse, obbligandolo a una produzione intensa, che lo porta a bruciare le tappe non solo della riforma ma anche della sua maturita’ artistica. Infatti Goldoni si lega alla compagnia di Girolamo Medebach per quattro anni con l’obbligo di comporre sedici commedie. Da questo momento Goldoni non tornera’ piu’ indietro e sara’ poeta di teatro: un onorato drammaturgo, con onorati comici e un onorato pubblico.

Goldoni lavorera’ al Sant’Angelo con Medebach dal 1748 al 1753.

Ormai il mondo di Goldoni sono gli attori, le sue passioni e innamoramenti sono per le attrici che lavorano per lui, le sue evasioni stanno nelle invenzioni comiche. Per lui tutto si svolge negli spazi della scena. Innamorato delle attrici Teodora Medebach e Maddalena Marliani, rivale di Antonio Collalto, Cesare d’Arbes, Giuseppe Marliani, Goldoni proietta su di loro la sua immaginazione e i suoi affetti. Dallo scrittoio e dal palcoscenico, Goldoni costruisce tutti i mondi possibili per un veneziano ormai di mezza eta’, che ha visto un po’ di tutto e adesso vuole metterlo in scena. Non solo “mondo” e “teatro” ma “mondo nel teatro” e ancora “gran teatro del mondo”. Con la riforma, la vita del drammaturgo va a finire tutta nelle sue commedie, e queste diventano tutta la sua vita.

Il 1750 e’ un anno leggendario per Goldoni. Al Sant’Angelo sono recitate 16 commedie nuove, che lo scrittore riesce a produrre, realizzando la riforma teatrale. I titoli delle 16 commedie indicano un ventaglio di tipi, che poi Goldoni dividera’ in due categorie, i ridicoli e i viziosi. Goldoni sperimenta moltissimo e negli anni atorno al 1750, il teatro di Goldoni mostra un autore pienamente formato. Tra le 16 commedie: La Pamela, Il bugiardo, La famiglia dell’antiquario, La bottega del caffe’, I petegolezzi delle donne, La locandiera, Le femmine puntigliose, I mercanti, Il cavaliere e la dama, Il bugiardo, La moglie saggia, Le donne gelose ecc. Goldoni fece precedere queste commedie da un pezzo introduttivo Il teatro comico, in cui espone la sua concezione del teatro.

Gli anni al San Luca di Vendramin, dopo la rottura del Sant’Angelo di Medebach sono gli anni in cui nasce lo scrittore o meglio l’autore. Con Vendramin, Goldoni firma un contratto per dieci anni, obbligandosi a scrivere otto commedie all’anno. All’inizio, Goldoni non si adatta molto bene al San Luca, molto piu’ vasto di San Samuele e Sant’Angelo e con attori abituati a un lavoro piu’ grossolano, alle maschere, alle brute farse. Tuttavia ottiene un strepitoso succeso con La sposa persiana. La sua vita teatrale in questo periodo procede tra fiaschi e successi teatrali.

Ma a Venezia sorge un nemico, Carlo Gozzi, il quale inizia una guerra aperta e implacabile in difesa delle maschere e di tutto il passato a cui era avvinto insieme a molti che frequentavano il teatro e che non vedeva di buon occhio la recente riforma, contro Goldoni. La polemica sara’ comunque destinata a durare qualche anno, finche’ Goldoni restera’ a Venezia.

Nell’estate 1756 viene invitato a Parma dall’Infante don Filippo, che gli chiede tre commedie giocose, nominandolo “poeta” al servizio della Corte e assegnandogli una pensione annua.

Nel novembre del 1758 viene invitato a Roma dal cardinale Rezzonico. A Roma resta per sei mesi e le sue opere gli procurano nuovi ammiratori. Viene ammesso con grande onore in udienza dal Papa, ma le speranze concepite nel soggiorno romano non gli danno alcun frutto, per cui ritorna deluso dopo dieci mesi d’assenza da Venezia.

Di ritorno da Roma, si ferma a Bologna, dove scrive Gl’innamorati, la sua prima commedia d’amore in cui l’amore e’ puntualmente negato.

Comincia con questa commedia la serie dei capolavori, quelle commedie comprese tra gli anni 1759-1962 e particolarmente raggruppate negli anni intorno al 1760: Impresario delle Smirne, Un curioso accidente, I rusteghi, La casa nova, Sior Todero Brontolon, Le baruffe chiozzotte, Una delle ultime sere di Carnovale.

Il tempo e l’esperienza, come scrive nei Memoires lo avevano ormai tanto familiarizzato “coll’arte di far Commedie, che immaginati i soggetti, e scelti i caratteri, il resto non era più … che un facile giuoco.”

Il 19 giugno 1760, Voltaire, uno dei massimi esponenti dell’Illuminismo europeo, mandava al marchese Albergati di Bologna, amico di Goldoni, una poesia nella quale esprime un grande elogio dell’arte e della commedia goldoniana. L’elogio e’ l’assegnazione di una specie di diploma di cittadinanza europea, un conferimento che segna il riconoscimento della grandezza ormai europea di Goldoni. Poco dopo Voltaire scrive anche a Goldoni, che viene celebrato come “figlio e pittore della natura”.

Goldoni decide di accettare l’offerta della Comedie Italienne di lavorare per gli attori italiani a Parigi. Goldoni era stato invitato in Francia non proprio a dirigere, ma per assistere per due anni con nuove produzioni il teatro della Comédie Italienne, che stava attraversando un difficile momento.

A Parigi i comici non vogliono imparare le commedie scritte e non hanno molta esperienza per recitare quelle a soggetto, inoltre il pubblico degli Italiani pretende a ogni costo il gioco grottesco e buffonesco delle maschere e tutti quegli elementi che da anni ormai a Venezia erano stati abbandonati.

Goldoni, che sogna di compiere un’altra riforma sul palcoscenico del Teatro Italiano nella patria di Moliere, deve logorare miseramente il suo ingegno nello sceneggiare scheletri di commedie, con l’Arlecchino, nuove farse e nuovi scenari. Alla fine riporta un vero trionfo con la trilogia degli Amori di Arlecchino e di Camilla.

Dopo nove anni di soggiorno francese e di conoscenza di questa lingua, scrive Le Bourru bienfaisant (Il burbero benefico), che l’autore stesso ritiene come il sigillo definitivo alla sua opera. La commedia viene rappresentata per la prima volta a Parigi la sera del 4 novembre 1771 e alla fine, nel tripudio generale, viene trascinato a braccia dagli attori sulla ribalta, ricevendo gli applausi della Corte e del pubblico parigino.

Nel 1773 Goldoni scrive l’ultima sua opera che verra’ rappresentata in teatro, L’Avaro fastoso, pure in francese.

Negli ultimi anni le sue condizioni di salute peggiorano.

Nel 1780 gli attori gli chiedono di tornare a scrivere. Goldoni produce sei nuove Commedie, che non verranno mai rappresentate: in quello stesso anno, la Commedia italiana viene soppressa dalle autorita’ e gli attori vengono licenziati.

Nel 1784 comincia a scrivere le Memorie, in francese, uno dei piu’ piacevoli libri del Settecento.

Carlo Goldoni muore malato e povero a Parigi il 6 febbraio 1793.

CAPITOLO II

La commedia pre-goldoniana

Per meglio capire la riforma e il nuovo teatro di Goldoni, penso che bisogna passare in rassegna il teatro che l’ha preceduto.

Se il teatro rinascimentale comico e pastorale fu tutto italiano ed ebbe un’influenza decisiva sulla drammaturgia europea del Cinquecento e del Seicento, quest’ultimo secolo segna in Italia una crisi profonda del teatro come testo di autonomo livello drammaturgico. Lo spettacolo, che ha uno sviluppo straordinario grazie ai comici dell’Arte e alle geniali invenzioni dei scenografi italiani, finisce con soffocare il testo, ridotto a “canovaccio”, come nella Commedia dell’Arte, o a involucro esterno della grande macchina teatrale barocca.

Bisogna a questo punto dare o almeno provare di dare una definizione per la commedia dell’arte (uno dei concetti piu’ spesso ricordati in questa tesi), nata nella prima meta’ del Cinquecento secolo insieme al mestiere di attore professionista.

Le prime nozioni conosciute di questa formula, com’e’ noto, sono tarde, addirittura goldoniane e sembrano significare commedie all'improvviso generalmente legate alle maschere e al mestiere: “commedie fatte alla maniera degli attori” con un senso spregiativo che accompagna probabilmente il declino del fenomeno.

Nella commedia dell’arte, ci sono i costumi e gli accessori, particolarmente le maschere che permettono l’identificazione immediata dei personaggi e che sottolineano fino alla caricatura i loro tratti principali.

La commedia dell’arte e’ un’arte del corpo e della maschera. Gli attori comunicano con la bravura tecnica e l’espressivita’ del corpo, improvvisando con la parola sulla base di intrecci e scene tipiche.

Gli attori indossano la maschera per tipizzare qualita’ psicologiche o regionali del personaggio, e anche il linguaggio impiegato nella comunicazione orale e’ spesso una mescolanza di forme regionali di aree contigue, un plurilinguismo stereotipato.

La commedia dell'arte si chiamava anche commedia buffonesca, istrionica, di maschere, all'improvviso, a soggetto, e, in molti paesi stranieri dal sec. XVII in poi, commedia italiana.

La commedia dell’arte era una forma teatrale antitetica a quella ufficiale, intendendo per questa tutto il teatro cortigiano, accademico e le rappresentazioni di artisti dilettanti legate agli avvenimenti politici e al tempo liturgico.

I comici dell’Arte, le cui prime compagnie si erano formate alla meta’ del Cinquecento, si impongono in tutta l’Europa con il loro teatro fondato sull’ “improvvisazione”, sulle maschere e sull’estro con il quale le maschere stesse rappresentano sulla scena gli intrecci della commedia colta, a base di travestimenti, amori impossibili, scambi di persona.

I comici dell’arte hanno tratto la loro ispirazione dagli intrattenitori professionisti, che usavano la destrezza degli esercizi fisici, l'efficacia di un discorso in grado di adattarsi a tutte le circostanze o l'ilarita’ scatenata con salti, piroette, capriole, imitazioni, battute e dialoghi salaci, ricchi di disinvolta volgarita’, per ottenere un sicuro successo di pubblico.

Percio’ la commedia dell'arte, spettacolo in buona parte visivo, addestrava i suoi artisti non solo nella ginnastica, per uno scopo evidente di scioltezza e di prestanza fisica, ma addirittura nell'acrobazia. Contorsioni e piroette, capitomboli e salti mortali erano il loro forte. L’attore Scaramuccia Fiorillo, a ottantatre’ anni, ancora distribuiva schiaffi agli interlocutori con la pianta del piede. L'Arlecchino Visentini nella parte del servo di don Giovanni nello scenario del Festino di pietra, davanti alla statua del commendatore, faceva un capitombolo con in mano un bicchiere pieno, senza rovesciare il vino. Lo stesso Visentini spaventava spettatori e spettatrici uscendo dal palcoscenico e correndo in giro sui cornicioni di tutta la sala.

Inoltre, alle virtu’ acrobatiche i comici univano quelle di ballerini e di musicisti: la commedia dell'arte e’ fiorita spesso di danze e di canzoni. In ogni compagnia c'era un attore o un’attrice che sapeva cantare.

Questo genere di recitazione professionale sfruttava il contatto diretto col pubblico, l'assoluta liberta’ espressiva che consentiva il ricorso all'oscenita’ del linguaggio e alle deformazioni grottesche del corpo e del volto, la capacita’ di trasformare il proprio aspetto, voce e atteggiamento in imitazioni ridicole, parodistiche e caricaturali, e, soprattutto, la mancanza di qualsiasi gerarchia tra le forme di espressione affidate alla parola e quelle legate ai movimenti e agli atteggiamenti del corpo.

Improvvisazione e fissita’ dei personaggi si imposero come caratteristiche peculiari di un genere spettacolare in cui gli attori, partendo da un canovaccio, improvvisavano i dialoghi e l'azione. Tuttavia la portata dell'improvvisazione doveva essere alquanto ridotta, come dimostrano diversi fattori, tra i quali, il fatto che ogni attore spesso interpretava lo stesso ruolo per tutta la vita (pratica, questa, che incoraggio’ la ripetizione di battute e gesti, denominati “lazzi”, che si rivelavano particolarmente efficaci). Gli scenari, ovvero le brevi tracce scritte per l'azione drammatica contenenti la successione delle scene e le indicazioni dei lazzi, si svilupparono nel corso del tempo, perfezionandosi e trasmigrando da una compagnia all'altra.

