Guida Turistica della Campania [305823]
[anonimizat] e Angelo Cavallari
Editore CDS
Introduzione
Un ringraziamento a tutti coloro che hanno aiutato la stesura del testo in particolare all’Avvocato Ludovica Cofrancesco.
Storia d’Italia e della Campania
Capitolo I
Le origini del nome Campania indicano l’area di pertinenza della città di Capua e vanno ricercate nella conformazione piana del territorio. [anonimizat], ovvero pianura o terreno pianeggiante. I [anonimizat]à del suolo e il clima dolce.
Fino all’età di Augusto per Campania si intendeva la zona pianeggiante fra il Massico e la Penisola Sorrentina e fra le estreme diramazioni occidentali dell’Appennino ed il mar Tirreno. Dopo Adriano il nome Campania cominciò ad indicare una circoscrizione maggiore per l'inclusione nel suo perimetro del Sannio e delle zone dell’Irpinia. Storicamente, fino a poco prima dell'[anonimizat] e Sele. [anonimizat]é il nome rimase alle due estremità: quella settentrionale corrispondente all’area compresa tra i Colli Albani ed il Garigliano e quella meridionale corrispondente ad una breve fascia intorno al Golfo di Napoli. [anonimizat] a quando Costante II diede origine al ducato di Napoli nel 661 d. C.. Il termine Campania nel Medioevo scompare quasi del tutto non essendoci più unità politica a causa dell’occupazione di diversi popoli e dominazioni. La denominazione ricompare solo dopo l’Unità d’Italia comprendendo il Salernitano. Circa le origini del territorio campano si fa riferimento alle ere geologiche precedenti alla comparsa dell’uomo in quanto il ritrovamento di un fossile testimonia la presenza dei dinosauri sul territorio Campano.
Le ere geologiche sono:
Era Arcaica intorno a 4.700 [anonimizat] e desertici. A partire da 2.000 milioni di anni fa avviene la comparsa di fossili.
Era Paleozoica o Primaria intorno a 57 [anonimizat] e comparsa di montagne.
Era Mesozoica o Secondaria intorno a 225 milioni di anni fa con la comparsa dei primi mammiferi e uccelli.
Era Cenozoica o Terziaria intorno si 65 milioni di anni fa con la diffusione dei mammiferi e la comparsa dei Primati.
Era Quaternaria intorno ai 3,1 milioni di anni fa con la comparsa dell’uomo.
Il ritrovamento più importante di tutta la Campania è [anonimizat] 113 milioni di anni fa. [anonimizat]. Il reperto è stato soprannominato "Ciro" dai media. [anonimizat] 50 cm, da adulto avrebbe raggiunto la lunghezza di due metri per 1,30 m di altezza ed il peso di 20 kg circa. L'esemplare, ritrovato nel comune di Pietraroja, è privo dell'estremità della coda e delle zampe posteriori ed è l'unico dinosauro finora rinvenuto nel mondo di cui sono visibili le parti molli del corpo: [anonimizat], gli occhi e l'intestino, con resti dell'ultimo pasto di piccoli pesci e rettili all’interno dello stomaco.
Lo Scipionyx viveva nei pressi di quello che doveva essere l'oceano Tetide presso un ambiente lagunare formato da gruppi di isole. Per quanto concerne le cause del decesso gli esperti hanno ipotizzato che sia morto durante un'alluvione provocata da un uragano e suppongono, inoltre che avesse abbandonato da poco il nido quando travolto da un'onda di piena, il suo corpo finì in una laguna poco profonda, a poche centinaia di metri dalla riva. Il corpo essendo rimasto sul fondo limaccioso, grazie all’ambiente anaerobico, non si è decomposto ma fossilizzato nel sedimento conservandosi fino ad oggi. L'esemplare di Scipionyx fu rinvenuto nel 1980, nei calcari cretacei della cava di Pietraroja, dal paleontologo Giovanni Todesco originario di San Giovanni Ilarione (VR) e da sua moglie. Todesco, credendo fosse il fossile di una lucertola, lo conservò in casa sua per anni. In un secondo momento, preso dal dubbio, pensò si trattasse del fossile di un dinosauro e chiese una consulenza al paleontologo Giorgio Teruzzi che lo riconobbe come un piccolo dinosauro carnivoro. Il reperto, riconosciuto un bene dello Stato, venne affidato al Museo civico di storia naturale di Milano.
Da questo ritrovamento nella regione Campania si può aprire una riflessione anche sull’evoluzione della specie. La comparsa dell’uomo si fa risalire all’Era Quaternaria divisa in Pleistocene e Olocene. Nella scala dei tempi geologici, il Pleistocene è compreso tra i 3 e i 10 milioni di anni fa. Il primo fossile primate dell’epoca è un australopiteco bipede ritrovato il 30 novembre del 1974 nei pressi del fiume Awash nella regione dell' Afar in Etiopia. Si tratta di una femmina adulta che gli studiosi chiamarono Lucy in ricordo della canzone dei Beatles "Lucy in the sky with diamonds" che stavano ascoltando. Questa scoperta è considerata importante perché sono state ritrovate ben 52 ossa dello scheletro quindi il più antico, completo e conservato di qualsiasi altro ominide.
Il Pleistocene si divide in Pleistocene inferiore e medio che corrispondono al periodo del Paleolitico inferiore in cui compaiono l’Homo habilis e l’Homo erectus. Al Pleistocene superiore al quale corrispondono i periodi del Paleolitico medio e superiore dove troviamo l’ Homo neanderthalensis, l’Homo sapiens e l’Homo sapiens sapiens.
L'Homo habilis è una specie di ominide che si ritiene fosse in grado di padroneggiare gli utensili di pietra del primo Paleolitico. Si trattava degli utensili più avanzati mai usati che consentirono all’Homo habilis di prosperare in un ambiente ostile fino ad allora troppo pericoloso per i primati. Tale specie rispetto, all’uomo moderno, aveva un femore allungato, braccia più corte e maggiore presa nelle mani. Viveva sugli alberi.
L'Homo erectus, dal latino "erectus" (che sta dritto), comincia ad avere armi decisamente più sofisticate. Dal chopper si passa ad una vera industria litica, strumenti ovviamente sempre di pietra, ma la vera innovazione fu l'utilizzo di asce a doppio filo. L'Homo erectus rispetto all'Homo habilis aveva una capacità cranica maggiore e avrebbe avuto una notevole somiglianza con gli esseri umani moderni, anche se aveva un cervello di dimensioni corrispondenti al 75% di quello dell'Homo sapiens. Alcuni studiosi, come l’antropologo keynesiano Leakey, credono che l'erectus fosse più vicino, dal punto di vista sociale, agli uomini moderni rispetto ad altre specie anche se l’analisi dei ritrovamenti fossili dimostra come l'anatomia delle vie aeree dell'erectus non permettesse loro di produrre suoni di una complessità paragonabile a quella del linguaggio.
L'Homo neanderthalensis, detto anche Uomo di Neandertal, è un ominide affine all'Homo sapiens, vissuto nel Paleolitico medio, compreso tra i 200.000 e i 40.000 anni fa. Prende il nome dalla valle di Neander in Germania dove vennero ritrovati i primi resti fossili. Fu un Homo in possesso di tecnologie litiche elevate e dal comportamento sociale avanzato. La specie è considerata da diversi studiosi una linea collaterale anche se non sono state escluse delle ibridazioni con l’Homo sapiens e la sua scomparsa in un tempo approssimativamente breve è considerato un mistero scientifico ancora oggi oggetto di studio.
Ultima specie, linea dalla quale discendiamo, è quella dell’Homo sapiens dal latino uomo sapiente che è considerata la definizione scientifica della specie umana.
Dopo questo breve excursus storico, ritornando all’Olocene questo si suddivide in Mesolitico e Neolitico. Il primo è il periodo dello sviluppo e dell’elaborazione di nuove e sofisticate tecniche di lavorazione della pietra come quella microlitica. Compaiono per la prima volta le armi da lancio e in particolare si diffonde l'impiego dell'arco e della freccia. Il Neolitico, la cui etimologia deriva dalle due parole greche νέος nèos "nuovo" e λίθος lithos "pietra" quindi l’età della nuova pietra, si caratterizza per la notevole crescita innovativa della litotecnica ed in particolar modo per la levigatura. Il Neolitico porta con sé un nuovo sviluppo della società e una diversa organizzazione dell’economia. Prendono vita la coltivazione di cereali e la creazione di recipienti per la loro cottura, viene introdotto l’uso delle ceramiche, l’agricoltura e l’allevamento, le tessiture della lana e del lino, l’addomesticamento degli animali. Sorgono i villaggi e si hanno le prime sepolture ad inumazione. Nell’ambito della struttura familiare uno dei cambiamenti di notevole importanza è la trasmissione dei beni all’interno del clan.
All’età della pietra segue l’età dei metalli, periodo storico in cui l’uomo inizia a lavorare il metallo per la costruzione di utensili abbandonando la pietra. La definizione dell’età dei metalli ci è fornita dall’archeologo danese Christian Jürgensen Thomsen che intorno al 1816 a seguito di studi archeologici e preistorici concernenti alcuni manufatti del Museo Nazionale Danese di Copenaghen, di cui era curatore, ne classifica l’appartenenza a tre periodi: l’età della Pietra, l’età del Bronzo e l’età del Ferro.
Intorno al 6000 a.C. circa 8000 anni fa, l’uomo iniziava a fondere il rame forgiando i suoi strumenti servendosi di forni. L’età del rame ha inizio in Egitto e vede lo sviluppo della pastorizia e del commercio crescere maggiormente rispetto al mesolitico e al neolitico. In Europa la diffusione dell’artigianato in rame si può far risalire alla metà del III millennio a.C. dalle regioni dell'Egeo. Sulla costa atlantica la più grande produzione metallica sembra essere stata quella dell'oro fino all'introduzione del bronzo che segna il vero inizio dell'età dei metalli. L’età del bronzo (3300 –1200 a.C.) è caratterizzata dall’utilizzo di questo metallo nato dalla fusione di rame e stagno, capace di rendere più resistenti e forti le armi e gli utensili. I suoi limiti cronologici variano notevolmente secondo l'ambiente geografico e culturale.
L’età del ferro (XII secolo a.C. – VIII secolo a.C.) è caratterizzata dall'utilizzo di questo metallo per la fabbricazione di armi e utensili. L'adozione di questo nuovo materiale coincide con ulteriori mutamenti nella società come le diverse pratiche agricole, le credenze religiose e gli stili artistici.
I principali siti archeologici campani, a cavallo tra l’età del rame e quella del bronzo medio, sono le grotte di Castelcivita, conosciute anche come grotte di Spartaco, le grotte dell’Angelo di Pertosa e il villaggio Preistorico di Nola, la cosiddetta Pompei della Preistoria, uno straordinario sito archeologico dell'Età del Bronzo Antico seppellito dall'eruzione del Vesuvio detta delle Pomici di Avellino (1860-1680 a.C.). La particolarità che rende unico il suo ritrovamento è dovuta al fatto che le capanne, sepolte dall’eruzione vulcanica, si sono conservate perché il loro calco rimase inglobato nel fango e nella cenere sigillando tutto ciò che si trovava al loro interno al momento del disastro.
Altri siti campani riconducibili ad epoche diverse ma da tenere presenti sono Vivara e le cosiddette Ciampate del Diavolo. Vivara è una piccola isola del golfo di Napoli appartenente alle isole flegree. Negli anni trenta l’archeologo di origine tedesca, Giorgio Buchner, portò alla luce frammenti di ceramiche importate dall’Egeo. Ciò attesta che i Greci (i Micenei) arrivarono nel sud Italia già prima di quella che fu la vera e propria colonizzazione greca. Le Ciampate del Diavolo si trovano in una zona del comune di Tora e Piccilli (CE). Secondo lo studioso Mietto, le impronte appartengono ad un gruppo di tre individui che è sceso lungo il fianco della montagna formato da fanghiglia calda. Le 56 impronte si sono asciugate velocemente per un vento secco così da conservarle nel tempo. Appartengono all'Homo heidelbergensis, ominide che viveva nella zona circa 350 mila anni fa. La data, inoltre, fa sì che le orme siano le più antiche mai trovate del genere Homo.
I POPOLI ITALICI
I popoli dell’antica Italia preromana entrano nella storia e assumono una loro fisionomia nell’età del ferro già avanzata.
Parleremo di due categorie di culture:
La cultura della tomba a fossa, che prevede la sepoltura ad inumazione;
La cultura villanoviana che è prevede l’incinerazione.
Gli Etruschi
Gli Etruschi costituiscono certamente il popolo più importante dell’Italia preromana. Tre sono le teorie elaborate sulle origini e la provenienza del popolo etrusco. Una fa provenire questo popolo dall’Asia. Erodoto (storico greco vissuto nel V secolo a.C.) dà notizia di una carestia che obbligò parte delle popolazioni della Lidia, attuale Turchia anatolica, ad emigrare. La seconda teoria vuole gli Etruschi discesi dall’Europa del Nord attraverso le Alpi (Val d’Adige). Questa teoria, considerata poi infondata, fu ripresa nel XVIII secolo e riproposta nel XIX secolo sulla base di ciò che aveva scritto Livio per la suggestiva somiglianza del nome dei Reti (Rhaeti) con quello dei Rasenna. La terza teoria, quella più recente, sebbene già accennata da Dionigi di Alicarnasso, afferma l’autoctonia degli Etruschi. In ogni caso, nessuna delle teorie antiche, anche nelle rielaborazioni operate dagli studiosi moderni, ha trovato pieno conforto scientifico nelle prove archeologiche.
La civiltà etrusca si sviluppa verso sud giungendo fino alla Campania con le città di Capua, Nola, Pompei. Resti sicuri come la Tegola di Capua con iscrizione etrusca ne testimoniano l’occupazione. Un’altra prova è la necropoli villanoviana a Sala Consilina. Verso Nord la civiltà etrusca supera la barriera appenninica intorno al VI secolo, diffondendosi in Emilia e nella Val Padana. Assai notevole è, nel delta del Po, il centro marittimo di Spina di cui è assai famosa la necropoli con migliaia di tombe ricche di suppellettili. Al contrario di quanto avvenne nel Nord, dove i centri Etruschi della Val Padana vennero travolti dalle invasioni dei Galli che si spinsero sino all’Italia centrale, nel sud d’Italia l’influenza etrusca durò per molto più tempo, nonostante le insidie dei popoli italici e delle colonie greche. Solo nel 509 a.C., con la caduta della dinastia Tarquinia in Roma, inizia il declino della civiltà etrusca. La permanenza in Campania viene meno nel 474 a.C. con la battaglia di Cuma: fu uno scontro navale tra la flotta siceliota siracusana, guidata da Gerone I di Siracusa e quella etrusca. Con questa vittoria i sicelioti posero fine all'espansione etrusca nell'Italia ellenica e assestarono un duro colpo all'influenza politica che essi esercitavano in Italia continentale. Della situazione che si creò approfittarono i Romani, i Sanniti e i Galli. La caduta avviene con il sacco di Veio da parte di Roma nel 396 a. C.. Gli Etruschi avevano una scrittura bustrofedica. Si definisce bustrofedica una scrittura che non ha una direzione "fissa" ma procede in un senso fino al margine scrittorio e prosegue poi a ritroso nel senso opposto, secondo un procedimento "a nastro", senza "andate a capo" ma con un andamento che ricorda quello dei solchi tracciati dall'aratro in un campo.
Le iscrizioni etrusche più importanti sono:
la tegola di Capua che è conservata a Berlino
le lamine di Pirgy conservate al Museo etrusco di villa Giulia (Roma)
il liber linteus zagrabiensis conservato a Zagabria. Si tratta di bende che avvolgevano il corpo mummificato e di iscrizioni che riportano date religiose.
LA COLONIZZAZIONE GRECA (IX –VI A.C.)
La colonizzazione greca dell’Italia meridionale ebbe inizio verso la metà dell’VIII secolo a.C. La causa fu l’incremento demografico, la poca fertilità delle terre ed i continui soprusi dell’aristocrazia. I coloni giunti sulle coste italiane provenivano dall’Eubea, dall’Argolide, dalla Locride, dalla Ionia asiatica, dalle isole della Doride e da Creta.
La colonizzazione greca in Campania del VII secolo a. C. riguarda le città di Pithecusa – Ischia che fu emporio commerciale fondato dai Calcidesi. Questi provenivano dall’isola di Eubea, che si trova a Nord di Atene, intorno al 770 a.C..
Cuma è prima colonia Calcidese fondata intorno al 750-730 a.C.. Secondo la leggenda, i fondatori di Cuma furono gli Eubei di Calcide che scelsero di approdare in quel punto della costa perché attratti dal volo di una colomba inviata dal dio Apollo o secondo altri da un fragore di cembali.
Gli Ecisti, secondo lo storico greco Strabone, sono Ippocle di Kyme (che diede il nome alla città di Cuma, che vuol dire ‘onda’) e Megastene di Calcide.
Sempre all’ VIII secolo a. C. risale la colonizzazione dei Calcidesi di Partenope sull’isola di Megaride e sul monte Echia. Partenope era una delle sirene che con il suo canto aveva cercato di stregare Ulisse e fallita la sua missione si narra si sia lasciata morire sullo scoglio di Megaride là dove ora sorge il Castel dell’Ovo. A Napoli la sirena Partenope era venerata come dea protettrice. Napoleone utilizzò questo toponimo quando fondò la Repubblica Partenopea altrimenti detta Repubblica Napoletana del 1799.
La colonizzazione in Campania continua con Poseidonia – Paestum che è in realtà una sub colonia in quanto fondata da Sibari intorno al 625 a. C.. Segue nel VI secolo Elea-Velia fondata dai Focei intorno al 540 a.C. e Dicearchia-Puteoli, l’attuale città di Pozzuoli, fondata dagli esuli dell’isola di Samo nel 530 a. C.. Nel V secolo avviene la fondazione cumana di Neapolis.
Roma e i popoli italici
La data di nascita mitica è il 21 aprile del 753 a. C. I periodi sono così suddivisi:
753 – 509: età monarchica
509 – 27 a.c. Età repubblicana
Guerre latine
Guerre sannitiche
Guerre puniche (264- 241; 218 – 201; 149 – 146)
La conquista della Grecia (212 – 146 a C)
I, II e III guerra macedonica
Con il termine di età regia nella storia di Roma si fa riferimento al periodo precedente l'istituzione della Repubblica durante il quale Roma fu retta da un sistema monarchico. Nulla di certo si sa su questo periodo, dato che tutte le fonti che ne parlano sono di epoca successiva ed hanno un taglio molto leggendario. Secondo la tradizione, gli estremi cronologici di questo periodo sono il 753 a.C., anno della fondazione di Roma, e il 509 a.C. quando fu detronizzato Tarquinio il Superbo e fu instaurata la Repubblica. Secondo la tradizione i re furono sette:
Romolo (753 – 716 a.C.)
Numa Pompilio (715 – 673 a.C.)
Tullo Ostilio (673 – 641 a.C.)
Anco Marzio (640 – 616 a.C.)
Etruschi:
Tarquinio Prisco (616 – 579 a.C.)
Servio Tullio (578 – 535 a.C.)
Tarquinio il Superbo (535 – 509 a.C.)
La Repubblica romana (Res Publica Populi Romani) fu il sistema di governo della città di Roma nel periodo compreso tra il 509 a.C. e il 27 a.C., quando l'Urbe fu governata da un'oligarchia repubblicana. Essa nacque a seguito di contrasti interni che portarono alla fine della supremazia della componente etrusca sulla città ed al parallelo decadere delle istituzioni monarchiche.
I SANNITI
I Sanniti furono un antico popolo italico stanziato nel Sannio, corrispondente agli attuali territori della Campania settentrionale, dell'alta Puglia, di gran parte del Molise, del basso Abruzzo e dell'alta Lucania. Ci troviamo di fronte ad un società di tipo rurale priva di un governo centrale. Le tribù sannite erano quattro : i Carecini, i Caudini, gli Irpini e i Pentri. Queste costituivano un touto, Ciascun touto altro non era che una forma repubblicana di oligarchia in cui solo i ricchi potevano ricoprire cariche pubbliche. La classe dominante conservava il suo potere attraverso la carica del meddix (latino magistratus). Il meddix supremo, capo dello stato, era il meddix tuticus che godeva di autorità illimitata sul suo popolo. Questi oltre a sovrintendere all’amministrazione della legge era anche autorità militare e religiosa. Ricopriva una carica annuale ma poteva esser rieletto per più volte consecutive. Al magistrato supremo seguivano funzionari minori. Le principali città del periodo sannita sono: Aesernia, Allifae, Maleventum, (che dopo la sconfitta di Pirro re dell’Epiro nel 275 a.C., diviene Beneventum), Seapinum e Telesia.
Le guerre sannitiche:
I guerra sannitica: 343 – 341 a.C. : Capua occupata dai Sanniti chiede aiuto ai Romani. Vittoria romana e liberazione di Capua.
II guerra sannitica: 326 – 304 a.C.: Nasce per il controllo su Neapolis che cade nel 326 a. C.. Sconfitta romana alle Forche Caudine nel 321 a. C. e annessione di Boviano (odierna Boiano) e Nola.
III guerra sannitica: 298 – 290 a.C. Sconfitte dei Sanniti a Sentino nel 295 a.C. e ad Aquilonia nel 293 a. C..
Tra il IV e il II secolo a.C i seguenti eventi caratterizzano l’area campana:
420 – 410 a. C. i Lucani invadono Poseidonia (che era stata fondata dai Sibariti intorno al 625 a. C.) che diventa Paistom.
Nel 273 a. C. i Romani conquistano Paistom e ne cambiano il nome in Paestum.
Nel 194 a. C. la città di Dicearchia (fondata dagli esuli di Samo intorno al 625 a. C.) diventa Puteoli, principale porto di Roma.
Nel I secolo a.C. l’evento più importante è la guerra sociale (da socius= alleato). Con la lex plautia papiria a tutti gli abitanti dell’Italia al di sotto del Po viene concessa la cittadinanza Romana con la conseguenza che l’Italia peninsulare diventa ager Romanus. Il territorio viene riorganizzato in municipi e viene avviato il processo di urbanizzazione con la costruzione di edifici pubblici utili all’esercizio del potere (foro con tempio della triade capitolina: Giove, Giunone e Minerva).
Nell’88 a.C. scoppia la Guerra Civile tra Mario e Silla. La Guerra civile romana dell'82 a.C. vide il conflitto tra la fazione degli ottimati, guidata da Silla, e quella dei populares, seguaci del sette volte console Gaio Mario morto nell'86 a. C.. Dopo la morte di quest’ultimo i populares erano capeggiati dai consoli Gaio Mario il Giovane e Gneo Papirio Carbone. Nell’82 a.C. Neapolis, Pompei e Stabiae si schierano con i populares e vengono devastate e declassate al rango di colonie (non più municipi).
Nel ’60 a. C. viene istituito il primo triumvirato tra Cesare, Crasso e Pompeo Nel 52 a.C.. Cesare conquista la Gallia e nel 44 a.C. viene assassinato. In questo periodo la Campania diventa luogo di villeggiatura con ville di otium nelle aree di Posillipo, area flegrea, Stabiae ed Ercolano.
Nel 27 a. C inizia l’età imperiale con Augusto (27 a.C. – 14 d.C.). L’età augustea è caratterizzata dalla Pax Augusti. Augusto è stato il primo imperatore a concedere un periodo di pace e prosperità propagando l’arte e l’edilizia. Ricordiamo gli acquedotti in Campania nella zona vesuviana. Importanti furono le sue riforme dell’ordinamento finanziario e tributario, dell’esercito, dei costumi e del sistema religioso erigendosi a Pontefice Massimo.
A succedere Augusto è il suo figliastro Tiberio, figlio di Livia Drusilla, che dal 27 d. C. al 37 d. C., per 10 anni circa, scelse come sua sede l’isola di Capri. Dopo gli scontri col prefetto del pretorio Seiano, che tentò di impadronirsi del potere assoluto congiurando contro l’imperatore, questi lo fece destituire ed uccidere. Tacito e Svetonio asseriscono che l’imperatore a Capri possedesse ben 12 ville. La più importante è Villa Jovis, Villa di Giove, che si trova sulla vetta del monte Tiberio nella parte orientale dell’isola, un posto del tutto strategico dal quale si può osservare l'isola d'Ischia, Procida, il golfo di Napoli, la penisola Sorrentina quindi il golfo di Salerno fino alle terre del Cilento.
Dinastia Giulio – Claudia (14 – 68 d.C.)
Anarchia militare (68 – 69)
Età Flavia (68 – 96 d. C.)
Età imperiale (96 – 238 d.C.)
Seguiranno Caligola (37 – 41 d.C.), Claudio (41 – 54 d.C.) e poi Nerone (54 – 68 d.C.), periodo nel quale Pompei (62 d.C.) è colpita da un forte terremoto. Nerone, ricordiamo, ha promosso l’edificazione dell’anfiteatro di Pozzuoli. L’età Flavia ci consente di approfondire i rapporti dell’Impero con la Campania. Gli imperatori dell’Età sono Vespasiano (69 – 79 d.C.), Tito (79 – 81 d. C.) e Domiziano (81 – 96 d.C.). Vespasiano è artefice della presa di Gerusalemme grazie ai cui proventi, derivanti dal bottino, sviluppa l’edilizia pubblica e l’urbanizzazione di Roma con la costruzione dell’anfiteatro Flavio noto come il Colosseo.
Nel 79 d. C. (tra il 24 e il 26 agosto) durante il regno di Tito, figlio di Vespasiano, si verifica l’eruzione del Vesuvio. Il regno di Domiziano invece è caratterizzato dalle persecuzioni cristiane. Succede Nerva (96 – 98 d. C.) e poi Traiano (98 – 117 d. C.). Traiano promuove la costruzione della Via Traiana costruita tra il 108 e il 110 d. C. su un preesistente tracciato come variante della Via Appia che collegava Benevento a Brindisi. A Benevento viene costruito l’Arco di Traiano che celebra l’imperatore.
Dal 117 al 138 regna Adriano, poi Antonino Pio (138 – 161), Marco Aurelio (161 – 180), Commodo (180 – 192). A questo punto si registra un periodo di anarchia militare fino a Settimio Severo (193 – 211), seguono Caracalla (212 – 217) Eliogabalo (218 – 222), Severo Alessandro (222 – 235), Massimo il Trace (235 – 238).
Nel III secolo d.C. ricordiamo la più importante riforma economica dell’impero ad opera di Diocleziano (284 – 305). Nel 301 d.C. viene emesso l’editto dei prezzi, Edictum De Pretiis Rerum Venalium. Diocleziano è l’artefice della cosiddetta riforma tetrarchica rappresentata da quattro poteri: due augusti e due cesari con funzione di vice rispetto a quella di Augusto.
Avviene la divisione tra Oriente e Occidente. Avremo come Augusto d’Oriente Diocleziano, con Nicomedia come capitale e Cesare d’Oriente Galerio, con Sirmio come capitale. Augusto d’Occidente Massimiano, con Milano come capitale e Cesare d’Occidente, Costanzo Cloro, con Augusta Treverorum (città di Treveri) come capitale.
In Campania la figura di Diocleziano è nota per la persecuzioni dei cristiani. Famoso è il martirio (305 d.C.) di San Procolo, San Sossio e di San Gennaro, vescovo di Benevento, decapitato nella città di Pozzuoli. La tradizione racconta di vari tentativi di martirizzare il Santo come testimoniano alcune opere d’arte tra cui il dipinto di Ribera del 1646, posto nella Reale Cappella del Tesoro di San Gennaro ubicata all’interno del Duomo di Napoli. Il dipinto raffigura il Santo uscire illeso da una fornace. Si racconta anche che San Gennaro fosse stato lasciato nell’anfiteatro in pasto alle belve che si inginocchiarono al suo cospetto. Alla fine Diocleziano lo condannò a morte per mezzo di decapitazione avvenuta nei pressi della Solfatara. Nel luogo presunto del suo martirio c’è una chiesetta che conserva la pietra sulla quale sarebbe stato decapitato San Gennaro. Il sangue del martirio di cui è intrisa la pietra cambia colore contemporaneamente alla liquefazione del sangue nelle ampolle conservate nel Duomo di Napoli il primo sabato di maggio, il 19 settembre e il 16 dicembre.Le spoglie di San Gennaro furono trasferite prima nell’Agro Marciano (forse Fuorigrotta) e poi traslate nelle catacombe che prenderanno il suo nome, dove era stato già sepolto S. Agrippino dal vescovo Giovanni (413c – 431). Da quel momento il culto del martire assunse grande importanza.
Tra il 306 e il 337 per merito di Costantino si apre una nuova era per il Cristianesimo. Tutto parte da un’affermazione: “In hoc signo vinces” “Con questo segno vincerai”. Questa scritta comparve in cielo accanto ad una croce. Fu ritenuto un segno prodigioso prima della battaglia di Ponte Milvio a Roma. Secondo il celebre racconto Costantino, figlio di Costanzo Cloro, si convertì al Cristianesimo durante il viaggio per Roma per affrontare Massenzio (uno dei quattro tetrarchi). Ritiratosi in preghiera ebbe l’apparizione di un incrocio di luci in cielo sopra il sole e della scritta "Εν Τουτ Νικα". Durante la notte successiva si narra che gli sarebbe apparso in sogno Cristo e che gli avrebbe ordinato di adottare come proprio vessillo il segno che aveva visto in cielo. Nel 312 Costantino sconfigge Massenzio e segna la fine della tetrarchia di Diocleziano. Nel 313 con l’editto di Milano conferisce piena libertà di culto ai cristiani restituendo loro tutti i beni confiscati.
Importanti da ricordare sono le motivazioni dalle quali scaturì tanta ostilità verso i cristiani: la prima è che l’imperatore, essendo considerato di natura divina, era oggetto di venerazione e il rifiuto dei cristiani di venerare il sovrano era considerato tradimento al comando. Il secondo motivo era economico: la confisca dei beni dei perseguitati arricchiva le casse dell’impero.
Nel 330 Costantino sposta la capitale da Roma a Bisanzio. Ribattezza Bisanzio col nome di Costantinopoli e divide l’impero tra i suoi tre figli.
In Campania l’imperatore Costantino I fa erigere la Basilica paleocristiana di Santa Restituta integrata nella cattedrale di Napoli. Il culto di Santa Restituta, vergine e martire cartaginese, è legato alla persecuzione vandalica del 429 in Nord Africa. La leggenda narra che il corpo della santa, dopo il martirio, fu messo su una barca e lasciato in balia delle correnti del mare sino a toccare le coste di Lacco Ameno d’Ischia di cui è ancora oggi la patrona.
Un altro esempio di basilica paleocristiana del periodo costantiniano è quella di San Felice a Cimitile, frazione di Nola. In epoca romana il territorio fu occupato da una necropoli dove fu sepolto il del Santo. Sulla tomba di San Felice fu realizzato un mausoleo quadrato. Il nome di Cimitile deriverebbe quindi dalla funzione cimiteriale del luogo. La primitiva basilica di San Felice era insufficiente per raccogliere la folla di fedeli che si recava a pregare, ragion per cui nei primi anni del V secolo il nobile gallo-romano Ponzio Meropio Paolino, San Paolino di Nola, gettò le fondamenta della nuova basilica.
Nel 380 con l’editto di Tessalonica emanato da Teodosio (347 – 395) il cristianesimo diviene religione ufficiale dell’impero e la religione pagana viene bandita. L’editto stabilisce che soltanto i cristiani potevano svolgere la funzione di giudice, rivestire cariche pubbliche ed arruolarsi nell'esercito. Tutti i non cristiani avrebbero dovuto dimettersi. Nel 381 viene condannato l’arianesimo, sostenuto da Ario, che anche se non negava il dogma della Trinità sosteneva che la figura di Cristo fosse al di sotto di quella di Dio. Fu condannato anche il monofisismo sostenuto da Eutiche, patriarca di Costantinopoli, secondo il quale la natura umana di Cristo era assorbita da quella divina. Nel 423 Teodosio II dichiarò che tutte le religioni pagane non erano altro che "culto del demonio" ed ordinò per tutti coloro che persistevano a praticarle, punizioni quali il carcere, la tortura e la morte.
Con Teodosio l’impero sarà diviso in due parti. Quello d’Oriente affidato a Arcadio con capitale Bisanzio/Costantinopoli e quello d’Occidente affidato ad Onorio con capitale Milano. L’impero d’Occidente era più debole dal punto di vista delle difese geografiche rispetto ai popoli barbari ed era caratterizzato da una maggiore diffusione del latifondo rispetto alla piccola proprietà terriera. Inoltre, sembra che nell’impero di Occidente ci fosse una pesantissima pressione fiscale. L’Impero d’Occidente cadrà velocemente ad opera dei barbari. Infatti nel 410 avviene il sacco di Roma ad opera di Alarico re dei Visigoti e nel 452 Attila il re degli Unni invade l’Italia.
La caduta dell’Impero Romano avviene per mano di Odoacre che istaura il primo impero romano barbarico deponendo l’ultimo imperatore romano nel 476 Romolo Augustolo, le cui spoglie sono deposte al Castrum Lucullanum che diverrà Castel dell’Ovo.
Primo regno romano barbarico è quello di Odoacre con capitale Ravenna. Ad Odoacre succede Teodorico, re degli Ostrogoti, che nel 489 invade l’Italia e conferma la capitale a Ravenna che tale rimarrà fino al 553.
Il medioevo, età successiva, è diviso in tre parti:
la tarda antichità (o tarda romanità) – III – IV secolo d. C caratterizzato dalla tetrarchia
alto medioevo che si fa risalire al VI – XI secolo
basso medioevo (XI – XV secolo)
Giustiniano (527 – 565), ultimo imperatore bizantino, fu uno dei più grandi sovrani di età altomedievale. L’eredità lasciata da Giustiniano è il Corpus Iuris Civilis, una raccolta di materiale normativo e giurisprudenziale di diritto romano del 535, ideata per riordinare l'ormai caotico sistema giuridico dell'impero. In Occidente la sua applicazione fu limitata ai territori dell'Italia meridionale sotto il dominio bizantino. Giustiniano è da ricordare, inoltre, per la lotta contro il paganesimo ed in particolar modo contro il monofisismo. Ordinò anche nel 529 la chiusura di tutte le scuole filosofiche ad Atene. Il suo governo coincise con un periodo d'oro per l'Impero romano d'Oriente dal punto di vista sia civile, sia economico che militare. Giustiniano autore della guerra greco – gotica (535-553), progetterà la divisione della Campania. La guerra gotica è un lungo conflitto che contrappone l'Impero bizantino agli Ostrogoti nella contesa di parte dei territori che fino al secolo precedente appartenevano all'Impero romano d'Occidente. Il conflitto ebbe inizio nel 535 con lo sbarco in Sicilia di un esercito bizantino guidato dal generale Belisario che risalendo la penisola, ebbe la ragione sulle truppe ostrogote dei re Teodato e Vitige e conquistò molte importanti città tra cui Roma e Ravenna. L'ascesa al trono ostrogoto di Totila portò alla riconquista da parte dei Goti di molte posizioni perdute ma con l'arrivo di una nuova armata, sotto il generale Narsete, le forze imperiali poterono riprendersi e dopo la morte in battaglia di Totila e del suo successore Teia, la guerra si concluse nel 553 con una completa vittoria per i Bizantini.
Nel tardo Impero Romano, la Prammatica Sanzione (Pragmatica Sanctio) era una Costituzione imperiale che affrontava temi di particolare rilevanza ed interesse generale, promulgata su richiesta di un alto funzionario ed entrava in vigore appena pubblicata. Nel periodo antico la più conosciuta è quella emessa al termine della guerra gotica dall'imperatore Giustiniano I il Grande su richiesta di papa Vigilio per sancire il ritorno dell'Italia sotto il dominio diretto dell'impero. Si chiama “La Pragmatica sanctio pro petitione Vigilii” del 554. La lunga guerra provocò vaste distruzioni alla penisola impoverendo le popolazioni già colpite da un'epidemia di peste e carestia. L'occupazione dell'Italia da parte dei bizantini si rivelò breve e fragile, visto che nel 568 i Longobardi iniziarono a calare nella penisola occupandone vasti tratti, favoriti dalla debolezza dei difensori.
La provincia bizantina della Campania era amministrata da un “Iudex proviciae”, che era la massima autorità civile. La massima autorità militare era invece ricoperta da un dux o magister militum (il primo fu Conone).
È questo il momento di un prepotente sviluppo del monachesimo occidentale. Ricordiamo San Benedetto da Norcia vissuto a Subiaco (480 – 547). Nel 529 viene fondata l’Abbazia di Montecassino.
I LONGOBARDI
I Longobardi erano una popolazione di origine orientale protagonista, tra il II e il VI secolo, di una lunga migrazione che la portò dal basso corso dell'Elba fino all'Italia. Durante lo spostamento una parte dei Longobardi si convertì al Cristianesimo ariano. Il primo re fu Alboino che fondò il regnum longobardorum tra il 568-569 con capitale Pavia. Il regno fu diviso in due parti: la Longobardia maior al centro nord e la Longobardia minor al centro sud estendendosi sino al ducato di Spoleto e al ducato di Benevento. Nel corso dei secoli, tuttavia, grandi figure di sovrani come Autari, Agilulfo (VI secolo), Rotari, Grimoaldo (VII secolo), Liutprando, Astolfo e Desiderio (VIII secolo) estesero l'autorità del re rafforzando le prerogative regie e la coesione interna. Il Regno longobardo, che tra il VII e l'inizio dell'VIII secolo era arrivato a rappresentare una potenza di rilievo europeo, cessò di essere autonomo nel 774 a seguito della sconfitta subita dai Franchi guidati da Carlo Magno.
Nel corso dei secoli i Longobardi, inizialmente casta militare separata dalla massa della popolazione romanica, si integrarono progressivamente con il tessuto sociale italiano grazie all'emanazione dell’editto di Rotari, nel 643, la prima raccolta di leggi scritte in latino contenenti elementi di diritto germanico. La conversione al cattolicesimo e i rapporti sempre più stretti con le altre componenti socio-politiche della Penisola, la contrastata fusione tra l'elemento germanico longobardo e quello romanico pose le basi per la nascita e lo sviluppo della società italiana dei secoli successivi.
Nel 570 la Campania viene occupata dai Longobardi che prendono il ducato di Benevento con le provincie di Capua e Salerno. L’imperatore bizantino Tiberio II (578 – 582) decise di dividere il territorio in due: Urbicaria (il ducato romano) e Campania (che divenne poi un ducato). Con la dissoluzione del potere bizantino dell’Italia centrale, la figura del Papa sostituì quella del Dux di nomina imperiale e subentrò all’esarca bizantino di Ravenna nell’esercizio della giustizia di appello, nella riscossione delle imposte, nella possibilità di imporre la fedeltà politica e l’aiuto militare ai vassalli loro sottoposti. A questo punto il vescovo di Roma divenne la massima autorità civile del ducato affiancandosi e contrapponendosi talvolta alla figura dell’imperatore. Da semplice proprietà privata della Chiesa di carattere fondiario (Patrimonium Sancti Petri), il territorio di cui il Papa era signore diverrà, nei secoli successivi, un’entità statale legittimata dalle donazioni longobarde di Sutri (728), dalle carolingie Promissio Carisiaca (754) e dalla Costitutio Romana (824).
Il ducato bizantino tra il VII e VIII secolo in Campania
Inizialmente i poteri civile e militare erano separati. In un secondo momento i poteri vengono accentrati nelle mani di un solo dux che era nominato dall’imperatore bizantino. In Campania Costante II di Bisanzio nomina come suo duca Basilio, un funzionario locale. Fu il primo passo verso l’autonomia e l’indipendenza del ducato di Napoli che avrà fine alla conquista normanna.
Nel 711 il duca Giovanni I, grazie all’aiuto di Papa Gregorio II, conquista Cuma occupata dai longobardi. Stefano II di Napoli (VIII secolo – 799) vescovo bizantino, Duca di Napoli dal 755 al 766, in un periodo di transizione molto importante per la storia della città divenne, su mandato del patriziato siciliano, il leader dell'aristocrazia locale ed alla fine del suo regno, grazie ad una rottura pressoché definitiva con l'Impero Bizantino, Napoli si rese praticamente indipendente, pur attraversando un periodo di crisi almeno sino all'elezione di Sergio I nell'840.
Nell’831 c’è un assedio a Napoli. Sicone di Benevento (longobardo) si impadronisce delle spoglie di San Gennaro che si trovavano nelle catacombe. Sicone viene ricordato perché Stefano fu assassinato a causa di una congiura che era stata sobillata da Sicone stesso tra i nobili napoletani. Successivamente uno degli assassini, Bono, fu eletto al suo posto.
In questa fase nelle città bizantine le autonomie sono de facto ma non di diritto perché sia Amalfi che Napoli nominalmente fanno parte dell’impero bizantino. L’indipendenza e l’autonomia politica ed economica si basa sul commercio, sul possesso di una flotta di navi, sulla presenza nei porti del Mediterraneo di consoli e fondachi cioè magazzini o strutture per accogliere gli stranieri, sull’uso di una moneta propria, di leggi marittime e sulla partecipazione ad azioni di repressione di pirateria o addirittura alle crociate.
Le repubbliche marinare più importanti furono Venezia, Pisa, Genova ed Amalfi. Esistono però altre 4 repubbliche marinare meno note che sono Noli in Liguria, Ancona nelle Marche, Ragusa in Sicilia e Gaeta nel Lazio.
Amalfi nel 839 viene espugnata dai Longobardi ma nello stesso anno riconquista l’indipendenza. Mantiene la propria autonomia fino al 1076 quando viene conquistata dai Normanni in seguito alla guerra tra Papa Innocenzo II e Ruggero II di Sicilia. Nel 1137 subisce il saccheggio da parte dei Pisani. Nell’XI secolo redasse il primo codice di navigazione e commercio: le famose Tavole Amalfitane. Amalfi sarà la prima delle quattro repubbliche marinare a soccombere a causa della conquista normanna e del saccheggio da parte dei Pisani poi. La seconda a scomparire sarà Pisa, poi Genova e infine Venezia che termina la sua autonomia addirittura nel 1797 con il trattato di Campoformio che la porterà all’interno dell’Arciducato d’Austria.
Nel 846 Cesario Console libera Gaeta dai Musulmani. Nello stesso anno avviene la battaglia navale di Licosa, presso l'omonimo promontorio, in cui ai Saraceni si opposero ad una coalizione di poteri locali ispirata e guidata dal Duca di Napoli Sergio I. Dell'alleanza facevano parte alcuni soggetti politici che vedevano la loro spiccata propensione marittima subire danni dalle incursioni saracene. Oltre al Ducato bizantino di Napoli, l’alleanza comprendeva le potenze marinare di Amalfi, Sorrento e Gaeta. Nell'estate del 849 una flotta costituita dalle navi delle repubbliche marinare di Amalfi, Napoli, Sorrento e Gaeta, riunite nella Lega Campana, sotto la guida del console Cesario di Napoli (figlio del duca di Napoli Sergio), sbaragliò una flotta di navi saracene che si apprestava a sbarcare presso Ostia con l'intento di operare il saccheggio di Roma. Il Papa Leone IV benedisse le truppe il giorno prima della battaglia. Lo scontro tra le due flotte fu violento e durò un'intera giornata con esito incerto fino a quando un'improvvisa tempesta creò scompiglio tra le navi saracene. I campani, marinai più esperti, ebbero allora il sopravvento infliggendo al nemico gravi perdite e catturando numerosi prigionieri. Fu, secondo alcuni storici, il più grande successo navale di una flotta cristiana su una musulmana prima di Lepanto.
In questa occasione venne utilizzata della Lega Campana una bandiera con una striscia obliqua rossa su sfondo bianco, simbolo che ancora è utilizzato come vessillo della Regione Campania.
Tra il 841 e l’851 nel Principato di Salerno scoppia una guerra civile che si conclude con la divisione del Principato nasce il nuovo principato di Salerno e quello di Benevento. Nel 915 viene annientata la colonia saracena del Lazio con la battaglia del Garigliano.
Dall’anno Mille alla seconda guerra mondiale.
Nell’anno 1000 l’Italia Meridionale è costituita dai principati di Salerno, Benevento e Capua, dai Ducato di Amalfi e Napoli che fanno parte dell’impero bizantino.
Nell’area campana compaiono i Normanni, una popolazione che proviene dalla Scandinavia.
La più importante figura di questo periodo è Rainulfo Drengot (1030-1045) cavaliere e nobile normanno che divenne il primo conte di Aversa. Egli è stato il primo normanno a scendere nell’Italia peninsulare con dei mercenari chiamato dal duca Sergio IV di Napoli.
Sergio IV per ricompensare i Normanni dei servigi dà loro in feudo l’antico borgo di Sancte Paulum at Aversae che poi sarà la città di Aversa . Questo sito in realtà era già stato occupato dei Normanni che vi avevano costruito un castello. Dopo ripetuti successi, nel 1030 il duca Sergio offrì a Rainulfo la mano di sua sorella, Sichelgaita, che però nel 1034 morì. Rainulfo sposò allora la figlia del duca di Amalfi e nipote di Pandolfo IV di Capua, acerrimo nemico di Sergio. Da questo momento cominciò l'opera di espansione del proprio territorio a spese soprattutto dell'Abbazia di Montecassino.
Il titolo comitale di Aversa gli fu riconosciuto e confermato nel 1037 dall'imperatore Corrado II. Dopo aver sconfitto in battaglia i Bizantini nel 1038, Rainulfo si dichiarò principe, formalizzando la propria indipendenza da Napoli e dai suoi precedenti alleati longobardi. Conquistò il principato del suo vicino Pandolfo e con l'approvazione di Corrado lo unì al proprio, costituendo così l'entità politica più vasta di tutto il Mezzogiorno d'Italia.
Roberto d’Altavilla, meglio conosciuto come Roberto il Guiscardo, proveniva da una nobile famiglia normanna, gli Altavilla, che occupavano la bassa Normandia in Francia. L’origine del nome Guiscardo proviene dalle radici viska che significa scaltro, astuto e da hard che sta per forte.
I Longobardi, in un primo tempo vicini ai Normanni, si rivoltarono contro i loro vecchi alleati e si attirarono il favore del papa Leone IX deciso ad espellere dalla penisola i Normanni. Lo scontro fra le armate longobardo-pontificie e le truppe normanne di Roberto il Guiscardo avvenne il 18 giugno 1053 a nord della Capitanata, dove l'esercito papalino fu duramente sconfitto nella Battaglia di Civitate. La città di Benevento che fino ad allora era governata da duchi Longobardi nominati dal Papa viene affidato dallo stesso a Roberto il Guiscardo. Nel 1077 il duca longobardo di Salerno chiama Roberto il Guiscardo a difesa delle scorribande saracene, ma quest’ultimo scalza il duca Longobardo e fonda il regno Normanno con sede a Salerno.
Gregorio VII, nato Ildebrando Aldobrandeschi di Sovana (Sovana, 1020/1025 – Salerno, 25 maggio 1085), fu il 157ș papa della Chiesa cattolica dal 1073 alla morte. Gregorio fu il più importante fra i papi che nell'XI secolo misero in atto una profonda Riforma della Chiesa, ma è noto soprattutto per il ruolo svolto nella lotta per le investiture che lo pose in contrasto con l'Imperatore Enrico IV.
Nel 1084 il contrasto con imperatore portò all’assedio di Roma, Gregorio VII chiamò in soccorso Roberto d'Altavilla, Duca di Puglia e Calabria. Il 21 maggio successivo l'Altavilla riuscì a entrare a Roma e a mettere in salvo il pontefice, ma le sue truppe devastarono completamente la Città eterna rendendosi responsabili di saccheggi e distruzioni peggiori, se paragonate a quelle del sacco goto del 410 e di quello lanzichenecco del 1527. Il Papa viene portato a Salerno e ivi rimarrà fino alla morte. Nel duomo si Salerno sono conservate le sue spoglie.
Nel 1091 si completa la conquista del sud Italia da parte degli Altavilla con l’annessione della Sicilia. Napoli entra a far parte del regno Normanno nel 1139 anno che segna la fine del ducato Bizantino. Costanza d’Altavilla figlia di Ruggero II il normanno sposa Enrico VI figlio di Federico Barbarossa. Da questo matrimonio nasce Federico II di Svevia. Questi molto presto rimarrà orfano prima del padre e poi della madre la quale prima di morire affida il figlio a Papa Innocenzo III. Federico II alla maggiore età eredita la Sicilia e l’impero di Germania.
Il regno di Federico II è caratterizzato da una intensa attività legislativa che culmina nella redazione della Costituzioni melfitane del 1231 a cui partecipa Pier delle Vigne. Durante questo periodo si vede una forte attività legislativa. Alla corte di Federico II si trovano molti personaggi, come Michele Scoto, i quali portano grandi innovazioni artistiche e culturali. Tra gli altri Teodoro da Antiochia arabo cristianizzato e Juda Ben Salomon Cohen grande enciclopedista ebreo. Fiorisce la scuola poetica siciliana e nel 1224 viene creata l’Università di Napoli.
Alla morte di Federico II Manfredi, figlio naturale dello stesso, viene sconfitto da Carlo d’Angiò nella battaglia di Benevento del 1266. Carlo d’Angiò era fratello di re Luigi IX di Francia detto “il santo”. Nel 1268 a Tagliacozzo Corradino di Svevia viene sconfitto, portato a Napoli e decapitato a Piazza Mercato. Il suo teschio è conservato presso la Chiesa del Carmine a Napoli (come quello di Masaniello).
Con gli Angioini Napoli diventa la capitale del regno al posto di Palermo. La politica degli Angioini è vessatoria ed ereditaria tanto da portare alla rivolta dei Vespri siciliani nel 1282. La rivolta apre la strada alla guerra con gli Aragonesi per la Sicilia. Gli Angioini nel 1284 vengono sconfitti a Procida e il 31 agosto del 1302 la pace di Caltabellotta sancisce il distacco della Sicilia dalla dominazione Angioina. L’accordo fu preso fra Carlo di Valois, capitano generale di Carlo II d’Angiò, detto lo zoppo, succeduto a Carlo I, e Federico III d’Aragona. L’accordo prevedeva che il Regno di Sicilia – comprendente la parte continentale del meridione d’Italia – fosse assegnato agli Angioini e il Regno di Trinacria, comprendente la Sicilia e le adiacenti isole, a Federico III d’Aragona. Successivamente Ludovico di Tolosa rinuncia al trono a favore del fratello Roberto per dedicarsi alla vita religiosa.
Roberto, che viene denominato “Il Saggio” si pone a capo dei guelfi italiani e si oppone all’imperatore Enrico VII che nel 1313 tentava di riconquistare l’Italia senza riuscirvi.
Roberto il Saggio creò una corte di letterati, pittori e artisti presso di sé: Petrarca fu ospite nel convento di San Lorenzo; Boccaccio fu ospite a Napoli negli anni giovanili; Giotto fu definito primo pittore di corte; Simone Martini detto Senese, nel 1317 fu chiamato a Napoli da Roberto per commissionargli una tavola celebrativa: Ludovico di Tolosa che incorona il fratello attualmente conservata al Museo di Capodimonte; Tino di Camaino, che nella chiesa di San Lorenzo Maggiore è l’autore del sepolcro di Caterina D’Austria e nella Basilica di Santa Chiara dei sepolcri di Carlo Duca di Calabria e Maria di Valois. Ci troviamo di fronte ad un grande sviluppo della cultura e dell’arte, alla nascita di un Umanesimo ante-litteram. Ne è un grande esempio la costruzione del monastero di Santa Chiara a Napoli tra il 1310 e il 1340, edificato su una struttura romana termale del I secolo d.C. per volere di Sancha d’Angiò, principessa di Maiorca e moglie di Roberto D’Angiò.
Purtroppo i commerci e l’artigianato non fioriscono in questo periodo a Napoli per problemi legati all’appalto delle tasse a privati che soffocano il ceto mercantile e le arti. Per tale motivo le arti della lana e della tintoria continuano a decadere.
Il figlio Carlo muore prematuramente nel 1328 e Roberto dovrà scegliere un altro erede: la nipote Giovanna I. Quest’ultima rimasta senza eredi per la morte prematura dell'unico figlio Carlo, avuto dal primo marito Andrea designò suo erede il cugino e nipote Carlo di Durazzo che sale al trono con il nome di Carlo III. Si tratta di un ramo collaterale che sale al potere nel 1381. La fine del regno dei Durazzo, dopo la morte di Ladislao nel 1414, si ha con la sorella Giovanna II che nel 1415 sposò Giacomo II di Borbone. Ladislao è ricordato come unificatore della penisola italiana ante litteram, colui che coltivò il sogno di unificare l’Italia sotto la corona di Napoli e sotto le insegne dei Durazzo. Provò a conquistare l’Umbria, le Marche, il Lazio ma, colpito da una malattia, non poté portare a termine il suo progetto.
Dopo la breve parentesi dei Durazzo D’Angiò troviamo gli Aragonesi che fanno la loro comparsa a Napoli conquistandola. Giovanna II, priva di eredi, aveva adottato in un primo momento Alfonso V di Aragona. Successivamente, a causa degli attriti con Alfonso che ambiva sfacciatamente al potere ed entrò in conflitto con l’amante della Regina, Sergianni Caracciolo, Giovanna nominò in un primo momento erede Luigi d’Angiò che morì prematuramente. La regina scelse allora il fratello Renato I d’Angiò. Morta la regina nel 1435, gli anni successivi saranno travagliati da un conflitto tra Renato d’Angiò e Alfonso di Aragona che riuscirà a vincere.
Il 10 novembre 1441 Alfonso mise sotto assedio Napoli che cadde il 2 giugno dell’anno successivo, dopo che Renato d’Angiò aveva lasciato la città. L’ingresso formale e trionfale a Napoli di Alfonso sarà formalizzato il 26 febbraio del 1443 quando il Papa gli riconosce il diritto a regnare sulla Sicilia ovvero sul regno di Napoli e sul regno delle Due Sicilie. Prenderà il nome di Alfonso I di Napoli e di Sicilia.
A Napoli Alfonso I, detto il Magnanimo, diede grande impulso alla cultura con la presenza a corte di diverse personalità importanti come Jacopo Sannazzaro, autore dell’Arcadia, il Pinturicchio, il Perugino. Fondò l’Accademia del Pontano. Ci sarà in questo periodo una rinascita delle arti della lana e della seta. Alfonso si farà promotore della soppressione di uno dei seggi della città di Napoli, quello popolare, l’unico seggio non territoriale; toglie dei poteri all’antico giustizierato e l’amministrazione della giustizia viene assegnata alle corti baronali, quindi utilizza i baroni del regno di Napoli come suo “braccio destro”.
La città di Napoli in questo periodo diventa la città egemone più importante del Sud Italia con circa centomila abitanti. Nel 1447 Alfonso I impone ai pastori abruzzesi e molisani di svernare entro i confini del regno e istituisce addirittura una dogana (a Lucera e a Foggia) che doveva segnare il passaggio delle greggi e raccogliere anche le relative tasse: la Dogana della mena delle pecore in Puglia. Ristruttura tutta la rete dei tratturi che favorisce il risollevarsi dell’economia interna ed uno sviluppo economico amplissimo di Napoli. Viene creato un nuovo apparato burocratico. Con la divisione delle corone, il figlio Ferrante occupa il regno di Napoli e il fratello Giovanni occuperà Aragona e le isole di Sicilia e di Sardegna.
Ferrante (o Ferdinando) riprende, da un punto di vista culturale, la politica del padre basata sul mecenatismo e l’accoglimento nel regno di Napoli di una serie di artisti. Partecipa alla guerra contro Firenze schierandosi contro la città e quando salirà al potere Lorenzo Il Magnifico si ritirerà e tornerà nei suoi confini. In questo periodo fu scopertala congiura dei Baroni (1485). Col pretesto di un invito alle nozze della nipote il re Ferrante fa arrestare ed uccidere i congiurati.
A Ferrante succede Alfonso II il quale ha uno scontro con Carlo VIII di Francia che cerca di scendere nella penisola italiana e di occupare la Campania. Quest’ultimo riesce ad entrare addirittura a Napoli e in molte province. Gli Aragonesi durante questo scontro si rifugiano in Sicilia cercando il sostegno del re Ferdinando II, detto Il Cattolico, che manda delle truppe capitanate da Gonzalo Fernandez De Cordoba in soccorso. Grazie all’aiuto di Ferdinando, Alfonso II scongiura l’occupazione francese di Carlo VIII. Ferdinando Il Cattolico sposando Isabella di Castiglia aveva ricostituito il regno di Spagna nel 1516. Il vero obiettivo di Ferdinando Il Cattolico era di rientrare nella spartizione dell’Italia soprattutto con i sovrani francesi. Infatti con il successore di Carlo VIII Luigi XII firmò un trattato l’11 Novembre 1500 che prevedeva la restituzione, ad opera del re francese, del Regno di Napoli al ramo principale della dinastia d'Aragona. Il reggente di Napoli, tuttavia, che nel 1500 era Federico III (si riprendeva la numerazione a partire da Federico II di Svevia, morto nel 1250), decise di abdicare in favore di Luigi XII scatenando così un conflitto tra due potenze europee i cui eserciti si scontrarono sul suolo italiano fino al 1504 (Armistizio di Lione). La battaglia del Garigliano fu combattuta il 29 dicembre 1503 tra l'esercito al servizio del regno spagnolo, guidato da Gonzalo Fernández de Córdoba detto el Gran Capitán e quello al servizio del regno francese comandato da Ludovico II, marchese di Saluzzo. La battaglia avvenne dopo tre anni di scontri nel Mezzogiorno e determinò per oltre due secoli (1503 – 1734) le sorti politiche del Regno di Napoli. L'Armistizio di Lione è un trattato stipulato a Lione il 31 marzo 1504 tra Luigi XII di Francia e Ferdinando il Cattolico che sancì la divisione dell'Italia in due sfere di influenza: Francesi a nord (Ducato di Milano) e Spagnoli a sud (Regno di Napoli).
Il primo viceré di Napoli è Gonzalo Fernandez De Cordoba. Il vice regno spagnolo istituì una serie di organi:
La Camera della Sommaria
Il tribunale della Vicaria
Il tribunale del Sacro Regio Consiglio.
Nel 1516 Carlo V d’Asburgo, figlio di Filippo Il Bello di Spagna e di Giovanna La Pazza, ottiene dal padre la Borgogna e le Fiandre e dalle madre la Spagna e Cuba ed il titolo di re di Napoli, la Sicilia, la Sardegna. Successivamente dal nonno, Massimiliano D’Asburgo, otterrà anche i domini austriaci: “L’impero su cui non tramonta mai il sole”.
Nel 1532 comincia il vice regno di Don Pedro Alvarez de Toledo, che effettua importanti miglioramenti della città. Costruisce una nuova strada (Via Toledo) verso gli alloggi delle truppe spagnole (i cosiddetti quartieri spagnoli), centralizza l’amministrazione della giustizia spostando le corti nell’edificio di Castel Capuano, restaura la “Crypta neapolitana”, riattiva l’antico acquedotto romano. Nel 1538 vi è l’eruzione nell’area di Pozzuoli che genera il Monte Nuovo con grande distruzione dell’area. Don Pedro de Toledo con un bando del 1539 esonerò dai tributi i puteolani che tornavano ad abitare nella loro città. Carlo V visita la città nel 1535 durante il vice regno. Nel 1542 Don Pedro Alvarez de Toledo per sospetti di eresia valdese sopprime l’accademia Pontaniana. Nel 1555 Carlo V, dividerà di nuovo i suoi domini. A Filippo II vanno il Regno di Napoli, la Spagna le colonie dell’America, all’altro figlio, Ferdinando I d’Asburgo, l’Austria, la Boemia, l’Ungheria e il titolo di Imperatore.
Con la Controriforma, suggellata con il concilio di Trento nel 1563, nasce il tribunale dell’inquisizione mai introdotto a Napoli. Figure di spicco del panorama culturale del ‘500 sono Giordano Bruno e Tommaso Campanella entrambi domenicani che studieranno a Napoli presso il convento di San Domenico. Giordano Bruno elabora una nuova teologia secondo la quale Dio è Intelletto e Ordinatore di tutto ciò che è in natura ma, nello stesso tempo, è Natura stessa divinizzata in un'inscindibile unità panteistica di pensiero e materia. Per queste argomentazioni, giudicate eretiche, fu condannato al rogo dall'Inquisizione della Chiesa romana il 17 febbraio del 1600 a Campo dei Fiori a Roma. Anche Tommaso Campanella subisce un processo nel 1599 per eresia a causa delle sue idee elaborate nel suo lavoro “La città del sole”. L'opera, che richiama per molti aspetti la Repubblica di Platone, è presentata sotto forma di dialogo fra due personaggi: l’Ospitalario, Cavaliere dell’ordine di Malta e il Genovese, nocchiero di Colombo. Un’opera utopica dove il potere spirituale e temporale è detenuto da un Principe Sacerdote chiamato anche Sole (o Metafisico) che di fatto regge la città. il governatore deve avere più 35 anni in modo che abbia sufficiente esperienza per poter condurre lo Stato. Il Principe Sacerdote è assistito da altri tre Principi: Sin, cioè la sapienza che si occupa delle scienze, Pon che si occupa della pace e della guerra, Mor, ovvero Amore che si prende cura della procreazione, dell'educazione degli abitanti e del lavoro.
Napoli vive una situazione di stasi segnata da vari disastri naturali. Nel 1631 si verifica l’eruzione di tipo sub pliniano del Vesuvio, le cui ceneri giunsero sino a Costantinopoli causando circa tremila vittime. Nel corso dell’eruzione, esattamente il 16 dicembre, l’arcivescovo di Napoli ordina una processione per chiedere l’intercessione di San Gennaro. L’esposizione della statua di San Gennaro e delle sue ampolle placano l’eruzione. Nel 1656 la peste giunse a Napoli e provocò 250.000 morti su un totale di 450.000 abitanti. A causa dei vari disastri le classi più umili subirono un aumento delle gabelle su tutti i beni. Il 7 luglio del 1647 avvenne la rivolta di Masaniello al grido di “Viva ‘o rre ‘e Spagna e mora ‘o malgoverno”. La rivolta fu sedata con l’uccisione di Masaniello accusato di pazzia e tradito dagli stessi rivoltosi. Ciò provocò un ulteriore indebolimento del dominio spagnolo e la breve parentesi della proclamazione della Real Repubblica Napoletana filo francese.
Tra il 1700 e il 1714 vi fu la Guerra di successione Spagnola tra Filippo V di Borbone nipote di Luigi XIV contro la grande coalizione dell’Aja.
Nel 1707 a Napoli arriva l’esercito Asburgico e l’egemonia spagnola viene sostituita da quella austriaca. Nel 1710 avvenne la scoperta del teatro di Ercolano da parte di un contadino, Ambrogio Nocerino, detto Enzechetta, il quale intento a scavare un pozzo per irrigare il suo orto rinvenne alcuni pezzi di marmo che vendette ad un artigiano di Napoli. Quest’ultimo lavorava per il principe Emanuele Maurizio d'Elboeuf che, venuto a conoscenza dei ritrovamenti, acquistò il pozzo e iniziò le indagini attraverso dei cunicoli sotterranei. Esplorò il fronte della scena, il palcoscenico e i tribunalia. Tuttavia, poco dopo, gli scavi furono interrotti per paura di crolli alle abitazioni circostanti ed il sito venne erroneamente riconosciuto come il Tempio di Giove. Oltre a numerosi marmi, vennero ritrovate otto statue femminili ed una maschile, alcune conservate al museo di Dresda, altre nella Reggia di Portici ed una statua, la Flora, posta su una fontana all'interno dell'orto botanico, colonne in marmo africano, cipollino e giallo antico, un architrave inneggiante al console Claudius Pulcher e dolia in terracotta.
Nel 1734 Carlo III di Borbone fa il suo ingresso nel regno di Napoli. Egli è figlio di Elisabetta Farnese e Filippo V di Spagna. Durante la guerra di successione polacca, al comando delle armate spagnole ,conquistò il regno di Napoli e Sicilia sottraendolo alla dominazione asburgica. Carlo III fu incoronato re delle due Sicilie nel 1735.
Nel 1738 si ha la pace di Vienna che sancisce la fine della guerra di successione polacca. Viene confermato il regno di Napoli a Carlo III e si obbliga lo stesso a cedere gli Stati farnesiani e medicei a favore degli Asburgo e dei Lorena. L’eredità della mamma Elisabetta Farnese rimane nella sua disponibilità. Carlo III incominciò gli scavi ad Ercolano e creò un museo all’interno del palazzo reale di Portici che fu chiamato museo Ercolanense visitabile con un permesso speciale. Il re volle che gli oggetti ritrovati fossero visitabili con un permesso speciale e all’interno del palazzo reale di Portici presso il Palazzo Caramanico creò una sede, in una piccola ala staccata, che adibì a museo.
Da un punto di vista politico Carlo III diede vita alla riforma fiscale attraverso l’istituzione del catasto onciario e poi la codificazione del codice carolino, rimasto incompiuto, i cui promotori e artefici furono due giuristi Cirillo e Di Gennaro.
Carlo tentò di introdurre nel 1746 l’Inquisizione ma non ci riuscì a causa del disaccordo dei napoletani. Nel 1751 espelle ed incamera i beni dei Gesuiti. Si trattò di un periodo di grande fermento sul piano produttivo: Real fabbrica degli arazzi nel 1737, Real laboratorio delle pietre dure nel 1738, Real fabbrica della Porcellana di Capodimonte nel 1739 e Real Fabbrica di maioliche di Caserta attiva tra il 1753 e 1756.
Nel 1759 Carlo lascia Napoli per succedere al trono di Spagna e abdica in favore del figlio Ferdinando di 8 anni. Ferdinando in realtà non era l’erede designato in quanto Maria Amalia di Sassonia e Carlo III ebbero un matrimonio d’amore ed una decina di figli. Non tutti arrivarono all’età adulta. Filippo di Spagna e poi Carlo IV per motivi di salute non poterono succedere al padre. Filippo, che è seppellito nella cappella dei Borboni a Santa Chiara, pare fosse pazzo. Ferdinando terzogenito non aveva ricevuto l’educazione da Re e ciò gli procurò il sopranome di “Re Lazzarone” avendo poca propensione allo studio e alla scrittura. Altro soprannome fu “Re Nasone” per la caratteristica fisica. Carlo affida il figlio ad un consiglio di reggenza presieduto da Bernardo Tanucci. Ferdinando nel 1768 sposa per procura, a Vienna, Maria Carolina figlia di Maria Teresa D’Austria. Anche Maria Carolina non era designata al matrimonio in quanto terza di due sorelle che però avevano contratto il vaiolo. Il contratto matrimoniale prevedeva che la regina sarebbe entrata nel Consiglio di Stato quando avesse partorito un figlio maschio. I regnanti ebbero 18 figli ma non tutti arrivarono all’età adulta. Maria Carolina allontana Tanucci. Ella era una donna molto colta avendo ricevuto un’educazione totalmente diversa da quella del marito. Tanto è vero che, mentre Ferdinando si dedicava ai divertimenti, Maria Carolina si occupava della vita politica. Lei era una illuminista e una massona. Dopo la morte della sorella Maria Antonietta. decapitata in Francia per mano dei giacobini, le sue idee cambiarono. Nel suo operare fu coadiuvata dall’ammiraglio Acton e dalla moglie dell’ammiraglio Lord Hamilton, ambasciatore inglese che si interesserà moltissimo agli scavi nel regno di Napoli. Nel 1779 vengono create le reali seterie di San Leucio. Si ebbe un grosso sviluppo della Marina napoletana e la fondazione dell’accademia della Nunziatella nel 1787. Nel 1798 arriva nel regno di Napoli l’esercito francese e costringe i monarchi a spostarsi a Palermo.
Nel gennaio del 1799 viene proclamata la nascita della Repubblica napoletana che ha un governo provvisorio di 20 membri che poi viene portato a 25. La Repubblica Partenopea dura solo pochissimi mesi e tutti i sostenitori vengono uccisi tra cui Mario Pagano, Eleonora Pimentel Fonseca e Luisa Sanfelice. Ferdinando torna per breve tempo ma nel 1806 parte nuovamente verso la Sicilia in quanto Giuseppe Bonaparte invade il regno di Napoli. Quest’ultimo decide di occupare il trono di Spagna e a Napoli gli subentra Murat marito della sorella di Napoleone, Maria Carolina. Murat era un militare e subito sopprime gli ordini monastici. Lo ricordiamo per importanti interventi culturali: fonda la facoltà di Ingegneria a Napoli nel 1808 e la facoltà di Agraria che occuperà il palazzo reale di Portici. Chiude però definitivamente la scuola di Medicina più importante del sud Italia, la Scuola Medica Salernitana. Istituisce inoltre l’Orto botanico di Napoli e l’Osservatorio astronomico di Capodimonte. Apre uno spazio davanti alla Reggia denominato Largo di Palazzo che poi diventerà l’attuale piazza del Plebiscito. Nel 1815 Murat viene fucilato a Pizzo Calabro e a Napoli rientra Ferdinando. Grazie al congresso di Vienna, che sancisce la fine di Napoleone in Europa, Ferdinando riassume il titolo di re ma prende il nome Ferdinando I re delle due Sicilie. Come ex voto fa costruire la chiesa di San Francesco di Paola di fronte al Palazzo reale di Napoli. Ferdinando, dopo la morte di Maria Carolina, sposa Lucia Migliaccio. Prima della fine del regno di Ferdinando, durato circa 66 anni, nel 1820 si ha la sommossa di Nola. Siamo nel XIX secolo quando cominciano i moti carbonari e risorgimentali che porteranno all’Unità d’Italia. Ferdinando concede una Costituzione che poi si affretta ad abrogare l’anno successivo. Nel 1825 muore (è sepolto nella basilica di Santa Chiara) e a lui successe Francesco I per un breve regno (1825 – 1830). Nel 1830 regna Ferdinando II.
Nel 1839 viene costruita la linea ferroviaria Napoli – Portici.
Nel 1848 c’è un’insurrezione a Palermo durante la quale si alternano diversi governi. L’ondata rivoluzionaria del 1848 tocca anche il Regno di Napoli che si stava espandendo e Ferdinando II si vede costretto a emanare la Costituzione per pacificare la politica interna. Viene scelto come ministro Saliceti, ma considerato troppo liberale viene sostituito. Il nuovo ministero viene guidato da Carlo Troia. L’anno successivo nel 1849 la Sicilia chiede una Costituzione diversa, ma alla fine del 1851 c’è un intervento militare di Ferdinando II per reprimere i moti di Messina.
Francesco II detto “Franceschiello” regna meno di due anni e durante il suo regno si verifica lo sbarco dei Mille. Garibaldi arriva a Napoli il 7 settembre 1860. Il 21 settembre viene proclamata l’annessione del Regno di Napoli e delle Due Sicilie al resto d’Italia con Re Vittorio Emanuele II di Savoia (1861 – 1878). I Savoia, appena occupano Napoli, si premurano di considerare decaduto il Concordato di Terracina che ristabiliva nel 1818 gli ordini monastici soppressi dal Murat e conseguentemente incamerano i beni nello Stato.
Nel 1878 succede Umberto I, detto re buono. Uno degli aspetti importanti della sua politica fu il Risanamento, dopo le varie epidemie di colera della popolazione di Napoli. Vi fu l’abbattimento totale di alcuni quartieri per crearne di nuovi. Furono create nuove strade quali il Rettifilo, il famoso Corso Umberto, Piazza Nicola Amore e la Galleria Umberto I.
Nel 1892 fu fondato “Il Mattino” da Matilde Serao e Scarfoglio. Croce fonda la rivista “La Critica”. Nasce il caffè letterario per eccellenza della città, il “Gambrinus”.
Vittorio Emanuele principe di Napoli, re longevo, partecipò ai due conflitti e per questo motivo fu denominato “re soldato” e “ re vittorioso”. Nel 1943 gli alleati sbarcano a Salerno e Napoli viene bombardata dai tedeschi. E’ la stessa città che si rivolta ai tedeschi con le famose Quattro giornate di Napoli che preparano un terreno fertile all’arrivo delle truppe alleate tra il 28 settembre ed il 1° ottobre. Nel 1944 vi è l’eruzione del Vesuvio e poi il referendum per la scelta della forma di Stato, che a Napoli vide la Monarchia vincente sulla Repubblica.
Storia e luoghi di Napoli
Capitolo II
Neapolis, nome antico della città di Napoli, si trova nel mezzo di due zone vulcaniche, la zona flegrea ed il Vesuvio. Ciò comporta che il suolo sia prevalentemente tufaceo. Il territorio è caratterizzato dalla presenza di varie colline: Vomero, Capodimonte, Posillipo, Monte Echia, l’attuale Pizzofalcone, che derivano dall’ attività vulcanica del periodo preistorico.
A Napoli mancano testimonianze del paleolitico e del mesolitico. I primi insediamenti sono di età neolitica. In particolare sono stati trovati reperti nella stazione di via Toledo, nella zona dello scavo della metropolitana. Del periodo del rame sono state trovate tracce nelle zone di Materdei e di Fuorigrotta, dell’età del bronzo abbiamo attestazioni nella stazione di piazzale Tecchio. I ritrovamenti sono simili a quelli trovati nel villaggio di Nola i cui abitanti, molto probabilmente, avevano avuto contatti con la civiltà micenea che si era sviluppata in piena età del ferro in Grecia.
La zona di Napoli aveva degli insediamenti già nell’Ottavo secolo a.C. fase precedente la colonizzazione vera e propria avvenuta per opera dei Greci di Cuma. I naviganti greci andavano per mare viaggiando sotto costa creando vari punti di approdo. I poemi Omerici parlano di queste avanscoperte. Lo stesso Odisseo conosceva le Colonne d’Ercole e la pericolosità di Scilla e Cariddi.
Secondo il mito, Napoli era il luogo dove vivevano le sirene come Partenope. La leggenda narra che le sirene, con il fascino della loro musica, attiravano i marinai che passavano nelle vicinanze; le navi si avvicinavano allora alla costa e si fracassavano e le Sirene divoravano gli imprudenti. Ulisse avvisato dalla maga Circe si fece legare all’albero maestro della nave e obbligò i suoi compagni a tapparsi le orecchie con la cera. Partenope, per l’onta di non essere riuscita ad ammaliare Ulisse, si uccise. I Greci navigavano per raggiungere i luoghi di estrazione dei metalli ed avevano creato ad Ischia (Pithecusa) un approdo per le navi. A Pithecusa, infatti, sono stati trovati giacimenti di metallo ed anche segni di lavorazione dello stesso. Ma Pithecusa non fu la prima colonia. Tucidide è molto preciso nella datazione che dà delle colonie greche. La prima colonia in assoluto in Occidente è Cuma. Ischia era un emporio. Sull’isola è stata trovata una bellissima coppa con la scritta “Io sono la bella coppa di Nestore e chi berrà da questa coppa subito lo prenderà il desiderio di Afrodite dalla bella corona”. Questo ritrovamento è importantissimo perché è la prima attestazione di scrittura alfabetica in Occidente. La coppa di Nestore, re di Piro, si trova al museo di Lacco Ameno. Ovviamente non è l’originale citata da Omero nell’Odissea che era decorata con borchie in bronzo e oro. La coppa risale a prima della colonizzazione e fondazione di Cuma. Su di essa, dalla parte opposta dell’iscrizione, è raffigurata una scena di naufragio in pittura vascolare di età arcaica che non si distingue bene.
Tucidide ci indica con precisione la nascita di Cuma scrivendo che era stata fondata venti anni prima di Siracusa fondata nel 734 a. C.. I fondatori di Cuma sono i coloni di Calcide, città sull’isola di Eubea a nord di Atene. Essi erano stati scacciati dalla madre patria. Cuma diventa una cittadina ricchissima ed inizia ad espandersi verso Miseno, Pozzuoli e fonda Partenope, dal nome della sirena Partenope, nei pressi dell’isolotto di Megaride. L’isola di Megaride, dove oggi sorge il Castel dell’Ovo, era staccata dalla terra ferma ed il ponte che noi percorriamo oggi fu costruito durante il Risanamento del 1884-85 al tempo del sindaco Nicola Amore. Qui secondo il racconto di Plinio, nella “Naturalis Historia”, era sepolta la sirena Partenope: “Partenope a tumulo sirenis appellata”.
La città nasce e lentamente si estende verso Pizzofalcone ed il monte Echia. Questo è un punto strategico in quanto si trova al centro del Golfo di Napoli tra Capo Miseno e Punta Campanella. In via Nicotera, nei pressi della famosa via Chiaia, è stata rinvenuta una necropoli. Della vita del sito si registra un’interruzione violenta, la città venne distrutta forse a causa dell’importanza raggiunta. Alcuni pensano che la distruzione di Partenope sia stata causata da Cuma gelosa della sua prosperità, altri ritengono che sia stata distrutta ad opera degli Etruschi di Capua, quest’ultima ipotesi molto più plausibile. La datazione della città si fa ricadere tra il 485 a. C. ed il 475 a. C. . Ricordiamo che nel 524 a. C. vi era già stata una battaglia terrestre tra Etruschi di Capua contro i Cumani ed i Greci. Il tiranno dell’epoca era Aristodemo chiamato l’effeminato, “il malacos”, famoso perché diede accoglienza a Tarquinio il Superbo l’ultimo re di Roma.
La città di Napoli divenne presto fiorente ed anche i Sanniti tra il 328- 326 a.C. cercarono di conquistarla ma la città, all’epoca, aveva un sistema difensivo inespugnabile. Il nome Neapolis, cioè città nuova, nasce per distinguerla da Paleapolis che era la città antica Partenope. Napoli nel 290 a. C. diventa federata di Roma. Questo voleva dire che forniva un solo contingente di navi per la flotta navale. Prima della fondazione di Puteoli Napoli fu il porto più importante.
Napoli nel 90 a.C. diventa municipio romano con la Lex Iulia. Ciò significa che la città godeva solo di diritti politici a differenza della colonia vera e propria che godeva sia diritti politici che civili. Nel II secolo d.C. a Napoli si celebrano i giochi italici romani augusti. I Sebastà erano i giochi olimpici più importanti celebrati in Italia con cadenza quinquennale tra luglio e agosto. Durante gli scavi per la metropolitana di Piazza Nicola Amore sono stati trovati importantissimi edifici che ci hanno confermato che Napoli era sede dei “Sebastà”. E’ stato trovata una parte dello stadio dove si correva e un tempio dedicato a Cesare Augusto con le iscrizioni dell’elenco di tutti i vincitori delle gare disputate durante i giochi isolimpici. Con lo sviluppo di Napoli viene abbandonata la zona di Pizzofalcone e di Megaride e la città si stabilisce in un pianoro ad est di Partenope su un territorio di circa 72 ettari (Pompei era 66 ettari). Gli abitanti della nuova città si stabiliscono qui perché era una zona pianeggiante protetta dai torrenti della Sanità, dalla collina del Vomero e da quella di Capodimonte. Lo schema della città era uno schema Ippodameo, da Ippodamo di Mileto il quale visse nel V secolo a. C.. Egli teorizzò la suddivisione delle città: in primis veniva individuata la zona dell’agorà e poi tutti gli altri assi viari che servivano per la comunicazione. Lo schema Ippodameo di Napoli, adottato anche per Pompei, è impiantato su tre decumani e 22 – 23 cardini. Napoli aveva molte porte. Attualmente è possibile vedere porta Nolana, porta Capuana ma la più conservata è porta San Gennaro costruita nel 928 d. C. . Queste porte furono dipinte in periodo vicereale, nel 1656, da Mattia Preti il quale sui sovrapporti dipinge i santi protettori di Napoli durante un epidemia che aveva colpito la città.
Vari i monumenti e le tracce di epoca greco romana: le mura greche di Piazza Bellini, il civico 14 di via Costantinopoli in cui è stata trovata una torre di difesa, Sant’Aniello a Caponapoli che era l’acropoli della vecchia città. In via dei Tribunali il campanile romanico della Pietrasanta assemblato con materiali di spoglio del teatro romano. Resti di una strada all’interno del palazzo Corigliano, la statua del Nilo nell’area della colonia alessandrina, in via Anticaglia tracce del teatro romano scoperto, complessi termali sotto la chiesa di Santa Chiara, il tempio dei Dioscuri attualmente San Paolo Maggiore, Napoli sotterranea con acquedotti romani, scavi dell’antico Macellum sotto San Lorenzo, scavi archeologici sotto il Duomo, il complesso termale di Carminiello ai Mannesi, le mura costiere greche trovate a via Mezzocannone nel cortile dell’università. Resti archeologici della chiesa di San Marcellino, la fontana cosiddetta delle “zizze” che è un sarcofago romano, la colonna romana inserita nello spigolo di un palazzo, tracce di mura greche all’Ospedale degli Incurabili rampa Maria Longo, resti di una domus romana nello scantinato del Banco di Napoli nei pressi di Castel Capuano. Fuori della città segnaliamo la cripta neapolitana, la grotta di Seiano e la villa del Pausillypon nella zona del parco Virgiliano. Infine la villa di Lucullo, molto probabilmente sull’isola di Megaride, la zona delle catacombe ed i resti di acquedotto romano ai Ponti Rossi.
Nel periodo estivo tutti i senatori e nobili di Roma si trasferivano in Campania, “Terra felix”, per il clima, la bellezza e la presenza delle terme. Nella zona di Posillipo il liberto Publio Vedio Pollione, diventato ricchissimo, aveva costruito la sua villa alla quale aveva dato il nome di Pausylipon data la bellezza del luogo che sosteneva potesse calmare i mali ed i dolori. Publio Vedio Pollione era amico dell’imperatore Augusto al quale lasciò in eredità tutti i suoi averi compresa la villa. Per collegare la villa alla via principale era stata costruita una grotta che serviva anche un piccolo villaggio che si estendeva fino a Marechiaro e alla Gaiola, attualmente parco marino protetto. Il nome Marechiaro deriva dal latino “mare planum”, cioè calmo ma, nel tempo, si è modificato in mare chiaro. In questo luogo è presente la finestrella con un geranio, famosa per la canzone di Salvatore Di Giacomo. Proseguendo sulla costa troviamo, villa Rosebery attualmente residenza del presidente della Repubblica Italiana, villa Volpicelli e Palazzo Donn’Anna che venne costruito nel XVII secolo, nel periodo vicereale, dall’Architetto Cosimo Fanzago. Donn’Anna di Carafa era la moglie del vicerè Ramiro Felipe Núñez de Guzmán.
Dopo il lungomare di Chiaia troviamo l’isolotto di Megaride dove si erge Castel dell’Ovo. Presumibilmente era questo il luogo dove sorgeva la villa di Lucullo famoso per i suoi pasti. Si suole definire “luculliano” un pranzo quando si vuole sottolineare la bontà e l’abbondanza delle portate. Lucullo si faceva portare dalla Sicilia il “garum” (salsa di pesci azzurri e interiora che venivano fatte macerare). Apicio, grandissimo scrittore latino di ricette, ne descrive le modalità di preparazione. La villa di Lucullo era molto grande tanto da raggiungere il Monte Echia.
In piazza Municipio grazie ai lavori della metropolitana sono state trovate tre barche romane e dei paletti che ci indicano il punto esatto dove si trovavano i pontili. Le mura di Napoli hanno due fasi diverse: la prima del V secolo a. C. con mura ad “emplekton” con tufo grigio. Nel IV secolo mura sempre con la tecnica ad “emplekton” ma sfalsate rispetto a quelle precedenti. Le mura romane ricalcano quelle greche. Nel periodo vicereale le mura si allargano notevolmente. Napoli è stata definita una città inespugnabile. Ricordiamo, per esempio, che per conquistarla Belisario, comandante bizantino, utilizzò uno stratagemma. Fermò l’afflusso dell’acqua alla città ed entrò dall’acquedotto. Le mura subiscono nel tempo vari allargamenti per inglobare parti nuove della città e si spingono fino al mare. Tutti i blocchi di costruzione derivano dalle latomie di via Nuova Poggioreale sotto Santa Maria del Pianto. Castel Capuano viene inglobato nel periodo normanno. Durante il periodo angioino Carlo I d’Angiò fa costruire il Castel Nuovo, chiamato a Napoli Maschio Angioino, e la città diviene capitale del Regno.
Nel periodo angioino viene creato il Forte del Carmine alla fine di via Garibaldi, tra il 1324 ed il 1328, e si sviluppa la zona del porto con il molo angioino. Nel 1425 Giovanna II fa inglobare via Medina nel circuito delle mura. Con gli aragonesi c’è una espansione verso Castel Capuano e verso Castel Nuovo. In via Rossaroll nei pressi del Castel Capuano ci sono ancora tracce delle torri cilindriche che chiudevano le vecchie mura. Con Don Pedro de Toledo viene creata via Toledo e le mura inglobano Castel Nuovo. Porta Capuana fu voluta nel 1484 da Ferrante D’Aragona fu così detta perché era rivolta verso Capua. Nello stesso periodo a Capua fu eretta Porta Napoli. Porta Capuana e Porta Nolana hanno la stessa struttura con le torri della fede e della speranza.
Nel periodo vicereale Don Pedro de Toledo costruisce il suo palazzo nell’attuale piazza Trieste e Trento ed ingloba piazza Dante laddove prima c’era una strada stretta tanto che non riuscivano a passare due carrozze. La stessa Port’Alba era un passaggio creato tra le mura dai napoletani per evitare di fare un lungo giro per raggiungere la città che si era sviluppata fuori le mura.
Per comprendere meglio lo sviluppo di Napoli si può partire dalla famosa Tavola Strozzi, custodita nella Certosa di San Martino, eseguita molto probabilmente da Francesco Rosselli. Il Rosselli era un cartografo, miniaturista e orafo di Firenze molto famoso. La tavola gli fu commissionata da Filippo Strozzi che era un mercante fiorentino e rappresenta una veduta di Napoli dal porto. Il quadro raffigura il rientro della flotta aragonese che aveva combattuto contro il pretendente al trono Giovanni D’Angiò il 6 Luglio del 1465. Questo episodio storico ci permette di datare la tavola tra il 1465 ed il 1487. Infatti nel 1487 viene costruita la lanterna per il molo Angioino che nel quadro non è presente.
Castel dell’Ovo è stato costruito dai normanni su tantissime stratificazioni precedenti, in primis la villa di Lucullo comprata dall’erario imperiale nel V secolo d. C.. Qui verrà esiliato l’ultimo imperatore d’Occidente Romolo Augusto. Tra il 492 ed il 496 diverrà un cenobio con monaci Basiliani provenienti dalla Pannonia con le reliquie del loro santo fondatore Abate Severino. Il cenobio è una comunità di monaci. La parola viene dal greco coinos (comune) e bios (vita), quindi la vita in comune. Nel VI secolo d. C., grazie alla presenza dei monaci, diventa un importante centro culturale. Nel 920 l’isola di Megaride viene completamente abbandonata e se ne ha notizia solamente nel 1000 d.C. Nel 1140 Ruggero II il normanno conquista la città e costruisce sull’isola una fortificazione che chiamerà Normandia. Ma è nel 1154 con Guglielmo I, detto il Malo, che diventa sede della corte del Re. Il castello viene modificato sotto Federico II e chiamato castello Marino o castello del Mare. Era una fortezza talmente sicura che l’imperatore ci custodiva il tesoro regio. Con Carlo D’Angiò il castello viene in parte modificato ed è molto probabilmente simile a quello che vediamo nella tavola Strozzi.
In epoca angioina viene costruito il Castel Nuovo ad opera dello stesso architetto che aveva seguito i lavori nel Castel dell’Ovo, Pierre de Chaulnes. La fortificazione dell’isolotto di Megaride prende il suo attuale nome Castel dell’Ovo ai tempi di Giovanna I. Il nome del castello risale alla leggenda di un uovo che avrebbe nascosto Virgilio nelle fondamenta. Virgilio, nel Medioevo, era considerato un mago. Si raccontava che avesse messo un uovo in una caraffa e questa in una gabbia appesa ad un architrave nei sotterranei di Castel dell’Ovo, che avesse chiuso la porta e buttata la chiave. La leggenda concludeva che se quest’uovo si fosse rotto il Castello sarebbe stato distrutto e tutti i napoletani sarebbero caduti in rovina. Al tempo di Giovanna I nel castello ci fu il cedimento dell’arco, visibile nella tavola Strozzi, per motivi strutturali. Si sparse la voce tra il popolo che si era rotto l’uovo e che il castello e la città stavano per cadere in rovina. Giovanna I uscì dal castello ed annunciò ai napoletani che l’uovo era stato immediatamente sostituito per cui non ci sarebbe stata nessuna calamità. Nel periodo vicereale ed in quello borbonico la zona venne in parte abbandonata ed i pescatori utilizzavano l’isola come approdo per le loro barche. Con il risanamento di Napoli, regolato dalla legge del 27 Novembre 1884, viene creato il ponte di collegamento tra l’isola ed il borgo di Santa Lucia. Attualmente all’interno del castello c’è il museo etno preistorico che conserva materiali databili da 700.000 anni a. C. a 3.000 anni a. C.. All’interno troviamo la chiesa di San Salvatore, la sala gotica del periodo angioino, il romitorio basiliano di San Patrizio che è una chiesa ipogeica. Nella parte sovrastante si trova il piazzale d’armi: un bellissimo terrazzo panoramico con i cannoni aragonesi. Nella sala delle colonne invece ci sono i resti del Castrum Lucullanum e della villa di Lucullo.
La costruzione di Castel Capuano è attribuita a Guglielmo il Malo, il quale originariamente l’aveva fatta costruire per scopi difensivi in caso di attacchi dalla zona orientale, anche perché la sua residenza era ancora a Castel dell’Ovo. Successivamente, con gli angioini e con gli aragonesi, diventerà un luogo di residenza reale con feste e banchetti. Con il passare del tempo, agli inizi del 1500 Carlo V lo dona al principe di Sulmona però, pochi anni, dopo Don Pedro de Toledo lo esproprierà per trasformarlo nella sede dei tribunali. Da ciò si evince che Don Pedro de Toledo, in questa sua riorganizzazione generale dell’urbanistica, vuole anche riorganizzare quella che è la struttura giudiziaria. Per tale motivo decide che all’interno di Castel Capuano debbano essere ricondotte tutte le camere del tribunale di Napoli e l’intera struttura, che era inizialmente tipica del castello medievale quindi turrita e con i merli, si trasforma ad opera di un progetto di Ferdinando Manlio e questo avviene alla metà del 1500.
Castel Capuano ha occupato una posizione abbastanza strategica perché era un punto di convergenza di tutti i punti viari. Al tribunale c’era un via vai di carrozze e di avvocati vestiti alla spagnola (tutti in nero). C’era una colonna che veniva detta “la colonna dell’infamia”, la colonna della vicaria, dove si veniva incatenati per i reati di truffa. All’interno vengono riuniti i vari tribunali: il tribunale della vicaria, che era costituito da due camere, 2 civili e 2 penali; il tribunale della sommaria, che era quello che si occupava delle questioni fiscali e finanziarie; il sacro regio consiglio e quello della baliva che si occupava delle cause che avevano un valore minore intorno ai trenta carlini le monete dell’epoca. Questa trasformazione in tribunale fa perdere al castello tutte le decorazioni interne. Oggi quello che si vede è il grande salone della corte d’appello che viene chiamato anche il salone dei busti perché lungo le pareti ci sono i busti di vari magistrati, studiosi di diritto legati alla scuola della giurisprudenza di Napoli. Tutto il salone è affrescato con le dodici province del regno e le allegorie nella parte alta opere di Antonio Cacciapuoti, nel settecentesco che lavora in epoca borbonica al riallestimento di questa sala. Dietro questa prima grande sala ce ne è un’altra che riprende le stesse tipologie di affreschi dove si trova un grande ritratto di Carlo di Borbone. Si passa alla piccola cappella della sommaria all’interno della quale si riunivano i membri del tribunale della sommaria per le loro decisioni. Interessanti sono gli affreschi che si conservano pressoché intatti e sono tutte opere attribuite a Pedro Rubiales, un pittore che lavora insieme a Giorgio Vasari. Nella volta, su cui campeggiano eleganti stucchi di autore ignoto, si possono ammirare l'Ascensione, la Resurrezione, il Noli me tangere, Cristo che appare alla Madonna dopo la Resurrezione e la Pentecoste. Personificazioni delle Virtù e figure grottesche sono inserite negli spazi liberi della volta. Nei riquadri delle pareti altri affreschi a tema religioso: a sinistra la Crocifissione, la Deposizione e La salita di Cristo al Calvario; a destra, Il Giudizio Universale, gli Eletti e Caronte che traghetta le anime dei peccatori. La tavola sull'altare, con il Compianto su Cristo morto in cui appare sullo sfondo la mole stellare di Castel Sant'Elmo denota in maniera chiara l'adesione del pittore al ciclo culturale del manierismo.