I caratteri fissi della commedia dell'Arte si suddividevano in tre categorie generali, quella degli innamorati, che non indossavano una maschera, quella dei vecchi e quella dei servi che, invece, comparivano in scena mascherati. I tipi erano fissi e ogni attore si specializzava in una maschera: il servo (Arlecchino , Brighella), la servetta (Colombina, Corallina), il dottore (Balanzone), il vecchio (Pantalone), il capitano (Matamoro, Spaventa).

La maschera, appunto, era la caratteristica costante dei personaggi dell'improvvisa e copriva originariamente tutto il viso per poi limitarsi, in seguito, a nascondere solo la parte superiore del volto. Le compagnie, formate di solito da dieci o dodici membri, comprendevano anche tre o quattro donne ed erano dirette da un capocomico che spiegava al gruppo le caratteristiche dei personaggi, chiariva l'azione, elencava i lazzi ed acquistava gli oggetti di scena necessari.

In mancanza di un testo scritto, divenne essenziale la tecnica di recitazione e la capacita’ dei comici di attirare l’attenzione del pubblico.

Il mito della Commedia dell’Arte e’ tutto racchiuso nella fama degli interpreti e delle compagnie.

Pero’ il fenomeno della commedia dell’arte riduceva il teatro a spettacolo “effimero”, affidato solo all’estro e all’improvvisazione dell’interprete. Certo, nei canovacci della commedia dell’arte, semplici trace scritte o soggetti, si esprimevano un’aggressivita’ e una vitalita’ che rompevano talvolta gli argini create dalla Controriforma in tutti i settori della vita sociale. Ma resta vero che tutto si basava sull’improvvisazione degli attori, i testi erano poco curati, e spesso mai pubblicati, percio’ il confronto di questa commedia con il teatro del resto d’Europa penalizza molto il teatro italiano.

Mentre in Inghilterra esplode il teatro elisabettiano, di cui Shakespeare e’ la punta, in Spagna il teatro del Siglo de oro con autori della statura di Lope de Vega, Tirso da Molina e Calderon de la Barca, in Francia il teatro del Grand siècle con Moliere nella Commedia e Corneille e Racine nella tragedia, in Italia gli autori veri e propri si contano sulle dita di una mano o poco piu’, anche se due di questi, Federico della Valle e Carlo de’ Dottori scrivono tragedie di alto o buon livello. La verita’ e’ che in Italia, il Barocco di identifica nel prodigioso sviluppo della messinscena e non nella drammaturgia.

Moliere rappresenta il lento distacco dell’autore francese dalla commedia italiana per costituire una forma intermedia di dramma a meta’ tra quella dell’arte e la commedia erudita, pur mantenendo fisse le presenze di ruoli classici della commedia dell’arte, per la prima volta scopre i volti degli attori e le maschere cedono il posto a nuove figure come quelle di Borghese gentiluomo, Tartufo, il Malato immaginario ecc.

Esiste una raccolta di canovacci o scenari: Teatro delle favole rappresentative, 1611 di Flaminio Scala, attore della piu’ famosa compagnia dell’ultima parte del Cinquecento e dei primi anni del Seicento: i Gelosi, i cui capocomici erano Francesco Andreini e la moglie Isabella, vera e propria “diva” del teatro del suo tempo. Questi canovacci rivelano, nonostante la scaltrezza letteraria dello Scala, tutti i limiti di una drammaturgia che era, e forse non poteva essere diversamente, solo un generico supporto all’invenzione continua dell’interprete. Una drammaturgia, per giunta, che solo raramente arrivava alla trasgressione vera e non a quella apparente ed esteriore di tutta una tradizione comica.

La nozione dell'esercizio del teatro, come invenzione e come interpretazione, la scena concepita come “mostra de' compositori dramatici” e come palestra delle doti di natura e ancor piu’ di quelle di un’“arte” che e’ ardua padronanza dei relativi precetti, oltre che esempio di moralita’, appare condivisa dal marito di Isabella, Francesco, da Flaminio Scala e da quella “mai a bastanza lodata compagnia de i Comici Gelosi” che ha mostrato “ai Comici venturi il vero modo di componere e recitar Comedie, Tragicomedie, Tragedie, Pastorali, intermedii apparenti, ed altre invenzioni rappresentative”.

Benedetto Croce considera la commedia dell'arte un semplice “teatro di mestiere” perche’ la commedia dell'arte fioriva in un'epoca di piena decadenza italiana.

Il Seicento e’ il secolo dell’ “effimero” anche nella grande fortuna che ha la festa barocca: spettacolo imponente e spesso geniale nel quale sono coinvolti i maggiori architetti dell’epoca, basti pensare a Roma agli spettacoli di Gian Lorenzo Bernini.

C’e’ da menzionare a questo punto anche la nascita in questo secolo del teatro “da sala” italiano.

Fino al 1600, le sale teatrali erano lunghe e strette, dotate di gallerie e palchi per le classi piu’ elevate e di una platea in cui il pubblico maschile, l’unico ammesso a frequentare il teatro, piuttosto indisciplinato e chiassoso, stava in piedi. Dal 1636 in poi vennero poste, ai lati della scena, delle sedie per gli aristocratic che intendevano corteggiare le attrici. La scena vera e propria era illuminata da candele o lampadari, e fra queste e la platea vi era una ringhiera. Fin dal Medioevo si erano usate scenografie simultanee, cioe’ vi erano sulla scena vari quadri rappresentanti ambienti e luoghi, e gli attori recitavano di volta in volta dinanzi ad essi, nel Seicento si allesti’ una scenografia unica che rappresentava un palazzo o una piazza o un interno. La scena in tal modo era semplice, ma in compenso i costume erano molto piu’ ricchi, colorati e ricamati in argento e oro, anche in violazione della veridicita’ storica.

Il teatro all’italiana era un teatro a palchetti, con una separazione delle classi sociali, rispecchiando cosi’ lo spirito di una societa’ gerarchica e fastosa. La sala adotto’ la struttura a tribuna, sviluppantesi in senso verticale su piu’ ordini (da 3 a 5), ciascuno dei quali accoglieva un certo numero di palchetti (da 20 a 30), indipendenti fra loro e accessibili dal retro; l’ultimo ordine era occupato dal loggione indiviso; molto ridotta era invece la platea. Tra palcoscenico e platea era situata, su un piano ribassato, l’orchestra. La capienza media si aggirava tra i 1000-1500 posti.

La sala illuminata, non meno sfarzosamente del palcoscenico e popolata, e’ gia’ uno spettacolo essa stessa. Corneille e Moliere sono famosi per l’allestimento di fastose messe in scena per cui i francesi, molto propensi al romanzesco e al fiabesco, andavano pazzi.

Un fenomeno importante all’inizio del Seicento in Italia e’ la nascita del melodramma, che riguarda in primo luogo la musica, ma che coinvolge in misura non marginale la librettistica.

Il teatro “scritto” e’ caratterizzato soprattutto dalla crisi profonda proprio del genere che aveva dominato il Rinascimento: la commedia, che diventa in mano ai comici dell’arte qualcosa di profondamente diverso rispetto a cio’ che era stata nelle opera di autori come Ariosto, Bibbiena, Macchiavelli, Ruzzante, Aretino. Lo dimostrano soprattutto le commedie “scritte” di Giovan Battista Andreini, figlio di due celebri comici e anche lui noto attore nella maschera di Lelio, che esasperano fino alla noia il gioco compiaciuto del “teatro nel teatro”. La centaura (1619) e Le due commedie in commedia (1623) sono i due esempi piu’ noti di questa concezione tutta esteriore del teatro. Ma anche se si esce da questo repertorio troppo legato alla commedia dell’arte e si entra nel territorio della commedia colta, che ha come punto di riferimento il purismo classicistico dell’Accademia della Crusca fiorentina, il discorso non cambia.

Le commedie di Michelangelo Buonarroti il Giovane, scritte per gli spettacoli della Corte dei Medici, sono frutto di un interesse linguistico piuttosto che di una reale capacita’ di rappresentare la societa’ fiorentina nelle sue articolazioni. Fra i suoi testi comici, meritano essere ricordati La Tancia (1611) e La Fiera (1619).

A Roma, dove le feste barocche celebrano i loro trionfi, il piu’ grande architetto e scenografo del tempo, Gian Lorenzo Bernini, scrive una ventina di commedie che egli stesso mette in scena a casa sua per un pubblico di elite’.

Quello del Seicento e’ un quadro teatrale abbastanza povero, ed e’ la conferma del fatto che lo spettacolo soffoca e poi annulla il testo. Non deve stupire che il manuale piu’ famoso e divulgato del secolo e’ la Pratica di fabricar scene e machine ne’ teatri di Nicola Sabatini.

Alla fine del Seicento la crisi della drammaturgia italiana era dunque un fenomeno sotto gli occhi di tutti. Se e’ vero che gli attori italiani della commerdia dell’arte e i scenografi italiani operano sui palcoscenici europei con un successo straordinario, e’ altrettanto vero che lo spettacolo non puo’ sostituire il testo, che resta il fondamento di qualsiasi civilta’ teatrale.

Le necessita’ di reagire all’ ”illusionismo barocco”, centrato sull’artificio e sul virtuosismo degli interpreti, e’ l’obiettivo dei piu’ avvertiti uomini di cultura e in particolare dell’ Accademia dell’Arcadia fondata tra gli altri nel 1690 da Giovan Mario Crescimbeni e da Gian Vincenzo Gravina che sara’ lo scopritore di Pietro Metastasio. Questa reazione avviene in direzione di un teatro dove la parola ritorna a essere sovrana e a essere fondata sulla “verosimiglianza”. In questa prospettiva, non deve per nulla stupire che Metastasio, Goldoni e Alfieri elaborino “una scrittura drammaturgica forte” e “si affaccino alla ribalta con evidenti e forti intenti polemici nei confronti della tradizione”.

Il teatro italiano, che era stato periferico e marginale nel secolo di Shakespeare, di Corneille, di Racine, di Moliere, di Lope de Vega, di Tirso de Molina, di Calderon de la Barca, ritorna ad esercitare un ruolo importante in tutta l’Europa con Metastasio nel melodrama, con Goldoni nella commedia, mentre Alfieri rinnova completamente la tragedia sia sul piano dei contenuti che su quello dello stile drammatico.

La commedia era stato il genere piu’ depresso e marginale, soppiantato com’era stato dalla Commedia dell’Arte e dai suoi soggetti. Non erano mancati alla fine del Seicento tentativi di reazione alla degradazione della commedia “all’improvviso”, ma essi erano stati troppo episodici per cambiare la situazione. Ne’ la pur felice commedia in piemontese L’cont Piolet di Carlo Giambattista Tana, scritta alla fine del Seicento ma rimasta inedita fino alla fine del Settecento, aggraziata rappresentazione comica della nobilta’ di campagna, ma neppure le piu’ solide commedie di Carlo Maria Maggi, scritte in dialetto Milanese, erano in grado di riformare un genere in gravissima crisi.

Piu’ ambiziosi furono i tentativi di riforma della commedia da parte di tre autori di area Toscana, Gerolamo Gigli, Giovan Battista Fagiuoli e Iacopo Angelo Nelli. Il primo autore di Il don Pilone, ispirato al Tartufo di Moliere e di La sorellina di Don Pillone, le sue due commedie migliori, ma nonostante la sua estrosita’ linguistic, non riusci’ mai a superare i limiti di una comicita’ facile e ben lontana da quella di Moliere a cui ambiva. Il secono, Fagiuoli, scrisse diciannove commedie, rappresentate da compagnie di dilettanti. La migliore fra tutte e’ Il cicisbeo consolato, scritta nel 1708. L’ultimo, Nelli, ebbe anche lui una produzione feconda, fra la quale: La serva padrona, Le serve al forno, La suocera e la nuora, e anche una maggiore consapevolezza nel voler riformare il teatro comico, ma gli manco’ la stoffa dello scrittore, il senso della scena, la misura delle battute e le sue commedie, che pure tentano il carattere, ci appaiono delle occasioni perdute. Del resto, il teatro comico di Gigli, Fagiuoli e Nelli resto’ confinato in un’area culturale, la Toscana, che aveva perso la sua funzione di guida culturale e la capacita’ di elaborare nuovi modelli letterari.

Durante il suo soggiorno toscano, Goldoni fu certamente presente alle frequenti recite di questi autori toscani che considerava i “testi vivi della buona lingua italiana”.