Il Castel Nuovo è voluto da Carlo I d’Angiò tra il 1279 ed il 1284. Conserva, così come erano in origine, la sala dei baroni e la cappella di Santa Barbara. Grazie alla presenza degli Angioini, si sviluppa notevolmente l’arte gotica. Questo è il periodo della costruzione di San Lorenzo, Santa Chiara e della presenza di importanti artisti a Napoli come Tino da Camaino e Giotto. Nel periodo aragonese Alfonso V il Magnanimo fa ristrutturare il castello da architetti catalani, locali e soprattutto toscani. Nel periodo borbonico il re fa distruggere la zona circostante al castello e vi crea giardini, aiuole e strade, addirittura in una notte, perché la popolazione era contraria che il re abbattesse le mura dove erano i mercatini. Qui c’era un teatro dove venivano rappresentati spettacoli con la maschera di Pulcinella. Oggi c’è il Teatro Mercadante.
Il Castel Nuovo ha cinque torri: torre San Giorgio, torre Beverello, torre d’Oro, la torre di guardia e la torre di mezzo. All’ingresso del castello tra la Torre di Mezzo e la Torre di Guardia c’è l’arco trionfale eretto da Alfonso V il Magnanimo per il trionfo del 26 Febbraio 1443 quando fa il suo ingresso a Napoli ed è rappresentato come un imperatore romano. Quest’arco è una delle poche rappresentazioni rinascimentali a Napoli insieme alla chiesa di Santa Maria a Nilo. Nella realizzazione del progetto dell'arco trionfale furono coinvolti artisti di varia tendenza come Pere Johan, Guillem Sagrera, Francesco Laurana, Domenico Gagini, Pietro di Martino da Milano, dalla cui collaborazione nacque una sintesi di influssi e modi. Sopra all’arco è raffigurato San Michele Arcangelo, protettore della casa reale, subito sotto due divinità fluviali e poi quattro virtù. La porta bronzea sottostante è una copia. L’originale è nel museo civico. La porta ha una cannonata sul lato interno. Il motivo di detto squarcio anomalo è dovuto al fatto che Carlo VIII aveva preso la porta come bottino di guerra a Napoli e la stava portando in Francia. Durante il rimpatrio via mare ci fu una battaglia contro i genovesi alleati dei napoletani. I francesi usarono la porta come scudo. I genovesi ebbero la meglio e riconsegnarono la porta alla città di Napoli. Questa porta, voluta da Ferrante I d’Aragona, raffigura il suo scontro con Giovanni d’Angiò nel 1462.
Nel 1307 all’interno del castello fu edificata la cappella di Santa Barbara. La facciata ha un bellissimo portale marmoreo di Andrea dell’Aquila con un grande rosone che dà luminosità all’interno della chiesa. La chiesa, con architettura gotica, è tutta in tufo giallo le finestre sono molto lunghe ed illuminano l’unica navata. Oggi non sono più visibili le decorazioni pittoriche, molto probabilmente fatte da Giotto, è rimasto solo qualche piccolo affresco di scuola giottesca forse di Maso di Banco suo allievo. Salendo le scale alla sinistra della chiesa si arriva alla Sala dei Baroni con il soffitto stellato, tipico dell’arte gotica, e le costolature degli archi ogivali. Anche questo luogo era stato affrescato da Giotto con dipinti di temi civili o politici. Il nome della sala è legato ad un accadimento storico del 1486 quando Ferrante per sancire la riappacificazione con i baroni che un anno prima avevano congiurato contro di lui li invitò alla cerimonia nunziale della figlia. Era un tranello, il re li fece catturare ed uccidere. Sotto questa stanza è stata trovata la fossa del miglio utilizzata per le derrate alimentari e tombe molto più antiche. La leggenda vuole che nei fossati ci fossero dei coccodrilli e che Giovanna II d’Angiò vi buttava i suoi amanti che venivano divorati. Sulla collina, a 250 metri sul livello del mare, si trova Castel Sant’Elmo. Nel X secolo su quello stesso luogo già esisteva una chiesa dedicata a Sant’Erasmo da cui prese nome il castello.
Il bel forte fu voluto da Roberto D’Angiò nel 1329. Gli architetti dell’opera furono Roberto De Vico e Tino da Camaino, quest’ultimo anche scultore. Tino da Camaino ha eretto anche il monumento funebre di Caterina D’Austria in San Lorenzo Maggiore. Il castello, distrutto da un fulmine che colpì la polveriera nel 1587, ha una pianta stellata tipica del periodo aragonese. Fu carcere e vi furono rinchiuse molte personalità come Tommaso Campanella e Luisa Sanfelice artefice della rivoluzione partenopea del 1799. I castelli di Napoli in realtà erano 5: Castel dell’Ovo, Castel Capuano, Castel Nuovo e Castel Sant’Elmo perché manca il Forte del Carmine l’unico che è stato abbattuto. Essi erano strategici per il sistema difensivo della città. Forte del Carmine si trovava ai limiti della città orientale in corrispondenza di piazza mercato e ne restano poche parti tra via Marina e piazza Mercato. Si chiamava Forte del Carmine per la chiesa preesistente. Esso serviva a difendere la città in caso di attacchi dal lato orientale. Il Forte del Carmine abbattuto nel 1906 era stato costruito nel 1482. Non abbiamo tracce tranne una torre su via Marina.
Da San Gregorio Armeno a S. Pietro a Maiella
Capitolo III
S. Gregorio Armeno
Tra gli itinerari più conosciuti del centro storico di Napoli è da annoverare S. Gregorio Armeno soprattutto per la tradizione presepiale che, nel periodo natalizio, rende questa zona la più frequentata di Napoli. La caratteristica del centro storico è la stratificazione nel tempo del sito che ha reso possibile, attraverso una serie di scavi, come quelli presenti sotto la chiesa di S. Lorenzo, l’identificazione dell’impianto originario e della sua suddivisione in insule. In origine la zona era caratterizzata da terrazzamenti, dislivelli superabili con rampe di scale che, nel corso dei secoli, hanno subito una serie di modificazioni sia nell’orografia del territorio sia nella destinazione d’uso di spazi e piazze. L’attuale piazza S. Gaetano corrisponde all’antica agorà greca poi foro romano e successivamente piazza del mercato fino a Carlo D’Angiò, il quale decretò lo spostamento del mercato fuori dal centro storico, nell’attuale piazza del Mercato. Via dei Tribunali corrisponde al decumano massimo mentre via dell’Anticaglia corrisponde al decumano superiore. In questa si leggono ancora oggi le tracce della presenza di un teatro romano riconoscibile dalla curvatura della strada. In via San Gregorio Armeno troviamo l’omonima chiesa che si suppone sia stata costruita sui resti di un antico tempio, dedicato a Cerere, descritto da Cicerone in alcuni suoi scritti. Immediatamente si nota il caratteristico Campanile costruito tra due palazzi: il monastero di S. Gregorio e l’ex monastero di S. Pantaleone. Originariamente era un ponte utilizzato dalle monache, sostituito, nel corso del ‘700 dal campanile. Nell’Ottavo secolo le monache, a causa dell’iconoclastia, scappano da Costantinopoli e arrivano a Napoli con le reliquie di S. Gregorio. Vengono ospitate inizialmente nella chiesa di S. Gennaro all’Olmo, che si trova all’inizio di via S. Gregorio Armeno, dal lato destro risalendo via S. Biagio dei Librai. Nel 1025 il duca Sergio decreta l’unione dei conventi di S. Pantaleone e S. Salvatore per la costituzione di una nuova struttura, dedicata a S. Gregorio Armeno con la chiesa posta al centro del convento secondo i canoni bizantini. La chiesa, come la conosciamo oggi, è frutto di un restauro avvenuto nel corso del ‘500 ad opera dell’architetto Cavagna, il quale crea l’ingresso su via S. Gregorio Armeno. La facciata è costruita su due livelli con tre grandi arcate sovrastate da tre grandi finestroni che corrispondono alla parte del coro più antica utilizzata dalle monache di clausura per seguire le celebrazioni. Il portale è molto elaborato e presenta le figure di S. Stefano, S. Lorenzo e i quattro evangelisti. E’ ancora quello originale di manifattura napoletana del ‘500.
Tra il 1545 e 1563 il Concilio di Trento stabilì che tutte le chiese dovessero essere a navata unica in modo da focalizzare l’attenzione del fedele sull’altare maggiore. Nell’ampia zona del presbiterio, ai lati dell’altare maggiore, vi è il comunichino. E’ una grande grata realizzata in ottone e rame da Giandomenico Vinaccia alla fine del 1600, attraverso la quale le monache potevano prendere la comunione. All’interno della sala del comunichino c’è una scala santa che le monache salivano in ginocchio i venerdì del mese di marzo. Una delle caratteristiche della chiesa è il soffitto a cassettoni lignei con sculture e tele di Teodoro D’Errico pittore fiammingo del 1585, alcune delle quali, all’inizio del 1600 non erano state ancora realizzate. Le tele raffigurano le storie di vita dei santi le cui reliquie sono custodite nel complesso conventuale. Nel 1757 venne creato il coro d’inverno al di sopra del soffitto della chiesa, il che comportò l’apertura in alcuni punti del soffitto stesso. Questo coro permetteva alle monache anziane o con difficoltà motorie di assistere alle funzioni. Tra gli archi e i finestroni, in una fascia intermedia, ci sono le cosiddette gelosie da dove le monache potevano affacciarsi per vedere la chiesa sottostante.
La chiesa è sempre stata molto ricca e le decorazioni barocche ne sono una dimostrazione. Ciò è dovuto al fatto che le fanciulle che entravano come novizie provenivano da famiglie nobili e agiate e portavano la propria dote nelle casse della chiesa. Le pareti sono affrescate da Luca Giordano al livello dei finestroni, sopra l’ingresso delle singole cappelle e nella parete della controfacciata per un totale di ben 52 riquadri che rispondono ad un piano iconografico ben preciso.
In uno di essi è raffigurata la partenza delle monache da Costantinopoli con le reliquie del Santo. L’editto che causò l’esodo da Costantinopoli è del 726, ma in questa scena e nell’altra dell’arrivo delle monache a Napoli l’ambientazione è del 1600 come si evince anche dai costumi dell’epoca.
La chiesa verrà ristrutturata nel corso del ‘700 su progetto di Nicola Tagliacozzi Canale e verranno aggiunte le due cantorie (organi laterali) una delle quali è sull’ultima cappella a destra intitolata a Santa Patrizia dove sono conservate le sue reliquie provenienti dal monastero della Santa, compatrona di Napoli. Il prodigio della liquefazione del sangue di Santa Patrizia avviene, secondo la tradizione, tutti i martedì ed il 25 Agosto. Le cappelle della chiesa venivano date in patronato alle famiglie nobili per seppellirvi i propri morti. Nella terza cappella a destra troviamo le tele di Francesco Fracanzano che rappresentano le storie di S. Gregorio.
L’altare maggiore è tutto decorato con la tecnica del commesso marmoreo, cioè con l’utilizzo di varie parti di marmo per comporre un disegno. Tra i maestri napoletani di quest’arte ricordiamo Dionisio Lazzari. Sull’altare si può ammirare il dipinto dell’Assunzione di Giovan Bernardo Lama. Esternamente alla chiesa, risalendo la strada in direzione di piazza San Lorenzo, sulla sinistra si trova l’ingresso al chiostro a cui si accede attraverso una rampa della fine del 1600. Le pareti sono ricoperte da affreschi di Giacomo Po dell’inizio del 1700. Ai lati dell’ingresso si trovano le ruote per lo scambio di viveri con le monache di clausura. Il chiostro venne successivamente ampliato dall’architetto Vincenzo della Monica. Una caratteristica del chiostro è di avere un lato aperto costituito da logge panoramiche. Al centro del chiostro è collocata una grande fontana con due sculture a grandezza naturale del Cristo e la Samaritana realizzate da Matteo Bottigliero nel 1730.
Dal chiostro si accede alla cappella della Madonna dell‘Idria la cui struttura è bizantina ma le decorazioni sono settecentesche con affreschi di Paolo de Matteis. Essa si trova ad un livello inferiore rispetto al piano del chiostro e dovrebbe far parte della chiesa originaria di cui probabilmente era la cripta. Le monache di clausura si dedicavano molto alla cucina e si racconta che abbiamo modificato la ricetta originaria della sfogliatella.
Uscendo dal chiostro proseguendo su via S. Gregorio Armeno arriviamo a piazza di S. Gaetano da Thiene. Sulla destra c’è l’ingresso della chiesa di S. Lorenzo Maggiore che con il suo campanile rappresenta, sin dall’epoca greca, il centro della città. La chiesa di S. Lorenzo, come la conosciamo oggi è di epoca angioina, ma sappiamo che precedentemente c’era una chiesa di epoca paleocristiana dedicata a S. Lorenzo abbattuta poi da Carlo D’Angiò per far spazio alla nuova costruzione. La chiesa antica era a tre navate con colonne di spoglio. L’impianto originario è oggi riconoscibile da listelli d’ottone inseriti nel pavimento.
La successiva chiesa angioina ha un’unica navata con cappelle laterali
Nella chiesa di San Lorenzo la zona absidale rappresenta un unicum dell’architettura dell’epoca in quanto è caratterizzata da archi rampanti esterni tipici del gotico e un deambulatorio semicircolare intorno all’altare maggiore con nove cappelle radiali. Le influenze del gotico si notano anche nella struttura interna della cupola caratterizzata da costolature che permettono l’apertura di grandi finestroni allungati. Nel transetto si conservano alcuni affreschi di Montano d’Arezzo con le Storie della Vergine, la Natività e frammenti della Dormitio Virginis che danno un’idea delle originarie decorazioni di stampo giottesco. Nel pavimento sono stati ritrovati i mosaici dell’antica basilica visibili grazie a lastre di vetro. Nella cappella, dedicata a S. Antonio, opposta a quella di Montano d’Arezzo ritroviamo decorazioni seicentesche a commesso marmoreo di Cosimo Fanzago. All’interno del cappellone di Sant’Antonio ci sono due tele di Mattia Preti.
La cappella Cacace è in stile barocco e sull’altare c’è un dipinto di Massimo Stanzione mentre, a lato, troviamo le tombe realizzate per la famiglia Cacace da Andrea Bolgi nel 1653. Il particolare del monumento funebre è la volontà di riprodurre quasi una scena teatrale con la figura di Vittoria de Caro inginocchiata verso l’altare maggiore che richiama l’impostazione delle opere del Bernini.
All’epoca, la città di Napoli era divisa in sedili (o seggi) tutti collegati alle famiglie nobili tranne uno destinato al popolo. Rappresentava quello che oggi definiremmo consiglio comunale, cioè un’organizzazione che gestiva l’amministrazione della città. All’esterno del convento, visibili dalla piazza, sono presenti i simboli dei vari seggi in terracotta.
Il primo cappellone sulla destra è dominato dal monumento sepolcrale di Ludovico Aldomorisco, consigliere del re Ladislao di Durazzo, eseguito con gusto tardo-gotico dallo scultore Antonio Baboccio da Piperno che, completando l'opera nel 1421, vede in essa l'ultima sua opera documentata.
Nella sala capitolare dei monaci vi sono affreschi che risalgono all’epoca spagnola, attribuiti al Rodriguez ed è visibile l’albero genealogico dei vari priori e monaci all’interno del monastero.
San Lorenzo è sempre stato un centro vitale anche per la storia di Napoli: qui Alfonso D’Aragona riconobbe suo figlio Ferrante, figlio naturale nato fuori dal matrimonio, il quale dovette essere legittimato dal Papa per avere il passaggio sul trono. Nello stesso luogo, probabilmente, Boccaccio incontrò per la prima volta Fiammetta identificata con una tale Maria D’Aquino imparentata forse con re Roberto D’Angiò e che divenne poi la sua musa ispiratrice. Anche Francesco Petrarca si trattenne a lungo in questo convento. Addirittura lui stesso racconta di una notte di preghiera per scongiurare un nubifragio che si stava abbattendo sulla città.
In maniera fortuita, durante i lavori di restauro della basilica di San Lorenzo, si sono ritrovati i resti dell’antico macellum ed un tratto della strada dell’antico cardo di epoca romana. La zona del criptoportico, cioè delle botteghe coperte una dentro l’altra, la maggior parte costruite in opus reticolatum ed in opus lateritium. La prima bottega per la presenza di fori nelle sbarre è stata identificata come un erarium ufficio nel quale venivano raccolte le tasse. Sono stati rinvenuti diversi corpi dato che all’epoca i morti si seppellivano sotto le chiese. Accanto alla biglietteria ci sono delle sale in cui sono conservate le decorazioni marmoree, oggetti trovati durante gli scavi oltre a paramenti sacri che hanno completato il percorso museale nella chiesa di San Lorenzo.
Su piazza San Gaetano si erge la chiesa di San Paolo Maggiore costruita probabilmente su un più antico tempio dedicato ai Dioscuri (Castore e Polluce). Essa risulta sopraelevata rispetto al manto stradale. Presentava una facciata a sei colonne sormontata da un frontone conservato nella successiva ristrutturazione della chiesa cristiana. Nel 1688 un terremoto fece crollare la facciata del cui impianto originario si conservano soltanto due colonne visibili ancora oggi. L’interno è in stile barocco e totalmente affrescato. Ne restano molte testimonianze nonostante i danni del bombardamento del 1943.
A seguito del Concilio di Trento si decide di rinnovare questa grande chiesa. Il progetto viene affidato a Francesco Grimaldi, il quale inizia i lavori lasciando parte delle strutture architettoniche e modificando tutta la decorazione: ricopre i grandi pilastri e apre le varie cappelle laterali. Gli affreschi della volta sono di Massimo Stanzione e raffigurano le scene di vita di S. Paolo e dei Teatini e risalgono alla metà del 1600. La cappella Ferrao fu decorata intorno alla metà del ‘600 da Dionisio Lazzari, in marmo e madreperla con un effetto cangiante ai riflessi della luce. Domenico Antonio Vaccaro realizza invece la scultura con l’angelo custode, che è un tipico esempio del barocco napoletano, posta vicino l’altare maggiore.
Nella zona dell’altare maggiore, lato destro, si accede ad una sorta di anti-sagrestia dove si conserva una copia del celebre dipinto della Madonna del pesce di Raffaello. Si continua in questo ambiente a pianta rettangolare interamente decorato da Francesco Solimena agli inizi degli anni 90 del 1600. Al soffitto le varie figure allegoriche: le virtù, gli angeli che suonano e così via, invece nelle due pareti affrontate abbiamo, da un lato, la “Caduta” di Simon mago e dall’altro la “conversione” di Saulo.
Napoli sotterranea
Usciti dalla chiesa sulla destra si trova l’ingresso di Napoli sotterranea. Si tratta dell’antico acquedotto del Serino le cui acque venivano convogliate in grandi cisterne per l’approvvigionamento della città. Il tufo estratto per creare le cisterne veniva poi utilizzato per la costruzione degli edifici in superficie. Nel periodo bellico durante la seconda guerra mondiale queste grotte sono state utilizzate anche come rifugi. Oggi è possibile fare questo percorso, scendere attraverso tunnel e cunicoli per visitare le varie cisterne. In tempi recentissimi il percorso della Napoli sotterranea si è allungato, comprendendo anche il teatro nella zona di via Anticaglia che corrisponde all’antico decumano superiore, dove c’era sia il teatro aperto che il teatro coperto, il cosiddetto odeion. E’ possibile visitare l’antica gradinata del teatro dove i posti per gli spettatori erano divisi in summa ima e media cavea. Datato IV secolo a.C. vi si svolgevano le rappresentazioni delle commedie e delle tragedie. Il proscenio, che è coperto, si trova sotto le abitazioni. E’ possibile visitarne una parte realizzato in opus reticulatum ed opus lateritium.
Chiesa di Santa Maria delle anime del purgatorio ad Arco (chiesa delle Anime Purganti)
Si prosegue in direzione di S. Pietro a Majella, verso la zona con i portici, dove c’è il palazzo del principe D’Angiò. Sotto i portici c’è un ingresso con arco a sesto acuto. E’ l’unico esempio di architettura civile di epoca angioina che rimane. Continuando troviamo la chiesa di Santa Maria delle anime del Purgatorio ad Arco. Ha una scala d’ingresso adornata da fiori e ceri secondo la tradizione delle anime pezzentelle che riposano nel cimitero all’interno della chiesa.
Si dice ad arco perché durante il periodo greco romano in questa zona c’era una sorta di torre con un arco. Questa struttura fu abbattuta per agevolare il traffico quando, alla metà del 1500, Don Pedro de Toledo, viceré di Napoli, fece trasferire i tribunali all’interno di Castel Capuano. La denominazione ad arco è rimasta nella nomenclatura e nella toponomastica.
La chiesa nasce nel 1616 quando i nobili si riuniscono in istituzioni benefiche per aiutare i più bisognosi offrendo spazi consacrati come cimiteri al di sotto delle chiese. Giuseppe de Marino, ispirato dal culto dei morti, realizza la facciata adornata da teschi e ossa in linea con la tradizione del luogo. Al centro del portale è sistemato il rilievo della Madonna del Purgatorio.
Il dipinto dell’altare maggiore è di Massimo Stanzione e rappresenta la Madonna delle anime Purganti. C’è un chiaro riferimento alle sette opere di misericordia di Caravaggio in cui la Vergine, sorretta dagli angeli, si affaccia a guardare la scena sotto di Lei. Dalle fiamme escono le anime dei peccatori che chiedono l’intercessione della Vergine perché siano ammesse nel regno di Dio. L’altare è stato disegnato da Dioniso Lazzari. Colpisce per un particolare estremamente macabro ed impressionante: un teschio alato con pochi denti che si trova in basso, in corrispondenza della cornice del dipinto. Sul lato sinistro dello stesso altare si trova il monumento funebre di Giulio Mastrilli realizzato da Andrea Falcone nel 1672. Rappresenta il Mastrilli, che fu uno dei fondatori dell’ente benefico, inginocchiato e rivolto verso il dipinto della Vergine.
All’interno della sagrestia, da una decina d’anni, è stato allestito un piccolo museo con i tesori appartenenti alla pia fondazione. Si trovano i paramenti che venivano indossati dai sacerdoti. Uno, in particolare é realizzato in seta nera con i ricami d’argento, probabilmente utilizzato quando c’erano le messe in suffragio delle persone nobili o di coloro che avevano fatto parte dei governatori dell’istituzione pia.
Esiste poi una chiesa sotterranea, la cosiddetta “terra santa”. All’ingresso della chiesa c’è una sorta di botola che permette il passaggio nella chiesa sottostante la quale ha identica dimensione di quella sovrastante. A sinistra si accede alla “terra santa” luogo di sepoltura in cui, dopo un certo periodo, i cadaveri venivano riesumati e posti nell’ossario, che si trova ad un livello inferiore.
Ci sono varie leggende ed una di questa riguarda l’anima di Lucia figlia di una famiglia nobile napoletana che innamoratasi di un ragazzo di strada viene osteggiata ed assassinata.
La Pietrasanta
Proseguendo verso il conservatorio su via Tribunali troviamo il campanile della Pietrasanta, il più antico di Napoli, fatto con materiali di spoglio. Il campanile è costruito con piccoli mattoncini, i laterizi che i Romani utilizzavano nelle loro costruzioni. In questa zona c’erano diversi edifici di epoca romana infatti da qui si accedeva alla zona dell’acropoli dove oggi si trova la chiesa di Sant’Aniello a Capo Napoli. Il campanile della Pietrasanta oggi è isolato ma un tempo era unito alla chiesa ed era adornato da una statua raffigurante un maiale in memoria di un’antica tradizione napoletana. Si racconta di un’apparizione del Diavolo sotto le spoglie di maiale. Intervenne il vescovo Pomponio intorno al 537 il quale provvide a benedire la zona e a costruire la chiesa di Santa Maria Maggiore come dettatogli in sogno dalla Madonna. Dall’edificazione della chiesa di Santa Maria Maggiore fino al 1625 l’Abate ogni anno donava all’arcivescovo di Napoli una porchetta in ricordo dell’episodio diabolico.
La chiesa è stata edificata probabilmente dove sorgeva in precedenza il tempio di Diana. Il nome deriva forse da una pietra sacra conservata al suo interno. L’odierna struttura del 1653 è opera di Cosimo Fanzago, a pianta centrale e decorazione pavimentale maiolicata.
Accanto è visibile la cappella del Pontano del 1492 in stile rinascimentale realizzata in piperno. L’altare è decorato da un affresco con la Madonna di Francesco Sicino da Caiazzo. Giovanni Pontano è uno dei più importanti letterati napoletani che aveva il suo palazzo proprio a via Tribunali di fronte a Santa Maria Maggiore dove oggi c’è un grande istituto scolastico. E’ stato il fondatore dell’Accademia Pontaniana, una delle primissime accademie letterarie italiane. Egli dedica questa cappella alla moglie Adriana Sassone e ai suoi figli come luogo di sepoltura. Sul portale di ingresso ci sono gli stemmi appartenenti alle famiglie. All’interno troviamo il pavimento a maioliche dipinto che ricorda quello che Alfonso D’Aragona aveva fatto posizionare all’interno della sala dei Baroni negli anni 50 del 1400. Nella zona dell’altare maggiore, al centro, c’è la Madonna col Bambino in quanto la cappella è dedicata alla Vergine, lateralmente ci sono San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista.
Dalla cappella andando in direzione del vecchio policlinico, arriviamo a piazzetta Miraglia che ha un aspetto diverso rispetto all’impianto originario dato che, nel ‘900, vi sorgeva la chiesa della Croce di Lucca, con annesso convento, di cui ne è stata abbattuta in parte proprio per far spazio alle strutture del policlinico.
Ricordiamo ancora il campanile della chiesa di S. Pietro a Majella costruita nel 1200 ad opera di Pipino da Barletta su ordine di Carlo D’Angiò. I Celestini ebbero in concessione la struttura dove rimasero fino al 1799 quando venne soppresso l’ordine. Oggi la chiesa di San Pietro a Majella ha un doppio ingresso, uno in corrispondenza del campanile che fa da quinta scenica a via Tribunali; l’altro al lato ha un portale di epoca barocca che la principessa Zunica fece costruire come forma di ex voto. All’interno la struttura è tipica delle chiese di epoca gotica con arcate a sesto acuto. La chiesa è costruita su tre navate con un profondo abside nella parte dell’altare maggiore. Sicuramente doveva essere coperta da capriate lignee, come la chiesa di San Lorenzo ed il Duomo.
In epoca barocca si realizza il soffitto cassettonato che ammiriamo ancora oggi. Tra il 1657 e il 1659 Mattia Preti dipinge sul soffitto della navata centrale alcune tele che rappresentano scene di vita di Celestino V e di Santa Caterina da Siena delle decorazioni murarie non rimane nulla. I dipinti sono molto scuri, caravaggeschi. La chiesa è a croce latina, nel soffitto del transetto ritroviamo tele di Mattia Preti raffiguranti la storia di Santa Caterina d’Alessandria.
Nella cappella della Leonessa, a destra nel transetto, sono affrescate episodi della vita di San Martino di autore ignoto denominato “il maestro della cappella della Leonessa”. Gli affreschi sono databili intorno alla seconda metà degli anni 50 del 1300, ascrivibili sicuramente ad una scuola giottesca. In epoca napoleonica il convento venne trasformato in conservatorio, tutt’oggi esistente, denominato Real Collegio di musica che riuniva, in un unico istituto, i conservatori di Napoli come imponeva un decreto emanato da Gioacchino Murat. A partire dalla fine del 1500 e all’inizio del 1600 i conservatori nascevano presso le chiese ed erano una vera e propria scuola in cui si formavano gli orfani. Uno dei più importanti era il conservatorio della pietà dei Turchini, poi c’era quello di Santa Maria di Loreto e quello di Sant’Onofrio presso porta Capuana.
L’ex convento dei Celestini ha una struttura tipicamente rinascimentale. Le arcate a tutto sesto ricordano molto il rinascimento toscano che ritroveremo anche nei cortili e nei chiostri della Certosa di San Martino. Attualmente è ancora sede del conservatorio ed è un vero e proprio museo. Sono conservati preziosi manoscritti e vi è una bellissima collezione di strumenti musicali.
Poco distante dalla zona di San Pietro a Majella si arriva a piazza Bellini dove durante degli scavi fortuitamente è stato ritrovato un tratto delle mura risalenti al IV secolo a.C. Queste sono fatte con grandi blocchi di tufo posti a secco uno sull’altro. Dalla posizione si comprende che il piano di calpestio era ben diverso da quello odierno. Le mura arrivavano fino alla zona di Capo Napoli, che corrisponde più o meno alla zona di Sant’ Aniello, la parte più alta della città dove oggi ci sono le strutture del policlinico vecchio.
Le mura, da piazza Bellini, proseguono lungo via Foria, dove c’è un grande istituto scolastico di epoca fascista. Alle spalle di questo si vede un tratto delle mura di epoca greco romana. Le mura scendevano verso piazza San Domenico dove c’era la porta della città Dominus itat. La zona di Piazza del Gesù verrà compresa nelle mura soltanto dopo il V secolo d.C.
Da Piazza del Gesù a Piazza San Domenico
Capitolo IV
Chiesa del Gesù Nuovo
Piazza del Gesù è nel cuore della città di Napoli, all’inizio del centro storico, in quello che è l’itinerario più famoso e più conosciuto: la zona dei decumani, prima zona di fondazione della Napoli greco romana. Piazza del Gesù non era parte della cinta muraria della città, lo diventerà intorno al V secolo, quando, nel periodo delle grandi invasioni minacciati dai Visigoti, viene rinforzata ed allargata la cinta muraria.
Piazza del Gesù Nuovo si trova sul decumano inferiore. Ricordiamo inoltre il decumano centrale via dei Tribunali e quello superiore via dell’Anticaglia. Il decumano inferiore si fermava nei pressi di piazza del Gesù. La sua prosecuzione avviene ad opera di Don Pedro de Toledo nel progetto di rendere più ordinata la città di Napoli. Egli fa abbattere le mura aragonesi e fa costruire via Toledo ed i quartieri spagnoli e collega la vecchia città con le nuove strade. La piazza nasce proprio sul luogo dove, in precedenza, c’era una delle entrate principali della città di Napoli ed ha una forma piuttosto irregolare. E’ dominata dalla chiesa del Gesù Nuovo e dalla grande guglia, dedicate all’Immacolata, che si trova proprio al suo centro. In epoca Angioina qui venne eretta la Porta Reale che era una delle porte di accesso della vecchia Napoli.
La chiesa del Gesù ha una facciata molto particolare perché non nasce come edificio religioso bensì come palazzo civile. Infatti era il palazzo dei principi di Sanseverino costruito intorno agli anni 70 del 1400, poi progressivamente ampliato. Tant’è vero che intorno al 1520 i principi stessi acquistarono delle piccole costruzioni che si trovavano davanti al palazzo e le fecero abbattere proprio per creare uno slargo e dare maggiore risalto alla facciata della loro residenza, ritenuta talmente era bella da essere definite la reggia dei Sanseverino. Ecco perché la piazza ha una forma irregolare. La facciata della chiesa dei gesuiti è completamente rivestita di piperno, la pietra lavica tipica dell’architettura napoletana, Caratterizzata da bugne a punta di diamante come il palazzo di diamanti di Ferrara. Sulle pietre sono incisi dei simboli che assomigliano alle lettere dell’aramaico antico. Alcuni studiosi sostengono che erano simboli delle varie cave da dove provenivano i pezzi di piperno. Ultimamente però uno storico dell’arte, appassionato di musica, è arrivato alla conclusione che i simboli rappresentano le note di un brano di cui è possibile ascoltare la melodia andando su youtube. Siamo nel 1470, in pieno Rinascimento, il progetto per la costruzione del palazzo dei Sanseverino è affidato a Leonello da San Lucano che lo costruirà seguendo le forme del tipico palazzo rinascimentale. Il cortile dell’antica reggia dei Sanseverino corrispondeva all’attuale cupola della chiesa dove oggi si trovano i quattro grandi pilastri interni.
I Sanseverino furono una delle famiglie più importanti durante il periodo aragonese. Poiché presero parte alla congiura dei baroni contro Ferrante D’Aragona, il loro palazzo fu confiscato, poi venne restituito. Nel corso della prima metà del ‘500 si opposero all’Inquisizione spagnola a Napoli, motivo per cui furono allontanati dal regno ed il loro palazzo venne nuovamente confiscato. Nel 1552, in pieno Concilio di Trento, i gesuiti arrivano a Napoli, acquistano Palazzo Sanseverino per circa 46.000 ducati, lo svuotano e lo ricostruiscono con un progetto portato avanti dall’architetto Giuseppe Valeriano anch’egli gesuita, addetto a sovraintendere a tutte le opere dell’ordine durante quel periodo. La facciata resta sostanzialmente immutata, vengono solo inserite alcune decorazioni in marmo come quelle del portale e dei finestroni. I lavori vennero in parte finanziati da Isabella Feltria della Rovere, principessa di Bisignano, che incaricò il Valeriano di ricostruire questa grande chiesa consacrata nel 1601. La cupola della chiesa del Gesù era particolarmente famosa in quanto molto alta e ben visibile da diversi punti dalla città. Questa cupola, completamente affrescata da Giovanni Lanfranco, è una delle più sfortunate perché crollò più volte. La prima volta nel 1688 a causa di un forte terremoto. Ricostruita da Arcangelo Guglielmelli ed affrescata da Paolo De Matteis, crollò una seconda volta tra il 1713 ed il 1717. L’odierna cupola del 1973, molto più bassa è realizzata in cemento armato, è la copia di quella costruita, per la terza volta da Ignazio di Nardo intorno al 1786 andata distrutta per problemi strutturali. Della cupola originale, quella seicentesca, ci restano i quattro pennacchi anche questi opera di Giovanni Lanfranco come un gran numero di disegni preparatori per gli affreschi, conservati nel Gabinetto, disegni e stampe del museo di Capodimonte oltre ad un’ampia sezione dedicata ai disegni nella Certosa di San Martino. Sulla controfacciata, cioè sulla parete interna di ingresso della chiesa, si trova un grande affresco raffigurante la cacciata dal tempio di Eliodoro realizzato da Francesco Solimena nel 1725. Particolare la scena degli angeli che arrivano dall’alto avvolti da una luce leggera e brillante, tipica degli affreschi degli artisti emiliani nella metà del 1600. Quindi Solimena, dopo oltre 70 anni, guarda ancora a quegli esempi e imposta la scena quasi come se i personaggi come fossero attori messi in posa. Si nota un’attenzione descrittiva per il dato anatomico, delle muscolature, delle posizioni dei personaggi ed i colori sono molto brillanti.
La chiesa del Gesù è una delle principali fabbriche del barocco napoletano. Infatti quello che sconvolge entrando è proprio l’estrema ricchezza di tutte le decorazioni. E’ completamente ricoperta da marmi lavorati in commesso marmoreo, gli affreschi risalgono al periodo tra la seconda metà del ‘600 ed il ‘700 a differenza della chiesa di fronte S. Chiara, estremamente priva di ogni forma di decorazione. Nella volta e nelle semilunette ai lati dei finestroni della tribuna, un vasto ciclo mariano è articolato in 12 riquadri eseguiti tra il 1639 e 1640 da Massimo Stanzione in sostituzione di quello eseguito da Bellisario Corenzio tra il 1618 e 1620 , distrutto da un incendio nel 1639. Sono rappresentate le storie della Vergine e le storie dell’ordine dei Gesuiti. La chiesa è a pianta centrale ed il suo centro è la cupola. Nel lato destro si trova la cappella della Visitazione. La tela sull’altare della Visitazione fu eseguita da Massimo Stanzione e completata dal suo allievo Santillo. Cosimo Fanzago tra il 1660 ed 1666 realizza il rivestimento marmoreo portando a termine un lavoro iniziato nel 1650 da Donato Vannelli ed Antonio Solaro. Dopo la cappella della Visitazione c’è la cappella di San Francesco Saverio (padre Gesuita che cristianizza gli Indiani) che presenta nella parte alta tre tele di Luca Giordano dedicate al Santo: a sinistra San Francesco trova un crocifisso, al centro il miracolo delle noci, a destra il santo battezza gli Indiani. Sotto l’altare sono custodite le reliquie di San Francesco Saverio mentre la tela al centro della cappella rappresenta l’estasi di San Francesco di Azzolino.
Da una porta alla sinistra della cappella si accede ad uno spazio dedicato a San Giuseppe Moscati. Ci sono degli ambienti con oggetti personali del Santo donati dalla sorella alla Chiesa che ricostruiscono la stanza da letto e lo studio e c’è anche una galleria di ex voto.
Dalla parte opposta, sul lato sinistro, troviamo il cappellone dedicato a Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dell’ordine dei Gesuiti, progettato da Cosimo Fanzago. Ai due lati dell’altare ci sono le sculture di Davide e di Geremia che sono opera dello stesso Cosimo Fanzago. Nella parte alta è collocata l’immagine di Sant’Ignazio de Loyola che si reca da Papa Paolo Farnese per l’approvazione dell’ordine, opera del Ribera, assieme ad altri due dipinti dedicati al santo.
Più avanti nella Cappella Carafa si conserva il Crocifisso e le spoglie di San Ciro. Sulla sinistra presenta una piccola camera con uno spazio di ex voto e una esposizione di documenti che attestano il trasferimento delle spoglie del Santo a Napoli.
Proseguendo nella navata sinistra si arriva in fondo alla cappella interamente dedicata alle reliquie. I grandi reliquiari commissionati da Isabella Feltria della Rovere principessa di Bisignano, occupavano intere pareti. Ogni Santo ha la sua scultura realizzata in legno stuccato e dorato con le proprie reliquie conservate in un cassetto di vetro alla base della statua.
Nel braccio centrale della croce greca è presente l’altare maggiore. La chiesa è dedicata all’Immacolata. La statua, originariamente in argento, fu realizzata da Domenico Antonio Vaccaro. Durante il regno di Ferdinando di Borbone, la statua venne smontata dall’altare e fusa per pagare l’esercito; solo successivamente fu rifatta ad opera di Antonio Busciolano (1857-1859).
In fondo alla navata centrale, nelle ultime campate prima di arrivare all’altare maggiore, si trovano due grandi organi, a destra e a sinistra. Si tratta di un aspetto davvero particolare in quanto per i Gesuiti, durante le funzioni, i fedeli non dovevano essere distratti da nessun elemento, tantomeno dalla musica. Ma Isabella Feltria della Rovere principessa di Bisignano, che aveva finanziato la decorazione, volle gli organi favorita anche dall’appoggio del viceré di Napoli dell’epoca il Duca di Osuna. Nelle stanze interne, insieme agli ex voto, è conservato l’involucro esterno di una bomba inesplosa: è considerato una sorta di miracolo perché la bomba, non esplodendo, non arrecò danni alla struttura a differenza della chiesa di Santa Chiara che fu completamente distrutta dai bombardamenti.
Il palazzo accanto alla chiesa del Gesù oggi è una scuola: liceo classico Genovesi dal 1888. Originariamente aveva un solo piano poi ampliato ed innalzato quando è stato trasformato in scuola. In precedenza la struttura ospitava gli oratori della chiesa dove si riunivano diverse congregazioni laiche: l’oratorio dei nobili e dei cavalieri; l’oratorio dei ragazzi nobili; l’oratorio degli artigiani che venne detto poi oratorio delle dame; l’oratorio dei mercanti e quello dei borghesi.
Alcuni affreschi all’interno dell’oratorio dei nobili vennero eseguiti da Battistello Caracciolo intorno al 1625 -1630. Tra essi ritroviamo la Natività delle Vergine. L’oratorio oggi è destinato ad aula magna del liceo Genovesi.
La guglia dell’Immacolata
Al centro della piazza è stata eretta una guglia dedicata all’Immacolata. Dal 1705 al 1707 vi era stata posta una statua equestre dedicata a Filippo V, opera di Lorenzo Vaccaro, che fu abbattuta dagli austriaci. L’opera si ispira alle innumerevoli macchine da festa presenti in quei secoli. Infatti la città si presentava con una condizione urbanistica disastrata e c’era l’abitudine di coprire con pannelli, chiamate macchine, in legno e cartapesta gli edifici più brutti. La guglia è rivestita da sculture marmoree di Matteo Bottiglieri e Mario Pagano, entrambi allievi di Domenico Antonio Vaccaro. Sulla cuspide della guglia ci sono due medaglioni di San Luigi Gonzaga e di San Stanislao Icostka. Esistono due balaustre con angeli e statue di S.Ignazio, Francesco Borgia, Francesco Saverio e Francesco Regis. Al secondo piano rilievi con la Purificazione, l’ Incoronazione, la Natività e l’ Annunciazione. Sulla punta è collocata la statua dell’Immacolata Concezione che ogni 8 Dicembre viene cinta da una corona di fiori posta dai Vigili del fuoco.
Monastero di Santa Chiara
Di fronte alla chiesa del Gesù Nuovo si trova la chiesa di Santa Chiara. La struttura è degli inizi del 1300, gli anni del regno di Roberto D’Angiò. All’epoca era una zona esterna alla città vecchia piena di verde con orti e terreni. La chiesa venne costruita per volontà della Regina Sancia de Maiorca, seconda moglie di Re Roberto D’Angiò.
È una vera e propria cittadella. Si tratta di due conventi uno a ridosso dell’altro. In origine il più grande era quello delle Clarisse, monache di clausura dell’ordine francescano femminile; il più piccolo, che affaccia su piazza del Gesù, era quello dei frati minori che si dovevano occupare di tutte le funzioni religiose. Attualmente i frati, che nel corso del tempo sono aumentati di numero, occupano il convento destinato alle Clarisse mentre quest’ultime, che sono diminuite, occupano lo spazio dei frati. Oggi si possono visitare il chiostro maiolicato, il museo dell’opera ed altri ambienti. Nel 1317 per costruire questi due conventi l’ordine de Francescani ebbe una particolare concessione dal Papa francese Clemente V, per intercessione degli Angioini che erano particolarmente legati al papato. Napoli all’epoca veniva considerata quasi un feudo della Chiesa, per questo la maggior parte delle chiese del centro antico sono tutte di fondazione angioina. La costruzione della chiesa di Santa Chiara andò avanti su progetto di Gagliardo Primario fino al 1340 anno in cui fu consacrata. La pietra che ne caratterizza la costruzione è di tufo giallo. La facciata presenta come unica decorazione il grande rosone centrale; ha una sorta di pronao davanti e un arco ad unghia all’ingresso. Il campanile è completamente separato dalla chiesa come era usanza all’inizio del periodo gotico. La parte originale della facciata con decorazioni marmoree è sormontata dallo stemma molto piccolo di Sancia di Maiorca. Come tutte le chiese napoletane durante l’epoca barocca, anche Santa Chiara ha subito delle grandi trasformazioni. In epoca gotica la chiesa doveva essere completamente ricoperta di affreschi, secondo il gusto del momento. Successivamente viene completamente rifatta da Domenico Antonio Vaccaro prima e Ferdinando Fuga poi. Viene completamente ricoperta da affreschi, tele, decorazioni in carta pesta, decorazioni lignee, stucchi dorati, tutto materiale facilmente incendiabile. Ciò che resta oggi della decorazione settecentesca è il pavimento in marmo, opera di Ferdinando Fuga, realizzato nel 1761, come so si può intuire dallo stemma dei Borbone. Dopo l’incendio del 1943 la Chiesa viene completamente scoperchiata in quanto il tetto era a capriate lignee. Il restauro durerà 10 anni fino al 1953 anno in cui la chiesa verrà riaperta. Al momento del restauro si decise di riportare a nudo la struttura muraria (quindi di non ricollocare le decorazioni superstiti all’interno oggi conservate nel museo dell’opera) ripristinando quello che si pensa fosse il suo aspetto gotico durante il Medio Evo. La chiesa è a navata unica con cappelle laterali che le monache usavano dare in patronato alle famiglie nobili napoletane. Essendo stata fondata dagli Angioini è una chiesa regia perché luogo di sepoltura dei re. Infatti nella zona dell’altare maggiore si trovano le tombe di Roberto, del figlio Carlo Duca di Calabria e di altri membri della famiglia reale.
Il tetto ricostruito sembra a capriate lignee ma non è legno bensì in cemento armato. La parte superiore è completamente ricostruita mentre la parte in basso è tutta portata a nudo per cui c’è grande contrasto con la pavimentazione settecentesca originale. Alla parete di fondo non abbiamo il solito abside ma una parete piatta per permettere non solo di appoggiarvi le tombe della famiglia angioina ma anche di creare dietro il coro delle monache cioè uno spazio dove le stesse potevano assistere alle funzioni religiose, ascoltare la messa e prendere la comunione tramite la grata del comunichino, proprio sotto la tomba di re Roberto D’Angiò. La tomba centrale, più grande, è la tomba di re Roberto D’Angiò, opera di Giovanni e Pace Bertini (1343-1345) commissionata dalla nipote Giovanna figlia di Carlo. Quando Giovanna diventa regina di Napoli è un evento straordinario perché, per la prima volta, una regnante eredita il potere direttamente dal nonno. Sul sarcofago il re viene rappresentato ben tre volte: in trono in una sorta di nicchia; disteso sul letto di morte con il saio francescano perché Roberto era molto religioso; sul sarcofago realizzato nella parte inferiore. Sono presenti tante figure allegoriche: intorno alla figura del re giacente sul letto di morte ci sono figure femminili che lo piangono. Si suppone siano le arti, dato che il re era un amante della pittura, al punto che Dante lo chiamava il re da sermone. In alto due angeli aprono una tenda per mostrarci il re. Sul lato destro è posto il sepolcro di Carlo duca di Calabria figlio di Roberto che muore prima del padre senza lasciare eredi maschi. Quella del Duca di Calabria è una delle prime tombe realizzate da Tino da Camaino a Napoli. La struttura e l’impostazione sono similari al sepolcro di re Roberto che, però, data l’importanza della figura è molto più articolato. Anche qui ci sono pilastrini che reggono tutta la parte cuspidata decorata con piccoli mosaici di tessere vitree. Al centro del sarcofago Carlo di Calabria sul letto di morte ai lati i membri della corte Anche qui angeli che aprono una tenda. La tomba di Maria di Durazzo di ignoto durazzesco è posta alla destra di quella di Carlo. È identica nell’impostazione: si notano colonnine tortili, la figura dell’eterno padre in alto e la Crocifissione nella parte finale del monumento. La tomba di Maria di Valois è sulla parete sinistra, opera di Tino da Camaino (1333-1338). Maria era la moglie di Carlo e madre della futura regina Giovanna I di Napoli. La struttura è simile alle altre anche nello schema compositivo delle decorazioni con pilastrini e pinnacoli nella parte alta. L’ultima cappella a destra della chiesa è la cappella dei Borbone ed è l’unica che conserva le decorazioni settecentesche. In realtà, Carlo di Borbone creò questa cappella in via provvisoria perché voleva che ci fosse un luogo degno di accogliere le spoglie della famiglia reale cappella che non venne mai realizzato, per cui quella che vediamo è diventata la definitiva. Nel pavimento e nella parete di destra sono tutte le tombe. Nella parte sinistra della cappella è situato il monumento realizzato da Sanmartino (lo scultore del Cristo velato della Cappella San Severo) per Filippo, primogenito di Carlo di Borbone che morì trentenne con problemi mentali, per cui il secondogenito Carlo divenne re di Spagna, mentre Ferdinando, il terzo figlio, divenne re di Napoli. Al centro si ammira il monumento dedicato alla beata Maria Cristina di Savoia, prima moglie di Ferdinando II.
Il campanile, come già anticipato, è separato dal corpo della chiesa e ha una costruzione disomogenea: i primi due livelli sono di stile trecentesco (1328); sarà completato nel 1500, come si evince dalla diversità dei colori dei materiali utilizzati.
Il chiostro: la pianta è quella originaria del ‘300. Proprio come era stato strutturato in epoca gotica. Successivamente nel 1740 la regina Maria Amalia di Sassonia, moglie di Carlo di Borbone, durante il badessato di Ippolita Carmignano chiede a Domenico Antonio Vaccaro di rifare la decorazione del chiostro. Egli divide questo grande spazio in quattro sezioni con l’inserimento di viali che si incrociano al centro. Il chiostro viene decorato con le maioliche della bottega di Donato e Giuseppe Massa, due tra i più importanti riggiolai dell’epoca. I pilastri sono tutti ottagonali e rivestiti di maioliche che riproducono rami di fiori e di frutta che si avvolgono a spirale. Anche le panche sono maiolicate hanno un fondo azzurrino tenue molto delicato. Sono rappresentate scene mitologiche, di vita quotidiana, scene campestri, paesaggi proprio per ricordare il mondo esterno e le bellezze degli ambienti e per alleggerire la severità di un luogo di clausura. Sotto i porticati ci sono degli affreschi appartenenti, probabilmente, alla scuola spagnola di Pedro Rodriguez, ritraenti diverse scene di vita delle monache, scene sacre della prima metà del 1600 quindi con una cronologia diversa rispetto alle maioliche. Nelle prime tre pareti sono raffigurate scene dall’antico testamento, nella quarta allegorie e vite di santi. In corrispondenza della terrasanta è dipinta la morte di una monaca. Da circa un ventennio è aperto il “Museo dell’opera” in quelle che prima erano le celle delle monache alle quali si accede dal fondo del chiostro. Le celle sono state utilizzate per ospitare gli elementi che decoravano la chiesa e che si sono salvati dall’incendio del 1943. Ci sono le fotografie della chiesa prima e dopo l’incendio; gli oggetti sacri utilizzati dai frati quando celebravano, dei reliquari perché essendo una chiesa molto antica anche qui c’era una vera e propria collezione di reliquie, i due busti di Roberto D’Angiò e Sancia de Maiorca, busti processionali utilizzati durante le funzioni. A seguito di alcuni lavori di restauro è stato trovato sotto il monastero di Santa Chiara, una zona archeologica databile tra il I° e II° secolo dopo Cristo. Si tratta molto probabilmente di ambienti termali. Questo percorso consente di vedere le strutture in opus reticulatum e opus lateritium, la zona del frigidarium e del tepidarium, è possibile distinguere la vasca e addirittura alcuni tubi.
Palazzo Filomarino
Procedendo su via Benedetto Croce in direzione di Piazza San Domenico poco più avanti, si incontra sulla sinistra il palazzo Filomarino. Fu costruito all’inizio del XIV secolo dalla famiglia Brancaccio. Diviene residenza dello storico e filosofo napoletano Benedetto Croce. Oggi è sede dell’Istituto degli studi Storici e della Biblioteca Benedetto Croce. Il palazzo si è allargato nel passato rubando spazio al palazzo accanto Palazzo Venezia. Palazzo Filomarino presenta un grande portale decorato ed imponente con grandi stemmi e festoni decorati, caratteristica molto importante da un punto di vista politico e di immagine. I portali facevano comprendere l’importanza dei proprietari. Nel ‘900 Benedetto Croce vi acquistò diverse proprietà per questo la strada è intitolata all’illustre filosofo. Oggi della struttura trecentesca e cinquecentesca si è persa traccia perché il palazzo fu completamente rifatto da Ferdinando Sanfelice. I Filomarino, quando lo acquistarono nel ‘700 incaricarono all’architetto Ferdinando Sanfelice di rifare completamente lo scalone che fu realizzato in piperno caratterizzato da una strombatura verso l’interno ed ornato con bugne a punta di diamante in marmo bianco. Il portale d’ingresso è sormontato da una doppia voluta realizzata in legno intarsiato.
Palazzo Venezia
Poco oltre palazzo Filomarino c’è palazzo Venezia donato da Ladislao di Durazzo alla Repubblica di Venezia una delle strutture gentilizie più interessanti e più belle nel centro storico di Napoli. Donata nel 1412 diviene la sede degli ambasciatori della Repubblica di Venezia tant’è vero che viene soprannominato palazzo San Marco proprio per ricordare che era la sede dei veneziani. Inizialmente apparteneva ad un ramo della famiglia dei Sanseverino di Matera. Oggi il palazzo ha perso tutte le decorazioni interne. C’è un piccolo giardino pensile con una sorta di casina pompeiana di tipo neoclassico. Unica decorazione dell’epoca che ancora si conserva all’interno della struttura.
Palazzo Carafa
Poco oltre palazzo Venezia, sul lato frontale c’è palazzo Carafa Roccella che si riconosce per il grande portale e due grandi leoni ai lati. Questi ultimi oltre ad evitare che le ruote delle carrozze toccassero il portale servivano anche a spegnere le torce nelle bocche aperte dei due animali. Più avanti c’è palazzo di Diomede Carafa, che conserva lo stemma nella parte alta della decorazione del portale. Il palazzo, secondo Roberto Pane, uno dei più importanti storici dell’architettura napoletana, viene rifatto nel corso del XVI secolo; addirittura lo attribuisce ad un progetto di Domenico Fontana.
Palazzi di Piazza San Domenico
Proseguendo il percorso si apre piazza San Domenico dominata dalla grande guglia dedicata a questo santo. Come piazza del Gesù anche piazza San Domenico è una piazza creata perché, come abbiamo già spiegato, nel tracciato viario della Napoli greco romana non esisteva. Viene progettata durante il periodo aragonese con Alfonso D’Aragona il quale decide di eleggere la chiesa di San Domenico a propria chiesa regia e quindi vuole che abbia uno spazio antistante consono ad una chiesa così importante. Fa abbattere le costruzioni preesistenti e crea uno slargo che diventerà il centro vitale della Napoli di quegli anni vi si svolgeranno i funerali di stato solenni di Ferrante D’Aragona e la proclamazione di Alfonso II.
Ferdinando di Borbone vi fa apporre una sorta di targa che vietava di giocare a pallone, fare schiamazzi, vendere meloni per evitare il degrado in quella che era considerata una delle piazze più importanti di Napoli. Intorno vi sono tutti palazzi: il palazzo giallo a fianco alla scalinata della chiesa è palazzo Petrucci al civico 3, il più antico della piazza, gli altri sono tutti palazzi appartenenti a vari rami della famiglia De Sangro, tutti che hanno subito rifacimenti nel corso dei secoli. Palazzo Petrucci, appartenne ad Antonello Petrucci segretario personale di Ferrante D’Aragona il quale per avere partecipato alla congiura dei Baroni, venne condannato a morte per decapitazione. Successivamente il palazzo, che come tutti i palazzi è stato ampiamente rifatto e rimaneggiato, diventa proprietà dei governatori del Banco del San Salvatore; infatti all’ingresso c’è ancora una piccolissima statuina che lo rappresenta. La parte più antica è l’ingresso: la decorazione in marmo tutt’intorno al portale e nel cortile archi un po’ ribassati di ispirazione iberica. Palazzo Corigliano al civico 12 è sede di alcuni dipartimenti dell’Orientale; palazzo Casacalenda, al civico 17, la cui ristrutturazione fu commissionata a Mario Gioffredo. La proprietaria voleva un lieve rifacimento invece l’arch. Gioffredo apportò delle sostanziali modifiche per cui fu esonerato dal suo compito e dovette intervenire Luigi Vanvitelli. Si tratta della medesima famiglia proprietaria della Villa Campolieto, nella quale pure lavorò il Gioffredo. Al civico 9 Palazzo di Sangro che apparteneva al ramo dei duchi di Torremaggiore dal quale discende il famoso Raimondo di Sangro.
Guglia di San Domenico
Guglia di San Domenico. Fu costruita su disegno del Picchianti come forma di ex voto dopo la peste del 1656. Il progetto viene affidato a Cosimo Fanzago, che crea una struttura abbastanza articolata. I lavori cominciano nel 1658 e in tale occasione si scoprono i resti dell’antica porta romana. Verrà terminata solo nel 1737 da Domenico Antonio Vaccaro che ne fa la parte sovrastante, a forma piramidale con la statua di San Domenico che domina la piazza e che fu donata proprio dai Domenicani. Segnaliamo la presenza della sirena Partenope che tanto ha a che fare con la storia di Napoli.
Chiesa di San Domenico
Quella che si affaccia su piazza San Domenico è la zona dell’abside che solitamente è alle spalle della chiesa. L’ingresso principale affaccia su vicolo San Domenico, uno spazio molto stretto e angusto impossibile da modificare per le esigenze di Alfonso D’Aragona. Per tale motivo vengono effettuati degli abbattimenti di edifici preesistenti. Di lato appoggiata a Palazzo Petrucci fa costruire una scala in piperno collegata alla chiesa rendendo così possibile l’accesso delle processioni e delle grandi funzioni dalla piazza. In sintesi ribalta l’ingresso della chiesa. Questa entrata immette in un cappellone che corrisponde alla vecchia chiesa di S. Arcangelo a Morfisa inglobata in San Domenico, lateralmente all’abside. La chiesa era stata fondata nel 1283 da Carlo II D’Angiò e inglobano la chiesetta appartenente ai Benedettini che risale al X secolo. Solo dal 1255 verrà dedicata a San Domenico. Nella chiesa c’era anche la facoltà teologica, fondata da San Tommaso D’Aquino, che vi resterà fino al 1615 per essere poi spostata al Palazzo dei regi studi dove oggi c’è il museo archeologico nazionale. La struttura è gotica a cui sono state aggiunte delle cappelle seicentesche date in comodato alle famiglie dei Carafa, dei San Severino e dei Muscettola che in tal modo volevano dimostrare il loro potere nel periodo aragonese. I Carafa e i Muscettola costruiscono la cappella esternamente al perimetro della chiesa e sfondano la parete della controfacciata per accedere alla chiesa direttamente dalla loro cappella. Se si entra dal portale d’ingresso si notano subito le due cappelle che un tempo davano accesso alle navate laterali. La chiesa verrà terminata solo nel 1324, subendo vari rifacimenti a causa di diverse sventure. Il terremoto del 1456 che la distrusse, nel 1506 un incendio brucia gran parte degli arredi e delle decorazioni lignee minacciando le tombe aragonesi poi spostate nella sagrestia. Nel 1670 ci sarà un restauro in stile barocco. Nel 1720 Domenico Antonio Vaccaro rifà il pavimento e nel 1850 si realizzerà la grande ristrutturazione decorativa ad opera di Federico Travaglini, il quale la rifarà completamente in stile neo-gotico. Egli sovrappone decorazioni, stucchi dorati, parti in carta pesta, decorazioni lignee che richiameranno lo stile originario gotico della chiesa. La chiesa ha tre navate che hanno una differenza di altezza; quella centrale presenta, nella pareti laterali, grandi finestroni. Un’altra parte che conserva pressoché intatte le sue decorazioni originali è la cappella Brancaccio, che si trova nella navata di destra terza cappella. All’interno si può osservare un ciclo di affreschi di Pietro Cavallini: chiamato a Napoli da Roma dal cardinale Brancaccio. Nella cappella sono presenti una Crocefissione, storie di San Giovanni Evangelista, Maria Maddalena, San Pietro e Sant’Andrea. Nella settima cappella a destra si accede al cappellone del Crocifisso, luogo nel quale San Tommaso D’Aquino ebbe un colloquio con Cristo motivo per cui è considerato uno dei luoghi più sacri e importanti della chiesa. Intorno all’altare maggiore vi erano le tombe aragonesi e il coro dei monaci al centro, così come voleva la tradizione prima del Concilio. Dopo l’incendio del 1506 le tombe avevano rischiato di andare distrutte si decise allora di spostarle in un ambiente più sicuro la sagrestia. Viene impostata una nuova tipologia di decorazione, completamente diversa per cui viene costruito una sorta di ballatoio dove vengono collocate le 45 arche sepolcrali, ovvero le casse funebri che custodiscono le spoglie dei re della famiglia reale aragonese e alcuni membri della corte. Le arche sono tutte ricoperte di stoffe, broccati e velluti. Durante i lavori di restauro si è scoperto che molte arche erano state trafugate. L’intera sagrestia è sormontata dall’affresco realizzato dal Solimena nel 1709, trionfo della fede sull’eresia ad opera dei Domenicani. Dalla sagrestia si può accedere in un’altra piccola saletta, a destra, che immette nella cappella del tesoro. All’interno c’è un piccolo museo dove è possibile apprezzare gli oggetti che i frati utilizzavano per decorare le cappelle: le frasche tutte ornate con piccole perline, un paio di arazzi utilizzati per essere posizionati davanti al pulpito e così via. Sul lato sinistro della navata ci sono altre cappelle interessanti: la cappella dei De Franchis, famiglia di giureconsulti, i magistrati dell’epoca nel ‘600 che commissionarono al Caravaggio la realizzazione del Cristo alla colonna altrimenti detto “La flagellazione”. Questo dipinto non si trova più in chiesa, per motivi di conservazione, ma a Capodimonte. Nel refettorio, in fondo, c’è l’affresco con l’ultima cena; poi si passa alla sala del Capitolo dove i monaci si riunivano: le decorazioni partono da una certa altezza perché lungo tutto il perimetro delle pareti c’erano gli stalli lignei che sono andati persi. L’ordine dei Domenicani venne soppresso nel 1809, da Gioacchino Murat. Siamo nel periodo napoleonico: la biblioteca teologica fu dispersa e l’intero edificio fu trasformato in una caserma.
Cappella San Severo
Da piazza San Domenico salendo verso la via che porta lo stesso nome l’ultimo palazzo a destra, che affaccia sulla piazza, è quello dei principi San Severo De Sangro. Questo palazzo presentava un ampio giardino all’interno del quale attorno il 500 Francesco De Sangro fece costruire una cappella. Questa inizialmente era intitolata alla pietà. I napoletani usavano chiamarla “la Pietatella” perché secondo la storia riportata in “Napoli Sacra del 1624” un uomo era stato ingiustamente incarcerato e trascinato per andare ai lavori forzati, passando dinanzi al giardino del Palazzo De Sangro, vide crollare una parte del muro di cinta ed apparire un’ immagine della Beata Vergine. Egli promise, allora, alla Madonna di donarle una lastra d’argento se fosse stato riconosciuto innocente. La cappella diventata famosa per il restauro settecentesco voluto dal 7° principe di San Severo, Raimondo. Il principe nasce a Torremaggiore, in provincia di Foggia, nel 1710, e si trasferisce a Napoli nel 1730. Dal nonno aveva ereditato il titolo di Principe di Sansevero. Successivamente viene nominato Grande di Spagna e Gentiluomo di corte.
Raimondo è un personaggio molto particolare, ingegnoso, gli piaceva studiare, aveva una mente molto aperta, indagava sugli effetti naturali e faceva vari esperimenti. Si dedicò anche alla vita militare, partecipò alla battaglia di Velletri con il grado di colonnello e pubblicò anche un’opera sugli esercizi militari. Il principe arrivò ad avere anche una stamperia personale. Questa sua esuberanza diede vita ad una serie di leggende intorno alla sua figura. Raimondo De Sangro era uno dei personaggi più importanti della corte di Carlo di Borbone, viene educato dal nonno il quale lo inviò presso il collegio di gesuiti a Roma. Trasferitosi a Napoli Il principe decide di rifare completamente la decorazione della cappella gentilizia un tempo collegata attraverso un piccolo ponticello direttamente al palazzo, ponte che, per un problema statico, crollò alla fine dell’800. Raimondo comincia a dedicarsi alla ristrutturazione della sua cappella a partire dal 1749 fino all’anno della sua morte, il 1771. La cappella era un luogo di sepoltura dei membri della famiglia dei De Sangro. I Defunti all’interno delle nicchie sono i membri maschili della famiglia, I monumenti funebri delle donne della famiglia sono poggiati ai pilastri esterni. Ci sono due interpretazioni della cappella: la prima è l’esaltazione delle virtù dei componenti della famiglia De Sangro; la seconda è il messaggio delle virtù che deve possedere il massone, dato che Raimondo era un membro importantissimo della massoneria napoletana. E’ una sorta di viaggio iniziatico tra i simboli della massoneria. Il principe chiama Antonio Corradini, uno scultore veneto anche egli massone, quindi insieme studiano quello che deve essere il programma iconografico e i vari significati che le singole sculture devono avere. Chi più di un massone poteva comprendere i desideri di Raimondo? Per volontà del principe il Cristo velato non doveva trovarsi al centro della cappella, ma giù nella cavea sotterranea dove attualmente sono le macchine anatomiche. Il Cristo rappresenta la somma verità a cui si arriva dopo un percorso di preparazione lungo e articolato. A differenza delle altre chiese e di altri ambienti sacri napoletani, la pittura è poco predominante dato che troviamo solo l’affresco della volta con la gloria del paradiso. Il Corradini è colui che studia questa iconografia abbastanza complessa nel suo insieme; le opere da lui eseguite sono: “Il Decoro” che si trova all’ingresso della cappella alla sua estrema sinistra e “La Pudicizia” al lato sinistro dell’altare che è dedicata alla madre del principe, Cecilia Gaetani la quale muore giovanissima. Corradini realizzerà anche i bozzetti in terracotta delle sculture riprodotte successivamente. Infatti, al museo di San Martino è conservato il bozzetto in terracotta del Cristo Velato. Quindi l’idea originaria è precedente rispetto all’intervento di Giuseppe Sanmartino. Nella cappella sulla parete della controfacciata vi è il monumento dedicato a Cecco De Sangro realizzato da Francesco Celebrano: una cassa da cui esce lo stesso in armatura con la spada in mano, perché si narra che in una battaglia le truppe di Cecco De Sangro stavano ormai soccombendo alle forze nemiche. Il Cecco si finse morto per farsi portare nell’accampamento nemico, in piena notte uscì dalla cassa e portò alla vittoria le sue truppe. Questo riemergere dalla tomba simboleggia anche una sorta di rinascita e l’apertura della bara rappresenta l’ingresso verso una nuova vita. Per questo la massoneria sceglie il simbolo del Cristo che muore per poi rinascere.
Nella Pudicizia si trovano un ramo di rose che rappresenta la giovane età, la lapide spezzata che rappresenta la morte improvvisa, una donna che viene coperta perché defunta, accanto ai suoi piedi un vaso particolare che si utilizzava per bruciare l’incenso (durante i riti di iniziazione della massoneria si bruciava l’incenso). A sinistra, un ramo di quercia rappresenta l’antica sapienza perché per i massoni era fondamentale la conoscenza lo studio dei testi, contro quello che era una sorta di bigottismo dominante in quell’epoca. Di fronte a destra dell’altare troviamo la scultura realizzata da Francesco Queirolo: “Il Disinganno” dedicata al padre, Antonio Raimondo, il quale dopo la morte della moglie inizia a dedicarsi ad una vita dissoluta. Ad un certo punto della sua vita si ravvede e si ritira in convento dedicandosi alla vita religiosa. Francesco Queirolo rappresenta un uomo avvolto in una rete che simboleggia i vizi della vita e accanto un angelo che lo aiuta a scoprirsi il capo quindi a liberarsi dai suoi errori terreni per ravvedersi. Le due sculture, la Pudicizia e il Disinganno, sono poste su un basamento abbastanza alto e sotto ci sono dei rilievi: sotto la Pudicizia l’episodio evangelico del “Noli me tangere” in cui Cristo appare alla Maddalena in veste d’ortolano chiedendo di non essere toccato. Sotto al Disinganno è raffigurata la scena in cui Cristo dona la vista al cieco, realizzata da Giuseppe Sanmartino, autore del Cristo Velato. Il principe fa posizionare nella cappella i monumenti per la moglie, il figlio e i discendenti prossimi per essere certo che non si facciano spostamenti e cambiamenti all’interno che potrebbero provocare errori nella lettura di quello che è il suo piano iconografico. “Il dominio di se stessi” sul lato destro della Cappella rappresenta una virtù che il massone deve possedere, Celebrano la interpreta come un guerriero con l’armatura a simboleggiare la razionalità e che ha legato a sé un leone che rappresenta gli istinti dell’uomo. Poi abbiamo l’allegoria dell’educazione, della sincerità, della solarità del gioco coniugale e così via. Tutte allegorie che, da un lato, fanno riferimento alle virtù possedute dalle donne durante la loro vita e dall’altro fanno riferimento alle qualità che devono essere possedute dalle persone che vogliono entrare a far parte della massoneria. Poiché un massone è una figura guida nelle decorazioni sono sempre presenti gli angeli. “La deposizione” di Celebrano si trova sull’altare maggiore. La particolarità è che solitamente nelle chiese napoletane sull’altare si trovano delle tele, invece in questo caso troviamo una pala marmorea, tipica dell’area settentrionale. Celebrano riprende il momento in cui Cristo viene sceso dalla croce e viene accolto dalla Madonna mentre la Maddalena gli regge la mano. Poi verrà deposto nel sepolcro, infatti sotto alla mensola dell’altare c’è il sepolcro dove Cristo verrà sepolto con un angioletto che alza il coperchio. Anche qui ritroviamo la quercia, simbolo della sapienza, come nella raffigurazione della Pudicizia. Al centro della cappella troviamo il “Cristo Velato” di Giuseppe Sanmartino. Sulla scultura sorsero una serie di leggende: per alcuni il principe aveva costretto l’autore ad un assoluto segreto. Secondo altri, dopo aver eseguito l’opera, il principe accecò il Sanmartino così che non potesse più lavorare. In realtà ciò non è vero perché abbiamo tante opere del Sanmartino eseguite dopo il 1753, anno di esecuzione del Cristo Velato. Le altre sculture presenti nella cappella sono da sinistra dopo il “Decoro”: la Liberalità, lo Zelo della religione, La Benevolenza Coniugale. Dal lato destro dal Disinganno troviamo: la Sincerità, Il Dominio di Se Stessi, l’Educazione ed alla fine l’Amor Divino. Nella sottostante cavea, se si guarda il pavimento c’è una sagoma in marmo proprio dove era posizionato il Cristo. C’è una lettera del 1753 in cui il principe descrive il Cristo velato e racconta la sua invenzione di lampade perpetue poste ai lati del Cristo come segno di devozione. Sanmartino è riuscito a rendere la realtà anatomica del corpo del “Cristo Velato” riuscendo a delinearlo in modo straordinario sotto il velo. Si vedono i fori dei chiodi sia sulle mani che sui piedi e il costato. Il velo aderisce perfettamente al volto; ogni dettaglio è curato in maniera estremamente realistica e naturale, per questo è un grandissimo capolavoro. Accanto al Cristo ci sono i simboli della passione: la corona di spine, i chiodi, le tenaglie e così via. La volta è completamente affrescata e rappresenta la “Gloria del paradiso” è come abbiamo scritto l’unico dipinto della cappella, realizzato e firmato da Giuseppe Russo. Al centro c’è una colomba con un triangolo, simbolo sia della trinità che del maestro venerabile della massoneria. Si possono osservare grandi medaglioni che rappresentano i sei santi legati alla famiglia dei De Sangro. Il pavimento di marmo era fatto a forme di labirinto, oggi lo si trova solo nella parte del passetto che conduce alla cavea sotterranea perché è stato necessario eseguire dei lavori all’interno della cappella. Il pavimento originario è stato tutto sostituito con del cotto che al centro presenta lo stemma della famiglia De Sangro. Il principe muore nei suoi feudi in Puglia a Sanseverino e quindi non è sepolto nella cappella dove si trova un cenotafio cioè un monumento funebre in assenza del corpo. Il cenotafio si trova in un piccolo passetto che conduce alla cavea sotterranea, interamente sormontato dai simboli del potere del principe, ovverossia le sue virtù: un’armatura, perché era stato un valido militare e aveva combattuto accanto a Carlo di Borbone; il collare cavalleresco di San Gennaro perché apparteneva a quell’ordine; i libri perché era uno studioso; la squadra e il compasso, simboli della massoneria. Al centro del monumento c’è un ovale con un ritratto del principe realizzato da Carlo Amalfi. In realtà Carlo Amalfi realizza due ritratti uno è il principe Raimondo l’altro è il figlio. Sono posti uno di fronte all’altro, entrambi su rame, solo che quello del figlio è perfettamente conservato mentre quello del principe Raimondo è molto lacunoso. Si crede che Amalfi abbia utilizzato una pittura olio idrica, inventata dal principe stesso, che rendeva uguale l’effetto finale, ma non si sono conservati allo stesso modo. Scendendo nella cavea sotterranea si trovano le celebri macchine anatomiche. Il principe era uno studioso di anatomia e spesso assisteva alle autopsie degli amici medici, unico sistema per studiare il corpo umano. Egli fa un esperimento con ossa vere fil di ferro e cera colorata: realizza una sorta di modellini del sistema venoso e arterioso del corpo umano. Si tratta di un uomo e una donna. La donna è realizzata in maniera minuziosa. C’era anche un feto che è stato rubato. Queste macchine anatomiche non si trovavano all’interno della cappella ma erano posizionate nel laboratorio del principe, chiamato il laboratorio della fenice, all’interno del suo palazzo. Esiste un librettino intitolato “Breve nota” di tutto ciò che si poteva vedere all’interno del laboratorio del principe, pubblicato nel 1766 in forma anonima ma molto probabilmente fu scritto dal principe. Anche intorno a questa macchine anatomiche nascono tantissime leggende: si racconta, ad esempio, che il principe avesse inventato una sostanza che serviva a pietrificare il sistema arterioso e venoso e l’avesse iniettata a due servi e poi scarnificati per mostrarli agli altri. Inoltre il principe inventa la carrozza che doveva galleggiare e muoversi sull’acqua, colori particolari per i fuochi d’artificio, una stoffa impermeabile, un tipo particolare di fucile.
Sintesi dei Monumenti presenti nella Cappella San Severo: Partendo dal primo monumento posto sopra la portineria troviamo:
Monumento a Cecco de Sangro, Francesco Celebrano 1766
Monumento a Giovan Francesco di Sangro , terzo principe di Sansevero, probabile autore Antonio Corradini 1752
Monumento al Decoro, Antonio Corradini 1751-52
Lato di Sinistra della cappella:
Monumento a Paolo di Sangro, quarto principe di Sansevero, Bernardo Landini e Giulio Mencaglia 1642
Monumento alla liberalità, Francesco Queirolo 1753-54
Monumento a Giovan Francesco di Sangro , primo principe di Sansevero, probabile autore Giacomo Lazzari
Monumento alla Zelo della religione, Fortunato Onelli e Francesco Celebrano 1767
Ritratto di Vincenzo di Sangro, Carlo Amalfi
Monumento alla Soavità del giogo coniugale, Paolo Persico 1768
Monumento a Santa Rosalia, Francesco Queirolo 1756
Monumento alla Pudicizia, Antonio Corradini 1752
Al lato sinistro dell’altare Monumento ad Alessandro di Sangro, Patriarca di Alessandria, Ignoto
Altare maggiore:
Deposizione, Francesco Celebrano e Paolo Persico circa 1760
Pietà, ignoto
Lato destro della cappella partendo dall’altare:
Monumento Disinganno, Francesco Queirolo 1753-54
Monumento Sant’Oderisio, Francesco Queirolo 1756
Monumento alla Sincerità, Francesco Queirolo 1754-55
Monumento Dominio di se stessi, Francesco Celebrano 1767
Monumento a Paolo di Sangro, sesto principe di Sansevero, Antonio Corradini 1742
Monumento all’Educazione, Francesco Queirolo 1753
Monumento a Paolo de Sangro, secondo principe di Sansevero, ignoto
Monumento all’Amor Divino, probabile Francesco Queirolo
Monumento a Giovan Francesco de Sangro, quinto principe di Sansevero, Francesco Celebrano 1756
Al centro: Cristo velato, Giuseppe Sanmartino 1753
Alla volta dipinto Gloria del Paradiso o Paradiso dei Sangro, Francesco Maria Russo 1749
Prima di accedere alla cavea sotterranea si possono ammirare lastre del pavimento labirintico, Francesco Celebrano 1771
Tomba di Raimondo di Sangro, Francesco Maria Russo 1759
Ritratto di Raimondo de Sangro, Carlo Amalfi 1759
Nella cavea sotterranea le macchine anatomiche, Giuseppe Salerno 1763-64.
Dal Duomo di Napoli ed i Girolamini verso Castel Capuano
Capitolo V
Duomo di Napoli
Il Duomo di Napoli si affaccia su un antico cardo che durante l’opera del Risanamento venne allargato per dare un’esposizione migliore alla chiesa stessa. Fu fondato nel 1220 da Carlo I D’Angiò nel luogo dove esistevano due basiliche di epoca paleocristiana: Santa Restituta con il battistero di S. Giovanni in Fonte e Santa Stefania che venne demolita. L’attuale facciata è dell’inizio del 1900 mentre quella originaria fu fatta da Tino di Camaino. L’unico rifacimento era stato fatto da Baboccio di Piperno nel 1499 in seguito al terremoto. Agli inizi del secolo scorso, tramite concorso, si affidano i lavori all’architetto Enrico Alvino il quale, ispirandosi al passato, presenta un progetto di stile neogotico. Questi utilizza nella nuova facciata le sculture trecentesche che si erano conservate nel corso dei secoli e attribuite in parte a Tino di Camaino ed in parte a Baboccio da Piperno. All’ingresso del Duomo ci sono due leoni stilofori opera di Tino da Camaino. La pianta è longitudinale con una grande navata centrale. Nel transetto si trovano l’altare maggiore e le cappelle laterali, tra cui spicca la cappella di Santa Restituta che corrisponde alla originaria chiesa dedicata alla Santa. Secondo alcuni storici in corrispondenza di questa cappella sorgevano i templi di Apollo e di Nettuno di epoca greca le cui tracce sopravvivono nelle colonne ancora presenti. Vi si accede dalla navata sinistra e da qui al Battistero di S. Giovanni in Fonte che testimonia come in epoca paleocristiana il battesimo si faceva da adulti e per intera immersione nella vasca. La pianta primitiva della cappella era a cinque navate divise da colonne con capitelli di spoglio. Fu ristrutturata dopo il terremoto del 1456: le navate più esterne furono trasformate in cappelle laterali e i corrispondenti ingressi murati per rafforzare l'edificio. Altri lavori di consolidamento furono condotti nel 1742 per volontà del cardinale arcivescovo Giuseppe Spinelli, che fece murare altri due ingressi laterali per consentire maggiore stabilità all'edificio. Si datano alla fine del Seicento, invece, i restauri che hanno definito l'attuale aspetto barocco della basilica, condotti da Arcangelo Guglielmelli. Imponente il nuovo arcone frontale della parete di fondo della navata centrale decorato da un grande drappeggio in stucco, realizzato grazie alla collaborazione del Ghetti e di Lorenzo Vaccaro, che incornicia il dipinto “Gloria del Salvatore” di Nicola Vaccaro. Nella navata centrale, tra gli archi ogivali, i diciotto tondi con le figure di Cristo, della Vergine e degli Apostoli sono del De Mura mentre i cinque dipinti della pareti sono opera di Santolo Cirillo. Il soffitto delle navate laterali è quello originario con volte a crociera gotiche, quello della navata centrale è frutto dei rifacimenti barocchi ad opera di Luca Giordano il quale restaurò anche la tela centrale di Giuseppe Simonelli che raffigura il corpo di S. Restituta in una barca spinta da angeli verso Ischia. La parete d'ingresso, invece, presenta un affresco che la occupa completamente e che riproduce una falsa prospettiva architettonica. L'abside, più bassa rispetto alla navata centrale, presenta nel catino absidale l'affresco duecentesco con al centro “Cristo in trono” e, dietro l'altare la pala cinquecentesca della “Madonna in trono fra i santi Michele e Restituta” attribuita ad Andrea da Salerno. Tra le cappelle laterali della basilica di S. Restituta, notevole è la Cappella della Madonna del Principio, collocata in fondo alla navata sinistra, nel cui abside si può ammirare il mosaico della “Madonna in trono col Bambino fra i Santi Gennaro e Restituta”, realizzato nel 1322 da Lello da Orvieto. L’altare risale all’epoca barocca.
Torniamo al Duomo e più precisamente all’ingresso in alto a sinistra sono state evidenziate le tracce dell’antico impianto trecentesco non coperto da stucchi o affreschi. Tutti i dipinti presenti nella parte alta sono opere di Luca Giordano e rappresentano i santi vescovi di Napoli su tele circolari. Nelle tele tra i finestroni, del 1670, ci sono i dottori della Chiesa e gli Apostoli sempre del Giordano. Le edicole più in basso sono opere del ‘700. Nella controfacciata fu installato il monumento funebre dei re Angioini, progettato da Domenico Fontana, quando si decise di spostare le tombe dall’altare. La zona dell’abside come la vediamo oggi è frutto della ristrutturazione effettuata nel corso del ‘700. Sotto l’altare maggiore del Duomo si trova il cosiddetto Succorpo corrispondente alla cripta. La cappella, in stile rinascimentale napoletano fu commissionata dal cardinale Oliviero Carafa che nel 1497 riportò in città le reliquie di San Gennaro fino ad allora custodite nel Santuario di Montevergine di Avellino. L'ambiente è rettangolare, diviso in tre navate da colonne e rivestito di marmi. Nella navata centrale è collocata la scultura di Oliviero Carafa orante attribuita ad un’artista di scuola romana dei primi del Cinquecento. In fondo alla stessa navata si trova l'abside quadrata coperta a cupola e adornata da due medaglioni con ritratti. Sotto l’altare è conservata l’urna che contiene il corpo di San Gennaro. L'intradosso delle finestre laterali è ornato da Angeli con lo stemma dei Carafa. Il soffitto, decorato dallo scultore Tommaso Malvito, è suddiviso in diciotto cassettoni abbelliti da figure di Santi e quattro teste di Cherubini. All'ingresso si possono ammirare porte bronzee cinquecentesche con stemmi ed emblemi dei Carafa. Alla destra dell’altare troviamo la cappella Minutolo con le decorazioni trecentesche che ci permette di immaginare l’aspetto che doveva avere il Duomo nel ‘300. La cappella venne edificata in stile gotico come cappella di famiglia dei Capece Minutolo alla destra del presbiterio. Il pavimento a mosaico risale alla fine del XIII secolo. Sulle pareti ci sono affreschi di epoche diverse, tra cui le “Storie dei Santi Pietro e Paolo” e di altri Santi e la”Crocifissione”, eseguiti tra il 1285 e il 1290 da Montano d'Arezzo. Sull'altare della cappella vi è il sepolcro del cardinale Arrigo Minutolo di fattura romana. Sulla destra, il sepolcro del cardinale Filippo Minutolo caratterizzato da figure prese in prestito all'arte bizantina. La particolarità del monumento è la colorazione dei vari elementi.
Nella navata destra di fronte alla cappella si Santa Restituta è invece presente la grande cappella del tesoro di San Gennaro che fu fatta ex voto dopo la peste abbattendo tre cappelle più piccole. A pianta greca, costruita per devozione dei napoletani sopravvissuti a guerre, pestilenze e terremoti che funestarono il ‘500. L’edificazione venne affidata ad una commissione di eletti detta Deputazione di San Gennaro che esiste tutt’oggi e che gestisce il cosiddetto Tesoro costituito non solo da materiali preziosi e gioielli ma anche da terreni appartamenti e rendite lasciate dai privati per opere di carità. Il cancello di ingresso del 1665 è di Cosimo Fanzago. Tutta la cappella è contornata da diciannove sculture di bronzo. Quella posta al centro dietro l'altare maggiore raffigura San Gennaro seduto come a voler dirigere gli altri diciotto compatroni nella difesa di Napoli dalla peste, dalla fame, dalla crisi e dalle eruzioni del Vesuvio. Le maggiori sculture, compresa quella di San Gennaro del 1645, furono eseguite dal carrarese Giuliano Finelli allievo di Gian Lorenzo Bernini; mentre l'insieme della decorazione marmorea aveva avuto inizio nel 1610 su disegno del Francesco Grimaldi ed era stata realizzato nell'arco di oltre venti anni sotto la direzione di Cristoforo Monterosso. I cicli di affreschi sono in prevalenza di Domenico Zampieri detto il Domenichino sostituito, alla sua morte, dal Lanfranco il quale completò gli affreschi al centro della cupola. Sono di mano del Domenichino sia i quattro pennacchi, sia le pale d'altare riguardanti le “Storie della vita del Santo” mentre la pala olio su rame di “San Gennaro che esce illeso dalla fornace” del 1646 è opera del de Ribera. Del pittore emiliano Domenichino sono ancora: la “Decollazione di San Gennaro”, “Gli Infermi guariti con l'olio della lampada”, “Gli Infermi presso la tomba del Santo” e la “Resurrezione di un morto”. Ai lati dell’altare maggiore ci sono “gli splendori” ovverossia due candelabri d’argento, attorniati da figure allegoriche, realizzati intorno alla metà del 1700 da Del Giudice, un argentiere napoletano. Davanti all’altare si trova Il Busto reliquiario di San Gennaro, recentemente restaurato, eseguito da Etienne Godefroy, Guillame de Verdelay e Milet d'Auxerre nel 1305 su commissione del Re Carlo II d'Angiò per le cerimonie dell'anniversario dei mille anni dalla decapitazione del martire avvenuta nel 305 d. C.. La figura, di pregevole oreficeria, fu realizzata in argento e in oro e rivestita con pietre preziose e smalti raffiguranti le insegne araldiche degli Angioini. Nell'anno 1712 la Deputazione della Real Cappella del Tesoro di San Gennaro decise di ornare il Busto reliquario con una mitria (o mitra) di oro e argento affidandone la realizzazione all'orafo napoletano Matteo Treglia che dopo un solo anno di lavoro, nel 1713, consegnò un capolavoro con circa 3694 pietre preziose tra diamanti, smeraldi e rubini. La mitra è considerata una delle dieci meraviglie del Tesoro di San Gennaro ed è uno degli oggetti più preziosi al mondo. Tra le sculture di Giandomenico Vinaccia spicca il San Michele Arcangelo, a grandezza quasi naturale, commissionato da 72 sacerdoti della chiesa di San Gennaro all’Olmo e realizzato dopo il terremoto del 1688 quando il Santo venne dichiarato compatrono della città.
Il Museo del Tesoro di San Gennaro, accanto al Duomo, conserva tutti gli oggetti donati dal popolo, dai nobili e dai regnanti nel corso di circa sette secoli.
San Gennaro
Il culto di San Gennaro a Napoli ha origini antichissime e, nei secoli, i napoletani hanno eletto il Santo a riferimento religioso della loro città e delle loro tradizioni cristiane, tanto da avergli dedicato chiese, edicole, porte, guglie, ed immagini pittoriche di diverso genere, disseminate nell’intero territorio cittadino. La devozione al Santo è tale che, se fino al 1605 Napoli aveva sette compatroni Agrippino, Gennaro, Attanasio, Aspreno, Eufebio, Severo ed Agnello, successivamente Gennaro è rimasto formalmente da solo sul trono di primo protettore della città, ed ancora oggi, i napoletani e San Gennaro sono legati da indissolubile amore. Gli storici fanno risalire il culto del Santo al V secolo d.C. quando una parte dei resti mortali furono traslati, tra il 413 ed il 431 d.C., nelle catacombe di San Gennaro a Capodimonte provenienti da Marciano, villaggio tra Agnano e Fuorigrotta, oggi Cupa Marzana. Successivamente le reliquie furono portate via dalle catacombe per essere conservate prima nella Cattedrale di Santa Maria di Gerusalemme a Benevento, poi nell’Abbazia di Montevergine in provincia di Avellino, e quindi definitivamente sotto gli Aragonesi, nella Cappella del Succorpo nel Duomo di Napoli. Gli altri resti mortali, il capo e le ampolle contenenti il sangue furono conservati prima nel torrione del Tesoro Vecchio poi nella Cappella del Tesoro di San Gennaro, luoghi ubicati nel Duomo di Napoli. San Gennaro era vescovo di Benevento. Nel 305 d. C si recò insieme al lettore Desiderio e al diacono Festo in visita ai fedeli a Pozzuoli. Il diacono di Miseno, Sossio, amico di Gennaro, volendo assistere alla visita pastorale, lungo la strada per raggiungere Pozzuoli fu arrestato da Dragonzio, governatore della Campania. Gennaro, insieme a Festo e Desiderio, andò in visita dal prigioniero ma furono anch'essi arrestati e condannati ad essere sbranati dai leoni nell'anfiteatro di Pozzuoli. Il giorno dopo la condanna fu mutata a causa di un miracolo, infatti, dopo una benedizione fatta da Gennaro, le fiere si erano inginocchiate al cospetto dei condannati. Dragonzio allora ordinò che a Gennaro e i suoi compagni venisse tagliata la testa. Furono condotti presso il Forum Vulcani, l'attuale Solfatara di Pozzuoli, e lì decapitati. La stessa sorte toccò anche a Procolo, diacono della chiesa di Pozzuoli e ai due laici Eutice e Acuzio che avevano osato criticare la sentenza di morte. Nel luogo del supplizio fu eretta una chiesa in ricordo del loro martirio. Secondo la tradizione, subito dopo la decapitazione il sangue del Santo sarebbe stato conservato in due ampolle da una donna di nome Eusebia, come era consuetudine a quel tempo. Il racconto della donna tuttavia compare pubblicato per la prima volta solo nel 1579 nel volume napoletano "Le vite de' sette Santi Protettori di Napoli" del canonico Paolo Regio. Secondo un'altra cronaca, durante l'assedio posto a Napoli dal principe di Benevento Sicone nell'anno 817, il corpo di S. Gennaro fu trafugato e portato a Benevento. Da questa città nel 1159, Guglielmo il Normanno fece trasferire le reliquie del martire nel convento di Montevergine. Dopo tre secoli, nell'anno 1480, durante alcune riparazioni alla chiesa del convento, ordinate dal cardinale d'Aragona, fu rinvenuto sotto l'altare un sarcofago con iscrizione latina: Corpus S. Januari Episcopi beneventani et martíris. Il vescovo di Napoli fu molto impressionato da questa scoperta e pretese il diritto di riavere il corpo a Napoli. Solo più tardi, nel 1497, quando a presule della diocesi di Napoli si trovò il cardinale Oliviero Carafa questi ottenne, da papa Alessandro VI, il permesso di trasferire a Napoli le reliquie di S. Gennaro custodite nella cappella del Succorpo all’interno del Duomo. A seguito di una terribile pestilenza che funestò Napoli fra il 1526 ed il 1529, i napoletani fecero voto a San Gennaro di edificargli una nuova cappella che venne realizzata solo dopo il 1608. Oggi le due ampolle, fissate all'interno di una piccola teca rotonda realizzata con una larga cornice in argento e provvista di un manico, sono conservate nella cassaforte dietro l'altare della Cappella del Tesoro di San Gennaro. Delle due ampolle, una è riempita per 3/4, mentre l'altra più alta è semivuota poiché parte del suo contenuto fu sottratto da re Carlo III di Borbone che lo portò con sé in Spagna. La liquefazione durante la cerimonia è ritenuta foriera di buoni auspici per la città. Al contrario si ritiene che la mancata liquefazione sia presagio di eventi fortemente negativi e drammatici. Un analogo fenomeno si suppone che avvenga anche a Pozzuoli dove, nella chiesa di San Gennaro presso la Solfatara, su di una lastra marmorea su cui si afferma che Gennaro fosse stato decapitato e che si fosse impregnata del suo sangue, ancora oggi c'è chi sostiene che delle tracce rosse diventino di colore più intenso e trasuderebbero in concomitanza con il miracolo più importante che avviene a Napoli. S. Gennaro è famoso nel mondo per il prodigioso evento dello scioglimento del suo sangue che si compie per tre volte all’anno: la prima domenica del mese di maggio, il 19 settembre ed il 16 dicembre. La prima liquefazione documentata con certezza risale al 17 agosto 1389. Da allora il culto, la devozione e le tradizioni popolari hanno accompagnato il ricordo del martire.