L’altro centro culturale dove la commedia pre-goldoniana ha una sua storia e’ Napoli, ma fra gli autori che vi si dedicano l’unico veramente degno di attenzione e’ Pietro Trinchera, che fu riscoperto non a caso da Croce. Le sue commedie, La monaca fauza (1726), La Gnoccolara (1733), Nota’ Pettolone (1738), La Taverna abentorosa (1741).

Da ricordare anche Pietri Chiari, il rivale dichiarato di Carlo Goldoni. Che alla commedia di Goldoni, La vedova scaltra, rispose con La scuola delle vedove, apprezzata dal pubblico piu’ grossolano. Lo scontro si risolse con la sconfitta di tutti e due dal momento che il Tribunale dell’Inquisizione fini’ con proibire entrambe le commedie. Ma Chiari, nonostante alcuni successi, e’ un autore mediocre, nel migliore dei casi solo un abile mestierante, i cui testi non hanno alcuna originalita’ e autonomia.

L’altro famoso rivale di Goldoni, Carlo Gozzi, invece ha un grande successo di pubblico fra il 1761 e 1765 con le sue dieci Fiabe teatrali: L’amore delle tre melarance, Il corvo, Re Cervo, Turandot, La donna serpente, La Zobeide, I pitocchi fortunate, Il mostro turchino, L’augellin Belverde, Zeim,re dei geni. Sono opere di alterno livello, che ebbero la fortuna di essere scoperte dai maggiori scrittori romantici, Goethe, Schiller, Tieck, E.Th.A. Hoffman, Madame de Stael, De Musset, che a esse si ispirarono. Gozzi fu, poi rilanciato in Russia nei primi anni della rivoluzione da grandi registi come Vachtangov e Mejerchol’d, che lo proposero come esempio di una teatralita’ pura. Tuttavia, di fronte a questa fortuna e soprattutto di fronte all’originalita’ del teatro di Goldoni, le Fiabe rivelano tutti i loro limiti di natura culturale e artistic, con quell ritorno anacronistico e improponibile alla commedia dell’arte e con il rifiuto di qualsiasi riferimento alla realta’ contemporanea. Gozzi punta a una teatralita’ costituita solo da intrcci complicati, di passion e prodigi, che e’ l’esatto opposto di quella di Goldoni. In questa sua posizione, non c’e’ tanto una vera e propria estetica quanto la necessita’ ideologica di opporsi all’arte goldoniana con un teatro fantastico, ricco di una spettacolarita’ pura e assoluta, capace di intrattenere lo spettatore, distogliendolo dalla considerazione della realta’ per ricondurlo a un clima di idealita’ astratte, dominato dai sani valori della tradizione. La verita’ e’ che il teatro di Carlo Gozzi, spesso sorprendente per liberta’ d’invenzione fantastica e per scaltrezza teatrale, e’ frenato, se cosi’ si puo’ dire, dalle sue contraddizioni interne, prima fra tutte quella di proporre come valore alternative alla riforma goldoniana proprio la commedia dell’arte che era stata la palla di piombo al piede del teatro italiano per quasi due secoli. Il fatto poi, che Gozzi la rinnovasse e le desse prospettive estetiche non mutava sostanzialmente la situazione di un’esperienza teatrale indiscutibilmente “regressive”.

Negli anni 1730-1740 prolifera l’opera buffa napoletana e i suoi protagonisti: maestri di cappella, librettisti, attori-cantanti. L'opera buffa possedeva una definita, anche se varia, tipologia drammaturgica (parti, convenienze, trame, musica e variazioni sulle medesime ecc.) che veniva ripetuta, duplicata, alterata, trasformata per essere adattata sia alle abilita’ degli attori, sia alle specifiche del ruolo, sia, infine, ai gusti del publico o alle necessità lavorative di qualche frettoloso musicista o librettista.

L’universo teatrale del Settecento era formato da attori-cantanti, impresari, librettisti, compositori, artigiani e maestranze varie totalmente immerso in una competizione commerciale. Quasi tutti i teatri d'Europa, ad eccezione di alcuni tra quelli reali e aristocratici, erano sotto uno rigido regime di liberismo economico. Un complesso circuito di teatri maggiori o minori smaltiva ogni anno centinaia di novita’ ed era dominato da frenetiche, quasi caotiche e sovrabbondanti a volte, produzione e competizione mercantile. La drammaturgia, le parti buffe, le arie, le scene erano tutti elementi giustapposti in uno schema formalizzato in parte conosciuto e riconoscibile dal pubblico italiano, soprattutto, ed europeo, in misura minore.

CAPITOLO III

La riforma goldoniana

Carlo Goldoni fu quell’autore e la sua riforma e’ la storia di chi, nonostante enormi difficolta’ da superare – di ogni genere: teatrale, scenico, letterario, censorio e anche ideologico – riusci’ a perseguire il suo progetto con una coerenza e con una continuita’ che non hanno equivalente nella storia del teatro. Dall’altra parte, Goldoni ha un respiro che lo accomuna a Voltaire e Mozart, tre artisti sommi che in gradi diversi esprimono la quintessenza del cosmopolismo europeo settecentesco.

Prima di analizzare i principali tratti della riforma goldoniana, vorrei collocare Goldoni nell’epoca, piu’ precisamente nel periodo settecentesco. La collocazione di Goldoni all’interno della cultura e dell’ideologia settecentesca e’ un’impresa abbastanza difficile. La sua posizione culturale, ed in un certo senso ideologica, non e’ attribuibile ne’ all’Arcadia ne’ all’Illuminismo. Ma dal momento che il nostro autore indubbiamente esprime l’ottimismo borghese e la fiducia nelle possibilita’ di miglioramento della societa’ attraverso la ragione e il progresso, ritengo di poter sostenere la sua appartenenza all’eta’ dell’Illuminismo. Goldoni non ebbe una preparazione filosofica che gli consentisse di approfondire la sua ideologia o di assumere posizioni decise e consapevoli, ebbe tuttavia piena coscienza delle aspirazioni e degli ideali della borghesia settecentesca, e li condivise dal punto di vista umano aderendovi sinceramente.

“Io ho sentito dir tante volte che il mondo sarebbe piu’ bello, se non l’avessero guastato gli uomini, i quali per cagione della superbia, hanno sconcertato il bellissimo ordine della natura. Questa madre commune ci considera tutti uguali, e l’alterizia dei grandi non si degna dei piccolo. Ma verra’ un giorno che dei piccoli e dei grandi si fara’ nuovamente tutta una pasta”.

Questi concetti espressi da Goldoni ci fanno pensare ad un uomo molto sensibile alla realta’ sociale, che simpatizza con gli uomini in genere, che crede nella saggezza umana e riconosce sul piano morale quella uguaglianza naturale che la societa’ di fatto nega.

Vive nelle sue commedie una umanita’ esaltata non per astratte virtu’, ma per le semplici e quotidiane virtu’: “Quando parlo di virtu’, non intendo quella virtu’ eroica, che commuove con i disastri ed e’ lacrimosa nella dizione. Codeste opera, che i francesi chiamano drammi, hanno certo il loro merito, e’ un genere di rappresentazione teatrale fra la commedia e la tragedia. E’ un divertimento fatto soprattutto per i cuori sensibili; le sventure degli eroi tragici ci interessano da lontano, ma quelle dei nostri simili, devono commuoverci di piu’. La commedia non e’ che un’imitazione della natura, non rifiuta i sentimenti virtuosi e patetici, a patto che non si spogli il fondamento della sua esistenza”.

In sostanza Goldoni accetta di tutti gli uomini, pregi e difetti, e dimostra il suo sincere egualitarismo nei confronti del popolo facendolo entrare nella rappresentazione teatrale, non piu’ come oggetto di riso e disprezzo, ma con le sue virtu’, i suoi caratteri, i suoi interessi: nelle commedie piu’ mature anche i personaggi popolari entrano di pieno diritto nell’azione e sono tipi umani ricchi e complessi.

Il teatro goldoniano ha l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico su un problema sociale, mettendo al centro l’uomo e la sua natura che comprende vizi e virtu’. Lo spettatore deve trarre uno spunto di riflessione dalla visione dello spettacolo e deve potersi riconoscere nel comportamento di un attore, riflettendo magari su un eventuale difetto che si puo’ riconoscere meglio se visto dall’esterno. Il teatro di Goldoni si basa sulle tante sfaccettature attraverso le quali si puo’ e va osservata la realta’.

Cosi’, grazie all’opera riformatrice coraggiosa di Goldoni, oggi possiamo avere un’opera teatrale che non tratta di argomenti fini a se stessi. Andando al teatro oggi, l’uomo si riconosce nel suo simile, critica o appoggia un atteggiamento tipico della sua specie: insomma l’uomo cerca di capire l’uomo.

La commedia modernamente intesa ha in Goldoni il vero iniziatore: infatti si devono a lui la riforma e il superamento della vecchia commedia dell’arte.

Ma la commedia dell’arte e’ il punto di partenza della riforma goldoniana del teatro.

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, la commedia dell’arte era recitata da attori non dilettanti, ma professionisti (arte nell’antica accezione significava appunto mestiere, professione), che su un canovaccio puramente e vagamente indicative della vicenda improvvisavano, recita per recita, i dialoghi e le battute, e creavano, di fatto, la commedia. La commedia dell’arte aveva dietro di se’ una gloriosa tradizione, ma ai tempi di Goldoni essa era in declino; infatti la borghesia aveva a poco a poco disertato questo tipo di rappresentazione e gli attori, per adattare sempre piu’ la loro recitazione al gusto del pubblico plebeo e spesso rozzo, erano ormai caduti nella volgarita’ e nella trivialita’. Loro tendevano a suscitare facilmente le risate degli spettatori attraverso i lazzi, cioe’ attraverso azioni mimiche o battute comiche piuttosto volgari.

Riforma vuol dire che Goldoni non invento’ nulla di nuovo, ma muto’, cambio’, aggiorno’ e miglioro’ cio’ che era prima di lui.

Possiamo dire che con Goldoni, la commedia diventa genere letterario, mentre prima era solo mestiere.

La riforma non fu certo una svolta improvvisa o eversiva, ma un graduale mutamento che Goldoni impose al pubblico, agli attori, agli impresari in anni di lavoro, perche’ sentiva l’esigenza di abituare gradatamente al nuovo genere di commedia tanto gli attori quanto il pubblico.

La riforma di Goldoni consistette, per prima cosa, nel sostituire alla recita a soggetto un copione scritto a cui gli attori dovevano attenersi.

La prima commedia in cui lui attuo’ questo nuovo metodo fu il Momolo cortesan, una commedia del 1738, nella quale era scritta per intero solo la parte dell’attore principale, per il resto, sussistevano solo indicazioni generiche, sull’esempio degli scenari della commedia dell’arte.

A segnare un passo decisivo in avanti fu la prima commedia scritta per intero, La donna di garbo, del 1742. La trama gravita intorno a Rosaura, un'accorta “donna di garbo”, cioe’ a modo e accorta, che, nonostante le umili origini, riesce a vincere resistenze e pregiudizi e a sposare il giovane amato.

La maschera della “servetta”, tradizionale nella commedia dell'arte, nella Donna di garbo si evolve e diventa il carattere di Rosaura, figura piena di intelligenza e capace di governare le sorti della sua famiglia. In questo modo, anziche’ rappresentare “tipi” artificiali, Goldoni dava vita a “caratteri” psicologicamente e sociologicamente ben delineati: nasceva in sostanza la “commedia di carattere”, in cui venivano a riflettersi le molteplici figure della societa’ contemporanea, con la loro mentalita’ e condizioni di vita.

Vi furono altre tappe notevoli verso la commedia “riformata”: Il servitore di due padroni (1745), in cui la parte della maschera di Arlecchino risulta scritta per intero; La vedova scaltra (1748), che abbandonava le maschere concentrando l'attenzione intorno alla figura della protagonista. Qualche ripensamento si riscontra invece nella Famiglia dell'antiquario (1749): qui le vecchie maschere comiche convivono con i nuovi “caratteri” goldoniani.

Soltanto con le sedici commedie nuove scritte per la stagione 1750 del teatro Sant'Angelo di Venezia, la “riforma” poteva dirsi un processo ormai compiuto. In quel gruppo di sedici testi ne compaiono alcuni di grande valore, come I pettegolezzi delle donne, Il bugiardo e soprattutto La bottega del caffe’.

Il suo merito maggiore e’ nella gradualita’ e nell’intelligenza con cui sfrutta certe potenzialita’ dei suoi interpreti e la loro disponibilita’ psicologica, prima che tecnica, a lasciare i terreni preferiti e ben noti della commedia a soggetto.

Il rapporto piu’ arduo e’ tuttavia con il pubblico, che doveva essere liberato dalle sue abitudini e pigrizie. Goldoni parte dalla convinzione che presto riesce a trasmettere ai suoi spettatori che la “realta’ contemporanea e’ ormai piu’ teatrabile, piu’ ricca di sorprese e imprevisti, delle invenzioni e dei lazzi dei comici”.

In questa prospettiva, al di la’ degli aspetti tecnici della riforma, il suo teatro si risolve in un’audace e insieme accorta sperimentazioni di motivi e di temi diversi, che vanno dalla commedia di carattere a quella d’ambiente, dalla drammaturgia borghese a quella popolare, dalla commedia senza maschera alla commedia insieme d’ambiente e di carattere.

L’origine della sua riforma teatrale sta nell’osservare con curiosita’ insaziabile, e dall’osservazione ricavare la personalita’ vera dei personaggi, affrancati dalla ripetitivita’ delle maschere e dei ruoli, immerse nella realta’ sociale, civile, morale del loro tempo.

I motivi che avevano spinto Goldoni alla riforma della commedia erano vari: ridare dignita’ letteraria e artistica ad un genere teatrale caduto molto in basso, ridare vitalita’ ai personaggi rappresentati e togliere loro la fissita’ e la tipizzazione che nella commedia dell’arte avevano assunto, riportare sulla scena un mondo reale e concreto, vario e multiforme, non racchiudibile in tipi fissi. La maschera che copriva il volto dell’attore nella commedia dell’arte, non lasciava trasparire nessuna emozione.

Dalla tradizione della commedia dell’arte Goldoni mantiene pero’ quanto vi poteva essere di positive: vivacita’ della sceneggiatura e dei dialoghi, dinamismo degli intrecci e delle azioni.

Dal punto di vista letterario l’idea di riformare la commedia nasceva da una tendenza gia’ espresso dalla generazione precedente, nasceva, cioe’, dalla battaglia contro il cattivo gusto, gli eccessi verbali, la mancanza di un vero stile, e dall’esigenza razionalistica di ordine, semplicita’, naturalezza e disciplina stilistica. Goldoni, figlio dei nuovi tempi, intendeva la riforma in modo piu’ profondo e totale. Si rendeva conto che in una societa’ viva, animata da aspetti contraddittori e da una notevole varieta’ sociale, sarebbe stato anacronistico rappresentare dei tipi astratti assolutamente limitati da una precisa connotazione sociale o caratteriale: il servo, l’aristocratico, il bugiardo, l’innamorato.

Sentiva che nel teatro doveva entrare il mondo, e questo gli si presentava talmente ricco di situazioni, sentimenti, caratteri che doveva essere rappresentato in tutta la sua complessita’. Cosi’, imponendo agli attori di imparare le loro parti e sottraendoli ad un ruolo fisso (l’amoroso, la fanciulla innocente, il vecchio imbroglione), dava loro quella ricchezza di atteggiamenti che e’ nella vita: l’attore non impersonava per anni sempre lo stesso ruolo restandone prigioniero o facendone una maschera, ma era di volta in volta buono o cattivo, generoso o avaro, vecchio o giovane. Goldoni lotta per rendere il teatro meno prevedibile, piu’ espressivo e piu’ educativo. Sopprimendo le maschere egli vuole rendere la rappresentazione piu’ espressiva, basando tutto sullo stretto rapporto tra le passioni dell’animo e i tratti del volto.

Le commedie goldoniane, perderanno ogni tipizzazione e diventeranno commedie di carattere e di ambiente: di carattere nel senso che i personaggi hanno complessita’ e ricchezza di sentimenti e di atteggiamenti; di ambiente nel senso che proprio l’adesione al reale spinge alla creazione di personaggi in sintonia con l’ambiente reale o sociale in cui vivono.

Ecco cosa affermava lo stesso Goldoni delle sue commedie: “Diranno forse taluni, che gli Autori Comici devono bensi’ imitar la natura; ma la bella natura, e non la bassa e la diffettosa. Io dico all’incontro, che tutto e’ suscettibile di commedia, fuorche’ i diffetti che rattristano, ed i vizi che offendono. Un uomo che parla presto, e mangia le parole parlando, ha un difetto ridicolo, che diviene comico, quando e’ adoperato con parsimonia, come il “balbuziente” e il “tartaglia”. Lo stesso non sarebbe d’un zoppo, d’un cieco, d’un paralitico: questi sono difetti ch’esigono compassione, e non si deggiono esporre sulla scena, se non se il carattere particolare della persona difettosa valesse a render giocoso il suo difetto medesimo”.

Eppure Goldoni non fu esente dalle critiche. Fu accusato da tanti spiriti rivoltati e conservatori del tempo poco aperti alle novita’ che rimanevano legati alla propria cultura e dicevano che i personaggi della commedia dell’arte e le maschere avevano divertito l'Italia per due secoli e non bisognava quindi privarla di un genere comico molto diffuso.

A schierarsi contro la commedia riformata furono alcuni importanti scrittori contemporanei: l'abate Pietro Chiari drammaturgo attivo presso il rivale teatro di San Samuele, Carlo Gozzi, autore di dieci Fiabe teatrali d'impianto fantastico; il severo critico Giuseppe Baretti, autore del periodico La Frusta letteraria. Lo stesso pubblico dei teatri si divise tra “goldoniani” e “chiaristi”. Anche tra gli attori molti avversavano la riforma, credendo che essa limitasse la loro creatività; mentre gli spettatori faticavano, come sempre avviene, ad abbandonare il vecchio gusto per il nuovo. Il rapporto con gli interpreti e’ molto complesso perche’ si tratta per Goldoni di cambiare dalle fondamenta un modo e una concezione teatrale, quella della commedia “improvvisa”, profondamente sedimentati.

Se la commedia doveva risentire degli umori del tempo, era inevitabile che diventasse anche la tribuna dalla quale la nuova classe emergente potesse esaltare le proprio virtu’ ed i propri interessi, ed in cui il popolo laborioso ritrovasse quella dignita’ ed umanita’ che sulla scena gli erano sempre state negate. Molte delle commedie goldoniane rappresentano infatti, il conflitto fra una classe aristocratica parassita e la borghesia mercantile attiva ed industriosa, fra il lavoro attraverso il quale la borghesia da’ impulse alla societa’ e l’ozio dannoso e fastidioso degli aristocratici. Altre, caduta la speranza di un rinnovamento reale della societa’ da parte della borghesia veneziana, che ha assunto gran parte dei vizi dell’aristocrazia, rappresentano la classe popolare, ricca di autentica vitalita’ e sincerita’.

Lo scopo ultimo di Goldoni e’ quello di arrivare al pubblico: lo spettatore deve trarre uno spunto di riflessione dalla visione dello spettacolo e deve potersi riconoscere nel comportamento di un attore.

Goldoni adegua i caratteri ai nuovi protagonisti. Infatti, e’ profondamente convinto che carattere e condizione sociale abbiano un nesso inscindibile, e che difetti e pregi, sentimenti e pensieri, si esprimono diversamente in persone di collocazione sociale differente.

In una prima fase Goldoni comincia con mettere per iscritto solo le parti dei protagonisti fino ad arrivare alla stesura di un copione con cui egli stabilisce a priori le battute di ogni attore attore e, cambiandolo ad ogni rappresentazione, la rende piu’ imprevedibile anche grazie alla soppressione delle maschere.

Uno dei piu’ importanti nuclei della riforma goldoniana consiste nel passaggio dal “tipo” al “carattere”. Nella commedia dell’arte, l’indole dei personaggi e il loro comportamento sono predeterminati e stereotipati, perfettamente chiari a tutti fin dall’inizio della rappresentazione. Nella commedia di carattere goldoniana invece i personaggi vanno definendosi progressivamente, il carattere si modifica nel corso della rappresentazione, non sono piu’ tipi ma caratteri, personaggi in evoluzione.

Lo strumento centrale della riforma goldoniana, ispirata al Mondo, alla realta’ articolata e complessa di Venezia, e’ l’invenzione di una lingua per il teatro assolutamente originale, lontana sia dagli stereotipi della commedia dell’arte che dall’astratezza letteraria e accademica di Gerolamo Gigli e di Giovan Battista Fagiuoli che si erano illusi di creare la nuova commedia settecentesca. Per Goldoni, il fatto linguistico e’ posto sullo stesso terreno del costume, della moda, del gusto mutevole, con una sensibilita’ geografica e cronistica che e’ ancora fuori della storia, ma e’ legata a un vario panorama di popoli, di regioni, di classi sociali.

Gia’ nel 1734, ai tempi del Belisario, la sua prima tragicommedia, Goldoni aveva scritto con orgoglio: “Io facevo parlare l'imperatore ed il capitano come parlano gli uomini, e non col linguaggio degli eroi favolosi, al quale siamo avvezzati dalle penne sublimi de' valorosi poeti. Volendo io esprimere un sentimento, non ho mai cercato il termine piu’ scelto, piu’ elegante o sublime, ma il piu’ vero e il piu’ esprimente”.

Per realizzare questo obiettivo, egli dovette però risolvere un problema: in quale lingua far parlare i personaggi? A noi puo’ sembrare un problema teorico, ma nell'Italia settecentesca, divisa in tanti Stati, era difficilissimo trovare un minimo comun denominatore, anche sul piano linguistico: le varie popolazioni della penisola parlavano ciascuno il proprio dialetto, anche se il ceto medio, piu’ istruito, conosceva la lingua dei libri, il toscano letterario di Dante, Boccaccio e Petrarca.

Ma quella era appunto la lingua dei libri: artificiale, soltanto scritta, poco adatta a rappresentare le situazioni della vita quotidiana.

Esisteva poi un altro tipo di teatro, quello della commedia dell'arte. Esso utilizzava nei suoi dialoghi una lingua parlata ma troppo rozza, agli occhi di Goldoni, una lingua comprensibile si’ dal popolo, ma disprezzata dagli intellettuali e soprattutto inadeguata a esprimere compiutamente le sottigliezze psicologiche che la verita’ interiore dei personaggi comportava.

Goldoni scelse una via intermedia. A parte le commedie degli anni della maturita’, scritte in francese, utilizzo’ una lingua di conversazione, come la chiamano gli studiosi, costruita su una base mista di toscano e lombardo. Non si trattava ancora di una lingua parlata, ma certo la novita’ portata da Goldoni era rivoluzionaria per i suoi tempi.

Tra l'altro, con il progredire della sua carriera di scrittore, Goldoni uso’ la lingua italiana in modo sempre piu’ preciso, soprattutto per distinguere, all'interno della medesima commedia, i personaggi colti, nobili o ricchi, dalle persone semplici.

In molti casi Goldoni scelse per le sue commedie il dialetto veneziano. Questo era il mezzo espressivo piu’ aderente alla realta’, quello con cui si potevano raggiungere nella via più diretta gli intenti di verita’ e realismo perseguiti dal teatro goldoniano. Con lui il dialetto acquistava, per la prima volta, la dignita’ e l'autonomia di una lingua parlata, al di fuori di qualsiasi intenzione caricaturale. Goldoni, cioe’, utilizzo’ il veneziano non piu’ come uno strumento comico o di gioco, finalizzato alla presa in giro dei popolani bensi’ come una lingua seria, esattamente come lo era il suo italiano.

Il veneziano di Goldoni conosce diverse gradazioni, che vanno dal parlare semplice e basso della gente umile, al tono piu’ elevato e pulito dei veneziani arricchiti.

D'altra parte Goldoni non uso’ mai il dialetto per rivolgersi soltanto ai veneziani. Goldoni coltivava infatti l'ambizione di fornire modelli di riforma del teatro comico a tutta Italia e anche all'estero. Percio’ volentieri traduceva in lingua italiana le commedie che, in un primo tempo, aveva scritto in dialetto. Queste commedie venivano accolte con entusiasmo dal pubblico di tutte le regioni italiane, segno di un mutamento sociale e di esigenze simili.

La sua lingua, mirabile nella varieta’ e articolazione, e’ un elemento determinante della sua arte di drammaturgo, della sua finezza psicologica, della sua capacita’ di darci un’immagine singolarmente complete delle aspirazioni, delle speranze e delle delusioni della societa’ veneziana. E’ la lingua che produce la sintesi tra Mondo e Teatro: “I due libri sui quali ho piu’ meditato – scrisse nella prefazione per la prima edizione, 1750, delle sue commedie – furono il Mondo e il Teatro”.