La più antica raffigurazione di Gennaro come patrono della città è l’affresco sulle pareti di una cripta nelle catacombe di San Gennaro a Capodimonte, risalente presumibilmente al 512 d. C.. Vi è ritratto un Gennaro giovane con alle spalle il Monte Somma e il Vesuvio. L’opera fu realizzata probabilmente dopo la tremenda eruzione del Vesuvio del 512 d. C. in segno di riconoscimento perché proprio nelle catacombe si erano rifugiati e quindi salvati migliaia di superstiti. Nello stesso periodo fu fondata, nei pressi delle catacombe, la basilica di San Gennaro extra moenia poi affidata ai monaci benedettini e punto di riferimento della chiesa napoletana tanto che durante la settimana santa, come raccontano gli storici, l’arcivescovo si recava nella basilica allora denominata, Sanctorum Ianuarii et Agrippini situm forus ad corpus, poiché vi era sepolto anche il vescovo Agrippino, e celebrava messa. Nel 1468, il cardinale Oliviero Carafa, fondò, sul luogo della basilica benedettina, l’ospedale di San Gennaro e quindi nel 1656 fu edificato anche l’ ospizio di San Gennaro dei poveri. Il complesso cadde in disuso ed oggi è in parte un ospedale pubblico. Le catacombe di San Gennaro e la chiesa di San Gennaro extra moenia sono visitabili. Poco distante nel parco della Reggia di Capodimonte vi è una Cappella di San Gennaro, fatta costruire da re Carlo di Borbone nel 1745 per esprimere la sua devozione al patrono. A testimonianza dell’importanza data al luogo di culto furono chiamati insigni artisti dell’epoca: Ferdinando San Felice per la struttura architettonica, mentre il quadro dell’altare maggiore fu commissionato a Francesco Solimena. Un'altra area della città le colline di San Martino e del Vomero ospitano monumenti ed opere in memoria di San Gennaro. Nella Certosa di San Martino vi è la Cappella di San Gennaro quasi interamente affrescata da Battistello Caracciolo, che ripercorre alcuni episodi della devozione gennariana: il martirio e la processione contro l’eruzione del Vesuvio del 1631. Dal 1720 sull’altare è posto l’ex voto marmoreo, opera di Domenico Antonio Vaccaro, che riproduce il gesto della Vergine che offre le chiavi della città a Gennaro. Di Domenico Antonio Vaccaro il volto che esce da una cornice nel chiostro grande della Certosa di San Martino. Altri monumenti sono dedicati al santo patrono di Napoli, fra questi ricordiamo la Guglia di San Gennaro, in piazza Riario Sforza, innalzata per ringraziarlo di aver placato la furia del Vesuvio nel 1631, ringraziamento rinnovato con la costruzione dell’edicola votiva, in quella che attualmente si chiama piazza De Nicola, dinanzi la chiesa di Santa Caterina a Formiello, e che fu fatta realizzare a Lorenzo Vaccaro e poi al figlio Domenico Antonio Vaccaro. Qui il Santo guarda il Vesuvio quasi a volerlo sfidare. Ed, infine, Porta San Gennaro dove, Mattia Preti, nel 1656, raffigurò tra gli altri San Gennaro. All’artista era stato chiesto di raffigurare diversi santi in segno di devozione perché il popolo cercava protezione divina contro la diffusione del morbo delle peste.
I Girolamini
Uscendo dal Duomo incontriamo il grande complesso dei Girolamini dell’ordine di S. Filippo Neri. Il nome dell’ordine deriva dal luogo in cui si riunivano a Roma presso la chiesa di S. Girolamo alla Carità. Quando arrivano a Napoli acquistano il palazzo di Carlo Seripando che si trova di fronte al Duomo. I Girolamini danno grande spazio alla cultura e costituiscono una delle biblioteche più prestigiose del tempo. Inoltre danno vita a forme di aggregazione come gli oratori. La chiesa, il cui ingresso è su via Tribunali è intitolata a S. Maria della Natività. La facciata fu realizzata dal Lazzari, ma fu rifatta in marmi bianchi e bardiglio nel 1780 su disegni di Ferdinando Fuga. Ai lati è delimitata da due campanili gemelli dotati di orologi, mentre il prospetto vero e proprio è impaginato su due ordini delimitati da una trabeazione. Nel registro inferiore, articolato da lesene scanalate, si aprono tre portali di cui quello centrale è il maggiore. Il gruppo scultoreo sovrastante il portale centrale, opera di Giuseppe Sanmartino, riproduce le tavole dei comandamenti con il testo in ebraico. La parte superiore della facciata è alleggerita da un finestrone rettangolare sormontato da un timpano triangolare oltre il quale svetta un coronamento costituito da un timpano arcuato e spezzato, al cui centro si innalza un setto decorato con l'immagine della Madonna col Bambino sormontato da un ulteriore timpano arcuato. L'interno è molto vasto e presenta una pianta a croce latina suddivisa in tre navate da ventiquattro colonne di granito provenienti dall’isola del Giglio e donate dal Gran Duca di Toscana. Nella controfacciata troviamo la Cacciata dal tempio dei mercanti realizzata da Luca Giordano nel 1684. Tra la navata centrale e quella a sinistra, lungo il colonnato, è visibile la tomba di Giambattista Vico. A lato dell’altare maggiore c’è la cappella dedicata a S. Filippo Neri completamente affrescata da Francesco Solimena con le storie della vita del santo. I chiostri sono due: il Piccolo Chiostro detto "maiolicato" venne realizzato su progetto del Dosio che adattò lo spazio del cortile dell'originario Palazzo Serripando in un chiostro a pianta quadrata. Il corpo di fabbrica è sorretto da cinque colonne per lato mentre ai quattro lati ci sono pilastri in piperno. La pavimentazione, in maioliche, è stata ricavata dal precedente edificio. Al centro c'è un bellissimo pozzo del Cinquecento. Il Chiostro dell'Aranceto è il secondo chiostro del complesso ed è così denominato proprio per la coltivazione degli aranci. Fu eretto nel Seicento sui disegni di Dionisio Nencioni di Bartolomeo e di Dionisio Lazzari.
Da Piazza Riario Sforza a Palazzo Ricca
La Piazzetta Sisto Riario Sforza è proprio all’uscita laterale del Duomo oppure ci si arriva percorrendo via dei Tribunali verso Castel Capuano. E’ da considerarsi il cuore della Napoli del ‘600, è situata in un ambiente chiuso di fronte al complesso del Pio Monte della Misericordia. Da questo lato della piazza insiste una scalinata in piperno da dove uscivano le statue dei compatroni in occasione della festa di S. Gennaro, dato che vi è l’accesso alla Cappella del Tesoro. Al centro della piazza vi è l’obelisco di San Gennaro di Cosimo Fanzago del XVII secolo. Di fronte troviamo Il Pio Monte della Misericordia, istituzione benefica nata nel periodo della contro riforma fondata da 7 nobili napoletani nel 1602 e che trovò in un primo momento la sua sede in una chiesa costruita da Giovan Giacomo di Conforto a pochi metri dalla scala che conduceva al Duomo.
Dal 1658 al 1678 l'edificio divenuto insufficiente per le cresciute esigenze dell'ente, fu ampliato, grazie all'acquisto di costruzioni limitrofe, dall'architetto Francesco Antonio Picchiatti, fino ad acquisire l'aspetto di quella che è ancor oggi la sede dell'istituzione. Il Pio Monte comprende una chiesa a pianta ottagonale. Le pareti laterali del presbiterio presentano una Sant'Anna di Giacomo De Castro e una Madonna della Purità di Andrea Malinconico, il pavimento della chiesa è di marmo policromo e le acquasantiere, disegnate dal Picchiatti, sono particolari per la bizzarria delle forme. Sull'altare maggiore l'attenzione del visitatore è accentrata ad ammirare il capolavoro di Caravaggio: le Sette Opere di Misericordia. La facciata del palazzo presenta un portico in piperno con cinque arcate al piano terra con un fregio sulla fronte recante il motto del Monte: Fluent ad eum omnes gentes un verso di Isaia. All'interno del portico, un complesso scultoreo raffigura al centro la Madonna della Misericordia ed ai lati due figure allegoriche che riassumono le opere di carità corporale. Le statue furono eseguite da Andrea Falcone, figlio del più celebre Aniello, forse su disegno di Cosimo Fanzago. Il palazzo fu sottoposto a restauri nel 1763 ed agli inizi del XX secolo. La quadreria è formata per gran parte da dipinti dei secoli XVI e XVII, frutto di donazioni fatte a beneficio del Pio Monte tra cui spicca senz'altro la cospicua collezione lasciata dal pittore Francesco De Mura. Originariamente nel 1782 il maestro donò in eredità all'istituzione 180 dipinti, in parte venduti secondo il suo volere per far fronte alle opere assistenziali; di questa collezione, oggi restano in quadreria 43 dipinti.
Uscendo dal Pio Monte della Misericordia continuiamo a percorrere il decumano verso Castel Capuano, nella zona che apparteneva al Sedil Capuano. Al Sedile appartenevano le famiglie più antiche e nobili di Napoli. Il governo dello stesso era affidato alla famiglia più in vista della zona. Di notevole interesse è l’Ospedale della Pace costruito riadattando il palazzo di Sergianni Caracciolo che venne edificato nel XIV secolo per volontà di Ser Gianni Caracciolo (detto “Sergianni”). Costui, Gran Siniscalco del regno e amante della regina Giovanna II, decise di costruirsi un dimora accanto a Castel Capuano, luogo in cui soggiornavano la sovrana e la corte. Nel 1587 la proprietà venne acquistata dai frati dell’Ordine di San Giovanni di Dio giunti a Napoli dalla Spagna per occuparsi dell’assistenza ai malati e ai bisognosi. Il palazzo venne trasformato in ospedale e i lavori vennero affidati a Pietro di Marino che, della struttura originaria, lasciò intatti il portale sormontato da un arco marmoreo sostenuto da alcune colonne con capitelli di vario disegno e il doppio cortile. In seguito, nel 1629 su progetto di Pietro De Marino, all’edificio venne affiancata la chiesa dell’Assunzione di Maria, divenuta in seguito Santa Maria della Pace, in ricordo dell’intesa tra Filippo IV di Spagna e Luigi XIV di Francia firmata il 7 novembre 1659. Nel 1742 alcuni lavori di restauro vennero effettuati da Niccolò Tagliacozzi Canale, il quale venne chiamato soprattutto per rimediare ai danni subiti dalla struttura durante il terremoto avvenuto dieci anni prima. Il palazzo continuò ad espletare la sua funzione di ospedale fino al 1974, anno in cui questa istituzione fu trasferita nella sede di via Manzoni. Successivamente gli ambienti dell’edificio ospitarono uffici comunali e la sede dei Giudici di Pace. Nel complesso è da ammirare la sala del Lazzaretto a cui si accede da un grande scalone. La sala è detta del Lazzaretto perché questo luogo era uno dei pochi della città che accoglieva i lebbrosi, gli appestati ed altri malati infetti. La sala è lunga 60 metri e sul fondo è possibile ammirare l'altare in marmi commessi, del XVIII secolo, che anticamente separava l'ambiente principale dal gabinetto medico. Alta 12 metri e larga 10 presenta, inoltre, un ballatoio che corre lungo le pareti posto a mezza altezza e che in origine era usato per servire cibo e bevande agli appestati al fine di evitarne il contagio. Gli affreschi di Andrea Viola e Giacinto Diano sono collocati sotto la volta e tra le finestre. Poco oltre incontriamo il Palazzo Ricca. Il palazzo, sito in via dei Tribunali, fu acquistato dal Monte e Banco dei Poveri il 16 marzo del 1616 da Gaspare Ricca; ad esso fu congiunta molto più tardi, nel 1787, la grande casa confinante comprata dagli eredi di don Pietro Cuomo. Il decreto di Ferdinando I di Borbone, del 29 novembre 1819, istituì l’Archivio generale degli antichi Banchi Pubblici napoletani.
Nel cortile si nota una cappella, appartenente ancora oggi alla Curia, eretta nel 1663. Gli scavi condotti per erigerla portarono alla luce le vestigia dell'antico Ginnasio e delle Terme napoletane. Geronimo d'Auria aveva scolpito nel 1618 quattro statue di marmo raffiguranti San Gennaro, San Severo, San Tommaso 'Aquino e Sant'Antonio di Padova. Nel 1673, Luca Giordano affrescò la lamia e dipinse un quadro sull'altare maggiore mentre, poco più di dieci anni dopo, Francesco Solimena dipinse i due quadri raffiguranti l'Annunciazione e la Natività. Le scale secondarie che portano ai vari piani sono opera dell’architetto e nobile napoletano Ferdinando Sanfelice realizzate tra il 1734 ed il 1736 per servire i nuovi corpi di fabbrica aggregati nel ‘700. Dell'originaria costruzione cinquecentesca oggi restano solo gli archi della scala mentre l'edificio fu interamente ristrutturato negli anni compresi tra il 1739 e il 1773. La facciata venne rifatta, nel 1772, su disegno di Gaetano Barba. Il portale in piperno era completato da possenti battenti e dalla rosta , oggi purtroppo sostituiti con una porta in ferro. Alla sommità vi è uno stemma con le armi del Sacro Monte. Nelle sale al secondo piano sono visibili gli affreschi settecenteschi originali. Va ricordato che a seguito di lavori di restauro nel 1971, nel cortile sono stati ritrovati i resti di antiche mura greche e di un grosso frammento di pavimento musivo tardo romano.
Da Pizzofalcone a Palazzo Cellammare
Capitolo VI
Dopo la fondazione di Neapolis la zona di Pizzofalcone venne abbandonata fino al 1500 quando vennero costruiti palazzi e chiese. Il percorso storico parte dalla zona di via Monte di Dio, dalla Chiesa di Santa Maria degli Angeli sulla collina di Pizzofalcone. La Chiesa fu fondata nel 1587 per volere della nobildonna Costanza Doria del Carretto, che donò i terreni ai Padri Teatini. L’architetto fu il padre teatino Francesco Grimaldi che, agli inizi del’600, progettò la chiesa a croce latina a tre navate così come la vediamo oggi. La facciata fu rifatta nel XVIII secolo. I finestroni dell’imponente cupola, disegnata dal Grimaldi, rendono l' interno molto luminoso. Gli affreschi nelle volte della navata centrale sono di Giovan Battista Benaschi e raffigurano scene di Vita della Vergine, nella cupola l’Incoronazione della Vergine. La cappella dell’Immacolata, la seconda a sinistra, presenta una Vergine Maria, tela di Massimo Stanzione. Nella cappella adiacente all’abside, la cosiddetta Cappella del Coro, c’è un bellissimo dipinto di San Gaetano del 1662 di Luca Giordano.
Usciti dalla chiesa, sulla destra inizia la via Monte di Dio. La zona è così chiamata da quando i monaci Domenicani della Sanità vennero chiamati a risiedere su questo monte da cui si poteva godere il bel panorama del mare e di Napoli. Più avanti sulla strada che procede in leggera salita troviamo il Palazzo Serra di Cassano, già sede dell’Istituto d Studi filosofici. Il palazzo fu eretto nella prima metà del 1600 su progetto di Ferdinando Sanfelice che, in quegli anni, stava realizzando la vicina Chiesa della Nunziatella. L’ingresso originario del palazzo era su via Egiziaca a Pizzofalcone ma fu murato dai proprietari nel 1799 in segno di lutto perenne per la condanna del figlio, Gennaro Serra di Cassano, che aveva partecipato alla rivoluzione della Repubblica Napoletana. Tra i personaggi più famosi del periodo della Repubblica napoletana troviamo Eleonora de Fonseca Pimentel nata a Roma il 13 Gennaio 1752 e morta a Napoli il 20 Agosto 1799. Di famiglia portoghese, da Roma si trasferisce a Napoli quando vengono rotti i rapporti diplomatici tra il suo Paese e lo Stato Pontificio. Grazie allo zio Abate Antonio Lopez, impara fin dall’infanzia a leggere e a scrivere in latino e in greco. Inoltre parlava diverse lingue tanto da essere ammessa fin da giovane all’Accademia dell’ Arcadia. Diresse il giornale ufficiale della Repubblica il Monitore Napoletano. Alla caduta della Repubblica Napoletana, Eleonora fu arrestata e condotta in una delle navi ancorate nel golfo di Napoli insieme ai rei di Stato in attesa della definizione delle sentenze. In un primo tempo la Giunta di Stato riconobbe e sottoscrisse ad Eleonora una "obbliganza penes acta", un contratto ed una sentenza insieme, con cui il giudice ed il condannato rinunciavano al processo ed il secondo giurava, pena la morte, di non rientrare nel Regno. Tuttavia la Giunta di Stato, tre giorni dopo, dichiarò di aver commesso un errore formale ed Eleonora fu condotta nel Carcere della Vicaria. Il 17 agosto fu condannata a morte e venne impiccata, insieme a Gennaro Serra di Cassano il 20 agosto 1799 a soli 47 anni nella storica Piazza Mercato. Salì al patibolo con coraggio. Le sue ultime parole furono una citazione virgiliana: "Forsan et haec olim meminisse iuvabit" (forse un giorno gioverà ricordare queste cose).
L’attuale ingresso è su via Monte di Dio quindi in posizione speculare rispetto all’ingresso del Sanfelice. La particolarità dell’ingresso del palazzo Serra di Cassano è il grande scalone a doppia rampa a corpo unico in piperno e marmo che sembrerebbe montato al contrario poiché ci si arriva dopo aver superato alcuni porticati, il cortile ottagonale ed un’ampia arcata. Lo scalone fu realizzato per il matrimonio dell’ultima figlia del principe Serra di Cassano la quale, per evitare l’estinzione del ramo napoletano della famiglia, sposò il cugino del ramo genovese. Salito lo scalone, prima di accedere alle sale occupate dall’Istituto degli Studi Filosofici, ai lati del portale troviamo due mascheroni che oltre ad una funzione decorativa servivano per spegnere le torce. La prima sala ha delle vedute con prospettive e nel soffitto un finto tendone porta il simbolo della famiglia Serra di Cassano con il motto in latino che tradotto dice “Non c’è futuro senza passato”. Si passa in un secondo ambiente che in passato era un terrazzo che fu chiuso nell’Ottocento. Alle pareti varie riquadri con vedute. La piccola sala serviva per accedere alla galleria dato che ogni famiglia nobile aveva una piccola raccolta da mostrare ai visitatori. Luigi Serra di Cassano aveva iniziato la raccolta di libri tanto da diventare un famosissimo bibliografo. I suoi libri sono stati acquistati dall’Inglese Lord Spencer. Forse proprio la passione per i libri e la lettura stimoleranno in Gennaro idee rivoluzionarie a favore del popolo che lo porteranno alla morte con Eleonora de Fonseca ed altri giacobini il 20 Agosto del 1799. Da questo ex terrazzo che affacciava su uno dei cortili interni, accediamo alla quadreria nella quale erano esposti i vari quadri di proprietà della famiglia tra cui uno di Mattia Preti. La stanza successiva, stile roccocò, è tutta affrescata da Giacinto Diano con storie di Scipione l‘Africano(2), personaggio le cui gesta influenzarono non poco Gennaro Serra di Cassano. (2)Publio Cornelio Scipione (Publius Cornelius Scipio) detto Scipione l’Africano nacque a Roma nel 235 a.C. da una delle più antiche famiglie della Gens Cornelia. Sconfisse Annibale nella battaglia di Zama. Dopo molte campagne, rientrato a Roma Scipione fu accusato di essersi appropriato con il fratello di ingenti somme e per tale motivo, amareggiato, si ritirò nella sua villa a Liternum, in Campania pronunciando la famosa frase: “Ingrata patria non avrai le mie ossa”. Nel 183 a.C. Publio Cornelio Scipione Africano muore a cinquantadue anni. Scipione l'Africano è citato nel testo dell'inno italiano. Le sale interne del piano nobile sono in stile roccocò molto simili alle stanze della Reggia di Caserta.
Chiesa della Santissima Annunziata
La Chiesa della Nunziatella in realtà è la Chiesa della Santissima Annunziata. L’edificio fu acquistato nel 1588 dalla marchesa della Valle Anna Mendoza e donato ai Gesuiti che vi insediarono un noviziato. Nel 1736 la chiesa fu rimaneggiata dall'architetto Ferdinando Sanfelice, il quale modificò radicalmente l'impianto originario del XVI secolo. Attualmente è la cappella della famosa Scuola Militare Nunziatella già “Real Collegio Militare” istituito da Ferdinando IV di Borbone nel 1774. La chiesa è la più importante espressione del ‘700 napoletano. Ha un’unica navata con volta a botte affrescata da Francesco de Mura (Assunzione della Vergine e Virtù) e quattro cappelle laterali. Nell’abside pregevole il ciclo mariano di Ludovico Mazzanti nonché l’Adorazione dei Magi di De Mura. L’altare maggiore e la balaustra presentano marmi policromi e decorazioni in bronzo dorato e due coppie di angeli reggi fiaccola realizzati da Giuseppe Sanmartino nel 1756 probabilmente su disegno di Ferdinando Sanfelice. Nella controfacciata Quattro Santi dipinti dal Mazzanti.
Santa Maria Egiziaca a Pizzofalcone
Santa Maria Egiziaca a Pizzofalcone fu iniziata nel 1616 da Cosimo Fanzago e terminata nel 1716 dall’architetto Arcangelo Guglielmelli. La facciata è sollevata rispetto al piano d’ingresso e ha una forma convessa. E’preceduta da una scenografica scala curvilinea con balaustra progettata e realizzata dal Guglielmelli. L'altare maggiore fu disegnato nel 1738 da Giuseppe Bastelli e mostra una tela raffigurante la Madonna con Bambino, Santa Maria Egiziaca e Sant'Agostino, opera seicentesca di Onofrio Palumbo. Pregevoli le sculture lignee di Nicola Fumo e le acquasantiere in bardiglio con simboli agostiniani. Il pavimento è di riggiole del ‘700. Interessanti i due chiostri monumentali.
Borgo di Santa Lucia
Il Borgo Santa Lucia è uno storico rione di pescatori che, tra il Seicento e il Settecento, fu risistemato e abbellito per iniziativa del viceré Enrique de Guzmán conte di Olivares. Il progetto più importante fu affidato a Domenico Fontana che realizzò l’odierna via Santa Lucia trasformando il borgo in un luogo prestigioso e gradito ai Borbone. Vero è che gli artigiani Luciani (appellativo dato agli abitanti del sito) divennero i fornitori della Real Casa. L’opera di bonifica continuò grazie a vari viceré fino al cardinale don Gaspare Borgia nel 1620. Tra i residenti più illustri del rione ricordiamo l'ammiraglio Francesco Caracciolo, ufficiale della Marina Borbonica, il quale per ordine dell'ammiraglio Nelson fu barbaramente impiccato e gettato in mare. Il corpo, recuperato dagli abitanti di Santa Lucia, fu sepolto in Santa Maria della Catena, chiesa del borgo, dove a ricordo dell’episodio fu posto un epitaffio nel 1881.
La basilica di Santa Lucia a Mare è costituita da 3 chiese l’una sull’altra. La prima, fondata secondo la tradizione da una nipote di Costantino, è databile al IX secolo. La seconda risale al 1588 per iniziativa della badessa Eusebia Minadoa. Nel 1845 l’innalzamento del livello di via Chiatamone causò l’interramento della chiesa del ‘500 per cui la terza chiesa venne costruita sull’impianto della prima. I bombardamenti del 1943 distrussero l’intero complesso che fu ricostruito secondo l’impianto del XIX secolo. Dell’antica chiesa rimangono una statua lignea di Santa Lucia del XVIII secolo di Nicola Fumo, una tavola del Rosario di Teodoro D’Errico del 1588, un ritratto del sacerdote Luigi Villani di Gioacchino Toma, un fonte battesimale medievale e alcuni affreschi nell’abside raffiguranti Santa Lucia al Monte.
Santa Maria della Vittoria
In Piazza Vittoria, all’inizio di Riviera di Chiaia, si trova la chiesa di Santa Maria della Vittoria che fu realizzata nel 1572 per commemorare la vittoria di Giovanni D’Austria al comando della Lega Santa nella battaglia di Lepanto contro l’impero ottomano, il 5 ottobre del 1571. La chiesa venne annessa al convento dei Carmelitani e nel 1628 fu modificata dalla figlia del comandante, Giovanna D’Austria, e donata ai Teatini. L’aspetto odierno è del 1800 quando la facciata della chiesa fu incorporata in un palazzo. L’interno è a croce greca con pregevoli colonne corinzie di marmo scuro che sorreggono la cupola. Tra le opere ivi conservate ricordiamo il dipinto di Massimo Stanzione l’“Annunziata”.
Piazza dei Martiri
Piazza dei Martiri fa parte di un’area extra muraria soggetta a più ristrutturazioni nel corso dei secoli. Nel IX secolo, infatti, in quest’area fu costruito un romitorio a cui fu annesso un monastero con relativa chiesa. Alla fine del 1600 il duca Calabritto acquistò gli orti e i giardini del monastero e fece costruire il palazzo Calabritto rimaneggiato poi da Carlo Vanvitelli. Nel 1788 fu abbattuto il monastero e nel 1810 la chiesa per far posto all’odierna piazza triangolare al centro della quale, nel 1848, venne posta una fontana che Ferdinando II di Borbone voleva dedicata a Santa Maria della Pace. Dopo l’Unità d’Italia, nel 1868, al centro della piazza fu posta una colonna di granito grigio dedicata ai martiri napoletani caduti per la libertà a cui furono aggiunti quattro leoni a rappresentare le diverse fasi storiche:
Il leone morente per i martiri della repubblica napoletana del 1799;
Il leone trafitto dalla spada per i martiri carbonari del 1820;
Il leone sdraiato per i caduti liberali del 1848;
Il leone in piedi per i caduti garibaldini del 1860.
Sulla sommità della colonna è posta una statua che simboleggia “le Virtù dei martiri”di Emanuele Caggiano.
Palazzo Cellamare
Palazzo Cellamare si affaccia su via Chiaia. Costruito nella seconda metà del 1500 venne realizzato perché diventasse la dimora di campagna di Giovan Francesco Carafa, abate di Sant’Angelo. Nel 1700 il pakazzo fu acquistato da Antonio Giudice principe di Cellammare e nel 1729 venne restaurato da Ferdinando Fuga su commissione del Cardinale Nicola Giudice fratello di Antonio. In quell’occasione venne realizzato l’arco di ingresso in piperno con lo stemma della famiglia Cellammare, l’alzato in bugnato, la sistemazione della cappella della Vergine del Carmelo e la sistemazione della rampa di scale. Il piano nobile fu affidato a Fedele Fischetti. In seguito ad una serie di vicissitudini l’edificio divenne proprietà del principe di Francavilla nel 1770 e infine proprietà dei Borbone nel 1782.
Palazzo Reale, San Carlo, Galleria Umberto
Capitolo VII
La costruzione del Palazzo Reale avviene agli inizi del 1600, durante il periodo vicereale, su progetto di Domenico Fontana, architetto romano, incaricato dal conte di Lemos di costruire una Reggia accanto al vecchio palazzo vicereale, dove oggi c’è lo slargo di piazza Trieste e Trento. Il conte di Lemos desiderava avere una struttura idonea ad ospitare il re Filippo di Spagna, che prospettava una visita a Napoli mai avvenuta.
Inizialmente il Palazzo presentava dimensioni minori rispetto a quelle attuali. Fu poi ampliato in epoca borbonica per esigenze legate alla vita di corte di Carlo. La parte più antica del palazzo è quella che affaccia su piazza Plebiscito, definita ala nuova, che si estende verso Castel Nuovo. Rispetto al progetto iniziale di Domenico Fontana le arcate della facciata al primo livello furono chiuse nel ‘700 da Vanvitelli per problemi di staticità e alternate a nicchie al cui interno furono poste, dopo l’Unità d’Italia e per volere di Umberto I di Savoia, le famose statue che rappresentano i re capostipiti delle dinastie che hanno regnato a Napoli.
La piazza antistante la Reggia non si chiamava piazza Plebiscito ed era molto più piccola. Era detta Largo di Palazzo o Foro Regio, non era pavimentata e vi si affacciavano diversi edifici più antichi e diverse chiese: Santo Spirito di Palazzo, San Luigi di Palazzo, Santa Croce. Non esisteva via Acton con il tunnel della Vittoria che collega con la Riviera per cui chi voleva andare verso la zona di Chiaia doveva necessariamente passare per lo slargo di palazzo. Nella piazza vi era la fontana che oggi si trova di fronte all’hotel Excelsior a via Caracciolo e la cosiddetta statua del Gigante, che rappresentava una divinità fluviale.
Attaccato al palazzo reale vi era il palazzo vicereale che aveva fatto costruire Don Pedro De Toledo alla metà del ‘500. Il palazzo verrà abbattuto negli anni 50 del 1800. Il frontone è interamente decorato con i simboli del potere spagnolo.
Nella Reggia originariamente c’era un unico cortile detto Cortile d’Onore. Successivamente furono inseriti il Cortile delle Carrozze ed il Cortile del Belvedere che da un lato affacciava sul mare. Un altro spazio era occupato dai giardini dove un tempo era ubicata la fabbrica delle porcellane di Napoli. Al primo piano si può ammirare il giardino pensile della regina così chiamato perché posto al livello dell’appartamento della regina.
Dal Cortile d'Onore con archi a tutto sesto e un notevole utilizzo della pietra vulcanica piperno si accede nel Palazzo Reale. Un monumentale scalone a due rampe, definito da Montesquieu “lo scalone più bello d’Europa”, immette nell’appartamento storico. Nella prima metà dell’800, in seguito ad un incendio, fu Gaetano Genovese ad occuparsi dell’intera decorazione dello scalone che celebra tutta la potenza del casato reale. Le pareti, divise in modo regolare, sono interamente ricoperte di marmi rosati e bianchi e bassorilievi con armi e armature, trofei, ghirlande di alloro, elementi zoomorfi. Da notare la balaustra di marmo bianco elegantemente traforato con motivi floreali alternati a losanghe. I due lampioni di ghisa ai piedi delle scale furono realizzati dalla fabbrica di Pietrarsa. La volta a padiglione dello scalone è tutta decorata a stucco bianco con festoni e stemmi, al centro quello dei Savoia che sostituì quello dei Borbone. Dall’altra parte del soffitto c’è il simbolo della Trinacria ovverossia della regione Sicilia perché con la Restaurazione, quindi dopo il periodo napoleonico, il regno di Napoli divenne il Regno delle due Sicilie.
Saliti al primo livello si passeggia nell’ambulacro, una sorta di corridoio che gira intorno al Cortile d’Onore. Secondo il progetto di Domenico Fontana doveva risultare con tutte arcate aperte, una sorta di loggia. Successivamente, durante i lavori di Gaetano Genovese, si decise di chiudere queste arcate con delle grandi vetrate in maniera tale da creare un corridoio chiuso per renderlo più comodo e confortevole. Sul lato destro si accede alle stanze dell’Appartamento storico.
Nonostante il palazzo avesse subito diversi danni e spoliazioni durante il periodo bellico, è stato possibile ricostruire le stanze di etichetta. Si susseguono trenta sale oggi adibite a Museo.
Il primo ambiente è il Teatrino di Corte. Nel progetto originario c’era una sala utilizzata come salone delle feste poi, nel 1768, Ferdinando di Borbone diede incarico a Ferdinando Fuga di realizzare un piccolo teatro come omaggio alla regina Maria Carolina d’Austria grande appassionata di teatro, un regalo per le loro nozze. Tutt’intorno ci sono le statue originali di Angelo Viva realizzate in carta pesta e gesso che rappresentano le nove Muse con Apollo Minerva e Mercurio. Nella parte alta del palcoscenico si nota lo stemma crociato sabaudo inserito dopo l’Unità d’Italia. Dalla parte opposta c’è il palchetto utilizzato dai reali per assistere alle rappresentazioni private. Per le rappresentazioni pubbliche già nel 1737 era stato inaugurato il teatro San Carlo.
Un altro ampio spazio è dedicato alla Biblioteca Nazionale, un altro ancora agli uffici della Sovraintendenza. Nelle scuderie si svolgono mostre temporanee.
Si passa alle prime sale, chiamate Anticamere, che occupano l’interno della parte più antica del palazzo. L’Anticamera di Sua Maestà o Sala Diplomatica è tappezzata con lampasso rosso, decorata da due arazzi dei Gobelins alle pareti e un ciclo di affreschi nella volta di Francesco De Mura: L’allegoria delle virtù di Carlo di Borbone e Maria Amalia di Sassonia.
Nella volta della seconda Anticamera di Sua Maestà, Belisario Corenzio affrescò I Fasti di Alfonso il Magnanimo agli inizi del 1600. I vari riquadri riportano didascalie in spagnolo. Alle pareti due dipinti di Massimo Stanzione. In corrispondenza dei balconi sono posti dei vasi cinesi, regalati a Ferdinando di Borbone dallo Zar Nicola I durante una sua visita a Napoli insieme ad un tavolino e ad un’uccelliera di porcellana. I re si omaggiavano tra di loro per dimostrare la bellezza e l’importanza del proprio regno. Infatti sul tavolino sono rappresentate le dimore di San Pietroburgo e di altri luoghi in tutta la loro grandezza. Da notare sulle consolle orologi del Settecento.
L’arco di trionfo di Alfonso D’Aragona è stato realizzato nel corso del 1400, quindi Belisario Corenzio dopo oltre un secolo, a quello che era il fregio realizzato sull’arco. Re Alfonso D’Aragona, vestito di rosso, è riportato proprio in trionfo con questa sorta di carro baldacchino, con il suo arrivo annunciato dal suono delle trombe e le persone a Napoli l’acclamano in maniera festosa; anche perché il passaggio sul trono di Napoli dagli angioini e agli aragonesi era stato abbastanza difficoltoso, era costato anche diversi anni di assedio per la città di Napoli.
La sala successiva è la sala degli arazzi, molto interessante. Si passa poi alla sala del trono, ovviamente è minuscola rispetto a quella della reggia di Caserta ma anche perché Caserta nasce come residenza ufficiale dei Borbone, a Napoli il re fece sistemare e riallestire questa sala che porta in alto la decorazione di queste grandi figure femminili in stucco dorato che rappresentano le diverse province del regno così come furono istituite dopo il periodo della restaurazione. Il trono ottocentesco si trova nella parete in fondo è posto sotto un baldacchino ed è di un colore molto scuro tipico stile impero, e l’aquila che è posta sopra ha lo stemma crociato dei Savoia, quindi ancora successiva perché del periodo post unitario. All’interno di questa sala ci sono due dipinti molto particolari, detti delle ambascerie tripoline, realizzati da Giuseppe Bonito, pittore di corte del ‘700 e che rappresentano ambasciatori provenienti da Tripoli con questi turbanti molto particolari, la presenza di questi uomini e la circolazione delle stampe, stimola molto la curiosità degli artisti e dei pittori, tant’è vero che poi questi personaggi vanno ad affollare il presepe.
Di fronte al trono si trova il dipinto di Vincenzo Camuccini, che rappresenta Ferdinando di Borbone ormai anziano è già diventato Ferdinando I, con il mantello dell’ordine di San Gennaro, che era l’ordine dei cavalieri istituito dal padre. Ferdinando è il primo re a parlare napoletano, si mescolava al popolo e vendeva quello che era il risultato della sua battuta di caccia, della sua pesca e veniva soprannominato il re Lazzarone proprio perché ne combinava di tutti i colori, altre cronache lo chiamano il re nasone. Dopo la sala del trono si accede alla sala degli ambasciatori che in origine era un ambiente che doveva collegare le sale di rappresentanza con i saloni di carattere più privato. Qui troviamo, in particolare lungo le pareti, gli arazzi francesi provenienti dalla manifattura di Goblin invece nel soffitto troviamo gli affreschi con i fasti del casato di Spagna. Il percorso fin qui è parallelo a piazza del Plebiscito, girato l’angolo le prime due sale sono ancora quelle antiche poi iniziano in successione le sale nuove, basta guardare i soffitti. Nel salone degli ambasciatori troviamo arazzi della scuola di Goblin considerati i più famosi in Europa, sono le allegorie del mare e della terra. In precedenza i più importanti arazzi sono quelli di scuola fiamminga. Nella parte del soffitto abbiamo tanti riquadri che furono poi affrescati da diversi artisti napoletani come Andrea Delioni. I dipinti ricordano quelli che sono stati gli episodi più importanti della storia di Spagna. Qui vengono rappresentate la scoperta dell’America, le varie battaglie di conquista che sono state fatte dagli spagnoli. Si sottolinea la grandezza del regno di Spagna così importante da governare anche il regno di Napoli. Usciti dal salone degli ambasciatori si arriva nella sala detta di Maria Cristina, moglie di Francesco di Borbone, particolarmente devota tant’è vero che all’interno di questa sala, dove ci sono le porticine, c’era un piccolo oratorio privato dove lei amava intrattenersi a pregare e meditare. In questo caso i soffitti sono bianchi perché sono andati completamente persi durante il periodo della seconda guerra mondiale. Il palazzo reale ha subito diversi danni e quello che vediamo oggi è il frutto di un grande restauro. Maria Cristina morì nel 1836 in odore di santità e venne beatificata. Per la sua forte religiosità lei non voleva neanche sposarsi, ma entrare in convento e abbracciare la vita religiosa. La sala successiva molto piccola è la sala cosiddetta del Gran Capitano dove si trovano gli affreschi del Giovan Battista Caracciolo detto Battistello, il quale nel secondo decennio del 1600 rappresenta quello che è l’arrivo a Napoli di Consalvo Cordoba. Quest’ultimo chiamato Il Gran Capitano è il primo che ha governato a Napoli al posto del re di Spagna, quindi si vuole esaltare la figura di questo personaggio. Ciò che è interessate è che Battistello Caracciolo è stato uno dei primissimi seguaci di Caravaggio, lo aveva sicuramente conosciuto ed aveva visto le sue opere a Roma. Proprio sopra la parete d’ingresso, all’interno di uno dei riquadri del soffitto, il Battistello ha inserito un personaggio con lo sguardo abbastanza corrucciato con il pizzetto nero accanto ad un altro personaggio con un abito giallo e rosso identificato dagli storici come il ritratto di Caravaggio. Battistello Caracciolo fa un omaggio a colui che considerava un suo maestro. Da questo punto si entra nell’ala nuova dovuta all’ampliamento della reggia per volere di Carlo di Borbone. Si inizia dallo studio del re che lo fu anche al tempo di Gioacchino Murat, re di Napoli tra il 1808 e il 1815. Alle pareti troviamo la seta di San Leucio mentre i mobili sono stile impero provenienti da Parigi, alcuni in legno di Tuia e sono opera di un ebanista che si chiamava Adam Weisweiler, uno dei più famosi all’epoca. Di fronte c’è un grande dipinto con dei cani da caccia a dimostrazione dell’amore che i sovrani avevano per questo svago. Si dice addirittura che Carlo e Ferdinando spostassero i loro impegni di corte per muoversi tra le varie tenute di San Leucio, Portici, Capodimonte. Subito dopo lo studio del re si comincia la visita degli appartamenti della regina, dove i soffitti cambiano, si comprende, che si è in un periodo successivo in pieno ‘700. I pavimenti non sono quelli originali maiolicati mentre nel soffitto ci sono decorazioni floreali. Lungo le pareti troviamo diversi dipinti di scuola napoletana e di scuola emiliana, sono dipinti che appartenevano alla collezione borbonica. C’è una sala che conserva un tavolino realizzato in pietre dure regalato dal gran duca di Toscana a Ferdinando di Borbone. Il tavolino ad intarsio con decorazione di conchiglie e rami di corallo. E’ talmente realistico che le conchiglie sembrano tridimensionali. Sempre negli appartamenti della regina le prime due sale hanno il soffitto con fondo dorato e gli stucchi bianchi, nella sala successiva abbiamo l’opposto fondo bianco su stucchi dorati. Troviamo il dipinto del ritorno del figliol prodigo realizzato da Mattia Preti, pittore calabrese, che si rifà al Caravaggio e lo si capisce dalla luce e dai colori molto scuri. Però il Mattia Preti, che aveva visto anche le opere di Tiziano, riesce a mescolare i due linguaggi e questo lo si intuisce dalla luce del tramonto. l colori dei tessuti sono naturalistici come l’espressione dei volti dei personaggi che mette in evidenza l’anatomia del corpo cosi come faceva il Caravaggio. Nelle sale successive la decorazione a soffitto non cambia, ma ritroviamo alcuni pittori di scuola emiliana. Ricordiamo che Carlo aveva ereditato dalla madre Elisabetta Farnese una grande collezione di dipinti infatti ci sono opere di Guido Reni, Bartolomeo Schedoni. La particolarità e la continuità delle decorazioni che possiamo vedere nelle porte si nota nei battenti delle stesse con decorazioni grottesche. Successivamente si entra nel salone di Ercole. Il suo nome si deve al fatto che qui furono esposti alcuni gessi provenienti dall’eredità di Carlo e tra questi c’era l’Ercole Farnese. In epoca vicereale questo salone serviva per le feste. Qui si trovano una serie di arazzi che con colori molto tenui rispetto a quelli francesi rappresentano le storie di Amore e Psiche. Ci sono diversi vasi in porcellana che provengono dalla manifattura delle porcellane di Capodimonte e dalla manifattura di porcellana di Napoli e anche porcellane di tipo europeo di Vienna. Dal salone di Ercole comincia un lungo corridoio di piccole stanze una dentro l’altra, le cosiddette retrostanze utilizzate dalle persone che lavoravano nel palazzo e non dovevano disturbare i reali. All’interno di una delle prime retrostanze c’è una macchina molto particolare che si chiama leggio rotante, realizzato per Maria Carolina di Borbone la moglie di Ferdinando. La regina amava leggere e conosceva diverse lingue, questo leggio le permetteva di consultare più libri contemporaneamente. Arriviamo alla cappella palatina, una piccola chiesa utilizzata per quelle che erano le funzioni private all’interno del palazzo, il soffitto è decorato con la tela dell’Assunzione realizzata da Domenico Morelli che durante il periodo bellico fu smontata, mentre l’altare è tutto realizzato in pietre dure. L’altare inizialmente era stato realizzato per la chiesa di Santa Teresa agli studi e poi successivamente smontato per portarlo all’interno della cappella reale. Qui trova posto il presepe che appartiene alla collezione del Banco di Napoli. Questa collezione ricordiamo è esposta presso villa Pignatelli. Il presepe composto da pezzi originali settecenteschi e caratteristico della tradizione napoletana particolarmente ricca e affollata di personaggi. A destra c’è la scena della taverna con vari personaggi che si radunano fuori la locanda, mentre a sinistra c’è il corteo dei re magi. Giusto al centro è rappresentata la natività che nel presepe napoletano non è più la capanna ma un tempio semi distrutto i personaggi tipici della tradizione la Vergine con il Bambino e San Giuseppe.
La sala di lettura della Biblioteca Nazionale è allestita nel vecchio salone delle feste con decorazioni con stucchi dorati. Uscendo ci si ritrova nel Giardino Italia, creato quando viene abbattuto il palazzo vice reale, tra il palazzo reale ed il teatro San Carlo. La statua che si trova al centro rappresenta l’Italia finalmente unita e realizzata in epoca post unitaria. Ricordiamo anche la presenza dei cavalli di Bronzo ben visibili se usciti dalla reggia andiamo in direzione de Maschio Angioino. Queste due grandi statue furono donate dallo Zar Nicola I a Francesco di Borbone.
Torniamo a Piazza del Plebiscito, largo di palazzo come si chiamava all’epoca. Essa era completamente pieno di costruzioni vecchie ed ogni volta che c’era un festeggiamento (la nascita di un infante, di un reale, un matrimonio) capitava che i re chiedevano di realizzare delle architetture finte, fatte in legno e carta pesta che coprisse questo disordine architettonico. Durante il decennio francese con Giuseppe prima e Gioacchino Murat dopo, si reputò inadeguato l’affaccio di una dimora reale su questo disordine urbano, per cui si cominciò la progettazione di una nuova piazza e si fecero abbattere tutti questi edifici precedenti per creare questa grande esedra. Il progetto iniziale di Laperuta fu poi portato avanti e compiuto solo dopo il ritorno di Ferdinando di Borbone. Il palazzo della foresteria, dove si trova il Gambrinus, già esisteva e si chiamava così perché ospitava i forestieri quindi gli ospiti del re avevano i loro alloggi all’interno del loro palazzo; simmetricamente dall’altro lato fu costruito il palazzo del principe Salerno per rispettare la simmetria di questo emiciclo di piazza Plebiscito. Al centro si trovano poi le due statue equestri, una rappresenta Carlo di Borbone realizzata da Antonio Canova e l’altra Ferdinando un po’ più tarda viene realizzata da Antonio Calì, un allievo del Canova.