Gianfranco Folena affermava che e’ estramamente difficile storicizzare interamente l’esperienza linguistica di Goldoni. Per Goldoni la tradizione e’ essenzialmente l’improvviso nella sua piu’ vasta accezione. La sua opera di riscostruzione si esercita su questa vasta materia, sua croce e sua delizia. Questa e’ la differenza fondamentale anche dal punto di vista della lingua dai cosiddetti riformatori o restauratori del teatro regolare che lo hanno preceduto: il suo ripudio della tradizione letteraria e insieme la sua assunzione di una materia teatrale informa ma viva. Senza Pantalone non si arriva a Cristofolo, a Todero, ai Rusteghi, senza la lingua dei “cortesani” e dei “paroncini” non si comprende quella di Anzoletto, senza l’esperienza delle Smeraldine e delle Rosaure donne di garbo non si capisce la nascita di Mirandolina.

Cosi’ anche la scoperta goldoniana del dialetto, non piu’ come invenzione caratteristica e giocosa, come esponente tipico delle maschere, ma come realta’ di dialogo e terreno d’incontro fra i personaggi, mezzo unitario e sfumato nel quale i parlanti sono immerse come nella loro atmosfera, si compie attraverso una serie di prove che hanno il loro punto di riferimento non tanto di una fertile tradizione dialettale veneziana gia’ affermata da secoli e volta al documentario o al caricaturale, quanto all’esperienza plurilinguistica dell’improvviso e nella sua lenta e progressiva riduzione.

CAPITOLO IV

Goldoni e la commedia della vita

Goldoni fu un autore teatrale prolifico e versatile. In gioventu’ fu uno sperimentatore dilettante che provo’ a comporre opere molto diverse: commedie, intermezzi farseschi, tragedie, tragicommedie, canovacci, oratori, libretti per melodrammi seri o giocosi, poesie.

Per tutta la sua vita, Goldoni e’ alla ricerca di legittimazione di se stesso, del proprio fare teatro: cio’ converge con il suo rifiuto di una tranquilla professione borghese. Non essendo nato all’interno dell’ambiente teatrale e venendo da un contesto diverso, non riesce ad accettare il teatro cosi’ com’e’, ma cerca di riformarlo, cercando di fondare un nuovo teatro onorato.

Ogni opera di Goldoni contiene una sua morale, sottolineando nelle premesse il ruolo pedagogico dei caratteri. Il teatro attinge dal mondo riferimenti, spunti, allusioni e richiami alla vita quotidiana.

A questo punto della presente tesi, vorrei analizzare il comico goldoniano cosi’ com’e’ presentato nelle sue principali commedie.

Per meglio capire il comico goldoniano comincierei proprio con Il teatro comico, una commedia in tre atti in prosa scritta da Goldoni a Venezia nel 1750, perche’ servisse di prima recita e venne rappresentata al Teatro Sant’Angelo e successivamente per due sere, il 5 e 6 ottobre a Milano.

Il Teatro comico rappresenta infatti la commedia manifesto della riforma teatrale che Carlo Goldoni.

Gli attori della compagnia di Girolamo Medebach (della quale Goldoni fu drammaturgo stabile dal 1748 al 1753) sono intenti a provare la farsa Il padre rivale del figlio. Convenzioni, svogliatezza, narcisismi, con tutto quello che accade di sovente alle prove.

Nelle sue Memoires, Goldoni afferma ad un certo punto su questa commedia: “La prova e’ interrotta da un autore che viene a proporre alla compagnia dei soggetti di cattivo gusto della vecchia commedia italiana. E’ una situazione da me creata per dare al direttore l’occasione di sottolinearne i difetti e di parlare del nuovo sistema”.

Un passaggio da cui riesce che Goldoni e’ cosciente del fatto che le sue commedie stanno scrivendo un nuovo capitolo nella storia del teatro, ma anche un passaggio che assomiglia ad’opera scritta a una certa distanza di tempo: Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, con la sua tecnica del teatro nel teatro: anche qui una compagnia sta provando un pezzo che non e’ la commedia che dovrebbe essere rappresentata. Dodici anni dopo Goldoni, anche Moliere’ nella commedia Improvvisazione a Versailles, avrebbe messo in scena se stesso e la propria compagnia durante le prove, per esporre le sue teorie sull’arte drammatica e per rispondere alle critiche che gli venivano rivolte.

ll Teatro comico e’ una commedia nella commedia, in cui lo scrittore espone il suo programma e i principi della sua riforma, una specie di premessa a tutte le altre commedie. Goldoni apre dunque una strada nuova, una strada da cui molti autori teatrali si ispireranno lungo gli anni. Con il teatro nel teatro, Goldoni voleva chiarire al pubblico il proprio metodo di intendere la commedia, il nuovo modo di fare teatro. Goldoni e’ consapevole che ormai la sua riforma teatrale sia un fatto compiuto e destinato a cambiare il panorama del teatro italiano.

Il capocomico Orazio e’ l’incarnazione dello stesso Goldoni, che rappresenta le due opposte tendenze del teatro, quella goldoniana e quella della commedia dell’arte, mettono in evidenza il disprezzo goldoniano per ogni precetto che deriva dai libri e che e’ stato enunciato in modo astratto, insieme all’amore per il teatro vero, quello vivo, che rappresenta la realta’.

Anche gli attori, come afferma Placida, portano avanti lo stesso discorso: “Il mondo e’ annoiato di veder sempre le cose istesse, di sentir sempre le parole medesime, e gli uditori sanno cosa deve dir l’Arlecchino, prima ch’egli apra la bocca. Per me vi protesto, signor Orazio, che in pochissime commedie antiche recitero’, sono invaghita del nuovo stile, e questo solo mi piace: dimani recitero’, perche’ se la commedia non e’ di carattere, e’ almeno condotta bene…”.

Il personaggio di Lelio, un poeta abituato a maneggiare vecchi repertori e scenari dell’arte, provoca il comico e un sottile dibattito goldoniano sulla drammaturgia. La commedia, secondo un altro personaggio, Anselmo, e’ stata inventata per correggere i vizi e mettere in ridicolo i cattivi costumi, l’attore quando lascia la maschera, e’ un uomo dotato di discernimento che sa intendere il proprio mestiere.

Nella seconda scena dell’atto II, Goldoni disegna una rapida lezione stilistica sulla recitazione familiare, naturale, verisimile, che si stacca nettamente dall’abuso delle figure retoriche largamente introdotte nel gioco dell’improvvisazione.

Dopo la prova della farsa Il padre rivale del figlio, arriva Eleonora, e la sua presenza provoca una garbata polemica contro gli intermezzi, in difesa dell’autonomia della prosa. Beatrice dice “e’ passato il tempo, signora mia, che la musica teneva sotto i piedi l’arte comica”.

I temi del terzo atto, tutti essenziale per capire la riforma di Goldoni, riguardano in particolare la fonetica ed il gesto. Il suono della parola, in teatro, e’ forma: “Badate bene di battere le ultime sillabe, che d’intendano. Recitate piuttosto adagio, ma non troppo, e nelle parti di forza, caricate la voce, e accelerate piu’ del solito le parole. Guardatevi sopra tutto dalla cantilena, e dalla declamazione, ma recitate naturalmente, come se parlaste, mentre essendo la commedia una imitazione della natura, si deve fare tutto quello, che e’ verisimile. Circa al gesto, anche questo deve essere naturale. Movete le mani secondo il senso della parola. Gestate per lo piu’ colla dritta, e poche volte colla sinistra, e avvertite di non moverle tutte due in una volta, se non quando un impetto di collera, una sorpresa, una esclamazione, lo richiedesse; servendovi di regola, che principiando il periodo con una mano, mai non si finisce coll’altra, ma con quella con cui si principia, terminare ancora si deve. D’un altra cosa molto osservabile, ma da pochi intesa, voglio avvertirvi. Quando un personaggio fa scena con voi, badategli, e non vi distraete cogl’occhi e colla mente; e non guardate qua e la’ per le scene o per i palchetti, mentre da cio’ ne nascono tre pessimi effetti. Il primo che l’udienza si sdegna, e crede, o ignorante, o vano il personaggio distratto. Secondo, si commette una mala creanza verso il personaggio con cui si deve far scena; e per l’ultimo, quando non si bada al filo del ragionamento, arriva innaspettata la parola del suggeritore, e si recita con sgarbo, e senza naturalezza; tutte cose che tendono a rovinar il mestiere, e a precipitare le commedie”.

La forza della ragione contro ogni principio di autorita’, l’interpretazione del carattere, la celebre massima goldoniana, che la commedia deve condannare il vizio, non il vizioso, sono alcuni tra i motivi finali del Teatro comico di Goldoni.

Nelle ultime battute, compare anche l’autore, tra i suoi attori, in un breve ritratto disegnato da Orazio: “Egli e’ uomo come gli altri, e puo’ facilmente ingannarsi; anzi colle mie orecchie l’ho sentito dir piu’ volte che trema sempre allorche’ deve produrre una nuova sua commedia su queste scene. Che la commedia e’ un componimento difficile; che non si lusinga d’arrivare a conoscere, quanto basta, le perfezione della commedia e che si contenta di aver dato uno stimolo alle persone dotte e di spirito, per rendere un giorno la riputazione al teatro italiano”.

L’idea di teatro che vi domina e’ quella di un cauto passaggio dall’eccesso della convenzione teatrale alla medieta’ di un verisimile comico che guarda alla natura, al carattere e alla societa’, che ambienta e motiva il carattere.

La lingua usata in questa commedia risente molto del dialetto veneziano. L'obiettivo principale e’ quello di mettere in risalto e a confronto la distinzione fra “vecchia” e “nuova” commedia.

Abbiamo detto che la riforma operata da Goldoni fu graduale, e cio’ perche’ Goldoni sentiva l’esigenza di abituare gradatamente al nuovo genere di commedia tanto gli attori quanto il pubblico. Ne’ d’altronde Goldoni poteva assumere l’atteggiamento ribelle del genio creatore che da’ un’impronta personale alla propria opera e non si cura del successo o dell’insuccesso, e cio’ anche per la funzione stessa che lui riteneva fosse propria del teatro: una funzione civile e sociale che poteva svolgersi solo nel rapporto positivo con il pubblico.

Il rapporto con il pubblico e quello con l’impresario e con gli attori non erano gli unici problemi, c’erano anche i critici, le autorita’, ed ancora, le opinioni comuni che lo scrittore doveva rispettare per il successo dell’opera.

A questo punto farei l’esempio di Pamela. In Pamela, Goldoni si ispira all’omonimo romanzo dell’inglese Samuel Richardson che narra la vicenda d’amore fra un aristocratico ed una cameriera, e’ saggia e virtuosa, che veniva alla fine sposata dal gentiluomo. Sapendo che la mentalita’ conservatrice ed oligarchica dei veneziani non era paragonabile a quella inglese del Settecento, e che le convenzioni avevano ancora un grande peso, Goldoni mantiene il lieto fine, ma, con un classico espediente teatrale, fa si’ che alla fine si scopra che Pamela e’ in realta’ una fanciulla di nobili origini. L’aristocratico inglese, in nome della virtu’ e del valore personale, tradiva la mentalita’ della sua classe, nella Venezia del tempo, questo sarebbe stato scandaloso: “Il premio della virtu’ e’ l’oggetto dell’autore inglese, a me piacque assaissimo una tal mira, ma non vorrei che al merito della virtu’ si sacrificasse il decoro delle famiglie. Pamela, benche’ vile ed abbietta, merita di essere da un Cavaliere sposata; ma un Cavaliere dona troppo al merito di Pamela, se non ostante la vilta’ de’ natali, la prende in isposa”, e giustifica cosi’ il cambiamento “non so, se su tal punto sarannoi perspicacissimi ingegni dell’Inghilterra di me contenti. Io non intendo disapprovare cio’ che da essi non si condanna. Accorder voglio ancora, che coi principi della natura sia preferibile la virtu’ alla nobilta’ e alla ricchezza, ma siccome devesi sul teatro far valere quella morale che viene dalla pratica piu’ comune approvata, perdoneranno a me la necessita’, in cui ritrovato mi sono, di non offendere il piu’ lodato costume.”

L’opera Pamela, scritta in lingua italiana, fu la prima opera di Goldoni ad essere tradotta in inglese nel 1756.

La prima commedia che fa il passaggio dalla commedia tradizionale dell’arte alla nuova commedia viene considerata La donna di garbo: “La donna di garbo e’ la prima commedia di carattere da me disegnata ed intieramente scritta”, affermava Carlo Goldoni.

L’opera tratta della storia di Rosaura, figlia di una lavandaia, che dopo aver lavorato come inserviente negli alloggi degli studenti e’ diventata molto istruita in ambiti come la moda, la letteratura e la medicina. Rosaura si sa anche uniformare a tutti i caratteri delle persone. Rosaura si trasferisce a Bologna da Pavia per vendicarsi di Florindo che le aveva promesso di sposarsi con lei. E’ assunta come servetta nella casa del padre di Florindo. Rosaura nasconde la propria identita’ e cio’ le consente di manipolare gli altri membri della famiglia. Il Dottore, padrone di Rosaura e padre di Florindo, e’ cosi’ colpito dalle virtu’ di Rosaura al punto che se ne innamora. Il Dottore vuole sposare Rosaura ma quando lei rivela la sua identita’ e Florindo tenta di fuggire dal suo impegno, il Dottore minaccia di diseredare suo figlio e a questo punto Florindo accetta di sposare Rosaura.

Goldoni prosegue ne La donna di garbo l’opera di riabilitazione della Commedia dell’Arte, dal “tipo” al “carattere”. La dona giudice-avvocato di se’ stessa e degli altri, che si trovava in tanti “scenari” diventa adesso un personaggio coerente e complesso, conduttore di tutta l’azione. Ma nella preoccupazione di scrivere per la prima volta un intero copione, Goldoni si affida fin troppo al principio della regolarizzazione, cadendo nell’errore opposto a quello della commeria all’improvviso, scrivendone una fin troppo letteraria. Lo schema della trama e’ ancora rigido e precostituito, l’intreccio e’ programmato fin dalla prima scena, vincolante la predominanza di Rosaura su tutti gli altri personaggi che perdono ogni autonomia, diventando supporti passive delle sue evoluzioni, suoi referenti. Le situazioni muovono soltanto Rosaura, per cui lo stesso ambiente perde ogni connotazione sociale concreta, non essendo utile ai fini del movimento dei personaggi minori. La Commedia dell’Arte, con i suoi artefici, riempie ancora gli spazi lasciati vuoti e assistiamo ancora ai “tipi”. Resta, come elemento di innovazione, nella figura della protagonista femminile, l’approfondimento del tema dell’autocoscienza: Rosaura non solo conosce i caratteri dei suoi interlocutori-personaggi, ma li sa reinterpretare: e’ poi ben consapevole della finzione che sta recitando.

L’importanza nella riforma teatrale di Goldoni sta nel fatto che l’autore ha un maggiore controllo sul testo, sul personaggio e sulla scena. In tal modo si evitava anche il rischio che l’immoralità si mostrasse durante l’improvvisazione.

Un’altra commedia che segno’ il passaggio dalla Commedia dell’Arte alla commedia goldoniana della vita fu’ Momolo cortesan. Al centro della trama semplicissima di Momolo cortesan e’ la figura di Momolo, vivacissimo elemento unificatore di tutta la vicenda: “un uomo di mondo, franco in ogni occasione, che non si lascia gabbare si’ facilmente, che sa conoscere i suoi vantaggi, onorato e civile, ma soggetto pero’ alle passion, e amante anzi che no del divertimento”. E’ questo il continuatore di Pantalone della Commedia dell’Arte, privo di maschera, ringiovanito, non piu’ gretto e vizioso, ma saggiamente generoso e amante: al puro oggetto di riso si sostituisce un “carattere”, non privo pero’ del dinamismo della maschera precedente. Anche la sua venezianita’ e’ precisata, oltre che nell’uso del dialetto, attraverso i dettagli di alcuni suoi ragionamenti. La sua professione e’ di mercante e come mercante ha coscienza di se’ e dei suoi rapporti con il mondo: “El vero cortesan un ducato el se lo fa valer un zecchin. Nol se fa Vardar drio, ma nol se fa minchinar; l’e’ generoso a tempo, economo in casa, amigo coi amici, e dretto coi dretti. El mondo (…) xe pien de furbi; el far star xe alla moda, ma con mi no i fa gnente, perche’ ghe ne so una carta per ogni zogo”.

Di fronte a lui, i personaggi comici tradizionali, sebbene dotati di battute scritte nella versione definitiva che ci e’ pervenuta, non vanno oltre le figure esili dei precedent “scenari”; sono ancora dei tipi che riempiono di tensione corale certe scene che, ricavate dal repertorio della Commedia dell’Arte, servono a dare un’estrinseca vivacita’ alla commedia: solo che ormai l’astratto intreccio e’ diventato uno schizzo di vita veneziana. Difficile era invece conservare, a quell mondo piu’ concreto, meno artificioso e arbitrario, il ritmo scenico della Commedia dell’Arte: l’azione perde la trascinante continuita’ dei canovacci, anche se acquista in sostanza storica e ambientale.

Il nuovo debutto veneziano di Goldoni nel 1748 e’ con un’opera famosa, La vedova scaltra, commedia completamente priva di maschere, e quindi coraggiosa. La vedova scaltra e’ la seconda commedia goldoniana scritta in ogni sua parte dall’autore.

La Vedova scaltra, segna l’inizio di un periodo esaltante di grandi vittorie, di rare sconfitte, di scommesse “impossibili” come le sedici nuoev commedie in una sola stagione.

Anche qui Goldoni affronta un tema tradizionale e costruisce la protagonista sul calco psicologico offertogli dalla prima attrice, la moglie di Medebach. Ma la ricomparsa di una specificazione qualitativa nel titolo, cioe’ “scaltra”, indica che il modello delle maschere e’ ancora alle spalle e la ricerca tende piuttosto verso la caratterizzazione individuale.

La vedova Rosaura che abita con il cognato Pantalone. Rosaura e’ abbastanza ricca per via dell’eredità del defunto marito, ma vuole rimaritarsi. Ha quattro pretendenti: un inglese – Milord Runebif, un francese –Monsieur Le Blau, uno spagnolo –Don Alvaro de Castiglia e un italiano – il Conte di Bosco Nero. Per vedere se i suoi pretendenti sono fedeli si traveste a turno da inglese, francese e spagnola dicendo che e’ innamorata di loro. Solo l’italiano, alla fine si mostrera’ fedele a Rosaura. E alla fine i due si sposeranno.

Inevitabile che la donna sia, al solito, il centro motore unico della commedia, tuttavia la maggiore abilita’ nell’uso del dialogo permette a Goldoni un arricchimento della sua psicologia, che viene a costituirsi grazia alla somma dei diversi punti di vista dei suoi interlocutori. Gli stessi travestimenti adottati per mettere alla prova i pretendenti non sono soltanto espedienti buffoneschi, ma anche camuffamenti psicologici che scavano nel profondo della personalita’ femminile: la tecnica dello scenario diventa utile per i caratteri goldoniani.

La vedova scaltra conserva ancora pero’ dei limiti: il numero limitato dei personaggi di contorno che, imprigionati nelle tipiche caratteristiche nazionali loro assegnate fin dall’inizio, non agiscono mai in piena autonomia individuale. Lo sfondo d’ambiente e’ ancora troppo generico, senza precisione nelle didascalie. Lo stesso Goldoni afferma ne L’Autore a chi legge della stessa commedia: “e’ la seconda Commedia di carattere che io ho composto, essendo La donna di garbo la prima, e tutte e due sentono ancora non poco del cattivo Teatro, con cui confinavano”.

Dopo aver analizzato delle commedie che fanno il passaggio dalla vecchia commedia alla nuova commedia, penso sia il momento di analizzare anche le commedie famose e originali di Goldoni.

Una delle piu’ famose commedie di Goldoni e’ senz’altro La locandiera, una delle commedie mature e originali, recitata da secoli sui piu’ famosi palcoscenici del mondo e interpretata dalle piu’ famose attrici lungo gli anni.

La locandiera nasce in un momento critico e complesso dell’attivita’ di Goldoni: quando egli sembra prendere una certa distanza dai suoi attori e insieme dalla sua tematica, e tentare le vie di un “artificio” raffinato certo ma anche piu’ distaccato, meno direttamente coinvolto in un proposito di grande riforma.

La donna occupa sempre un posto importantissimo nelle commedie di Goldoni, non soltanto per l’importanza che le attrici avevano nelle compagnie teatrali, e quindi per il dovere di scrivere per loro parti da protagoniste, ma anche e soprattutto perche’ Goldoni vede nella donna una vivacita’ ed una mobilita’ che non riconosce nell’uomo.

Con questa commedia, Goldoni promosse la servetta a prima attrice. Una vera rivoluzione. Mentre, per l’innanzi, la servetta delle commedie stava nel fondo della scena, ciarliera e dispettosa, civettina e petulante, ossequiosa e scaltra, origliante e sospettosa, a ordire intrighi d’amore o a favorirli, compunta e ammiccante, simulatrice e generosa, sempre soccorrevole per i giovani innamorati e sempre avversa alle passion dei vecchi barbogli, contesa dai Brighella e dagli Arlecchini, ghiotti delle sue floride grazie e dei saporosi bocconi delle odoranti cucine, eccolo qui, sempre servetta, ma in piena luce di ribalta. In pieno Settecento, nel secolo piu’ smanceroso, incipriato e titolato, far piovere, su una donnetta della servitu’, gli onori riservati fino allora alla prima attrice e farla applaudire dalle morbid manine delle incipriate donne veneziane, era un ardimento non soltanto artistico. (scritto da Eligio Possenti, in occasione dell’edizione di La locandiera, diretta da Luchino Visconti e interpretata da Rina Morelli, debutto 28 marzo 1953 al Teatro di via Manzoni a Milano).

Nel contrato sociale fra due classi, l’aristocrazia e la borghesia, i personaggi maschili restano fissati nelle loro posizioni spesso schematiche, prigionieri della loro neutralita’. I personaggi femminili, al contrario, sono molto piu’ mobile, complessi e ricchi. Moglie o amante, bugiarda o sincera, dama o serva, la donna goldoniana e’ complessa, ricca di umanita’, talvolta contraddittoria, ma proprio per questo piu’ viva ed affascinante. La donna incarna la complessita’ e mutevolezza della nuova situazione sociale, assimila e percepisce I contrasti e le disarmonie della societa’. L’uomo e’ chiuso nei problem e negli atteggiamenti tipici del suo statuto sociale. Nello spazio circoscritto della locanda, domina la figura di Mirandolina, la serva – padrona, un personaggio nuovo nel teatro italiano, che sfugge a ogni tipizzazione, astuta, vivace, intelligente e preoccupata soprattutto del buon andamento dei suoi affari. Il suo antagonista diretto e’ il Cavaliere, ma oltre a lui altri tre uomini, diversi per condizione sociale, mentalita’ e carattere, si muovono intorno alla donna.

Questi uomini pero’, sono tipi, cioe’ sono chiusi nelle loro caratteristiche di classe e di mentalita’, non hanno la ricchezza interiore di Mirandolina: il geloso un po’ stupido, Fabrizio, il nobile spiantato, il Marchese di Forlipopoli, che alla realta’ della sua condizione economica oppone il credo fermo quanto astratto della sua nobilita’ (“son chi sono…”), il borghese arricchito che ha acquistato il titolo nobiliare, il Conte d’Albafiorita, il debole sciocco che, a parole, cerca di darsi forza, il Cavaliere di Ripafratta. Mentre i tipi maschili sono fissi, il personaggio di Mirandolina e’ mobile, mutevole, gaio, onesto. Le sue qualita’ si oppongono ai difetti del Cavaliere di Ripafratta. Il Cavaliere e’ il personaggio piu’ retorico, vive di parole.

Mirandolina e’ ricca di umanita’ e di razionalita’ e decide di punire lo sciocco presuntuoso usando le sue stesse armi: le parole. Lo blandisce, lo vezzeggia, lo corteggia, apertamente, senz’altro scopo che quello di fargli ammettere di aver sbagliato, e riesce nel suo compito proprio perche’ non e’ vittima, ma regista della finzione, della recita che sta conducendo. Mentre il Marchese di Forlipopoli, il Cavaliere di Ripafratta, il Conte d’Albafiorita, ognuno a suo modo, cercano di sfuggire alla realta’ e alla mediocrita’, inesperti ed inconsapevoli della vita, la locandiera e’ totalmente ancorata nella realta’, sa bene cio’ che vuole e non resta ma immersa nella finzione perche’ e’ dotata di buon senso e lucido realismo.

Mirandolina sa fare i lavori casalinghi tradizionali di una donna, ma sa fare anche I lavori maschili: mandare avanti la locanda, tenere la contabilita’ ed intrattenere gli ospiti.