La piazza è molto interessante perché rispecchia l’attenzione all’arte antica, al mondo greco, all’arte romana, infatti la struttura della chiesa ricorda il Panteon di Roma e venne poi realizzata da Pietro Bianchi. Anche l’ampio colonnato di Laperuta ricorda quella che era la piazza del foro delle città romane completamente circondata da portici. Il progetto è del 1817 e nasce da un concorso che Ferdinando di Borbone farà indire quando si ristabilisce nuovamente sul trono di Napoli. E’ interessante la chiesa di San Francesco di Paola che non presenta sovrapposizioni o stratificazioni, a differenza di quelle che abbiamo visto nel centro storico, che nascono in epoca medievale e poi vengono di volta in volta cambiate. La chiesa di San Francesco di Paola è una chiesa a pianta centrale sovrastata da una grande cupola con i lacunari e tutt’intorno è circondata da queste colonne di ordine corinzio e gigantesche sculture. Otto statue che rappresentano i quattro evangelisti e i quattro dottori della chiesa.
Dal lato opposto della piazza troviamo la chiesa di San Ferdinando che, invece, nacque come chiesa di San Francesco Saverio, il progetto è di Cosimo Fanzago. Ancora oggi si discute se sia stato lui l’autore dell’intero progetto cioè della chiesa più facciata o solo di una porzione. Sicuramente lui ha progettato la facciata del primo ordine che viene completata successivamente nel ‘700 e questo lo si vede bene perché gli stili sono completamente diversi. Il portale marmoreo è tipico fanzaghiano con il timpano spezzato così come si utilizzava nel ‘600, le grandi statue degli angeli che ci sono poste sopra. In realtà la chiesa è gesuita e inizialmente dedicata a San Francesco Saverio, poi successivamente, con la soppressione dell’ordine dei gesuiti era stata dedicata a Ferdinando di Borbone come omaggio al re. Viene dedicata a San Ferdinando, all’interno il soffitto celebra le storie di San Francesco Saverio mentre il dipinto dell’altare maggiore è dedicato a San Ferdinando. L’interno è molto barocco ricoperto di decorazioni a commesso marmoreo e anche tutta la parte della cupola è completamente affrescata completamente diversa dalla chiesa di San Francesco di Paola. Anche in questo caso abbiamo una chiesa con navata unica con cappelle laterali. C’era un dipinto che raffigurava San Francesco Saverio sull’altare maggiore che era stato realizzato da Luca Giordano. Precedentemente i gesuiti avevano dato la committenza a Salvator Rosa ma dato che non era piaciuto non era stato portato in chiesa. Successivamente avevano dato la committenza a Cesare Fracanzano e alla fine si decisero a dare l’incarico a Luca Giordano, il quale sapendo bene la storia ed essendo lui abbastanza scaltro cominciava a tentennare sull’esecuzione di questo dipinto ad un certo punto intervenne il marchese del Carpio, che era il vice re di Napoli, per insistere che realizzasse questo dipinto. Luca Giordano lo realizzò in cambio della promessa che il marchese gli concedesse di avere uno studio all’interno del palazzo vicereale, in questo modo il marchese, che era un grande estimatore di Luca Giordano, poteva, nei suoi momenti liberi, andare a vedere l’artista che lavorava all’interno del suo studio.
San Carlo
Il San Carlo risale come datazione al 1737, Carlo di Borbone arriva a Napoli nel 1734 e trova una situazione abbastanza disastrata, quindi vuole che Napoli diventi la capitale di un importante regno e decide di far costruire il teatro perché in ogni grande capitale europea non poteva mancare. A Napoli esisteva già un teatro, il San Bartolomeo, però era piccolo. Il progetto è di Giovanni Antonio Medrano e verrà poi inaugurato il 4 novembre del 1737. La facciata così come la conosciamo noi oggi è successiva, è un intervento ottocentesco e fu realizzata da Antonio Niccolini il quale si ispira al teatro La Scala, progettato da Pier Marini per creare questa sorta di portico dove le carrozze possono sostare per permettere a coloro che andavano a teatro, di scendere in caso di pioggia e di ripararsi. Mentre la parte sopra ha questa sorta di loggiato ed è sormontato da questa figura di Partenope con le due corone in mano, quella della poesia e quella della prosa. Niccolini lavorerà al San Carlo anche dopo il grande incendio nella prima metà del 1800 che distrusse tutte le decorazioni. Dalla pianta, si nota che aveva una struttura a ferro di cavallo e, secondo anche i musicisti moderni, ha un’acustica perfetta. Un tempo nel ‘700 dove oggi abbiamo le poltrone, si stava in piedi o addirittura si portavano le panche da fuori ed era quello riservato alle persone meno abbienti. Ci sono circa 180 palchi all’interno del teatro che ovviamente vedevano ospitata tutta la corte, e le famiglie più illustri. All’interno di ciascun palchetto c’è uno specchio che era rivolto verso il re così chiunque poteva vedere la reazione del re a quello che andava in scena e decidere se applaudire o meno all’opera cui stavano assistendo. Il soffitto non è affrescato anche in questo caso è una tela tesa e inchiodata lungo il perimetro, fu realizzata dal Cammarano. Ciò che viene rappresentato è Apollo che introduce i poeti a Diana e tutto in questa sorta di Olimpo che si crea in questa luce dorata. Oggi le decorazioni sono tutte con il rosso perché è il colore dei sabaudi, mentre all’epoca dei Borbone era tutto azzurro. Su in cima al palco c’è un orologio molto particolare anziché ruotare le lancette l’ora è lì dove indica l’indice. Quando hanno fatto i lavori di restauro hanno avuto la necessità di ampliare degli spazi, hanno realizzato un nuovo foyer e, scavando, hanno trovato anche delle antiche cisterne di epoca greco romana. Tutte documentate con delle fotografie e poi sul pavimento ci sono dei cerchi d’ottone che dimostrano la posizione delle cisterne al di sotto del pavimento, ovviamente hanno realizzato delle nuove sale prove per le necessità del lavoro quotidiano all’interno del teatro. Il Vecchio foyer ed è tutto decorato in stile neoclassico perché venne realizzato alla metà del 1800.
Galleria Umberto
Si è nell’epoca del Risanamento, alla fine del 1800 (la Galleria Umberto è innaugurata nel 1892). Napoli viene colpita da un’epidemia di colera che si diffonde molto velocemente. La popolazione era numerosa, scarse le condizioni igieniche ed inadeguati gli impianti fognari per questo si decise che la città andava risanata, da qui “Risanamento”. Fu fatta un’apposita legge che prevedeva l’abbattimento di interi quartieri, ed è questa l’epoca in cui nasce il cosiddetto rettifilo, cioè il corso che da piazza Garibaldi arriva fino a piazza Borsa, viene allargata via Duomo, verrà abbattuto tutto il quartiere di Santa Brigida, conservando solo la chiesa, per poi far spazio alla nuova galleria Umberto. Verrà bandito un concorso ed il progetto della galleria viene vinto dall’Ing. Emanuele Rocco e verranno costruiti quattro edifici uniti da quattro volte realizzate in vetro e ferro e al centro la grande cupola. L’ingresso dal lato del San Carlo. All’interno della galleria c’è un piccolo monumento dedicato a Emanuele Rocco. Questi quattro edifici si affacciano su via Verdi, via Santa Brigida, via Toledo e Teatro San Carlo. Le facciate sono tutte uguali tranne quella verso il San Carlo, dove vi è la dedica Umberto I re d’Italia. Essa è l’unica che ha una forma concava per dare maggior respiro alla facciata del teatro San Carlo. L’interno è ricco di decorazioni a mosaico con inserti, fregi e grottesche lungo il palazzo. E’ caratterizzato da una grande volta e un’immensa cupola che si trova giusto al centro. La cupola e la volta furono realizzate grazie all’intervento del progetto dell’ingegnere Paolo Bubè, il quale per quell’epoca utilizzava materiali nuovi il ferro ed il vetro. Essa sembra essere retta da quattro angeli in ghisa e notiamo lo stemma sabaudo. L’architettura è ben riuscita con stucchi colonnine, lesene e pilastrini che sporgono. Il progetto nasce per la volontà di creare delle strade coperte che diventeranno un punto d’incontro per attori, artisti, impresari vista la vicinanza con i teatri Mercadante ed il San Carlo. In corrispondenza della cupola, sotto il pavimento venne realizzato il teatro Margherita nella parte centrale della galleria, che era il famoso caffè Chantant agli inizi del ‘900; nel tempo si è degradato ma oggi è stato restaurato. La Galleria Umberto oggi è un punto di incontro ci sono negozi e sono scomparsi quasi del tutto i tavolini famosi del bar della metà del ‘900 dove prima ci si incontrava. Uscendo dalla galleria, dal lato di via Toledo, di fronte si hanno i cosiddetti quartieri spagnoli, che nascono alla metà del 1600 quando don Pedro de Toledo farà abbattere le mura aragonesi che percorrono quella che noi oggi chiamiamo via Toledo. Egli sposta le mura fin sulla certosa di San Martino e costruisce questa nuova strada lungo la quale i nobili napoletani cominciano a costruire i loro palazzi. I quartieri erano abitati dai militari spagnoli che risiedevano nei pressi dal palazzo vicereale posizione strategica nella città.
Lungo via Toledo troviamo uno dei pochi palazzi che conserva un portale seicentesco, ed è il palazzo Zevallos o palazzo Colonna di Stigliano dove ha sede una banca ed è anche stata creata una zona museale. Sul palazzo abbiamo notizie precise con una documentazione abbastanza ampia. Il palazzo viene progettato da Cosimo Fanzago negli anni 30 del 1600 per Giovanni Zevallos, un importante mercante, che alla sua morte lascia questa eredità al figlio che in pochi anni sperpera tutto e quindi vende la proprietà ai Van Den Eyden, ricca famiglia di mercanti fiamminghi con un gusto molto raffinato. Nella collezione si trovano diversi dipinti Luca Giordano, Mattia Preti addirittura c’era un Rubens che oggi è stato identificato e si trova nella National Gallery in Scozia; è stato ritrovato il documento che fu redatto nel 1688 alla morte di Ferdinando Van Den Eyden da Luca Giordano in cui fa la descrizione del palazzo nonché l’inventario dell’intera collezione. Luca Giordano era il pittore di famiglia dei Van Den Eyden, aveva decorato tutta la volta della galleria e conosceva benissimo i vari ambienti. Il palazzo successivamente passerà di proprietà perché la figlia di Van Den Eyden Giovanna sposerà Giuliano Colonna. Nella seconda metà del 1700 passa ancora di proprietà finche ad un certo punto la proprietà viene frazionata. Solo successivamente la banca acquista l’intera proprietà ormai divisa. Della parte seicentesca si conserva intatto il portale, così come era stato progettato e disegnato dal Fanzago. Tipiche di Fanzago sono le decorazioni come fiori e frutta posti alla sommità, la decorazione al centro riporta lo stemma già dei Colonna. All’inizio del 1600 il cortile era completamente aperto, poi quando è stato trasformato in banca si è voluto chiudere e farlo diventare quello che è il salone principale. In precedenza si affacciavano gli ambienti del piano nobile e da qui poi si accedeva alle cucine. Dall’altro lato si accedeva alle scuderie, uno scalone conduceva direttamente su alla zone del piano nobile, inoltre c’era la parte del sottotetto dedicato alla servitù ed agli ambienti di servizio. Il grande scalone , nel corso della fine dell’ 800, viene completamente decorato con delle figure allegoriche e con l’apoteosi di Saffo che si trova nel soffitto, l’intera decorazione è opera di Giuseppe Cammarano e dei Gennaro Mandarelli. Il palazzo, oggi, è un vero e proprio museo. Nella sala degli stucchi troviamo l’ultima opera di Caravaggio “Il martirio di Sant’Orsola” oppure la “Sant’Orsola trafitta dal tiranno”. Commissionato da Marco Antonio Doria e sappiamo che fu eseguito proprio qui a Napoli. Negli anni 50 / 60 del ‘900 Ferdinando Bologna che comunque è un importante storico italiano ebbe la possibilità di vedere quest’opera nelle proprietà dei Doria a Eboli da subito avanzò l’ipotesi che potesse essere un’opera del Caravaggio all’epoca il dipinto fu mostrato a Roberto Longhi, a Gregori che erano i più importanti studiosi di Caravaggio e in parte lo attribuivano ai loro seguaci. Successivamente fu trovata una lettera nell’archivio dei Doria di Lanfranco Massa, una persona di fiducia che Marco Antonio Doria aveva qui a Napoli. In questa lettera datata 1610 scrive al principe dicendo che lui ha ricevuto il quadro dal Caravaggio e sapendo che il principe aveva una gran fretta di ricevere questo quadro lo aveva esposto al sole per permettere di finire di asciugare. Come quadro di Caravaggio è estremamente scuro ed ha anche posto diversi problemi di conservazione anche probabilmente legati alla sua origine; Caravaggio ritrae quello che è il momento in cui il re degli Unni ha scoccato la freccia e ha colpito Sant’Orsola. Aspetto importante dell’opera è l’utilizzo della luce, in questo caso la fonte di luce è a sinistra e illumina il volto di Orsola e si riflette nell’armatura del soldato, ma Orsola non ha un volto dolorante, non è straziata dal dolore è come se il Caravaggio avesse ritratto l’attimo in cui la freccia ha penetrato il suo petto come se lei non avesse ancora avuto il tempo di rendersi conto di cosa è successo. Orsola porta le mani al petto ed ha la freccia già conficcata e le esce uno zampillo di sangue. Durante il restauro nel 2005 è venuta fuori una mano che non si vedeva prima, quindi è probabile che Caravaggio abbia voluto inserirla come se uno dei personaggi volesse difendere la Santa in un gesto estremo ma con un attimo di tardo. Si vede anche il particolare del re degli Unni sulla cui armatura crea questi giochi di luce e di riflessi. Il personaggio è abbastanza anziano, con il volto ricoperto di rughe; anche la mano è abbastanza illuminata, con le unghie lunghe e sporche. Nel palazzo spesso vengono organizzate delle mostre e ci sono altre due piccole salette dove è possibile vedere le opere di alcuni vedutisti napoletani e in questo caso c’è una veduta di largo di palazzo di Gaspar Van Wittel, e ci fa capire com’era la distribuzione dei diversi edifici che esistevano prima della costruzione di piazza Plebiscito. Nella galleria Zevallos si conserva la pianta Baratta che è una pianta che venne realizzata da Alessandro Baratta alla metà del 1600 e ci mostra proprio Napoli com’era: la piazza reale quella chiamiamo largo di palazzo, i quartieri spagnoli, via Toledo e quali erano i palazzi già costruiti su via Toledo. Quindi ci fa capire bene lo sviluppo che la città aveva in quegli anni. Si vedono le chiese che furono poi abbattute all’inizio dell’800 per la costruzione della piazza.
Da Piazza dei Martiri a Mergellina
Capitolo VIII
La porta di Chiaia era stata costruita nel corso del 1500 per volere di Giovan Francesco Carafa all’incrocio di piazza dei Martiri con via Chiaia nei pressi del famoso palazzo Cellammare. Quest’ultimo ampliato nel 1722 ad opera di Antonio Giudice principe di Cellammare che successivamente divenne sede dei Borbone per ospitare alcune opere della loro collezione. Nel palazzo vennero ospitati diverse illustri personalità di fama internazionale. Tra questi si ricorda Giacomo Casanova (che lo cita nel suo libro chiamato "Memorie"), Angelica Kauffmann, Jakob Philipp Hackert, Goethe (nel 1787), Torquato Tasso e Caravaggio, per il quale l'edificio fu di fatto l'ultima dimora. Il portale fu realizzato da Ferdinando Fuga.
Proseguendo verso via dei Mille troviamo la chiesa di Santa Teresa a Chiaia che fu fondata nel 1620, ma venne ricostruita grazie alla generosità dei napoletani, tra cui la nobildonna Isabella Mastrogiudice. Il progetto venne affidato a Cosimo Fanzago, che realizzò una fabbrica barocca. Ricordiamo che in origine la zona era costituita da giardini privati per cui la chiesa rivolta verso il mare risultava più isolata rispetto all’inglobamento dovuto alle successive costruzioni dall’ottocento ad oggi. Il terremoto del 1688 provocò ingenti danni e la chiesa fu sottoposta ad altri ulteriori rimaneggiamenti. Il tempio, in origine, era intitolato a Santa Teresa Plaggie, con evidente richiamo al luogo in cui fu costruito, all'epoca molto più vicino al mare di quanto non lo sia oggi. Durante il periodo borbonico una parte del convento è destinata a caserma. L’interno della chiesa è a croce greca e le opere principali custodite dalla chiesa sono: L'infanzia di Maria, Il riposo dalla fuga in Egitto, San Pietro che appare a Santa Teresa e San Pietro d'Alcantara mentre sta confessando Santa Teresa, tutte opere di Luca Giordano.
Lasciando via dei Mille scendendo verso la riviera arriviamo a piazzetta Ascensione alle spalle di Villa Pignatelli, originariamente la zona era paludosa e venne bonificata già con Roberto D’Anglò quando venne costruita la chiesa dell’Ascensione affidata all’ordine dei padri Celestini voluta da Nicola D’Alife. Successivamente nel corso del 1600 una ricca famiglia i Vaaz come ex voto; secondo la leggenda alla vigilia dell’Ascensione, il nobile sognò San Pietro Celestino che gli porgeva la mano e, il giorno dopo, questi scampò all’arresto voluto dal viceré rifugiandosi proprio nella chiesa che gli diede asilo per tre anni. Alla sua morte, i familiari si prodigarono per esaudire le volontà del nobile defunto che, in segno di gratitudine, aveva lasciato ingenti somme di denaro per la costruzione di una nuova chiesa, da dedicare a San Michele, Sant’Anna (il nome della moglie) e San Pietro Celestino e da utilizzare come cappella privata della famiglia. Il progetto venne affidato a Cosimo Fanzago che terminò la costruzione nel 1645, mentre l’interno venne decorato fino al 1657, con l’intervento anche di Luca Giordano per quanto riguarda molte opere pittoriche, come il S. Michele sull’altare e il dipinto di S. Anna e la Vergine. Successivamente, la cupola venne rifatta nel 1767 su disegno di Matteo Tramontano.
La zona della riviera di Chiaia deve il suo rifacimento al Risanamento legge che fu fatta appositamente per Napoli nel 1885. Vengono rifatte molte zone tra cui l’odierno rettifilo e la zona di Santa Lucia, quest’ultima ha subito un netto cambiamento della linea di costa, con la colmata a mare, cancellando completamente la spiaggia in questa zona e creando l’odierna via Caracciolo. I quartieri che vengono rifatti sono quelli definiti quartieri bassi, quindi il pendino, la zone portuale, il quartiere di S. Brigida. Viene fatta una netta variazione su un progetto inizialmente approvato ma che suscita molto scontento perché le imprese che operano la colmata hanno anche il diritto di costruire nelle nuove aree ricacciando nelle zone più arretrate gli abitanti della fascia costiera come a Santa Lucia dove i pescatori trovano asilo nelle zone più interne, oggi note come il Pallonetto di Santa Lucia, rischiando di ricreare le stesse condizioni che in Risanamento intendeva combattere. Un altro esempio è all'altezza della Rotonda Diaz, in linea con la Cassa Armonica e a meno di cinquanta metri dall' attuale scogliera, sorgeva l'Isolotto di San Leonardo. Non un semplice scoglio, ma un vero e proprio borgo, con tanto di stratificazioni abitative (prima chiesa, poi convento, abitazioni, ormeggi ed anche una rinomata taverna), realizzato al riparo dai venti, nel seno più interno del Golfo, cancellato dalla progressiva trasformazione della Villa Reale di Chiaia. Fondata nel 1028 ad opera di Leonardo d'Orio, gentiluomo castigliano, che vi fece costruire una chiesa per adempiere ad un voto dopo essere scampato ad una tempesta, fino agli albori del XIX secolo. L'edificio religioso, dotato dal suo fondatore di quaranta ducati annui, fu servito dapprima da monaci basiliani e in seguito passò alla dipendenza delle monache domenicane dei SS. Pietro e Sebastiano. La decadenza del borgo è datata gennaio 1648: San Leonardo fu teatro di un attacco tra gli Spagnoli e i popolani napoletani, che se ne impadronirono dopo un accanito combattimento. Il conventino dei frati domenicani fu abolito e le monache vi tennero un vicario dello stesso ordine. Dopo sette secoli dalla fondazione del borgo, le case, ormai fatiscenti, erano occupate, alternativamente, da gente di malaffare, contrabbandieri e soldati. Presso la spiaggia sorgeva la Taverna di Florio, che, come scrive Salvatore Di Giacomo nel suo "Taverne famose napoletane", con il Cerriglio e quella del Crispano, formava la triade delle taverne napoletane famose sul cadere del secolo XVI.
Alfonso II D’Aragona nel 1400 aveva voluto la costruzione di una delle sue ville di delizie lungo la riviera, oggi scomparse. Lungo la riviera c’erano due piccole torri, oggi conosciuta come largo della torretta a ricordo delle stesse, del 1564 per difesa dagli attacchi via mare e l’altra più o meno all’altezza di villa Pignatelli. Nel 1647 il viceré fece piantare una doppia fila di salici con tanto di fontane come una sorta di barriera dal mare. Alla fine del 1700 Ferdinando IV di Borbone darà l’incarico a Carlo Vanvitelli di costruire il real passeggio aperto solo a persone decorosamente vestite, quello che oggi è la zona della villa comunale. Il giardiniere che si occupò dei giardini e della selezione delle piante fu Felice Abbate e al centro troviamo la cassa Armonica del 1867 di Enrico Albino in stile liberty con decorazioni in ferro battuto.
Nel 1872 venne costruita la stazione zoologica Anton Dhorn che inizialmente era quasi sul mare e oggi si presenta distante dalla linea di costa, fenomeno dovuto alla colmata a mare e alla bonifica della zona.
Dopo villa Pignatelli troviamo il palazzo di Caravita di Sirignano è uno dei primi edifici della riviera per desiderio del marchese della Valle don Ferdinando Alarçon, un generale spagnolo al servizio di Carlo V, assurto a grandi ricchezze e grandi onori per essere stato uno degli amanti della regina Giovanna d'Aragona; a quel periodo risale la sua parte più antica, la torre di vedetta all'angolo orientale. Venne completato nel corso del Seicento con l'abbellimento delle stanze. Nel 1838 fu acquistato dal Principe Leopoldo delle Due Sicilie, Conte di Siracusa. Questi commissionò all'architetto Fausto Niccolini (figlio di Antonio Niccolini) l’ammodernamento del palazzo, destinato a diventare il luogo di ritrovo degli aristocratici napoletani. Annessi alla proprietà vi erano allora circa quattordicimila metri quadrati di parco, all'interno del quale era stato costruito un piccolo teatro ove il conte di Siracusa organizzava recite e rappresentazioni. Il Palazzo Caravita di Sirignano fu anche abitazione del conte de Marzi, Placido de Sangro, che donò al Museo della Floridiana la preziosa raccolta di porcellane e di uno dei nipoti del cardinale Sisto Riario Sforza, il duca Nicola, nei cui saloni si ammiravano gli splendidi arazzi di Casa Doria con la raffigurazione delle Quattro Stagioni.
La chiesa di San Pasquale a Chiaia dedicata a S. Pasquale Baylon voluta da Carlo di Borbone e Maria Amalia di Sassonia per ringraziare della nascita dell’erede maschio.
La chiesa di Santa Maria in Portico iniziata nel 1632 su disegno dell'architetto Nicola Longo, si deve alla munificenza della duchessa di Gravina, Felice Maria Orsini, che lasciò in eredità alla Congregazione dei Chierici Regolari della Madre di Dio provenienti da Lucca parte delle sue proprietà a Chiaia, affinché vi edificassero la chiesa, detta "in Portico" in ricordo di quella romana di Santa Maria in Campitelli, dove si venerava un'antichissima immagine della Vergine. La facciata attribuita al Fanzago è invece su disegno del Guglielmelli il cui disegno è conservato agli Uffizi. L’interno a navata unica in stile barocco con cappelle laterali, il pavimento in cotto seicentesco, al centro la tomba della duchessa; al suo interno si conserva un grande presepe a grandezza quasi naturale del 1600 a cui hanno lavorato molti artisti come Ceraso, nel 1690 Giacomo Colombo, nel 1771 Giuseppe Picano.
Lungo la riviera si svolgeva la parata di Piedigrotta sin dal periodo della regina Giovanna che diede un ulteriore impulso al culto della Vergine, Carlo di Borbone stabilì che ogni anno ci fosse questa parata verso la madonna di Piedigrotta. Dai dipinti dell’epoca si vede come la riviera fosse completamente aperta sul mare.
La chiesa di Piedigrotta a piazza Sannazzaro di cui si attesta l’esistenza nel 1200 deve la sua facciata odierna al progetto di Enrico Albino nell’ottocento voluta da Ferdinando II di Borbone. Nel 1570 la chiesa viene ricostruita ribaltando la pianta con l’ingresso dal lato opposto rispetto all’originario, gli affreschi interni sono del 1850 di Gaetano Gigante in sostituzione a quelli danneggiati di Bellisario Corenzio. La scultura lignea sull’altare è di attribuzione incerta ed è accompagnata da una leggenda sul suo ritrovamento da parte di tre napoletani che poi si occuparono dell’edificazione della chiesa stessa. Alle spalle della chiesa c’è l’ingresso al parco Virgiliano con le tombe di Virgilio e di Leopardi.
Nella zona di Mergellina dove c’è il porticciolo troviamo la chiesa di Santa Maria del Parto, sorta su una preesistente chiesa appartenente agli angioini data ai monaci benedettini dei Santi Severino e Sossio riscattata da Federico D’Aragona che la dona a Jacopo Sannazzaro il quale costruisce sia la villa che la cappella gentilizia. Originariamente il progetto prevedeva due chiese, quella inferiore scavata nella roccia e dedicata alla vergine del Parto nel 1525, la seconda di livello superiore resta incompiuta. Dopo la peste del 1526 il Sannazzaro torna a Napoli e trova la villa semi abbattuta e decide concedere la cappella all’ordine dei padri Servi di Maria con l’impegno di completarla e di erigere un monumento che poi sarà la sua tomba. La particolarità delle opere è la Tavola fonte della leggenda del diavolo di Mergellina, si racconta che il vescovo Diomede Carafa, di Ariano Irpino, era stato lusingato da una donna identificata con Vittoria D’Avalos lui resiste alla tentazione e viene realizzato questo quadro con l’aspetto di una donna.
Risamento, Arte Contemporanea Madre e Plart
Capitolo IX
Napoli contemporanea
Nella zona di Napoli chiamata rione carità quartiere San Giuseppe in pieno centro cittadino notiamo la presenza dell’architettura fascista. La zona è delimitata a nord da via Armando Diaz e piazza Matteotti, a ovest da via Toledo, a sud da piazza Municipio e via San Giacomo e infine a est da via Medina. Frutto di un progetto degli anni 20 del ‘900 quando si istituirà una commissione per i lavori pubblici, in linea con un progetto del Risanamento per questi quartieri ormai fatiscenti. Questa zona era chiamata territorio di Santa Marta, all'epoca fuori la cortina delle mura che chiudeva la città ad ovest nella regione di Donnalbina e a ridosso dell'ampia zona delle Corregge, cioè i finimenti dei cavalli che ivi gareggiavano. I primi nuclei edificatori nascono nel XIV secolo: sono prevalentemente edifici di corte satelliti del Castel Nuovo e strutture ospedaliere. Dal 1931 vengono abbattute tutte le vecchie costruzioni per far spazio a nuovi edifici come il palazzo delle Poste, palazzo Troise, palazzo della Questura, palazzo della Provincia.
Fig 1 pianta del rione Carità e sue trasformazioni
Il palazzo Troise fu realizzato in luogo del cinquecentesco palazzo del principe Medici di Ottaviano tra il 1934 e il 1936 su disegno di Alessandro Carnelli e destinato ad uffici e abitazioni. Nel 1939 fu definito paracarro da Mussolini in visita alla città per la sua strana forma, che a suo parere nascondeva la magnificenza del palazzo delle poste. Si tentò allora di demolirlo, ma motivi urbanistici (infatti il suo ruolo era nascondere il dislivello molto accentuato tra la nuova piazza e la sottostante via Monteoliveto) ed economici ne determinarono il suo mantenimento.
Il palazzo delle Poste per la cui costruzione fu bandito un vero concorso pubblico, che fu vinto da Vaccaro e Franzi. Questi progettarono questo grande cortile centrale con intorno questo edificio caratterizzato dalla facciata convessa su piazza Matteotti e le due ali laterali. La costruzione portò all’abbattimento di una parte del seicentesco chiostro di Monteoliveto. Una delle principali caratteristiche dell'edificio è il bicromatismo, determinato dalla diorite di Baveno e dal marmo della Valle Strona; l'altezza della fascia in diorite è studiata per riprendere i motivi del piperno del loggiato cinquecentesco alle spalle dell'edificio e corrisponde a quella dei tre ordini di archi. Al fine di ovviare al dislivello tra la piazza e via Monteoliveto, è presente una rampa di scale in pietra di piperno che annulla la notevole altezza del dislivello stesso. All’interno delle Poste c’è una grande scultura del Martini dedicata ai caduti della prima guerra mondiale e addetti alle poste e telegrafi. A lato destro uscendo dal palazzo delle poste notiamo il palazzo della Provincia realizzato da Marcello Canino, personalità di spicco dell’architettura napoletana, sorto tra il 1934 e il 1936 con fasce geometriche in travertino. Proseguendo in modo antiorario troviamo la casa del Mutilato commissionato dall’associazione nazionale mutilati e invalidi di guerra, tra il ’38 e il ’40, caratterizzato da finestre quadrate in alto e fenditure allungate in basso con un portale decentrato. Il progetto è di Camillo Guerra in linea con la politica della monumentalità del regime. Ciò che sorprende del progetto è la mancanza di unitarietà degli edifici che rimangono fini a se stessi dovuto anche al fatto che i diversi bandi portano a diversi progetti di diversi architetti che mancano di omogeneità anche rispetto al tessuto cittadino preesistente. Poi troviamo la Questura originariamente nel palazzo S. Giacomo a piazza Municipio, poi nel palazzo Caracciolo oggi albergo e poi negli anni ’40 la sede della questura sarà spostata nel nuovo palazzo. Più sopra su via Diaz troviamo il Palazzo dell'Intendenza di Finanza, degli Uffici Finanziari e dell'Avvocatura di Stato. Fu progettato da Marcello Canino tra il Palazzo della Banca Nazionale del Lavoro e quello della Provincia e costruito tra il 1933 e il 1937, prendendo il posto del complesso di San Tommaso d'Aquino. Così come per altri edifici realizzati a Napoli nel XX secolo, anch'esso rappresenta un esempio di architettura monumentalista.
Arrivati in Piaza Municipio troviamo l’ottocentesco Palazzo S. Giacomo, attuale sede del municipio, che ingloba la chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli, originariamente arrivava fino a via Toledo dove fu abbattuta l’ala ottocentesca per far spazio al palazzo del Banco di Napoli su progetto di Marcello Piacentini, una struttura funzionale alle esigenze della più importante banca napoletana, successivamente nel 1980 Pagliara vi aggiunse due piccole fontane.
La stazione marittima nasce dalla volontà di fare di Napoli uno dei porti più importanti dell’impero, è in asse con il palazzo S. Giacomo come chiusura finale del progetto. L’opera è di Bazzani creando due strutture laterali simmetriche con un grande scalone e uniti da una sorta di cavalcavia sopra.
Arte Contemporanea a Napoli
Nel 1996 nasce la sezione di arte contemporanea a Capodimonte che raccoglie le opere di artisti che hanno donato una loro opera alla sovrintendenza come ringraziamento per l’ospitalità e le sale espositive messe a disposizione nei musei napoletani in occasione delle rispettive mostre. Nel 1985 abbiamo una mostra dedicata a Andy Warhol e la Pop Art organizzata con Lucio Amelio che ha portato l’artista a Napoli; cominciano i dipinti sul Vesuvio con colori molto forti quasi fumetti noti come Vesuvius. L’immagine seriale perde il suo significato e diventa un elemento decorativo secondo lo schema di Warhol.
Tra gli artisti che hanno esposto a Capodimonte:
Mario Merz esponente dell’arte povera, cioè che utilizzano materiale povero e si ispira alla serie del matematico Fibonacci.
Daniel Buren con l’opera indizi, in situ, è una sorta di stanza con una divisione geometrica che riprende il pavimento della sala degli arazzi di Capodimonte, riportata anche sulle pareti.
Cunellis ,1989, si associa alla corrente dell’arte povera con l’opera delle anfore realizzate in terracotta, sono delle vere e proprie installazioni.
Negli anni ’90 Bassolino riuscì a cambiare il piano del traffico della zona di piazza Plebiscito, che era diventata un grande parcheggio a cielo aperto, ridando uno spazio libero da rivivere alla città utilizzandolo come esposizione dell’arte contemporanea. Mimmo Paladino fu il primo ad esporre un’installazione, La Montagna di Sale, verso la fine degli anni ’90.
Un altro museo è quello del Novecento nella parte alta delle carceri di Castel Sant’Elmo e che raccoglie tutte le opere del Novecento napoletano e lo sviluppo del suo linguaggio. Ritroviamo il futurismo, il movimento Mac, il 58 e tutto quello che ha caratterizzato l’opera napoletana. A questo segue il progetto della metropolitana che è di mettere l’arte contemporanea nella quotidianità delle persone. Il progetto nasce per le carenze dei trasporti e si decide di scavare nonostante le difficoltà del territorio e la stratigrafia di Napoli usufruendo anche degli artisti che hanno riqualificato molte delle nuove zone in costruzione della metropolitana. Sotto al museo archeologico c’è la stazione Neapolis un ambiente dove sono esposti i ritrovamenti dagli scavi della metropolitana.
Il Pan all’interno di palazzo Roccella è una galleria d’arte contemporanea la cui ambizione è diventare un centro studi sull’arte contemporanea grazie alla grande biblioteca.
Il PLART nasce come fondazione e raccoglie, grazie alla fondatrice Maria Pia Incutti, le opere d’arte in materiale plastico, inoltre crea un centro di ricerca per la conservazione e restauro dei polimeri plastici. La collezione del Plart raccoglie accessori, apparecchi elettronici, utensili in celluloide, acrilico, bachelite, fino al più recente PVC. Gli oggetti della collezione del Museo Plart di Napoli appartengono tutti all’arco di tempo in cui il design ha dato il meglio di sé, dalla metà dell’Ottocento fino agli anni Sessanta.
Il MADRE è il primo museo di arte contemporanea a Napoli e deve il proprio nome all’edificio che lo ospita, il Palazzo Donnaregina, che sorge vicino al Monastero di S. Maria Donnaregina, fondato dagli Svevi (XIII secolo) e poi ampliato e ricostruito nel 1325 dalla Regina Maria d’Ungheria, moglie di Carlo II d’Angiò. Dell’antico complesso conventuale rimangono oggi solo due chiese: la chiesa omonima che si affaccia su piazza Donnaregina, costruita in epoca barocca, e la chiesa trecentesca di Donnaregina “vecchia” in stile gotico, oggi aperta al pubblico in occasione di mostre ed eventi speciali organizzati dal Museo. L’architetto che si occupa del restauro del museo è Alvaro Siza che si preoccupa di liberare la struttura di tutte le costruzioni successive. È uso del MADRE chiedere agli artisti di presentare almeno un opera da lasciare al museo ed esposte al primo piano, mentre al secondo piano sono esposte opere contemporanee nelle varie esposizioni. Una delle prime sale che si incontra è decorata da Francesco Clemente chiamato a Napoli nel 2003 per dedicargli una grande mostra al museo archeologico nazionale, lui sceglie di affrescare la sala e installare un pavimento maiolicato; l’altra sala è dedicata a Luciano Fabbro esponente dell’arte povera. Tra gli artisti in esposizione:
Mimmo Paladino esponente della transavanguardia, un movimento di Bonito Oliva del ’79 in rottura con gli schemi della tradizione.
Cunellis con l’utilizzo del ferro da un’interpretazione della tecnica delle vetrate gotiche in chiave moderna.
Rebecca Horn artista tedesca che a Napoli rimase molto colpita dal legame della tradizione napoletana con la morte ed è nota per l’installazione a piazza Plebiscito composta da teschi messi a terra a cui corrispondeva uno specchio in cui guardarsi.
Giulio Paolini realizza opere che giocano sulle geometrie che dialogano con lo spazio in cui le installazioni si collocano.
Richard Long è un artista visivo, esponente di primo piano della Land Art, movimento che si colloca nell’ambito dell’arte concettuale. L’intento di Long è quello di accreditare la relazione tra l’uomo e l’ambiente come “fatto” creativo per eccellenza, lavora con elementi primari come il fango fatto di acqua e terra.
Museo di San Martino e Certosa – Musei Diego Aragona Pignatelli Cortes, Duca di Martina ed Accademia
Capitolo X
Certosa di San Martino
La Certosa è un edificio storico la cui fondazione risale ad epoca Angioina. Quando avvenne la soppressione degli ordini monastici si decise che divenisse un museo della memoria della città di Napoli. Nel 1500 e nel 1600 fu una delle più importanti fabbriche barocche tra le più ambite dagli artisti della città di Napoli, insieme al Museo del tesoro di San Gennaro e alla Chiesa del Gesù Nuovo. I rapporti con i vari artisti ed i monaci dovettero essere difficili, tanto da arrivare alcune volte in tribunale (famoso è il caso del Fanzago e degli eredi del Ribera).
La fondazione risale al 1325 per volontà di Carlo duca di Calabria figlio di re Roberto D’Angiò. Morto Carlo duca di Calabria i lavori furono proseguiti dallo stesso Roberto D’Angiò e conclusi nel 1368, anno della consacrazione a San Martino, San Bruno, alla Vergine ed a tutti i santi. Il primo architetto cui viene affidato il progetto fu Tino da Camaino, che per prima cosa studiò la regola dei Certosini per capire le esigenze dei monaci che sarebbero andati ad abitarvi.
La struttura nasce tagliando la collina detta di San Martino e prevede nella prima parte il cortile d’onore e la chiesa. Dall’altro lato, visibili dal centro della città di Napoli, vengono costruiti una serie di pilastri con arcate che sorreggono il chiostro grande che è la parte più interna, alla quale non era possibile avere accesso se non da parte dei monaci. Durante la costruzione della Certosa, vista la meravigliosa posizione, il re Roberto D’Angiò decise di avviare la costruzione di un suo palazzo, ma opportunamente indirizzato, ne fece un castello, detto Belforte. La cittadella militare e la cittadella religiosa si trovavano l’una accanto all’altra, vicine ma separate.
L’ingresso attuale (dove si trovano la biglietteria e il bar) corrisponde alle antiche scuderie da cui si accede al cortile d’onore. Ci si aspetterebbe di trovare una costruzione gotica, invece Padre Saverio Turboli, priore per due volte (1581 – 1597; 1606 – 1607) volle che la Certosa fosse ristrutturata, adeguandola alle regole del Concilio di Trento e al gusto dell’epoca. Negli anni ’90 del 1500 venne dato incarico all’architetto Giovanni Antonio Dosio il progetto di ristrutturazione, mentre nel 1600 gli interni della Chiesa videro l’opera di artisti come Lanfranco, Ribera e Fanzago. La Certosa era particolarmente ricca per le doti apportate dai monaci, fondi dal papato e delle famiglie nobiliari e per questo poteva permettersi i migliori artisti. L’ordine dei certosini è uno dei più rigorosi ordini monastici della Chiesa Cattolica. L'istituto è stato fondato da San Brunone nel 1084 nell'Isère, vicino Grenoble in Francia, con la creazione del primo monastero, la Grande Chartreuse. Prende il nome dal Massiccio della Certosa nelle prealpi francesi, dove san Brunone e sei compagni cercarono la solitudine per dedicarsi alla vita contemplativa, rifacendosi alla regola Benedettina. In Campania sono presenti altre certose: quella di Padula (fondata nel 1306) dedicata a San Lorenzo e quella di Capri (fondata nel 1356) dedicata a San Giacomo.
La facciata solo nel primo ordine è del Fanzago e fu completata da Nicola Tagliacozzi Canale nel 1700. Oggi la chiesa dopo un attento restauro mostra tracce dell’architettura gotica della fondazione. Ad esempio nel pronao si rinvengono gli archi a sesto acuto tipici del gotico.
Nello slargo antistante l’accesso alla Certosa, all’esterno, è presente la chiesa delle donne, così chiamata perché le donne, non avendo accesso alla Certosa potevano recarvisi per le funzioni sacre. Dall’ingresso si accede al cortile della Chiesa. Guardando la facciata della Chiesa, sulla destra si accede al chiostro dei procuratori. Il chiostro Grande fu rimpicciolito dal Dosio nel ‘500 per esigenze di costruire nuove stanze per i certosini che erano aumentati di numero. Il Dosio creò un corridoio rubando spazio al chiostro. In questo modo aprì degli spazi alle spalle dell’altare, creando la cappella del tesoro, la sagrestia, la sala del capitolo e il parlatorio. Inoltre creò una scala per consentire un accesso veloce ai monaci dal Chiostro grande alla Chiesa.
Fig 1 Pianta della certosa di S.Martino – piano terra
Figura 2 – Primo piano
La chiesa, nata con una struttura gotica viene completamente rifatta e attualmente si presenta con una ricchezza barocca. La Chiesa presenta una navata unica con sei cappelle laterali. Le cappelle sono tre per lato, ma la prima cappella a destra e la prima a sinistra danno accesso rispettivamente ad un'altra cappella interna. L’aspetto naturalistico della Certosa è presente nella controfacciata di Massimo Stanzione che rappresenta la pietà, tipicamente caravaggesco, con uno sfondo quasi bituminoso. Tutta la chiesa è ricoperta di affreschi e stucchi dorati. Nella cappella del tesoro è presente una pietà del De Ribera, mentre nella Chiesa sono presenti di De Ribera i profeti che sono rappresentati in alto all’ingresso delle cappelle. Si tratta di una galleria di ritratti di persone che comunemente era possibile incontrare nell’ambito della Napoli di quegli anni.
Il soffitto della navata centrale viene decorato da Giovanni Lanfranco nel 1638 in pieno periodo caravaggesco, mentre la volta del coro è dal Cavalier d’Arpino che eseguirà anche la sagrestia. La scelta dei due è di recuperare l’architettura gotica a crociera della volta, e di dipingere nelle vele, aggiungendo affreschi nei riquadri. Il Lanfranco nella navata centrale tiene libere le singole volte, finge che sia presente una struttura architettonica intorno a ciascun costolone e vi rappresenta delle figure nel cielo azzurro intenso, con un evidente effetto tridimensionale. Al di sopra dei finestroni Lanfranco rappresenta gli apostoli a figura intera, talvolta anche seduti sui cornicioni. Alcune figure sembrano affacciarsi e quasi cadere all’interno della navata. Gli artisti che lavorano all’interno della Certosa dimostrano che i monaci non fanno una scelta di campo rispetto agli stili, ma di volta in volta scelgono gli artisti sulla base delle esigenze che ravvedono tra la naturalistica napoletana e il paesaggistico bolognese. Il pavimento verrà completato da Bonaventura Presti perché incompiuto da Cosimo Fanzago. I Certosini avevano al loro interno dei padri con particolari competenze artistiche e questi, con l’autorizzazione del Priore si spostavano da una certosa all’altra. La balaustra davanti all’altare maggiore viene effettuata su disegno di Nicola Tagliacozzi Canale nel corso del ‘700 per cui la lavorazione del marmo è diversa rispetto alla prospettiva del Fanzago. Presenta nella parte superiore medaglioni in lapislazzuli incastrati. La Certosa, in tutta la sua articolazione è un vero scrigno di tesori, dove si trova di tutto dal punto di vista artistico. Cosimo Fanzago è l'autore delle transenne delle cappelle e della decorazione delle cappelle di San Bruno e del Battista; sempre del Fanzago sono i festoni di frutta sui pilastri e quattro putti marmorei sulle arcate delle cappelle. L’altare maggiore, disegnato da Francesco Solimena, ha una storia particolare perché i monaci chiesero inizialmente di costruirlo in oro e materiali preziosi. Essendo troppo costoso prevedono la realizzazione di un modello a grandezza naturale in stucco dorato e cartapesta e legno dorato. La realizzazione del modello fu così riuscita da convincere i monaci di sceglierlo come quello definitivo che oggi si ammira in loco. Gli angeli reggi fiaccola in cartapesta che sono disposti lateralmente sono di Giuseppe Sanmartino, il famoso artista che realizzò nella cappella di Sansevero il Cristo velato, realizzati nel 1705. L’altare è decorato su entrambi i lati, perché doveva consentire di realizzare le funzioni anche quando erano presenti i soli monaci all’interno del coro retrostante. Dietro l’altare maggiore è presente il coro, nel cui pavimento si possono notare dei fori che consentivano alla cassa armonica sottostante di garantire una acustica migliore. Tutto intorno sono presenti gli stalli dei monaci, ed al centro un grande leggio in noce sul quale venivano poggiati i corali da cui venivano lette le celebrazioni. Nella parte soprastante gli stalli sono presenti delle grandi tele. Quella frontale è una adorazione dei Magi di Guido Reni, acquistata dagli eredi. Sul lato destro sono presenti due tele di scuola dello Stanzione, mentre a sinistra la lavanda dei piedi di Battistello Caracciolo realizzata nel 1622. Il pittore (che all’epoca era giovane) viene sottoposto ad un contratto rigido che prevedeva che i monaci potranno non acquistare l’opera se non di loro piacimento. L’investimento dell’artista risulta ricompensato in quanto la tela piacerà e il medesimo Caracciolo si ritroverà ad affrescare la cappella della Vergine nel 1630. Accanto alla tela del Caracciolo è una delle tele più importanti della Certosa, la Comunione degli Apostoli, ultima opera del Ribera nella Certosa. Iniziata nel 1638, fu terminata solo nel 1651 (anno prima della morte), quando l'artista si riprese da una grave malattia che ne aveva interrotto l'attività. La marcata caratterizzazione dei volti e delle figure in quest'opera si fonde con una attenta impostazione scenografica nella quale si individua il recupero delle articolate composizioni di Paolo Veronese. Ne sono testimonianze il loggiato che fa da quinta sullo sfondo e il prezioso drappo rosso che inquadra la scena. Morto il Ribera i pagamenti non saranno completati e si aprirà un contenzioso con gli eredi. Nel coro ci si trova al centro del corridoio ottenuto dall’ampliamento strutturale di Dosio nel corso del ‘600. Alla sinistra (ponendosi con la chiesa alle spalle) ci sono la sagrestia, e la sala del tesoro nuovo e del tesoro vecchio. Sulla destra abbiamo invece la sala del capitolo, il parlatorio e si giunge alle scale che collegano con il chiostro grande.