Nel primo monologo, a cui il pubblico assiste. Mirandolina fa la sua professione di fede e di vita: “Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa e’ la mia debolezza, e questa e’ la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia liberta’. Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimati; e voglio usar tutta l’arte per vin-cere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura”.

Mirandolina, la donna emancipata e moderna, come si direbbe oggi, esprime l’intelligenza, l’autonomia e la consapevolezza della donna del Settecento. E’ un personaggio simbolo di un’intera civilta’,la sintesi di tutte le creature femminili goldoniane precedenti, l’immagine di una teatralita’ che ha cambiato definitivamente la storia della drammaturgia e dello spettacolo. Mirandolina e tutto questo insieme, ma anche uno di quei rari personaggi che finiscono con apparire paradigmatici di una condizione esistenziale che supera il proprio tempo.

La commedia e’ scritta in un italiano che i critici contemporanei considerarono scorretto e piuttosto mediocre. In realta’ questo italiano usato da Goldoni ci da’ il segno del coraggio e della capacita’ di rinnovamento di questo autore che realizza in perfetta coerenza con le vicende ed i personaggi utilizzando un linguaggio medio assolutamente originale e molto adatto alla rappresentazione dei personaggi e delle situazioni. Il problema della lingua si impone in Goldoni non come fatto letterario e teorico, ma come problema della comunicazione: lui sa che deve comunicare direttamente e oralmente con un pubblico che e’ il suo interlocutore. L’autore di teatro deve saper parlare al pubblico. Ai tempi di Goldoni, non era un pubblico italiano, perche’ non esisteva l’Italia unita di adesso. Con quale lingua ci si puo’ rivolgere ad un pubblico medio, non uniforme e che non e’ padrone della lingua italiana? Bisogna creare questa lingua. L’italiano di Goldoni e’ prima di tutto una lingua teatrale, che ha la vivacita’ della lingua parlata, e in cui confluiscono parole appartenenti alla lingua scritta, non per uso letterario, al dialetto veneziano, al Lombardo, al francese, e parole tratte dalle parlate toscane e venete.

La moralita’ della commedia si vede anche nel linguaggio, che non ricorre mai ad espressioni forti, oscene o triviali, che pure erano presenti nella commedia tradizionale e che avevano raggiunto l’acme nella commedia dell’arte. Le parolacce piu’ forti sono “cospetto di Bacco” e “daro’ dei pugni al cielo”.

La commedia costituisce anche un preciso spaccato della societa’ veneziana in cui lo scrittore vive ed opera: la classe borghese, che gode di un certo benessere economico, frutto del proprio lavoro, impersonate da Mirandolina, verso la quale vanno le simpatie dell’autore; la classe nobile, piuttosto variegata verso la quale le garbate critiche dell’autore; la classe intellettuale, che sconfina con il popolo, alla quale appartengono le due commedianti, che vivono di espedienti, verso le quali va la critica artistica dell’autore, infine il popolo, al quale appartiene il servitore Fabrizio, il servitore del Cavaliere e il servitore del Conte, che lavorano alle dipendenze della nobilta’ o della borghesia. Insomma e’ rappresentanta in modo puntuale e realistico tutta la societa’ veneziana. Ma e’ rappresentato anche il tempo storico: la vita a Venezia a meta’ del Settecento. E Venezia era la capitale di una piccola oligarchia, ai margini del potere politico, culturale ed economico, che dettava legge in Europa.

I personaggi si distinguono immediatamente tra loro sia come individui sia come appartenenti ad una specifica classe sociale. Essi hanno uno specifico carattere e usano uno specifico linguaggio personale, che li rende facilmente riconoscibili fin dalla prima battuta con cui appaiono in scena. Nel corso della commedia essi mantengono le loro caratteristiche e restano fedeli a se stessi.

Lo spazio fisico del palcoscenico e’ delineato e marcato dalla forza attrattiva di Mirandolina, intorno alla quale girano i tre nobili, le due damine, il servo Fabrizio e altri due servi.

In modo garbato e senza essere didatticamente pesante ed irritante, Goldoni delinea la sua visione della societa’ ed i suoi valori, che egli intende trasmettere al pubblico piccolo o medio borghese. La societa’ e’ divisa in classi, ogni classe ha le sue caratteristiche ed i suoi valori.

Esiste pero’ un valore supremo, ed e’ la ricchezza, o meglio un minimo di benessere, valido per tutte le classi sociali. La ricchezza pero’ non deve diventare un’ossessione: essa va ricercata con misura e con buon senso. E ugualmente con misura e con buon senso si affrontano i problemi della vita: si evitano i desideri irrealizzabili, gli arricchimenti facili, i passaggi da una classe a una classe superiore; ci si accontenta di cambiare con misura il proprio tenore di vita e si resta legati il più possibile alla propria classe sociale.

Egli sceglie la classe borghese – o meglio piccolo-borghese – e i suoi ideali: l’onesta’, il lavoro, l’obbedienza ed il rispetto dei genitori, un minimo di benessere economico, il matrimonio, la famiglia, l’affetto, il buon senso. E rispetta ad oltranza l’ordine e le regole sociali, scritte e non scritte. Le leggi della Repubblica Veneta non permettevano che una popolana sposasse un nobile, e Mirandolina non prende nemmeno in considerazione la possibilita’ di sposare un nobile, in questo modo, come in Pamela, lo scandalo e’ evitato e l’ordine sociale e’ salvo.

Al teatro San Luca della famiglia Vendramin, nel corso di tre stagioni, Goldoni scrisse alcune opere considerate dalla critica i suoi veri capolavori.

Due di queste sono quelle che vorrei analizzare adesso dal punto di vista del comico e per mettere in rilievo la rivoluzione teatrale goldoniana: I rusteghi e Le baruffe chiozzotte.

Le baruffe chiozzotte (letteralmente I litigi degli abitanti di Chioggia) commedia popolare e plebea come la definisce lo stesso Goldoni nelle sue Memorie, anticipate da un annuncio di Piero Chiari pubblicato il 23 gennaio 1762 sulla Gazzetta Veneta, venne rappresentata per la prima volta al teatro San Luca alla fine di gennaio del 1762. La commedia fu recitata per sette sere di seguito e replicata due volte ancora prima della fine del carnevale.

I nuovi personaggi de Le baruffe chiozzotte sono vivi e interessanti proprio eprche’ del tutto diversi dalle figure dei nobili e anche dei mercanti. Ogni aspetto della loro vita puo’ diventare una commedia, essi sono presentati nelle loro effettive condizioni di lavoro e di vita, all’interno di una precisa tradizione di costume. Il segno della loro rappresentazione realistica, non mediata, e’ lo stesso dialetto. La scena si distende nelle piazze e nelle strade: non a caso la citta’ scelta e’ Chioggia, una comunita’, a differenza di Venezia, prevalentemente popolare. L’argomento e’ sempre amoroso: in una calle dove sta ricamando con la madre e qualche amica, Lucietta, fidanzata del pescatore Titta Nane, accetta da Toffolo, giovane barcaiolo, una fetta di zucca arrostita. Il resto provoca la reazione gelosa di Checca: dal pettegolezzo si arriva alla baruffa, che coinvolge mariti, fratelli e amici, fino al ricorso alla giustizia. Il Coadiutore del Cancelliere criminale deve istruire la causa ma la questione gli pare cosi’ insignificante che, con molto buon senso, decide di comporre il litigio fuori del tribunale. Alla fine i matrimoni saranno tre. Pettegolezzi, baruffa, sinfonia di gesti e di parole, ritmo del dialogo, vere e proprie pantomime, testimoniano la continuita’ con le commedie popolari precedent. Qui non si trovano lo scatto d’ironia e il grottesco quotidiano che avevano denigrato I personaggi comici del patriziato o della borghesia: i pescatori chiozzotti agiscono, le loro battute sono brevissime, casuali. Liberta’ linguistica e psicologica, quindi, per il mondo popolare. L’unico personaggio non popolare e’ il Coadiutore Isidoro, estraneo alla vita dei pescatori, alle loro gioie e ai loro tormenti. Goldoni forse lo ha costruito per indicare la distanza fra i protagonisti e se stesso come autore.

Le Baruffe chiozzote costituiscono la punta estrema della produzione goldoniana, uno spettacolo in cui il popolo minuto dei pescatori entra vittoriosamente come protagonista, ed e’ avvicinato con un gusto, una simpatia, una vivacita’ umana che non si rinviene in alcun’altra commedia: veramente l'espressione di quel momento felice della borghesia europea.

La scelta di un’ambientazione popolare puo’ essere motivata da una parte dalla progressiva perdita di interesse da parte di Goldoni per il mondo mercantile, venuto meno al compito di sostituire una aristocrazia senza piu’ valori e di rinnovare, quindi la societa’ veneziana, dall’altra parte dal bisogno di rinnovare il successo del suo teatro, offrendo al pubblico popolare argomenti in cui potesse facilmente rispecchiarsi, con i suoi vizi e con le sue virtu’.

Goldoni volle comporre un dramma non piu’ per i borghesi ma per i popolani, i pescatori, il popolo minuto, che aveva facile accesso ai teatri per la tenuita’ della spesa, e tuttavia non si riconosceva affatto nei personaggi delle altre commedie.

Nelle Baruffe chiozzotte “Mondo” e “Teatro”, realismo e gusto delle voci, dei suoni, del movimento, del ritmo, si fondono come raramente l'autore riusci’ a fare in altre commedie. La trama quasi inesistente e la mancanza di un vero protagonista fra I personaggi enfatizzano la coralita’ della commedia, ambientata fra gli spazi aperti del canale e della strada, propri del mondo dei pescatori e delle loro donne, e quelli chiusi delle istituzioni, il tribunale, al quale gli abitanti di Chioggia si rivolgono per risolvere le liti.

Quanto al dialetto usato da Goldoni bisogna osservare che non si tratta del chiozzotto autentico, ma di un chiozzotto in gran parte poetico, di invenzione, reso piu’ accessibile con le parole e la sintassi del veneziano, e con i frequenti italianismi, di un adeguamento insomma della parlata locale alle esigenze pratiche della scena e alla fantasia dell'artista.

Fra le commedie in veneziano, I rusteghi del 1760 e’ il capolavoro dei capolavori, nato non da una visione ideologica dei “rusteghi” come rappresentanti dei vecchi principi e neppure dall’abituale simpatia per il mondo femminile, ma da un’analisi lucida e insieme tenera di una societa’ di borghesi. Goldoni non sceglie la strada molieriana dei quattro caratteri, esemplari simbolici di un atteggiamento morale, ma quella, a lui perfettamente congenial, del rapporto che si instaura fra essi, la loro casa e famiglia prima di tutto, e la realta’ che li circonda e che pulsa intorno. C’e’ in questa commedia una perfezione irraggiungibile fra carattere e ambiente, fra interni ed esterni, fra ironia e simpatia. Goldoni sta dalla parte dei giovani e di Siora Felice perche’ ha colto perfettamente il mutare dei valori, ma come artista e’ attrato dalle possibilita’ comiche dei “rusteghi” Canciano, Lunardo, Simon e Maurizio, perche’ proprio questi offrono le possibilita’ di sviluppo della commedia e fanno ridere per il loro anacronismo e per il loro attaccamento a comportamenti vecchi e sciocchi, un anacronismo che Siora Felice esprime con estrema chiarezza: “Sie’ un poco civili, tratabili, umani. Esamine’ le azion de le vostre muggier, e co le xe oneste, done’ qualcossa, soporte’ qualcossa … e se vole’ viver quieti, se vole’ star in bon co le muggier, fe’ da pmeni, no da salvadeghi … e ame’, se vole’ esser amai”.

I rusteghi fu scritta nel 1760 a chiusura del carnevale teatrale e rappresentata per la prima volta al Teatro San Luca con il titolo La compagnia dei salvadeghi, o sia I rusteghi, incontrando un grande successo di pubblico. Goldoni stesso affermo’ di questa commedia: “posso dire che quest’opera e’ una delle mia piu’ fortunate; perche’ non solo in Venezia riusci’gradita, ma da per tutto, dove finora fu dai comici rappresentata”.

I protagonisti, i mercanti Lunardo Crozzola, Canciano Tartuffola, Maurizio dalle Strope e Simone Maroele, sono amici tra loro e condividono la stessa condizione di salvadeghi, uomini rustici e poco socievoli. Sicuri del loro potere di padre di famiglia, Lunardo e Maurizio hanno deciso di unire in matrimonio, a loro insaputa, i rispettivi figli Lucietta e Felipetto. Nonostante l’ordine di segretezza, imposto da Lunardo anche alla propria moglie, matrigna della promessa sposa, la moglie di Simone, Marina, rivela a Lucietta le intenzioni del padre e, insieme a Felice, moglie di Canciano, cerca di farla incontrare con Felipetto prima delle nozze. Dato che si e’ in periodo di carnevale, il giovane e’ introdotto in casa di Lunardo travestito da donna. Puo’ cosi’ incontrare la fanciulla, per la quale prova subito simpatia, perlaltro ricambiata. Maurizio va a cercare il figlio e lo trova nella casa di Lunardo. I due padri si sentono traditi dai figli e decidono, disdetto il matrimonio, che I giovani e le loro stesse mogli, che li hanno aiutati, siano puniti. A questo punto, Felice, prende in mano la situazione e mostra ai rusteghi che hanno esagerato con la loro selvatichezza, e ottenendo cosi’ il perdono per le mogli e il matrimonio dei due giovani.

Il modello ideato in questa commedia da Goldoni nasce dalla quotidiana osservazione della piccola borghesia, da quel mondo che si alza dalla miseria comune della plebe, da una visione lucida del mondo e di quella societa’ piccolo borghese che non ha posto nella storia dei grandi eventi dell’umanita’, retti dai grandi personaggi che hanno il diritto alle grandi azioni e alle grandi passioni, ed e’ una piccola societa’ colta proprio nelle sue contraddizioni e nei suoi meriti, nelle sue fobie e nei suoi slanci umanissimi che con un tocco risolvono questioni diventate all’improvviso molto intriccate.

La reputazione e la pace familiale, da valori positivi alla base della morale del personaggio della Commedia dell’Arte di Pantalone – mercante e dell’intreccio delle prime commedie goldoniane, diventano qui elementi di comicita’ nelle figure dei quattro protagonisti, che si ostinano a difendere valori ormai superati. Il loro mondo e’ irrimediabilmente vecchio, regredito al patrimonio morale del contado della terraferma, e la loro posizione e’ di pura difesa di un potere legato alla conservazione di quelle tradizioni passate. La loro chiusura e’ segno della loro sconfitta. Sembra quasi che Goldoni volesse ribadire il trionfo del nuovo modo di fare teatro, a dispetto della vecchia commedia.

Come, nello sterminato paesaggio della produzione goldoniana, I rusteghi sono il capolavoro della commedia borghese, così nel trionfo dell'inedita invenzione di una corale pluralità che non fu di nessun altro commediografo Le baruffe chiozzotte sono il capolavoro della commedia popolare.

I rusteghi e le Baruffe chiozzotte, due capolavori dell’arte teatrale e dell’invenzione linguistica goldoniana, ci danno l’occasione di riflettere sulla variazione interna al veneziano teatrale di Goldoni. Il veneziano, scrive Gianfranco Folena, sembra fornirgli, gia’ pronto per l’uso, quello strumento di lingua parlata di cui egli ha bisogno, lingua parlata socialmente unitaria senza stratificazione rigida, lingua usuale anche della classe dirigente e lingua scritta non grammaticale.

Conclusioni

Carlo Goldoni e’ il prodotto di una Venezia che ha perso il ruolo di potenza dell’Adriatico, con una classe aristocratica incapace di gestire un indispensabile cambiamento di rotta e una borghesia commerciale che stenta a imporsi come classe dirigente.

Goldoni fu un uomo totalmente immerso nel teatro, in primo luogo come letterato, infatti scrisse solo opere teatrali, tranne le sue memorie, in secondo luogo come professionista, poiche’ visse economicamente del lavoro di autore di commedie, in terzo luogo come veneziano, Venezia e’ infatti un palcoscenico ideale e nel 1700 il teatro era diventato costume popolare, in quarto luogo fu immerso nel teatro quasi come in un modello di conoscenza: il teatro divento’ per Goldoni una chiave di lettura della realta’ umana.

Con la riforma goldoniana viene meno la tradizione dei canovacci e le maschere della Commedia dell’Arte subiscono importanti trasformazioni: Brighella passa da disonesto a servo fedele, Arlecchino non e’ piu’ lo sciocco all’improvvisa, ma un personaggio pieno di iniziativa, Pantalone e’ la maschera che maggiormente porta i segni della trasformazione: da vecchio avaro diventa un mercante serio e onesto, portabandiera del codice etico della borghesia.

La commedia di Goldoni fu apprezzata anche dai grandi letterati. Dopo aver assistito all’opera Le baruffe chiozzotte, il grande Goethe affermo’: “Finalmente posso dire d’aver assistito a una commedia! Recitavano oggi al Teatro S. Luca le Baruffe chiozzotte. Tutti i personaggi sono gente di mare, abitanti di Chioggia, insieme alle loro mogli, sorelle, figlie. Ottimamente imitato e’ il loro continuo vocio, pacifico o ostile che sia, i loro traffico, la loro vivacita’, bonomia, trivialita’, arguzia, allegria, spontaneita’ di modi. E’ un’altra opera del Goldoni, e poiche’ proprio ieri ero andato a Chioggia e serbavo negli occhi e negli orecchi il riflesso e l’eco tanto delle voci che del gestire dei marina e della gente del porto, non e’ a dirsi quanto piacere ho tratto.”

Goldoni voleva un teatro che rappresentasse il mondo, che parlasse al pubblico del pubblico stesso. Il suo teatro, di tipo pedagogico, non poteva essere ne’ tragico-eroico, ne’ comico, il nuovo teatro doveva trovare una via di mezzo: la serieta’. Goldoni voleva rappresentare l’umanità socialmente osservabile; non fa discorsi filosofici sull’uomo, ma si guarda intorno e vede mercanti, aristocratici, popolani, e decide di rappresentarli, o meglio, di rappresentare il Mondo attraverso il Teatro, intendendo per Mondo “…la varieta’ di caratteri, di passioni, di avvenimenti curiosi, di correnti costumi, di vizi e di difetti che sono piu’ comuni al nostro secolo e della nostra nazione…”, e per Teatro il modo specifico di comporre gli elementi offerti dal mondo, i colori per rappresentarli, il modo di ombreggiarli per dar loro rilievo…”. In conclusione Goldoni non e’ stato un rivoluzionario, ma ha rappresentato l’intellettuale illuminista moderato che vedeva la possibilita’ di un progresso della civilta’ umana nelle riforme tese alla ricerca di un bene comune senza alterare la struttura sociale di fondo.

Attilio Mimigliano meravigliosamente dichiaro’ su Goldoni come riassunto di tutta la sua creazione: “Nessuno come lui seppe far arte grande di argomenti tenui: questo non e’ forse molto piu’ agevole che far arte grande di argomenti gravi: per riuscirvi bisogna trovar sostanza dove i piu’ non ne vedono”.

E forse la migliore conclusione tra tutte e’ questa di Goldoni stesso: “Ho appreso pur dal Teatro, e lo apprendo tuttavia all’occasione delle mie stesse Commedie, il gusto particolare della nostra Nazione, per cui precisamente io debbo scrivere, diverso in ben molte cose da quello dell’altre. Ho osservato alle volte riscuotere grandissimi encomi alcune coserelle da me prima avute in niun conto, altre riportarne pochissima lode, e talvolta eziandio qualche critica, dalle quali non ordinario applausi io avea sperato; per la qual cosa ho imparato, volendo render utili le mie Commedie, a regular talvolta il mio gusto su quello universale, a cui deggio principalmente servire, senza darmi pension delle dicerie di alcuni o ignorant, o indiscreti e difficili, i quali pretendono di dar la legge al gusto di tutto un Popolo, di tutta una Nazione, e forse anche di tutto il Mondo, e di tutti i secoli colla lor sola testa, non riflettendo che, in certe particolarita’ non integranti, i gusti possono impunemente cambiarsi, e convien lasciar padrone il Popolo egualmente che delle mode del vestire e de’ linguaggi.”

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Goldoni, Carlo, Commedie, volume primo, A cura di Elio Vittorini, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1966

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=== rez ===

RIASSUNTO

CARLO GOLDONI E IL NUOVO TEATRO ITALIANO

Ho scelto come soggetto della mia tesi il nuovo teatro di Goldoni, perche’ mi piace il teatro, mi piaciono i sipari, le quinte, tutto il meccanismo visibile e invisibile del teatro e Goldoni e’ il padre del teatro moderno. Scrivendo questa tesi, ci sono stati momenti in cui avrei voluto vivere ai tempi della rappresentazione di una commedia di Goldoni, in un teatro del Settecento, nella platea, o dentro le quinte per osservare la preparazione degli artisti.

Nel primo capitolo della mia tesi ho cercato di delineare il ritratto di Goldoni, composto dai momenti principali della sua vita e dai piu’ importanti momenti della sua opera, da quando e’ nato a Venezia nel 1707, e fin quando mori’ malato e povero a Parigi nel 1793. Ho cercato di delineare in questo primo capitolo gli incontri fortunati di Goldoni: con Bonafede Vitali da Parma, detto anche l’Anonimo e la sua compagnia per cui inizia la pratica del teatro, con Giuseppe Imer del Teatro quello che introduce Goldoni al mestiere del teatro San Samuele di Venezia, con Girolamo Medebach del Teatro Sant’Angelo, con la cui compagnia si lega per quattro anni con l’obbligo di comporre sedici nuove commedie, con Vendramin del Teatro San Luca, con cui firma un contratto per dieci anni, obbligandosi a scrivere otto commedie all’anno, con la Comedie’ Italienne di Parigi.

Per capire meglio il contesto in cui e’ nata la riforma goldoniana, il secondo capitolo l’ho dedicato al teatro che ha preceduto la riforma di Goldoni, e specialmente alla commedia. La commedia fino a Goldoni era rappresentata dalla Commedia dell’Arte, un’arte del corpo e della maschera, in cui gli attori comunicano con la bravura tecnica e l’espressivita’ del corpo, improvvisando con la parola sulla base di intrecci e scene tipiche. In mancanza di un testo scritto, nella Commedia dell’Arte era essenziale la tecnica di recitazione e la capacita’ dei comici di attirare l’attenzione del pubblico, ma questo fenomeno riduceva il teatro a spettacolo “effimero”, affidato solo all’estro e all’improvvisazione dell’interprete.

I testi di queste commedie erano poco curati, e spesso mai pubblicati, percio’ il confronto di questa commedia con il teatro del resto d’Europa penalizzava molto il teatro italiano. Fu questo il contesto in cui nacquero le commedie goldoniane della vita. Fu questo il periodo cha ha preceduto la riforma goldoniana, a cui ho dedicato tutto il terzo capitolo.

Con Goldoni, la commedia diventa genere letterario, mentre prima era solo mestiere. La riforma goldoniana del teatro non fu una svolta improvvisa o una rivoluzione, ma un graduale mutamento che Goldoni impose al pubblico, agli attori, agli impresari in anni di lavoro.

Ecco alcuni obiettivi della riforma goldoniana: la Commedia dell’arte di basava sulle maschera, sui tipi, cioe’ su personaggi stereotipati e fissi, Goldoni porta sulla scena personaggi veri, con una loro psicologia, creando la commedia di carattere; la commedia dell’arte si basava su trame complicate e inverosimili, Goldoni crea un teatro impostato sull’analisi psicologica del personaggi; la commedia dell’arte era a soggetto, cioe’ non scritta interamente e gli attori dovevano improvvisare, mentre Goldoni scrisse interamente le sue commedie; Goldoni creo’ una lingua viva nelle sue commedie, risolvendo cosi’ anche il problema della lingua teatrale.

Il quarto capitolo e’ dedicato alla commedia della vita di Goldoni, cioe’ all’analisi dei testi e delle novita’ portate da Goldoni nel teatro. Ecco alcune commedie analizzate nel quarto capitolo: Il Teatro comico che rappresenta la commedia manifesto della riforma teatrale che Carlo Goldoni, Momolo cortesan, in cui la parte del protagonista e’ interamente scritta, La donna di garbo che e’ la prima commedia in cui tutte le parti sono interamente scritte, La vedova scaltra e’ la seconda commedia goldoniana scritta in ogni sua parte dall’autore e completamente priva di maschere, La locandiera, una delle commedie mature e originali, recitata da secoli sui piu’ famosi palcoscenici del mondo e interpretata dalle piu’ famose attrici lungo gli anni, I rusteghi e Le baruffe chiozzotte, lavori goldoniani di maturita’, considerati veri capolavori teatrali e recitati sui palcoscenici internazionali.

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