Nella sagrestia troviamo gli armadi che contenevano i parametri sacri e che risalgono alla metà del ‘500 decorati con la tecnica della tarsia lignea. I pannelli nella parte inferiore rappresentano vedute architettoniche nella parte superiore scene dell’antico testamento. Questi furono realizzati da una bottega di Utrecht dove la lavorazione del legno era altamente specializzata, mentre la parte ad intarsio, più semplice, venne realizzato da scuole napoletane. La sagrestia è decorata nella volta con affreschi del Cavalier d’Arpino, mentre la parte tutt’intorno da artisti di scuola napoletana. Nella volta è presente una rappresentazione di Cristo che viene portato da Pilato, un esempio di collaborazione tra due artisti: la scalinata è opera di Emiliano Codazzi, sulla quale Massimo Stanzione va ad inserire i personaggi. Sulle due pareti vi sono una Crocifissione del Cavalier d'Arpino, un Ecce Homo dello Stanzione ed una Negazione di Pietro di scuola caravaggesca. Agli affreschi posti nel passaggio alla cappella del Tesoro lavorarono invece Massimo Stanzione, Luca Giordano, Paolo De Matteis e Micco Spadaro.
Sulla sinistra dopo l’arco è presente una piccola porta che da al tesoro vecchio, mentre quella di fronte è l’accesso all’attuale cappella del tesoro. La nascita della nuova cappella era dovuta al fatto che la prima cappella non riusciva più a contenere il tesoro dei certosini. La volta è decorata dal Luca Giordano, che nel 1704 dipinge il Trionfo di Giuditta che risulta essere una delle sue ultime opere, in quanto l’artista morirà nel 1705.
Alla fine del ‘700 Ferdinando di Borbone allorquando doveva pagare le milizie requisisce gli oggetti preziosi custoditi nella cappella del Tesoro. Al ritorno di Ferdinando i monaci certosini subiranno una prima soppressione dovuta al fatto che avevano parteggiato per i Francesi, la definitiva soppressione avviene nel 1866, quando la Certosa diviene monumento nazionale.
Sull’altare maggiore della stanza del tesoro c’è la pietà del Ribera, che è la prima opera dell’artista entrata nella Certosa (l’ultima è la Comunione degli apostoli). C’è un profondo senso umano della sofferenza: non ci sono i segni della soprannaturalità, ma si tratta di una resa estremamente umana, anche nel corpo del Cristo e nella scelta della scena. Tutto è estremamente impregnato di naturalismo caravaggesco. Non c’è ambientazione. Più tardi (nella cappella del tesoro di San Gennaro ad esempio) pone i personaggi in un contesto ambientale all’interno del quale queste scene si svolgono.
La Sala del Capitolo è la sala, presente in ogni Certosa in cui si prendevano le decisioni. Ogni due anni alla sede principale in Francia si teneva il Gran Capitolo, nel quale si prendevano le decisioni connesse con l’Ordine.
La sala è stata interamente rifatta negli anni Venti del XVII secolo. Tra il 1624 e il 1625 Paolo Finoglio, già attivo in Puglia, realizza le dieci lunette con altrettanti ritratti dei fondatori ed ispiratori dei principali ordini monastici, in modo da creare una storia illustrata del monachesimo, dalle origini in Oriente sino alla sua affermazione come elemento portante del cattolicesimo. Il pittore riesce abilmente ad adattare le immagini dei sacri padri al formato semicircolare imposto dalle lunette e crea figure improntate ad un rigore formale di stampo naturalista, pur rispettoso dell'iconografia tradizionale. Lungo le pareti della sala corrono stalli lignei decorati con piccole sculture raffiguranti Santi e Profeti all'interno di edicole inserite tra le specchiature, eseguiti da Orazio de Orio e Carlo Bruschetta nel 1627. Al di sopra di essi si possono ammirare la tela di Simon Vouet con la Vergine che appare a San Bruno realizzato a Roma e spedito a Napoli; la Natività di Stanzione eseguita tra il 1626 ed il 1630, forse la prima opera realizzata dal maestro per la Certosa. A fianco di quest'ultima si trova l'Adorazione dei Magi di Battistello Caracciolo, a cui appartengono anche i suggestivi San Giovanni Battista e San Martino inseriti sui pilastri che reggono l'arco che introduce al passetto verso il parlatorio. La volta è affrescata con Parabole Evangeliche e Virtù certosine, opera di Belisario Corenzio del 1624. La sala veniva utilizzata per le riunioni dei confratelli in merito alla politica e alla vita della Certosa. Dal coro si accede poi al coro dei Conversi, cioè quella dei padri che non avevano ancora preso voti secondo la Regola, gli affreschi sono di Micco Spadaro e realizzati su finti arazzi con l’effetto mosso di un arazzo spinto dal vento. Usciti dalla navata centrale della chiesa e superato il cortile monumentale si accede al chiostro dei procuratori.
Il chiostro dei Procuratori era lo spazio dedicato a coloro che tenevano la gestione amministrativa della Certosa e che avevano gli uffici al primo piano. Alle pareti del chiostro troviamo degli stemmi rimossi dai palazzi distrutti nell’ambito del cosiddetto ‘risanamento’ di Napoli.
Da qui si accede al quarto del Priore, che è l’appartamento della guida della comunità religiosa. L’appartamento comprendeva anche delle sale di rappresentanza in cui erano ricevuti gli ospiti di maggior riguardo. Da una scala si accede ad un terrazzo panoramico dove è presente una vigna. La vita di clausura prevedeva una sistemazione di tutto rispetto, anche vista l’importanza dei monaci.
Nel quarto del Priore sono presenti due sculture. Una raffigura San Martino nell’atto di donare il proprio mantello. Si tratta dell’originale che si trovava all’entrata della certosa, dove attualmente si trova una copia. La certosa è intitolata a San Martino perché era un santo di origine francese e cavaliere. Il periodo di costruzione della Certosa infatti risale agli angioini, che erano francesi.
La seconda scultura è una Madonna col bambino di Pietro Bernini, padre del più noto Giancarlo, alcuni ipotizzano che anche il figlio abbia partecipato, nella figura del San Giovanni bambino, alla realizzazione dell’opera. Si trovano anche dei quadri, tra cui una tela di Giovanni Lanfranco e un San Girolamo di Ribera che risalgono al periodo in cui gli artisti lavoravano alla Certosa e ricevevano committenze di minori dimensioni per il quarto del Priore.
C’è una sala in cui erano presenti arredi sacri e dove si trova una tela di Giovanni Lanfranco. È presente anche una tela del San Girolamo di Ribera. Sotto il quarto erano presenti grandi cisterne perché l’acqua era molto importante per la vita del Certosini.
Il Chiostro Grande venne realizzato sull'impianto trecentesco del chiostro originario. Notoriamente la paternità del progetto è attribuita a Cosimo Fanzago, sebbene in realtà essa rimanga tuttora ignota. Infatti, alcuni studiosi ritengono che sia opera di Giovanni Antonio Dosio, con il quale i Certosini avevano stipulato un contratto nel 1591. A nord-est del chiostro si ammira il Cimitero dei Certosini, altro tipico esempio di arte del Fanzago. Il cimitero è delimitato da una balaustra con sopra dei teschi. Tutti i monaci venivano avvolti in un lenzuolo e quindi si decomponevano in breve tempo. Non si apponevano delle lapidi e veniva comunicata notizia del decesso a tutte le altre certose. Nel recinto vi è la croce di marmo angioina collocata in onore del priore don Pedro Villa Mayna, morto nel 1363. Le porte angolari del chiostro sono arricchite da sculture del Fanzago che rappresentano santi appartenenti all’ordine cistercense. Il chiostro presenta una serie di cisterne interrate. Dal chiostro si accede alle celle dei monaci, con affianco una piccola finestrella per i pasti. Il motivo è legato al fatto che consumavano i pasti da soli, ad eccezione che nei giorni di festa, in cui pranzavano presso il refettorio. Mangiavano seduti e in silenzio; sul pulpito un monaco leggeva dei passi della Scrittura. Sulle porte degli angoli del chiostro sono presenti santi dell’ordine certosino. Queste porte segnano gli ingressi agli ambienti più importanti. Per questo motivo le decorazioni a terra sono più curate.
Usciti dal chiostro, ripercorrendo il corridoio, sulla destra si trova il refettorio, posizionato di fronte alla sezione presepiale. La decorazione è settecentesca. Di fronte al refettorio erano presenti le cucine, dove a seguito della confisca da parte dello Stato è stata allestita la sezione presepiale. Nella sezione presepiale sono conservati alcuni presepi. Il primo che si incontra è quello degli Aramanno, famiglia del Nord Italia, che era ubicato originariamente nella chiesa di San Giovanni a Carbonara. Le sculture del presepe erano a figura intera e occupava tutta la cappella. Man mano le figure del Presepe assumono dimensioni più piccole, con il manichino in stoppa e fil di ferro e altre parti in terracotta. La sezione presepiale si è articolata con una serie di donazioni (Ricciardi, Cuciniello, ecc). Il presepe più completo e universalmente noto è il presepe di Cuciniello, scenografo del San Carlo, così chiamato dal nome del donatore che nel 1879 regalò al museo la sua monumentale raccolta di pastori, animali, agnelli, nature morte. Il presepe fu esposto in una scenografica grotta appositamente costruita e curata dallo stesso Cuciniello. La collezione comprende 956 esemplari fra pastori, animali ed accessori e quattro scarabattoli: l’Annunciazione, la Natività con l’Adorazione dei Pastori e la Taverna. La scenografia è molto affollata. Questo presepe si può dividere in quattro parti: al centro la natività, che è sormontata dagli angeli per essere facilmente riconoscibile nella confusione degli elementi. Sulla sinistra è raffigurato l’annuncio dei pastori, sulla destra la locanda del ‘700 a Napoli e nella parte antistante il corteo dei re Magi. Dal primo presepe all’ultimo si assiste ad una riduzione delle dimensioni, in quanto il presepe diventa una esposizione permanente all’interno delle case e le metodiche costruttive diventano più flessibili, simili a quelle che vengono riprodotte oggi. Sembra che la Regina Amalia preparasse per il proprio presepe i vestiti dei personaggi.
Lo scarabattolo è una esposizione costituita da uno scoglio in cui venivano esposti dei personaggi con gli occhi di vetro o delle scene. Carlo III inviava degli artisti per raffigurare gli abbigliamenti popolari per il Presepio; addirittura nei presepi settecenteschi sono rappresentate le calzature tradizionali dei pastori detti ciocie dal territorio della Ciociaria. Le scarabattole diventano di gran moda nel ’700 e nell’800 e vi erano rappresentate singole scene che rimanevano esposte durante tutto l’anno. Il presepe veniva costruito secondo un progetto. C’era il cosiddetto scoglio, fatto di legno, sughero e cartapesta, al di sopra del quale venivano disposti i personaggi, di dimensioni diverse a seconda della distanza dall’osservatore. I pastori avevano il manichino di stoppa, mentre testa, mani e piedi erano in terracotta o legno. Solitamente ogni personaggio ha una caratterizzazione del volto e dei colori. Gli occhi erano sempre di vetro, perché dovevano dare una maggiore espressività al volto. I personaggi della tradizione evangelica (Giuseppe, Maria, Gesù) hanno un abbigliamento standardizzato per colore, gli altri personaggi vengono vestiti secondo la provenienza sociale. Chi produceva le stoffe aveva delle produzioni a parte per i pastori i quadretti, le righe, dovevano essere a misura del pastore. Proseguendo si giunge all’androne delle carrozze. La prima è la carrozza della città, realizzata in legno dorato e arricchita di legni pregiati. Veniva utilizzata per trasportare gli eletti della città o per le cerimonie ufficiali come la processione del Corpus Domini. Uscì per l’ultima volta nel 1861. Abbiamo poi la berlina di corte che veniva utilizzata da Maria Cristina di Savoia databile tra fine ‘700 e inizio ‘800.
La sezione immagini e memorie inizia con la famosa Tavola Strozzi del ‘400 che raffigura la città vista dal mare. C’è anche una ceramica invetriata di Luca Della Robbia che proviene dalla villa di Poggioreale. Del 1647 è la veduta a volo di uccello di Napoli di Didier Barra. A Carlo Coppola è attribuita la raffigurazione del Castel Capuano ed il tribunale della Vicaria (prima metà del 1600) in cui si vede il traffico di una delle zone centrali della città di Napoli. Si nota la colonna della vergogna presente di fronte al Castel Capuano dove venivano legati i condannati per truffa. La colonna della Vicaria si trova ancora oggi nel salone delle carrozze. La peste del 1656 è rappresentata da Micco Spadaro è la tela del “Rendimento di grazia”, per essere stati tenuti immuni dalla peste. Nell’immagine la Certosa domina la città di Napoli e giù c’è il lazzaretto con gli appestati, mentre San Martino tiene lontana la Peste con il flagello. Ci sono poi affreschi relativi a tutti i regnanti dei Borbone, le vedute di Gaspar Van Wittel, i negativi della carta del duca di Noia di Napoli (oltre alla stessa pianta completa). Al secondo livello c’è una raccolta della cartografia, una sezione dedicata al 1799, la bandiera dei sanfedisti, ritratti dei Sanfedisti, raffigurazioni di Murat, Garibaldi e dipinti del Mignaro fatti ai tempi del risanamento che riprende in piccoli quadretti di aree della città di Napoli che sarebbero state distrutte dal Risanamento. C’è una rappresentazione di piccoli soldatini che escono dal Palazzo Reale verso la Chiesa di S. Francesco di Paola il giorno della celebrazione del Corpus Domini.
La sezione navale contiene la lancia a 24 remi di Carlo di Borbone, decorata con una ricca opera di intaglio in oro ed in seguito decorata con una allegoria dell’agricoltura dipinta da Fedele Fischetti tra il 1772 e il 1784. A parte sono presenti le due poltroncine sulle quali i reali si disponevano, al di sotto del baldacchino. Tra i vari modellini di navi realizzata nel cantiere di Castellammare di Stabia troviamo la lancia reale a 14 remi appartenuta ad Umberto I di Savoia, con baldacchino con lo stemma sabaudo. Sono anche presenti un gran numero di vetrine con modellini e vedute navali.
Il museo Principe Diego Aragona Pignatelli Cortes
Il museo Principe Diego Aragona Pignatelli Cortes, conosciuto come villa Pignatelli fu voluto nel 1826 dal baronetto Sir Ferdinand Richard Acton (figlio di Sir John Acton, primo ministro e segretario di guerra e marina di Ferdinando IV). La villa venne realizzata dall’architetto Pietro Valente a cui successe nel 1830 Guglielmo Bechi. Per eseguire i lavori fu necessario demolire una preesistente abitazione appartenente ai Carafa. I lavori di decorazione interna e quelli del giardino esterno furono affidati al toscano Guglielmo Bechi. Qualche anno dopo la morte di Sir Acton, nel 1841, la villa venne acquistata dalla famiglia di banchieri tedeschi Carlo Von Rothschild, che la abitarono fino al 1860. Nel 1867, la famiglia tedesca vide le proprie sorti legate a quella dei Borbone, i quali furono allontanati dalla città a seguito dell'unità nazionale. Così la villa fu ceduta a principi Pignatelli Cortes d'Aragona, che ne furono proprietari fino al 1955. Nel 1952 infatti la principessa Rosina Pignatelli ne fece donazione allo Stato Italiano mantenendone l’usufrutto fino alla morte avvenuta nel 1955. Nel legato era previsto che fosse trasformata in un museo destinato a perpetuare il nome del marito, il principe Diego Aragona Pignatelli Cortes, duca di Monteleone. Seguendo le ultime volontà testamentarie vengono mantenuti intatti gli ambienti per cui oggi si ha la sensazione di entrare in una villa principesca. La villa viene aperta al pubblico nel 1960. Il giardino, modellato all'inglese, è stato progettato da Guglielmo Bechi irregolare nel disegno dei viali e variegato nella scelta delle piante disposte “a boschetto”, in modo da imitare l’andamento naturale. Al centro del boschetto, antistante la villa, c’è la vasca principale. Il giardino all’italiana, di contro, è ordinato, con aiuole e geometricamente dettate.
Al piano terreno vi è la presenza di numerose sale, come il salottino rosso, con il dipinto sul soffitto “Allegoria dell'architettura” e con le decorazioni in stucco bianco e oro che risale all'epoca dei Rothschild e quindi, molto probabilmente decorata da Gaetano Genovese. La pavimentazione è in cotto, un tempo dipinta in finto marmo seguendo una moda di età borbonica, il salottino azzurro, l’antica camera di compagnia, ambiente di rappresentanza e di comunicazione tra il salone da ballo e il salone centrale. Fu rivestito a fine Ottocento di pannelli di legno intagliato e stucchi dorati, e vi sono esposti alle pareti fotografie della famiglia Pignatelli e delle case regnanti che vi furono amiche. Nel soffitto e negli angoli sono presenti scene galanti. La sala da ballo era distinta in due ambienti separati da una serliana (un arco a tutto sesto con ai lati due porte): da un lato c’erano i musicisti – in questa parte è stato riportato alla luce l’ordinario intonaco rosa dei Rotschild. Le sovrapporte in carta intelata con angeli musicanti furono realizzati dal decoratore romano Vincenzo Paliotti. I lampadari sono di cristallo. Il salotto verde è un diaframma tra lo studio e la sala da pranzo. In questa e in altre sale sono conservati una grande quantità di suppellettili che testimoniano la raffinatezza e il gusto della principessa: oggetti di uso comune, statuine, servizi da caffè, statuine di scene galanti ecc. Sono presenti la lavandaia e la graziosa scena galante con cagnolino della Real fabbrica di Capodimonte e oggetti biscuit tra cui le figure di dame realizzati da Filippo Tagliolini, piccola collezione ma molto pregiata. È presente anche un tavolino pregiato con inserti in bronzo dorato e placchette di porcellana di Sevrés in cui sono raffigurati motivi floreali. Nella stanza da pranzo troviamo il tavolo allestito e alle pareti una elegante boiserie in legno in accordo con la pavimentazione a parquet, che sostituisce l’originaria voluta dagli Acton in ciottoli alla veneziana. La tavola è tutta imbandita. Sono presenti sul tavolo i bicchieri, compreso il bicchierino più piccolo di cristallo per il rosolio e i piatti sono decorati con uccellini di specie diverse. Nella biblioteca tutte le pareti sono ricoperte dal parato in cuoio con decorazioni dorate ed è datato agli inizi del 1900 per volontà degli stessi Pignatelli. Nella villa, tra l’altro ci sono le fotografie di quando la Principessa Rosina viveva nella villa, con le feste e gli eventi mondani, da cui si vede come gli ambienti siano rimasti intatti. Sono presenti un pescatoriello di Gemito e delle tavolette di Andrea Criscuolo. Di seguito un piccolo salottino con forma ellittica con decorazioni ti tipo pompeiano (la partizione delle pareti e la scelta dei colori ricorda le domus romane). Si dice che qui i principi si ritirassero per ascoltare la musica. Questa tradizione è rimasta e il museo ha ospitato per decenni eventi musicali, e anche la stessa orchestra Scarlatti ha tenuto diversi concerti nella villa. La veranda fu chiusa dai Pignatelli nel 1867 per farne un nuovo spazio e in precedenza (ai tempi degli Acton e Rotschild). Oggi viene utilizzata per farne piccoli eventi temporanei, e viene fittata per cene di gala. Il primo piano è accessibile dal vestibolo circolare d'ingresso ed era destinato alla residenza padronale. Oggi costituisce il nucleo museale della villa, esponendo le collezioni del Banco di Napoli e quelle temporanee. Il Banco di Napoli è uno dei più antichi istituti di credito italiani. Fu fondato negli anni ’30 del ‘500 come Monte di pietà. Durante il periodo napoleonico Gioacchino Murat volle fondere i monti di pietà in un unico banco chiamato delle due sicilie, che assume la denominazione di Banco di Napoli con l’Unità di Italia. Il Banco aveva cominciato ad acquisire sul mercato antiquariale nell’Ottocento varie opere o collezioni, che poi si sono col tempo arricchite per donazioni o acquisti successivi. Nel 1940 vengono acquistate dagli eredi di Domenico Morelli la collezione Chiarandà che conteneva opere di Anton Sminck Van Pitloo e dei dipinti di Giacinto Gigante. C’è anche una grande parte dedicata al vedutismo. La sezione delle vedute viene inaugurata dalla veduta di Gaspar Van Wittel, con il borgo di Chiaia come doveva essere nel ‘700. Nella pittura si vede il real passeggio. La chiesa dell’Ascensione a Chiaia e di Santa Teresa. La sezione del Vedutismo viene arricchita dalla donazione di Casciaro, nel quale erano presenti le opere di Pittloo. Di Pittlo ci sono il palazzo Cellammare e il Boschetto di Francavilla, con le quali vince il concorso per la cattedra di vedutismo della Accademia delle Belle Arti nel 1824. Ci sono anche acquarelli di Giacinto Gigante, e un’intera stanza dedicata a Vincenzo Gemito con bozzetti, bronzi, terracotte. Il tratto di Gemito era graffiante in quanto era più legato alle arti plastiche. Nel 1954 il banco acquista la collezione Consolazio, avvocato fiorentino che era molto vicino alla famiglia. Molte opere gli erano state regalate o ne aveva acquistato tantissime altre. Aveva anche scritto una biografia di Gemito che comincia dicendo: scrivo questo libro proprio perché ho avuto la fortuna di essere amico di Gemito. Lo Scorfano e l’autoritratto non provengono dalla collezione Casciaro. Gemito amava disegnare – è piuttosto un incisore che un decoratore plastico – ed usava la carta particolare: acquistava i codici antichi, che trovava migliori come supporto Infatti molti hanno la scritta visibile in trasparenza, e il disegno sopra, come nel caso dello Scorfano. I suoi disegni sono esposti insieme a quelli di Morelli acquistati nel 1940. L’opera di Giacomo Balla, Le Magnolie che si specchiano appartiene alla fase matura del pittore, che studia gli effetti della luce. È il dipinto più moderno della parte esposta della collezione. Il vaso di cristallo è appoggiato su di un vassoio in vetro, che genera un riflesso delle magnolie e della ciotola di vetro posta accanto. L’unico altro dipinto di Balla è presente a Capodimonte.
Fig 2 pianta della villa Pignatelli 1° piano
Alle spalle c’è il giardino, con la torretta gotica, lo chalet svizzero e le scuderie. Nel 1960 il marchese Mario d’Alessandro di Civitanova regalò al museo la collezione delle carrozze. Ci sono anche i cosiddetti finimenti, che venivano fatti indossare ai cavalli. La collezione d’Alessandro si è poi arricchita con donazioni e acquisti da parte dello Stato successivi.
Museo Duca di Martina ( Museo della Floridiana )
Il museo Duca di Martina detto anche Museo della Floridiana è il museo delle porcellane, apparteneva alla duchessa Lucia Migliaccio di Partanna moglie morganatica di Ferdinando di Borbone. Sposatosi in seconde nozze era stabilito che né la sposa né alcuno dei figli nati dal matrimonio può avere alcuna pretesa sui titoli del marito, sui suoi diritti o le sue proprietà. I figli sono considerati legittimi per tutti gli altri aspetti. Lucia Migliaccio era duchessa di Floridia da cui Floridiana. La collezione proviene dagli acquisti di Placido De Sangro duca di Martina fatti a Parigi, Londra e Napoli nella seconda metà dell’Ottocento. Si tratta di oggetti trasportati da portoghesi ed olandesi dall’Oriente che erano diventati di moda per le dimore aristocratiche. La villa fu acquistata da Ferdinando di Borbone per la moglie tra il 1815 e il 1817 e ristrutturata dall’architetto Antonio Niccolini in stile neoclassico. Comprende oltre seimila opere di manifattura occidentale ed orientale, databili dal XII al XIX secolo, il cui nucleo più cospicuo è costituito dalle ceramiche. Il Museo si sviluppa oggi su tre piani; al piano terra sono esposti oggetti in avorio, smalto e bronzo di epoca medioevale, maioliche rinascimentali e barocche e vetri di Murano dei secoli XV- XVIII; al primo piano è collocata la raccolta di porcellane europee del XVIII secolo il cui nucleo più cospicuo è costituito da quelle delle fabbriche di Meissen, Napoli e Capodimonte; infine al piano seminterrato, è stata riallestita da pochi anni la sezione di oggetti d’arte orientale, tra cui notevole è la collezione di porcellane cinesi di epoca Ming (1368-1644) e Qing (1644-1911).
Nel Museo ci sono varie raccolte particolari, anche della Real Manifattura di Capodimonte (epoca di Carlo III) e della Real Manifattura di Napoli (epoca di Ferdinando). Al primo piano manifatture di Vienna e la raccolta Sbrizziolo – De Felice, costituita da oggetti di tartaruga di manifattura napoletana (binocoli da teatro, ventagli, servizi da caffè, ecc).
La galleria dell’Accademia di Napoli
La galleria dell'Accademia di Napoli nata per volontà di Carlo di Borbone nel 1752 originariamente si trovava presso San Carlo alle Mortelle, dove già aveva sede la Real arazzeria (verso Monte di Dio) e la real manifattura di pietre dure. Successivamente viene spostato nel palazzo dei regi studi (attuale museo nazionale) e ancora all’interno di un ambiente di S. Giovanni delle monache e solo nel 1864 spostato all'attuale palazzo. La galleria assunse una definitiva sistemazione solo nel 1891 con Filippo Palizzi divenuto presidente dell'Accademia. L'inaugurazione della galleria avvenne tuttavia solo nel 1916 con Vincenzo Volpe presidente (succeduto ad Achille D'Orsi, a sua volta successore di Palizzi). Per motivi strutturali, la galleria fu chiusa qualche anno dopo e rimase inaccessibile al pubblico fino al 1929. Il terremoto del 1930, gli eventi inerenti la seconda guerra mondiale ed i furti avuti nella seconda metà del XX secolo porteranno la galleria ad altri anni di chiusura, fino alla definitiva riapertura avvenuta solo nel 2005. Nella galleria storica sono esposti disegni, dipinti e sculture in marmo, bronzo e terracotta databili dal XVI secolo al XIX. Un importante numero di pezzi di 227 tele proviene dalla donazione Palizzi avvenuta nel 1896 da parte di Filippo Palizzi. La stessa comprende opere (tra pitture e disegni) per lo più di artisti stranieri, come Jean-Baptiste Camille Corot, Alexandre-Gabriel Decamps e Henri Rousseau. Nel 2005 viene creato il nuovo allestimento che ha un piccolo nucleo del ‘600 napoletano e una parte dedicata all’800 e artisti contemporanei. Palizzi si specializza nel mondo animale ponendo attenzione alla resa naturale degli stessi. Si dice che avesse una collezione di animali da presepe che usava a sua volta come modello. Per il ‘600 napoletano ci sono molte opere Ribera, Mattia Preti, Codazzi, che testimoniano lo sviluppo del naturalismo a Napoli. È ciò che resta del nucleo più ampio, che era già conservato nell’accademia quando si trovava nel palazzo dei regi studi. I quadri vengono disposti uno accanto all’altro, “ad incrostazione”, non soltanto perché si tratta di un allestimento tipico dell’800, ma anche perché sono talmente piccoli da non aver senso metterli uno affianco all’altro, e – soprattutto nella sala Palizzi, si tratta di rispondere all’esigenza didattica di valutare nell’insieme le opere. Le altre sale però non hanno la disposizione ad incrostazione ma hanno un allestimento cronologico – regionale. C’è una grande parte dedicata all’arte contemporanea. Molti dei dipinti sono di coloro che hanno guidato l’Accademia e li hanno donati. Ci sono terracotte e bronzi di Vincenzo Gemito. C’è ad esempio un busto di Verdi (una opera analoga si trova nella casa di riposo per musicisti creata dal Verdi a Milano), un busto di Domenico Morelli, uno di Mariano Fortini. Vi troviamo anche opere di Nevio D’Orsi e di Tito Angelini che creano una evoluzione nella scultura napoletana tra il neoclassicismo (l’800 si apre con Canova) verso il realismo ottocentesco (Gemito, ecc). La sezione presenta anche le opere di Augusto Perez. Sculture in bronzo estremamente realistiche. Perez ha operato in tutta la seconda metà del’ 900 fino agli anni ‘2000. Ci sono poi incisioni di Bruno Astarita ( nel momento in cui scriviamo vivente) e la collezione va crescendo in quanto i vari maestri, anche contemporanei, stanno continuando a donare.
Da Porta Capuana a San Giovanni a Carbonara
Capitolo XI
Questo itinerario parte da Porta Capuana, a ridosso di Castel Capuano, che è una delle antiche porte di Napoli. Il suo nome si deve al fatto che qui partiva la strada che portava a Capua. La porta fu edificata nel 1484 dal re Ferrante di Aragona ed era uno dei crocevia più importanti della città. Essa è formata da un arco bianco in marmo riccamente ornato da bassorilievi, con ai lati due torri che simboleggiano l'onore e la virtù.
Porta Capuana vista di facciata, da piazza San Francesco
Ecco invece come appare porta Capuana se osservata dal retro, ovvero dal Castel Capuano in piazza Enrico De Nicola
In realtà ciò che oggi vediamo fa parte di un'opera di rifortificazione voluta a Napoli dal monarca aragonese di cui oggi si è conservata solo la porta. Qui sono passati importanti personaggi del passato tra i quali Carlo VIII di Francia e Carlo di Borbone. La storia racconta che il pittore calabrese Mattia Preti si rese colpevole di omicidio per passare i controlli sanitari per la pestilenza nella zona. Crimine per il quale venne condannato a morte. Patteggiò con le autorità la propria liberazione in cambio del suo dipingere tutte le porte della città. Nel 1656 venne eretta sulla porta una nicchia con un affresco rappresentante San Michele Arcangelo, S. Gennaro,S. Agnello e S. Rocco affrescati tutti in procinto di pregare la vergine Maria per scacciare la peste. L’affresco del Mattia Preti si deteriorò e fu sostituito da un affresco rappresentante l’Immacolata, realizzato da Gennaro Maldarelli nel 1837. Nel lato interno della porta era presente una statua di San Gaetano che fu spostata per motivi di sicurezza nel 1926 e venne collocata su un basamento nei giardini prospicienti la porta dove oggi è ancora visibile. Quasi a ridosso di questa porta si trova la chiesa di Santa Caterina a Formiello, bell'esempio di monumento rinascimentale napoletano. L’attuale chiesa è dedicata a Santa Caterina d’Alessandria ed aveva annesso un convento all’inizio detenuto dai celestini, viene detta a formiello (dal latino ad formis, "presso i condotti; presso i canali"), in quanto nei suoi pressi penetrava in città l’antico acquedotto della Bolla – Carmignano: acquedotto che fu poi sostituito totalmente dall'attuale in uso, quello di Serino, verso la fine del XIX secolo. Nel 1498 re Federico d’Aragona la concesse ai padri dominicani che edificarono l’attuale edificio su uno preesistente. Gli agostiniani tennero l’edificio fino al 1809 quando per volontà di Gioacchino Murat il monastero fu soppresso.
La chiesa venne iniziata nella metà degli anni dieci del Cinquecento su progetto dall'architetto settignanese Romolo Balsimelli ed infatti sono chiaramente leggibili influenze toscane. Fu poi completata nel 1593. Il portale ornato con la statua della santa titolare è di Francesco Antonio Picchiatti (1659). L'interno è a croce latina ad una navata, coperta a botte, su cui si aprono le cinque cappelle per lato su base pressoché quadrata coperte da volte a botte, il presbiterio è quadrato anch'esso coperto a botte. La chiesa custodisce pregevoli affreschi del Seicento e del Settecento. Nel presbiterio, che funge quasi da cappella della famiglia Spinelli, principi di Cariati, si osservano l'altare maggiore e sei monumenti sepolcrali del XVI secolo. Pregevole è anche il coro ligneo cinquecentesco del maestro lombardo Benvenuto Tortelli, affrescato da Nicola Maria Rossi. Il quadro al soffitto di Luigi Galzi rappresenta le due Santa Caterina quella d’Alessandria al centro venerata da Santa Caterina da Siena con il saio monacale in basso. Nella controfacciata c’è il martirio di Santa Caterina con il miracolo della distruzione della ruota. Sempre del Galzi ma con una scenografia ben diversa rispetto al soffitto. Lo stesso pittore ha seguito diverse influenze. Ci sono cinque cappelle che si aprono sulla sinistra e cinque sulla destra partendo dalla sinistra e proseguendo in senso orario sono.: la prima è la cappella della famiglia Tocco di origini longobarde, lo capiamo dallo stemma del 1554. Nella cappella vi sono monumenti funebri di una famiglia patrizia napoletana ed una pittura della seconda metà del Cinquecento, tra cui una Madonna con Bambino e Santi Giacomo Maggiore e Minore, prima opera documentata di Francesco Curia. Questa cappella è anche detta degli innocenti perché vi era custodita la tavola quattrocentesca di Matteo di Giovanni della Strage degli innocenti, oggi al museo di Capodimonte. La seconda cappella detta dei domenicani è legata a Vincenzo Maria Orsini, vescovo di Benevento nel 1686, poi papa nel 1724 con il nome di Benedetto XIII. Il Papa era un domenicano e quindi c’era un forte legame con i monaci di Santa Caterina tant'è vero che nel convento vi erano sale destinate unicamente ad ospitare il vescovo durante i suoi soggiorni a Napoli. In questa cappella oltre alle reliquie di San Vincenzo Martire, San Eliodoro Martire, Sant'Innocenzo Martire, nella cappella, ornata nella volta con stucchi in stile barocco napoletano, vi è anche un dipinto del 1732 di Vincenzo Gamba su Papa Benedetto XIII tra i santi domenicani. La terza cappella è detta della famiglia portoghese de Sylva per una lastra tombale del 1536. Dal 1698 il proprietario de Sylva avviò dei lavori di abbellimento della cappella commissionando tre grandi dipinti di Giuseppe Simonelli quali La predica di San Giacomo, San Giacomo in gloria, il Martirio di San Giacomo ed una tavola centrale raffigurante San Giacomo tra i santi Giovanni e Pietro, della scuola di Silvestro Buono. La quarta cappella oggi è dedicata ai martiri d’Otranto, un tempo dedicata alle storie della Vergine ed anche detta della visitazione. Essa custodisce 24 reliquie appartenenti ai martiri della città pugliese, uccisi decapitati dai turchi il 14 agosto del 1480 per non aver rinnegato la propria fede. Alfonso d'Aragona trasferì così i corpi dei martiri a Napoli prima nella chiesa della Maddalena (divenuta poi chiesa di Santa Maria dei Martiri) poi nel 1574 nella chiesa di Santa Caterina a Formiello. Le reliquie furono collocate prima sotto l'altare del Rosario, nel transetto di destra, per poi trasferirle nella "cappella dei domenicani" nel 1739. Dal 1901 le reliquie dei martiri hanno trovato definitiva custodia in un grande sarcofago posto sotto l'altare della cappella della visitazione, visibili alla pubblica devozione. La quinta cappella è da sempre stata dedicata a santa Caterina d'Alessandria e fu interamente decorata da Giacomo del Po che eseguì per la stessa sia il ciclo di affreschi che le pitture: Madonna col Bambino e angeli, Santa Caterina che rifiuta di sacrificare agli idoli, La Santa che disputa con i savi e La decollazione di Santa Caterina.
Rivolgendosi verso il lato destro ed iniziando dalla cappella posta proprio di fronte a quella di Santa Caterina d’ Alessandria troviamo La cappella dedicata al santo domenicano Giacinto. Sulle pareti dipinti firmati e datati 1797 di Angelo Mozzillo: San Giacinto mentre salva la statua della Madonna e l'ostensorio, San Giacinto che ascende al cielo, San Giacinto mentre indica ai fedeli la fede ed Madonna col Bambino e san Giacinto. La cappella successiva della famiglia De Castellis presenta sulle maioliche del pavimento, datate 1576, al centro lo stemma di famiglia. Essa è interamente dedicata alle storie della vita di Gesù, ospita un pregevole dipinto di Silvestro Buono su l'Adorazione dei Magi (1597), una tavola di anonimo su Santa Caterina da Siena, due dipinti di Paolo De Matteis del 1711 raffiguranti la Fuga in Egitto e La circoncisione, infinte sulla volta sempre del De Matteis, un affresco che ritrae Angeli in gloria in paradiso. La cappella posta di fronte alla Cappella della famiglia De Sylva è dedicata alla Pentecoste. ospita lavori di Paolo De Matteis databili intorno al 1712. A lui spetta infatti il ciclo decorativo sulla Trinità, e le tele Discesa dello Spirito Santo su san Filippo e la Discesa dello Spirito Santo sui domenicani. Sull'altare maggiore invece vi è una tavola cinquecentesca sulla Pentecoste. La cappella successiva detta Acciapaccia o Tomacelli presenta un pregevole pavimento maiolicato che ritrae lo stemma della famiglia Acciapaccia, un dipinto sulla Madonna col Bambino di Wenzel Cobergher del 1590 circa. Una lastra tombale dedicata a Luigi Acciapaccia (proprietario della cappella dal 1544 fino al passaggio ai Tomacelli), scolpita da Annibale Caccavello nel 1552. L’ultima cappella, dapprima di proprietà della famiglia Raviniano, i cui monumenti funebri sono posti nel chiostro, fu destinata nel corso del Settecento a narrare le gesta di due domenicani: san Vincenzo Ferrer e san Pio V (che divenne papa nel 1566) da cui prende il nome. Di Santolo Cirillo (allievo di Francesco Solimena) sono invece gli affreschi che decorano l'intera cappella rappresentanti scene sui due Santi e sull'Adorazione verso la croce. Il Transetto ospita un formidabile apparato decorativo. Nel cappellone sinistro troviamo il maestoso altare di san Domenico, che, su disegno di Ferdinando Sanfelice, fu realizzato da Lorenzo Fontana tra il 1715 e il 1717, e che ospita una tela di Giacomo del Po raffigurante san Domenico sconfigge gli Albigesi. Nel cappellone destro un'apoteosi di alabastro e marmo dà vita alla Madonna del Rosario tra santa Caterina da Siena e san Domenico, opera attribuita al romano Paolo Tenaglia, su progetto di Carlo Schisano (1736). Fu durante i lavori al nuovo altare che le urne dei martiri d'Otranto furono ivi ritrovate e traslate sotto l'altare della seconda cappella a sinistra. Nel 1712 il lavoro della cupola, prima nel suo genere architettonica a Napoli, fu affidato a Paolo De Matteis. Centrale sarà l'affresco della Madonna, santa Caterina e i patroni di Napoli che implorano la Trinità a favore della città. Sulla cantoria lignea intagliata del braccio sinistro del transetto, si trova l'organo a canne della chiesa, costruito nel 1718 dall'organaro napoletano Giuseppe de Martino.
Usciti sul sagrato edicola votiva a S. Gennaro su progetto di Ferdinando Sanfelice, con busto del Santo di Domenico Antonio Vaccaro 1708 e due angeli del padre Lorenzo. Ha un aspetto bonario e lo sguardo rivolto verso la città. Dalla chiesa si gira verso la destra percorrendo via Carbonara. Lungo il percorso si noterà sulla sinistra un bel palazzo, attualmente un albergo, che apparteneva ai Caracciolo di Santobuono. L'edificio fu eretto dai principi nel 1584, sul luogo in cui precedentemente era situato un castello urbano, donato dal re Roberto d'Angiò a Landolfo Caracciolo nei primi decenni del XIV secolo. Fu legato alla vicenda della Repubblica Napoletana di Masaniello. Nel 1692 venne di nuovo restaurato, ospitando così una quadreria notevole. In epoca aragonese fu sede del Sacro Regio Consiglio e fu dimora del Duca di Guisa (1648), dello scopritore degli scavi di Ercolano Emanuele Maurizio d'Elboeuf (1716) e del generale francese Jean Étienne Championnet ai tempi della Repubblica Partenopea. Più avanti dall’altro lato della strada troviamo l’importantissima chiesa di San Giovanni a Carbonara che è di epoca trecentesca. La zona era luogo di scarico di rifiuti inceneriti e per questo si chiama a Carbonara. La costruzione della chiesa ebbe inizio nel 1339, grazie alle donazioni del patrizio napoletano Gualtiero Galeota, sul luogo dove sorgeva un piccolo convento di agostiniani. L'ampliamento che, all'inizio del Quattrocento, fu voluto da Re Ladislao (che qui desiderava essere sepolto), portò alla costruzione di un nuovo chiostro a fianco di quello preesistente e la chiesa fu abbellita con marmi pregiati. Restaurata nel 1856, fu severamente danneggiata durante i bombardamenti del 1943. L'ingresso della chiesa è caratterizzato da una scenografica scala in piperno a doppia rampa realizzata da Ferdinando Sanfelice nel 1707 circa. La facciata della chiesa, semplice nelle forme, presenta un bel portale gotico con due pilastri ornati ed una lunetta affrescata dal pittore lombardo Leonardo da Besozzo. La chiesa ingloba la chiesa di Santa Monica e la chiesa della Consolazione a Carbonara mentre è contigua strutturalmente a quella della Pietatella. L’interno è a croce latina con un'unica navata rettangolare, il soffitto a capriate e l'abside coperta a crociera con cappelle aggiunte in tempi posteriori. L'altare maggiore con balaustra (1746) presenta una pavimentazione a marmi policromi ed è posto tra due finestroni a linea tipicamente gotica. Nella zona absidale domina il monumento funebre a re Ladislao tomba alta circa 18 metri. Imponente fa subito effetto sul visitatore. Nel 1414 muore Ladislao e la sorella Giovanna prende le redini del regno. Il rilevante gruppo scultoreo dal basso presenta 4 figure femminili che rappresentano le virtù Temperanza, Fortezza, Prudenza, Magnaminità. Sotto un arco tutto sesto. Nella parte centrale c’è Ladislao e Giovanna seduti in trono ai lati sotto archi trilobi, due gruppi di virtù pure sedute a destra Carità e Fede a sinistra Valore militare e Speranza datate 1428. Le quattro figure superiori rappresentano Ladislao, Giovanna, madre Margherita di Durazzo e padre Carlo III. Sopra la figura giacente di Ladislao benedetto da un vescovo e due diaconi. Notare gli angeli reggi cortina che aprono scenograficamente il sarcofago. Ancora sopra la Vergine, San Giovanni e Sant’Agostino. L’araldo angioino ed ancora sopra il re sul cavallo con la spada sguainata verso l’alto.
Nel 1546 qui furono composte sedici tavole del Vasari con la collaborazione di Cristoforo Gherardi oggi al museo di Capodimonte; del pittore aretino è rimasta nella chiesa, accanto al monumento a re Ladislao, una Crocefissione. Sull'altare maggiore vi è invece la statua della Madonna delle Grazie di Michelangelo Naccherino (1578) e dello stesso autore sono altri monumenti funebri ed una Madonna col Bambino. Di Bartolomé Ordoñez è infine l'Altare dell'Epifania del 1517 circa. Le cappelle della chiesa sono sei, quattro laterali, una nella controfacciata ed una alle spalle dell'abside dalla quale partiamo. Passando sotto il monumento funebre del re Ladislao si accede alla cappella Caracciolo del Sole. La cupola è stata bombardata durante la seconda guerra mondiale e ricostruita non presenta più gli affreschi. Possiede importanti affreschi del Perrinetto da Benevento e Leonardo da Besozzo, ed inoltre custodisce il monumentale sepolcro di Sergianni Caracciolo. Bellissimo il pavimento che richiama quello visto presso Santa Caterina a Formiello nella cappella degli Acciappacia a dimostrazione dello sviluppo della ceramica a Napoli. Nel primo livello di affreschi troviamo figure geometriche e storie dei monaci agostiniani che erano assegnatari dell’edificio. Nella parte superiore storie della vita della Vergine Maria, la figura centrale rappresenta l’ascesa della Vergine tra schiere di angeli del Besozzo. Il Sepolcro di Sergianni Caracciolo, amante della regina Giovanna, ma non amato dalla corte per le sue influenze sulla regina tanto da essere ucciso. Il suo corpo non trova sepoltura, suo figlio Troiano viene allontanato da Napoli. Troiano ritornato in città chiede una giusta sepoltura del padre. Il sepolcro fatto da Giovanni da Besozzo e sorretto da tre cariatidi maschili finemente rifinite e la presenza di leoni simbolo della famiglia che sostengono il sepolcro dove viene portato da angeli alati il simbolo stesso e dietro il sole per l’araldo della famiglia. Iscrizione di Lorenzo Valla che celebra il defunto e sopra l’immagine di Sergianni Caracciolo omaggiato da due leoni con la corona. Usciti dalla cappella sepolcrale troviamo le altre. La Cappella del Crocifisso: Fondata dal cardinale Geronimo Seripando, detta anche "Cappella Seripando". Essa è caratterizzata dal monumento sepolcrale del fondatore che fu inoltre arcivescovo di Salerno. Cappella Recco: Ospitava il presepe quattrocentesco del complesso commissionato nel 1478 da Jaconello Pipe, aromatario del duca di Calabria, a Pietro e Giovanni Alamanno. Quarantacinque figure pastorali sono state poi trasferite al museo di San Martino, molte sono state trafugate. Cappella Miroballo: La cappella è dedicata a San Giovanni Battista ed è addossata alla parete di fronte all’ingresso. La cappella è caratterizzata da numerose statue tra le quali spiccano alcuni Dottori della Chiesa, una Madonna col Bambino e l'opera dedicata al fondatore della cappella Troiano Miroballo con la moglie presentati dai due Ss. Giovanni. Il sepolcro di Antonio Miroballo è opera di Lorenzo Vaccaro e precede gli affreschi quattrocenteschi posti nella nicchia seguente che raffigurano la Vita di San Nicola da Tolentino. Cappella Caracciolo di Vico: La cappella fu eseguita agli inizi del Cinquecento e fu opera di diverse mani del rinascimento napoletano e di quello spagnolo. La cappella ospita i sepolcri della famiglia Caracciolo di Vico e vi lavorarono i più noti scultori marmorei di quel periodo: Giovanni da Nola, Girolamo Santacroce, Giovanni Domenico D'Auria, Annibale Caccavello e Girolamo D'Auria. Al centro altare con Cristo morto e sopra una epifania. Affianco ai re magi c’è un re che dovrebbe essere un sovrano sicuramente un aragonese. Nella navata centrale si può notare un affresco dell’annunciazione della fine del 400 con una raffigurazione originale che vede la Madonna che compare alle spalle dell’angelo. Cappella Somma: La cappella, che si trova sulla controfacciata, fu eretta tra il 1557 ed il 1566 su disegno del D'Auria e dal Caccavello che eseguirono rispettivamente la parte inferiore dell'altare, l'Assunta, e il Sepolcro di Scipione di Somma di fronte all'ingresso.
Villa Rosebery, Grotta di Seiano, Gaiola e le fontane di Napoli
Capitolo XII
Villa Rosebery è una delle tre residenze ufficiali del Presidente della Repubblica con il Castel Porziano ed il Quirinale. Ha una superficie di 66.056 mq di cui solo 4.463 coperti da fabbricati è visitabile solo in particolari occasioni. C’è bellissimo giardino che digrada fino a mare dove è presente una darsena. La villa deve la sua origine all'iniziativa dell'ufficiale austriaco Giuseppe de Thurn, che a partire dal 1801 acquistò alcuni fondi su capo Posillipo per erigervi una residenza di campagna circondata da un giardino, nonché da ampi frutteti e vigneti. Successivamente quando fu creata la strada che da Mergellina porta a Bagnoli la villa aumentò il valore economico e fu venduta dal suo proprietario alla principessa di Gerace ed a suo figlio, Agostino Serra di Terranova. Essi convertirono la villa da agricola a residenziale e la chiamarono “Villa Serra Marina”. I lavori furono affidati agli architetti gemelli Stefano e Luigi Gasse, che trasformarono elegantemente il casino del Belvedere e la grande palazzina Gaudiosa che oggi ospita il presidente della repubblica. Nel 1857 gli eredi Serra vendettero la villa a Luigi di Borbone, comandante della Real Marina del Regno delle Due Sicilie e la villa stessa si guadagnò l'appellativo di "la Brasiliana", in onore della consorte di Luigi, che era sorella dell'imperatore del Brasile “Pedro II”. In pochi anni il nuovo proprietario ampliò i giardini della villa e fece costruire un apposito approdo, ma in seguito alle vicende risorgimentali del 1860 venne esiliato in Francia. La villa fu quindi venduta al banchiere francese Gustave Delahante, per poi essere acquistata nel 1897 da Lord Rosebery che ne ha dato il nome. Lo statista britannico che era stato capo di gabinetto dal 1894 al 1895. Ritiratosi a vita privata, Lord Rosebery rese la villa un'oasi di tranquillità accessibile solo a selezionati amici e studiosi, finché nel 1909 decise di donare la proprietà al governo inglese, per via delle ingenti spese di manutenzione e della sua ripresa dell'attività politica. Villa Rosebery divenne così una sede di rappresentanza e villeggiatura per gli ambasciatori inglesi in Italia, ma nel 1932 venne donata allo Stato italiano che la adibì a residenza estiva della famiglia reale. Nel 1934 la principessa Maria José, moglie di Umberto di Savoia, vi diede alla luce la primogenita Maria Pia, e da quel momento la villa fu ribattezzata "Villa Maria Pia". Dal giugno 1944, durante la luogotenenza del figlio Umberto, Vittorio Emanuele III e la regina Elena si trasferirono a villa Maria Pia. La coppia reale visse nella residenza partenopea finché Vittorio Emanuele III non firmò l'atto di abdicazione a favore del figlio Umberto il 9 maggio 1946 prima di partire per l'esilio. Requisita provvisoriamente dagli Alleati, la villa riprese il nome di villa Rosebery e fu dapprima concessa all'Accademia Aeronautica, per poi entrare, a partire dal 1957, nel novero delle residenze in dotazione al Presidente della Repubblica Italiana. La visita inizia dalla Palazzina Gaudiosa che è in stile neoclassico, questa è la residenza del presidente della repubblica. Dalla parte frontale si vedono 2 piani che diventano 4 nella parte retrostante sfruttando il declino del terreno. Gli appartamenti presidenziali sono al secondo piano dove sono presenti 4 stanze da letto. All’entrata si possono notare 4 lanterne in porcellana di Capodimonte e 4 cani in bronzo. Gli arredi sono tutti di proprietà della presidenza della repubblica e quelli interni sono in seta di San Leucio. Da qui si accede alla bellissima terrazza prospiciente il golfo di Napoli. Scendendo verso il mare si incontra la foresteria ed il porticciolo munito di eliporto e controllato 24 ore su 24. Dal porticciolo sono visibili in mare resti di due ville romane. Salendo si raggiunge la palazzina Borbonica in stile neoclassico fu costruita nel 1820 nel luogo dove sorgeva la casa del primo proprietario della villa. Il prospetto posteriore è invece nobilitato da un portico ionico e da un fregio in stucco che celebra attraverso riferimenti mitologici temi legati alla vita nella villa posillipina quali il mare, la terra e i suoi frutti, le arti. Sul belvedere il tempietto neoclassico che accentua l’aspetto romantico del parco questo costruito dai Serra per i loro soggiorni. Il parco si sviluppa su un dislivello è di circa 40 metri. Vi è la presenza di pregevoli piante tra cui della bellissime Sterlitzia Nicolay.
Grotta di Seiano e Gaiola
Nella bellissima zona di Posillipo troviamo forse il luogo paesagisticamente più bello di Napoli Il parco archeologico ambientale di Posillipo che ha il suo accesso attraverso l’imponente Grotta di Seiano posta sulla discesa Coroglio. La villa del Pausilypon cioè “sollievo dal dolore” fu fatta costruire dal Liberto Publio Vedio Pollione dopo la battaglia di Azio del 31 a. C. perché decise di trascorrere la parte finale della sua vita in questo splendido scorcio situato tra la Gaiola e la Baia dei Trentaremi. Il Ricchissimo Beneventano Publio proveniva da una famiglia di liberti raggiungendo l’ordine equestre (esattore delle tasse) servendo egregiamente Augusto. Aveva una dubbia fama dovuta alla sua ira, si racconta infatti che voleva dare in pasto alle murene un suo schiavo che aveva rotto un oggetto molto prezioso e che fu salvato da Augusto. Quest’ultimo presente all’incidente aveva fatto portare tutti gli oggetti preziosi ed ordinò di romperli. Pollione ovviamente sdegnato non poteva punire Augusto e così fu salvato anche lo schiavo. Alla sua morte Publio nel 15 a. C. lasciò le sue ricchezze ad Augusto che diventò proprietario della villa a Posillipo e della sua casa all’Esquilino in Roma. In quest’ultima Augusto fece costruire il portico di Livia. Le strutture della Villa si estendono per una superficie ampissima che raggiunge il mare nei pressi del parco sommerso della Gaiola. La grotta di Seiano è un traforo lungo 770 m, scavato nella pietra tufacea della collina Posillipo in epoca romana nel I sec. a. C., che congiunge la piana di Bagnoli (via Coroglio) con il vallone della Gaiola, passando per la baia di Trentaremi. I romani conoscevano la struttura della collina e sapevano che nel cuore della collina di Posillipo si trova la pozzolana. Essendo un materiale friabile i lavoranti facevano alcuni metri poi si fermavano e con dei pali di legno costruivano una impalcature chiamata “centina” che serviva a costruire la volta. I segni nella volta che sembrano crepe segnano la fine di un blocco di lavoro quotidiano. Dalla distanza tra le crepe è stato possibile calcolato che i lavori di scavo procedevano in una giornata al ritmo di 3 – 4 metri, quindi ipotizzando il lavoro di 24 ore al giorno tutti i giorni si è calcolato che per fare il traforo gli addetti ai lavori abbiamo impiegato circa 12 mesi. La costruzione veniva effettuata come oggi, ma senza gli attuali strumenti, si stabilivano il punto di entrata ed uscita e si lavorava nei due sensi per congiungersi. Molto probabilmente la doppia curva presente al centro del traforo è stato un modo di ritrovarsi durante i lavori. L’altezza era superiore a ciò che vediamo oggi almeno di un metro dato che il pavimento non è stato scavato deducendo che sia uguale al calpestio attuale. Gli archi che si vedono si devono ai Borboni come lavori di sostegno alla struttura. Il traforo molto più grande che permetteva il passaggio di due carri in contemporanea. Nel 500 il Pontano scoprendo l’esistenza della grotta da alcuni studi dedusse che era Seiano il costruttore, ma studi successivi hanno dimostrato che era stata fatta in epoca antecedente da Publio Vedio Pollione. La grotta quindi deve erroneamente il nome a Lucio Elio Seiano, prefetto di Tiberio, che secondo la tradizione nel I secolo d. C. ne commissionò l'allargamento e la sistemazione. Il primo traforo era stato realizzato una cinquantina di anni prima dall'architetto Lucio Cocceio Aucto per volere di Marco Vipsanio Agrippa, per collegare la villa di Publio Vedio Pollione e le altre ville patrizie di Pausilypon ai porti di Puteoli e Cumae. La galleria, orientata in direzione est-ovest con un tracciato rettilineo ma una sezione variabile sia in altezza che in larghezza. Dalla parete sud della grotta si dipartono tre cunicoli secondari, terminanti con aperture a strapiombo sulla baia, che forniscono luce ed aerazione. Caduta in disuso e dimenticata nel corso dei secoli, fu rinvenuta casualmente durante i lavori per una nuova strada nel 1841 e subito riportata alla luce e resa percorribile per volontà di Ferdinando II di Borbone, diventando meta di turisti. Nel corso della Seconda guerra mondiale fu utilizzata come rifugio antiaereo per gli abitanti di Bagnoli; gli eventi bellici ed alcune frane nel corso degli anni cinquanta la riportarono in uno stato di abbandono. Nell’area archeologica è possibile ammirare i resti dell'imponente teatro capace di 2000 posti, dell'Odeion e di alcune sale di rappresentanza della villa (visibili ancora tracce dei decori murali), le cui strutture marittime fanno oggi parte del limitrofo Parco sommerso di Gaiola, su cui si affacciano i belvedere a picco sul mare del Pausilypon. La villa diroccata visibile sugli scave e dell’ 800 fatta costruire da Monsignor Camillo di Pietro, all’epoca era normale riutilizzare le zone archeologiche. Dal belvedere ci si affaccia sulla baia dei trentaremi in passato utilizzata come cava di tufo. Lo scoglio che si vede a pelo d’acqua era un promontorio dello stesso materiale tagliato nel tempo. Il nome della baia in un primo momento si pensava ai triremi romani, ma all’epoca il mare non arrivava dove arriva oggi quindi un filologo studiando la parola ha scoperto che il costo di un carico di tufo costava trenta tareni, nome volgare del tarì moneta del tempo, da cui deriva trentaremi. Qui è stata ritrovata una Nereide su pistrice, mostro marino, è oggi al museo Archeologico di Napoli, le altre due statue ritrovate sul luogo sono oggi al British Museum. I giardini erano pieni di alloro, mirto e lecci. Il leccio è una quercia mediterranea tipica della costiera del tempo. Il Parco sommerso di Gaiola è una piccola area marina protetta di 42 ettari di mare che circonda le Isole della Gaiola nel golfo di Napoli e che si estende dal Borgo di Marechiaro alla Baia di Trentaremi, istituita nel 2002. La sua peculiarità è dovuta alla fusione tra elementi vulcanologici, archeologici e biologici. Sui fondali del Parco, infatti, è possibile osservare i resti di porti, ninfei e peschiere attualmente sommersi a causa del lento sprofondamento della crosta terrestre (bradisismo). Tutti questi sono in gran parte afferenti alla Villa Imperiale di Pausilypon. L'Area Marina Protetta è visitabile mediante visite guidate con battello a visione subacquea, itinerari snorkeling e diving. Il Centro Visite è ubicato presso il CeRD, Centro Ricerca e Divulgazione scientifica del Parco, dove vengono svolte attività didattico-educative per le scuole e attività formative. Prendendo il battello si visita dalla baia dei trentaremi al palazzo degli spiriti. Il palazzo fa capire bene il fenomeno del bradisismo visto che qui la terra e scesa di circa tre metri dal tempo della sua costruzione. Proseguendo lungo la costa, verso occidente, è possibile notare il perimetro della “Scuola di Virgilio” dove si riteneva che il "vate" praticasse arti magiche.
Fontane di Napoli
Ad arricchire il già vasto panorama urbanistico della meravigliosa Napoli troviamo le fontane monumentali. La più famosa è La Fontana del Nettuno essa risale al 1595 e fu realizzata da un gruppo di vari artisti. Voluta dal viceré Enrique de Guzmán, conte di Olivares, il quale governò a Napoli dal 1595 al 1599, fu effettivamente lavorata tra il 1600 e il 1601, durante il viceregno del conte di Lemos, su direzione di Domenico Fontana. Alla realizzazione della fontana parteciparono Michelangelo Naccherino (che realizzò il Nettuno), Angelo Landi e Pietro Bernini (che scolpì i mostri marini). Attualmente la fontana si trova davanti al municipio di Napoli dopo aver fatto molti giri nella città. Quando fu costruita fu sistemata presso l'Arsenale del porto. Rimasta a secco di acqua a causa del luogo idricamente infelice, nel 1628 per iniziativa del viceré duca d'Alba fu trasportata al largo di Palazzo (attuale Piazza del Plebiscito) presso il Palazzo Reale. Ricevono l'ordine di smontarla e trasportarla Vitale Finelli e Matteo de Curtis. Data l'importanza del provvedimento, il topografo Alessandro Baratta si premurò di disegnare la fontana nella nuova collocazione all'interno della prima edizione della sua veduta della città, pubblicata nel 1629. Tuttavia risultando d'intralcio per le feste in piazza, nel 1634 durante il viceregno del conte di Monterey fu spostata a Santa Lucia, presso il baluardo d'Alcalà, dove fu arricchita dalle sculture di Cosimo Fanzago, il quale vi lavorò assieme ai figli Carlo e Ascenzio. Il nobile Cesare Carmignano, ideatore dell'omonimo acquedotto cittadino aperto nel 1629, progettò la tubazione che avrebbe alimentato la fontana nel suo nuovo collocamento. Nei primi mesi del 1639 il viceré Ramiro Felipe Núñez de Guzmán, duca di Medina di las Torres, decise che la fontana fosse portata al largo delle Corregge, in corrispondenza della chiesa di San Gioacchino (la chiesa di San Diego all'Ospedaletto in via medina) e incaricò il Fanzago, che si avvalse della collaborazione di Donato Vannelli e Andrea Iodice, di rimaneggiarla ulteriormente. Nel 1642 i lavori erano terminati. Mutilata al tempo della rivolta di Masaniello (1647-1648), fu nel 1649 oggetto di restauro da parte dello Iodice e di Francesco Castellano. Depredata dal viceré Pedro Antonio d'Aragona (1672), fu di nuovo parzialmente restaurata nel 1675 e dopo questa data ebbe probabilmente un ulteriore spostamento, presso l'inizio della via del Molo. Carlo Celano nel 1692 e Domenico Antonio Parrino nel 1725 infatti la segnalano all'altezza del palazzo Caravita di Sirignano, cioè all'inizio di via Medina (dove cominciava pure la via del Molo, che scendeva appunto verso il Molo Grande). Anche la mappa del Duca di Noja, prima carta topografica moderna della città, completata nel 1775, la colloca in questo luogo. Dopo circa due secoli, in cui si susseguirono altri restauri, nel 1886, in vista dei grandi lavori imposti dal "Risanamento" e che prevedevano il rifacimento di via Medina, fu rimossa da quel luogo e depositata nelle grotte sotto Pizzofalcone (in via della Pace, attuale via Domenico Morelli). Nell'aprile 1896 il regio commissario Ottavio Serena deliberò che il luogo deputato ad accogliere la fontana fosse una nuova piazza ottenuta dai lavori del Risanamento: piazza Agostino Depretis (attuale piazza Nicola Amore), ma problemi tecnici ne impedirono la collocazione. Sette mesi dopo, a novembre, una proposta della commissione municipale per i monumenti suggeriva di collocarla nella nuova piazza Municipio, che in quegli anni veniva ampliata con la demolizione di molti degli edifici che la ingombravano. Nel 1898 (anno dell'ultima delibera del Comune sul suo riposizionamento) riapparve finalmente nella piazza della Borsa (attuale piazza Bovio), dove rimase fino al 2000, quando, rimossa per l'apertura del cantiere della metropolitana, riapparve nel 2001 in via Medina (anche se la sua posizione differì di poco dalla prima, essendo posta all'altezza di palazzo Fondi) dopo accurato intervento di restauro. Nel 2014 la fontana è stata restaurata e smontata per essere poi ricostruita (operazione conclusasi nei primi mesi del 2015) in piazza Municipio dinanzi palazzo San Giacomo, come previsto dal progetto della nuova piazza curato dagli architetti Alvaro Siza e Eduardo Souto de Moura che hanno progettato innanzitutto la sottostante stazione Municipio della linea 1 della metropolitana. L'inaugurazione della fontana e la conseguente apertura al pubblico della parte di piazza dove è collocata sono avvenute il 23 maggio 2015, giorno in cui si è svolta l'inaugurazione della stazione alla presenza delle autorità. Di forma circolare, la fontana è circondata da una balaustra con quattro gradinate diametralmente opposte, ornate da eleganti viticci a traforo su cui sono posti quattro leoni dai quali sgorga l'acqua, recanti tra le zampe lo scudo della città e del duca di Medina e di Carafa, frutti di un rimaneggiamento ed ampliamento ad opera di Cosimo Fanzago. Due mostri marini versano l'acqua nella vasca centrale sottostante, adornata con delfini che cavalcano tritoni che a loro volta emettono acqua: una composizione dovuta alla mano di Pietro Bernini. Al centro della fontana, su uno scoglio, due ninfe e due satiri reggono sulla testa una coppa sulla quale troneggia una statua di Nettuno con tridente, opera di Michelangelo Naccherino, dalla quale zampilla l'acqua. La Fontana del Gigante o dell’Immacolatella è in via Partenope, a poca distanza dal Castel dell'Ovo. La fontana è opera di Pietro Bernini e di Michelangelo Naccherino, che la realizzarono su commissione del duca d'Alba don Antonio Alvarez di Toledo. Sua prima collocazione è stata in largo di Palazzo (l'attuale piazza Plebiscito). A pochissimi passi dalla fontana sorgeva la statua colossale del Gigante, assemblata nel 1670 dopo che fu ritrovato a Pozzuoli un busto raffigurante Giove, a cui furono aggiunte le altre parti. La fontana rimossa nel 1815 in occasione di lavori di sistemazione della salita del Gigante. Rimasta per molto tempo senza collocazione, fu posta nel 1882 vicino al palazzo dell'Immacolatella al molo piccolo, ragione per cui la fontana è anche detta dell'Immacolatella. Fu rimossa nel 1886 per eseguire i lavori di ampliamento del porto e fu collocata nel 1889 all'interno della villa del Popolo. Infine nel 1905 fu deliberato il suo nuovo spostamento, che avvenne nel 1906. Il suo nuovo luogo fu lo slargo terminale di via Partenope, nel punto dove principia via Nazario Sauro, ottenuto grazie alla colmata su via Santa Lucia. La fontana monumentale è articolata mediante tre archi a tutto sesto, sopra i quali sono collocati i grandi stemmi che simboleggiano la città, i viceré di Napoli ed anche il re di quel periodo storico. Nell'arco centrale vi è la tazza che è sorretta da due animali marini, mentre, le statue nei restanti due archi laterali, rappresentano divinità fluviali che stringono tra le mani due mostri del mare. Le due statue (le cariatidi) sono poste all'estremità degli ultimi archi: esse sono intente nel reggere cornucopie.
Fontana del Sebeto
La fontana del Sebeto si erge in largo Sermoneta, al termine di via Francesco Caracciolo. Fu costruita nel 1635 per volere del viceré Emanuele Zunica e Fonseca, su progetto di Cosimo Fanzago; l'esecuzione dei lavori fu invece affidata al figlio Carlo Fanzago. La sua originaria collocazione era alla fine della strada Gusmana, detta in seguito salita del Gigante (oggi via Cesario Console), addossata ad un muraglione che affacciava sul sottostante arsenale e posizionata in modo tale da essere di fronte a via Santa Lucia. Nell'anno 1900 la fontana fu smontata e solo nel 1939 fu ricomposta nell'attuale collocazione, dopo che negli anni trenta fu realizzata la colmata del tratto finale di via Caracciolo. La base della fontana è tutta in piperno; la parte superiore è composta da tre vasche in marmo, di cui la centrale è quella più grande ed aggettante. Su di questa si ergono due mostri marini dalle cui bocche sgorga l'acqua. La scultura di rilievo è situata al centro ed è rappresentata da un vecchio, simboleggiante il fiume Sebeto, l'antico corso d'acqua che scorreva nel cuore della città. I due tritoni ai lati della fontana hanno sulle proprie spalle delle buccine che gettano l'acqua nelle vasche laterali. A completare la fontana vi è una lapide, sormontata dai tre stemmi del viceré, del Re di Spagna e della città di Napoli.
Fontana di Monteoliveto
La fontana di Monteoliveto detta anche del re Carlo II o del Re Piccolo, è situata in piazzetta Trinità Maggiore a Napoli. I lavori della fontana iniziarono nel 1668 dai marmorari Bartolomeo Mori e Pietro Sanbarberio con la supervisione dell'architetto e ingegnere Donato Antonio Cafaro; nel 1671 il Mori morì e a lui subentrarono Dionisio Lazzari e Giovanni Mozzetti. Giunta all'ultimazione, vennero affidati i lavori per la realizzazione della statua di Carlo II in bronzo agli scultori Giovanni Maiorino e Giovanni D'Auria; tuttavia i due non terminarono l'opera scultorea, la cui esecuzione venne affidata a Francesco D'Angelo, che la terminò nel 1673. La struttura si presenta con una vasca polilobata a tre bracci, con al centro un piedistallo di eguale forma, con tre leoni che reggono, fra le zampe, gli stemmi del re, del viceré e della città, alternati ad aquile che hanno, sulla base esterna, tre vaschette a forma di conchiglia sorrette da una voluta. Al centro c'è un basamento a forma di obelisco piramidale sormontato dalla statua eseguita da Francesco D'Angelo su disegno di Cosimo Fanzago.
La fontana della Sirena è ubicata nel quartiere Mergellina. Fu eretta nel 1869 per ornare la stazione ferroviaria dallo scultore Onofrio Buccini, con la collaborazione di Francesco Jerace, ma nel 1924 fu spostata in piazza Sannazaro. La fontana è un gruppo marmoreo composto da un'ampia vasca ellittica nel cui centro si erge lo "scoglio", sul quale poggiano quattro animali simbolo di tradizioni iniziatiche: un cavallo, un leone, un delfino e una tartaruga, oltre ad alcuni elementi floreali. Su questo gruppo sovrasta la Sirena Partenope che stringe una lira con il braccio destro, mentre il braccio sinistro è puntato verso l'alto. La sirena ha la coda avvolta intorno ai fianchi. La figura della sirena Partenope ricorre anche nella fontana della Spinacorona (detta "delle zizze" del secolo XVI), raffigurata nell'atto di premere i seni per estinguere con il latte le fiamme del Vesuvio. La fontana del Carciofo è posta al centro dell'odierna piazza Trieste e Trento. Fu Achille Lauro a volere la costruzione della fontana nel periodo della sua giunta comunale, tra il 1952 e il 1957. Nei progetti preliminari del Comune al centro della piazza doveva essere posta la fontana di Monteoliveto, proveniente dall'omonima piazza, tuttavia nel 1955 il Consiglio Superiore delle Belle Arti bocciò l'ipotesi. La risposta del sindaco Lauro allora fu l'installazione di una fontana da lui donata alla città, appunto la fontana del Carciofo, inaugurata la sera del 29 aprile 1956. Lauro affidò l'incarico di progettazione della fontana agli ingegneri Carlo Comite, Mario Massari e Fedele Federico. La fontana è composta da due livelli: alla base c'è una grande vasca con al centro un’altra piccola vasca sopraelevata che sorregge una scultura a forma di Corolla floreale. Sui tre lati del monumento trovano posto tre coppie di vasi decorati è dalla forma della corolla, somigliante ad un carciofo.
La fontana dell'Esedra si trova alla Mostra d'Oltremare. La fontana fu progettata nel 1938 da due architetti, Carlo Cocchia e Luigi Piccinato, e inaugurata nel 1940. Fu voluta dal regime fascista, in quanto doveva celebrare il colonialismo italiano. L'inaugurazione fu spettacolare: venne eseguita la sinfonia "Fontane d'Oltremare" (composta dal Maestro Guido Pannain) e i getti d'acqua erano sincronizzati con la musica. Il 23 maggio 2006, dopo circa trent'anni di pressoché totale abbandono e due anni e mezzo di lavori, la fontana è stata restaurata e nuovamente inaugurata. La struttura, ispirata ai settecenteschi modelli della fontana della Reggia di Caserta, con la sua estensione di 900 metri quadrati, è in grado di contenere una massa d'acqua di 4000 metri cubi ed emettere getti alti fino a 40 metri. Intorno è circondata da alberi d'alto fusto, soprattutto da pini e lecci. Attualmente la fontana può contare su 76 vasche ad esedra, 1300 ugelli fatti di ottone e di bronzo, 12 fontane a cascata e altrettante elettropompe. Grazie a circa 800 proiettori che emettono luci di vari colori e un impianto audio, la fontana è in grado di offrire spettacoli molto suggestivi. La decorazione della fontana, eseguita in ceramica, è opera di Giuseppe Macedonio.
Il Museo di Capodimonte
Capitolo XIII
Introduzione
Il museo di Capodimonte è nel palazzo reale costruito sulla omonima collina nel 1738 per volontà di re Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta Farnese da cui ereditò la grande collezione che oggi è ospitata nel museo stesso. Il luogo venne scelto per la grande visibilità sulla collina e come nuova costruzione del re a immagine del potere e dell’autonomia del regno di Napoli. Il progetto venne inizialmente affidato ad Giovanni Antonio Medrano; la costruzione fu molto lenta dovendo dotare il luogo sia di condotti idrici sia di una strada per raggiungere il sito, inoltre ricordiamo che Carlo di Borbone lasciò il regno di Napoli per diventare re di Spagna. La costruzione così come noi oggi la vediamo è stata finita nel 1834-38. La parte meridionale affaccia su quello che viene chiamato il Belvedere, i cortili si presentano con l’utilizzo della pietra lavica il piperno, di fronte alla reggia si trova la palazzina dei principi che è il fabbricato più antico già preesistente alla costruzione della reggia, apparteneva alla famiglia dei Carmigliano che erano i marchesi di Acquaviva, rappresentava la residenza estiva che fu poi trasformata da Francesco I come luogo destinato alla residenza dei principi da cui deriva il nome. All’interno del grande parco progettato dal Ferdinando Sanfelice si trovava la Real fabbrica di porcellane poi distrutta. Nel decennio francese le collezioni furono trasferite per diventare la residenza preferita da Gioacchino Murat. Successivamente residenza dei Savoia e dei duchi di Aosta. Oggi uno dei più importanti musei di Napoli. Il museo nazionale delle galleria di Capodimonte nasce nel 1957 per volere dell’allora sovrintendente Bruno Monaioli con allestimento iniziale di Ezio Bruno De Felice; nel 1995 in occasione dei restauri il museo è stato riallestito con al primo piano la collezione Farnese.
Primo piano
Nella prima sala non c’è un ordine cronologico, a differenza delle altre sale che seguono un ordine temporale e regionale, con tutta una serie di ritratti del ‘500 della famiglia Farnese. Il più importante al centro della sala del Tiziano rappresenta Paolo III Farnese iniziatore della dinastia tra i nipoti Alessandro Farnese, Cardinale già in giovane età ed aveva il nome del nonno, e Ottavio che aveva avuto assegnato il ducato di Parma. A Paolo III si deve l’inizio della collezione che Elisabetta Farnese ultima discendente e moglie di Filippo V di Spagna lasciò in eredità al figlio Carlo che era diventato re di Napoli. In un primo momento la collezione doveva essere raggruppata nel palazzo degli studi attuale sede del museo archeologico dove sono rimasti molte delle opere rinvenute dagli scavi delle terme di Caracalla.
Da questo punto in poi si segue un percorso cronologico dalle opere più antiche alle più moderne; il primissimo passetto è dedicato alla Crocifissione di Masaccio 1426 che non faceva parte della collezione Farnese ed è stato acquistato nel 1901 dallo Stato italiano e inserito nel percorso perché nella collezione ci sono delle opere di Masolino da Manicale che era maestro di Masaccio. Il dipinto era la cimasa del polittico, cioè la parte alta del polittico, della chiesa del Carmine di Pisa, ed è per questo che si vede la testa schiacciata sul collo. l’opera è interessante perché nel ‘400 Masaccio è stato uno dei primi a scoprire la tridimensionalità. L’opera era stata richiesta dal committente con base in oro che rendeva le figure ancor più piatte. Per rendere un po’ di prospettiva il Masaccio disegna un arco alle spalle del Cristo e soprattutto le braccia della Maddalena in modo da dare profondità.
Dopo la prima sala c’è un piccolo passetto e accanto una piccola stanza dove sono esposti i grandi cartoni, cioè i disegni preparatori per gli affreschi o per i dipinti. La collezione è dovuta all’opera di Fulvio Orsini vissuto tra il 1500 e il 1600 il quale riteneva che la vera opera d’arte fosse proprio nei cartoni e non tanto all’opera finita che poteva essere eseguita anche dagli allievi di bottega del maestro. Il cartone del Mosè davanti al roveto ardente è opera di Raffaello. Questo mostra che gli affreschi erano preparati con la tecnica “dello spolvero”. Quest’ultima consisteva nel bucare i contorni del disegno, apporlo sul supporto da affrescare e spolverarlo con gesso in modo che dai fori si riportassero i contorni del disegno stesso. Il cartone con Mosè davanti al roveto ardente, composto da ventitré fogli, attribuito talvolta a Peruzzi o a Penni, è certamente opera autografa di Raffaello databile intorno al 1514. I contorni forati per lo spolvero ne confermano l'utilizzo per la figura di Mosè nell'episodio biblico affrescato in uno dei quattro scomparti della volta nella Stanza di Eliodoro in Vaticano. Il gigantismo e la serrata plastica della figura mostrano evidenti suggestioni dalla volta della Cappella Sistina di Michelangelo, ultimata nel 1512.
Segue la sala dei pittori lombardi, qui vediamo un quadro che rappresenta Ludovico Gonzaga giovane del Mantegna. Il naturalismo degli artisti lombardi segue le intuizioni di Leonardo da Vinci che per rendere la prospettiva utilizzava i colori.
Proseguendo nel percorso si entra nella sala della pittura veneta dove si ammira la Trasfigurazione di Cristo di Giovanni Bellini della metà degli anni ‘50, opera che si trovava nel Duomo di Vicenza e successivamente acquisita dalla famiglia Farnese. L'opera era originariamente cuspidata e in un secondo momento venne "attualizzata" dandole la forma rettangolare attuale. Elia e Mosè si manifestano accanto a Gesù sul monte Tabor, mentre poco più in basso sono rimasti folgorati gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, secondo un'iconografia che ha le sue origini dai vangeli sinottici. Tutta la composizione è concepita secondo un moto ascendente, diviso dagli strati rocciosi, che culmina nella figura biancovestita di Cristo. Grazie alla nuova enfasi posta sulla luce e il colore, la veduta è intenerita e riesce a immergere la scena miracolosa in una dolce atmosfera vespertina, derivata dall'esempio fiammingo.
In successione si entra nella sala della cosiddetta “maniera” legata ai dipinti del manierismo del ‘500 ispirati a Michelangelo. Nella sala successiva abbiamo poi gli artisti di scuola Romana. Qui è possibile osservare l’opera di Marcello Venusti che dipinge la copia del “Giudizio Universale” che Michelangelo affrescò sulla parete di fondo della Cappella Sistina, in Vaticano, tra il 1536 e il 1541, a circa vent’anni di distanza dal compimento degli affreschi della volta. La copia in questione, venne commissionata nel 1550 dal cardinale Alessandro Farnese, evidentemente allo scopo di conservare nelle collezioni di famiglia, il ricordo della grande impresa condotta da Michelangelo, commissionata nel ‘36 dal Papa Paolo III, nonno del cardinale. Uno dei quadri più importanti è la cosiddetta Madonna della gatta di Giulio Romano dove si nota un grande lavoro sulla prospettiva e dove la gatta sembra quasi uscire dal quadro. La prospettiva è completata con la distanza di San Giuseppe che si vede sullo sfondo a destra.
Accediamo nella sala dei pittori fiorentini qui si può notare il quadro in bianco e nero di Jacopo da Pontormo (il suo vero nome era Jacopo Carucci). Pittore che operò a Firenze che riproduce la scultura di un monumento funerario.
Molto importante è anche un quadro di Rosso Fiorentino del 500’ che rappresenta un giovane, parte dall’ombra per evidenziare solo il volto e le mani.
Nella sala successiva troviamo la Danae di Tiziano quadro che rappresenta la storia mitologica il mito di Danae. La storia racconta del Padre che venuto a conoscenza che il futuro nipote lo avrebbe ucciso fa rinchiudere la bellissima figlia Danae. Giove si innamora perdutamente della bellissima donna e per possederla si trasforma in una pioggia d’oro.
Nella sala successiva troviamo i pittori di scuola Emiliana. Ci sono quadri che rappresentano Cristo e San Sebastiano sempre più plastici ed espressivi ed la presenza inoltre paesaggi sullo sfondo. Il Parmigianino molto raffinato rappresenta con particolari molto dettagliati i personaggi si veda per esempio il ritratto di dama detta Antea. Qui la resa del movimento è data dalla posizione dalle spalle della donna. Alle spalle dei quadri del Parmigianino vi è una sezione particolare è la galleria delle cose rare che comprende manufatti particolari di vario genere. Oltre al celebre Cofanetto, capolavoro dell’oreficeria cinquecentesca realizzato per il cardinale Alessandro, la collezione annovera un gruppo di avori realizzati tra la fine del Cinquecento e gli ultimi decenni del Seicento da artisti italiani, fiamminghi e tedeschi; alcuni esemplari cinque-seicenteschi di ambre prodotte dalla botteghe di Danzica; un significativo nucleo di bronzetti rinascimentali e manieristici delle più importanti scuole italiane; un consistente gruppo di placchette in bronzo, databili tra il XV e il XVII secolo; un’importante raccolta di medaglie delle più attive scuole medaglistiche dell’Italia settentrionale e centrale durante il XV ed il XVI secolo; i lavori in pietre dure, dalle opere tardo rinascimentali a quelle barocche delle Botteghe Granducali fiorentine; i cristalli di rocca; le maioliche di manifattura castellana e urbinate della seconda metà del Cinquecento. La raccolta comprende, infine, alcune ‘curiosità’, reperti esotici e manufatti provenienti dalle terre di recente esplorazione. Tra gli oggetti c’è il libro di preghiere del Cardinale Farnese miniato da Giulio Clovio custodito nel cofanetto Farnese.
La sala dei fiamminghi dedicata ai dipinti di autori fiamminghi come Pieter Bruegel il Vecchio con opere come la Parabola dei Ciechi che fanno parte del ciclo della morale. Il Vangelo di Matteo (XV, 14) riporta il passo "se un cieco guida un altro cieco, ambedue cadranno nella fossa". Il modo di dire era entrato nel linguaggio comune e si trova rappresentato anche tra i Proverbi fiamminghi sul celebre dipinto del 1559.
La scena raffigura un gruppo di sei ciechi che avanza in fila indiana, ciascuno appoggiandosi sulla spalla dell'altro, lungo una linea obliqua un po' sfasata rispetto al primo piano. Quattro avanzano poggiando una mano o il bastone sul compagno che lo precede, ma il primo già è caduto nel fossato e il secondo lo sta per seguire, trascinando tutti gli altri. Accentuato quindi il senso drammatico, con la rappresentazione contemporanea delle diverse fasi della caduta. Con grande realismo l'artista rappresentò i ciechi con lo sguardo perso nel vuoto e le cavità oculari vuote. Essi sono simbolo della cecità spirituale umana, che riserva un destino infelice. La chiesetta sullo sfondo è probabilmente ispirata a quella di Saint-Anna-Pede nei pressi di Itterbeek, un villaggio nella municipalità di Dilbeek (Brabante Fiammingo, Belgio).
I colori sono spenti e freddi e, caso unico nel catalogo dell'artista assieme al Misantropo nello stesso museo, sono stati stesi con la tecnica della tempera su tela, lasciando visibile in parte la grana sottostante. Nella stanza successiva scene di vita quotidiana di pittori fiamminghi di cui è bello vedere i particolari.
Degli inizi del 1600 sono i dipinti della sala del Carracci. Questi erano tre Annibale, Agostino e Ludovico. Annibale è colui che esegue le Nozze Mistiche di Santa Caterina e l’Ercole al Bivio. Annibale affresco anche la galleria del palazzo Farnese residenza della famiglia attualmente sede dell’ambasciata Francese.
Appartamenti Reali
Con questa sala si conclude il percorso della galleria Farnese per giungere poi all’appartamento reale. Qui troviamo affreschi pompeiani, in quanto siamo nel periodo Borbonico quando iniziarono nell’800 gli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano. L’appartamento reale dopo il salone della culla segue un ordine cronologico, qui troviamo il dipinto di Carlo di Borbone vestito in abiti da caccia, si trovano arredi settecenteschi che ricordano la prima fase di costruzione della reggia. La sala successiva è invece dedicata a Ferdinando di Borbone e qui abbiamo il ritratto di Ferdinando bambino quando a 8 anni venne incoronato re. Troviamo due portantine che nel ‘700 diventano di gran moda per andare in giro soprattutto in occasione di cerimonie e festività. Nella sala da pranzo, ricostruita, si trovano i ritratti della famiglia di Ferdinando IV di Borbone, i ritratti di Francesco di Borbone opera di Francesco Cammarano; troviamo anche i dipinti di Francisco Goya che sono i ritratti di Maria Luisa con Carlo IV di Borbone. Il salone delle feste nel 1835 su progetto del Niccolini si trasforma questo ambiente nel salone per le feste caratterizzato da molti specchi per illuminare la sala. Il salone Camuccini con il tavolo centrale ottenuto da un mosaico di Pompei. Dal ricco ed eterogeneo arredo di gusto neoclassico, è certamente uno degli ambienti più suggestivi dell’Appartamento Reale. Una nutrita e prestigiosa raccolta di dipinti di Benvenuti e di Hayez, con soggetti della storia antica e dai racconti biblici testimoniano l’affermazione della pittura neoclassica in Italia con chiari riferimenti all’arte di David. Completano l’allestimento un gruppo di statue ispirate al neoclassicismo canoviano e uno straordinario tavolo di rappresentanza disegnato dal Niccolini con un ripiano realizzato con un mosaico proveniente dagli scavi di Ercolano.
Di grande valore è il salottino di porcellana fatto per la reggia di Portici su richiesta della regina Amalia di Sassonia che amava la porcellana. Successivamente viene smontato e rimontato qui a Capodimonte, Il salottino ha tante figure cinesi e tutti particolari sono fatti di porcellana.
Nell’armeria sono conservati sia le armi della collezione Farnese sia della collezione Borbonica. Il primo piano si chiude con un gesso di Antonio Canova che rappresenta Letizia Ramolino che era la madre di Napoleone Bonaparte, acquistata nel 1808 dietro insistenza del Canova stesso.
Secondo piano
Salendo al secondo piano c’è la cosiddetta galleria napoletana che conserva dipinti a soggetto religioso qui posti sia per motivi di sicurezza sia in seguito alla chiusura di molti ordini religiosi nel corso dell’ottocento, altre collezioni vengono donate al museo come la collezione D’Avalos ( donata nel 1862 ) costituita da dipinti e arazzi che si trovano nel primo salone al secondo piano, gli arazzi rappresentano la battaglia di Pavia tra le truppe vincenti di Carlo V contro Francesco I di Francia.
Inizia poi il percorso in ordine cronologico dal 1200 al 1700 qui si comprende l’evoluzione della pittura a Napoli nel corso di quei secoli. Nelle primissime sale troviamo opere di giotteschi come Roberto D’Oderisio con la Madonna dell’Umiltà, il Simone Martini che raffigura S. Ludovico da Tolosa che incorona il fratello Roberto d’Angiò prelevato dalla chiesa di San Lorenzo.
Altri artisti come Colantonio (maestro di Antonello da Messina il cui vero nome era Niccolò Antonio), Matteo de Giovanni, Pinturicchio con la Madonna in mandorla, Polidoro da Caravaggio (allievo del Raffaello) che realizza la grande tavola de L’andata al Calvario. Vasari con delle pale per la chiesa di Monteoliveto e le pale per San Giovanni a Carbonara. Un’altra opera di Tiziano è l’Annunciazione e proviene da S. Domenico Maggiore quindi fa parte dell’arte napoletana e pertanto collocata al secondo piano del museo. In fondo al corridoio si trova la Flagellazione di Caravaggio originariamente nella cappella De Franchis in S. Domenico Maggiore.
Artemisia Gentileschi esegue in stile caravaggesco la Giuditta e Oloferne. La pittrice è nota anche per una vicenda legata ad una violenza subita e denunciata il che giustificherebbe il suo astio espresso nel dipinto, lei figlia di Orazio Gentileschi.
Nella sala successiva con una navata unica e delle nicchie laterali, come se fosse una chiesa, sopra la sala c’è un corridoio con la collezione di arte contemporanea. Dalla metà del 1600 nascono i vari generi come le nature morte, i paesaggi, le vedute ecc. ed è per questo che la collezione da questo punto in poi si arricchisce di vari temi.
Lo studio delle nature morte è interessante perché si vedono frutta e verdura che non si coltivano più; tra i caravaggeschi ricordiamo Bernardo Cavallino con L’estasi di Santa Cecilia originariamente nella chiesa di S. Antonio a piazza Bellini, La Cantatrice un volto di donna sconosciuto il che dimostra lo sviluppo dei temi che non sono più classici o ecclesiastici ma dal ‘600 in poi anche a scopo decorativo.
Tra le opere di Ribera al secondo piano ci sono anche le tre tele della Trinità che provengono dalla Chiesa della Trinità delle monache che si trovava nel quartiere degli Spagnoli entrate a far parte della collezione borbonica. Un altro artista della corrente caravaggesca è Mattia Preti detto anche il cavaliere calabrese autore della tela con il San Sebastiano, e i bozzetti dei dipinti da apporre sulle porte della città dopo la peste del 1656.
Oltre si entra nella sala dedicata a Luca Giordano con la Madonna del Baldacchino dove la tecnica pittorica è più luminosa, ariosa e vicina al barocco.
Le ultime sale si concludono con il settecento dove si trovano i dipinti di Francesco Solimena come Enea e Didone del 1740 dove abbiamo un maggior respiro e un’impostazione teatrale dei personaggi ritratti. Ancora il ritratto del principe Spinelli Tarsia un personaggio molto importante alla corte di Carlo di Borbone, un autoritratto del Solimena e a seguire le tele di De Mura, De Matteis, Gaspare Traversi e così via.
Terzo piano
Al terzo piano si trova sia l’800 napoletano dal Morelli, Palizzi, Cammarano, sia il ‘900 allestito secondo le varie donazioni di artisti come Cunellis, Pistoletto, Warhol ecc.
Museo Archeologico Nazionale
Capitolo XIV
L’edificio che ospita il museo nazionale non nasce come era espositiva ma era destinato alla Real cavallerizza e il luogo in cui venne costruito è esso stesso un sito di interesse archeologico essendo un’area occupata da una necropoli greca. Il palazzo sorge sul colle di Santa Teresa per volere del vicerè Duca di Osuna Don Pedro Giron tra il 1582 e il 1586, mentre l’architetto che se ne occupò fu il Fontana. Originariamente doveva alloggiare i cavalli reali ma si resero conto che la zona non era servita da condotti idrici non era adeguata allo scopo. I lavori vengono quindi interrotti presto e vengono ripresi nel 1599 ad opera del viceré Fernández de Castro, conte di HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Conte_di_Lemos"Lemos con lo scopo di posizionare l’università inaugurata nel 1615. Tra i vari docenti, qui insegnò Giovan Battista Vico. Successivamente a causa dei terremoti, l’eruzione del Vesuvio e pestilenze l’edificio viene chiuso per problemi statici; diventerà prima sede dei tribunali e poi caserma. Con l'avvento dei Borbone, re Carlo incaricò già nel 1735 (l’anno dopo il suo arrivo sul trono di Napoli) Giovanni Antonio HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Antonio_Medrano"Medrano di riparare i danni subiti dal palazzo. Al Medrano si deve infatti la geniale soluzione della copertura del "Gran Salone" al primo piano, col sistema del doppio tetto: uno interno di travi e tiranti lignei al quale è sospesa la volta successivamente affrescata ed un secondo ordine di capriate più alto che copre il tutto e costituisce il tetto vero e proprio.
Succeduto sul trono di Napoli il figlio Ferdinando IV, dopo aver espulso nel 1767 i Gesuiti dal RHYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Regno_di_Napoli"egno di Napoli, nel 1777 spostava definitivamente l'Università dei Regi Studi nel loro ex convento del Gesù Vecchio e decideva quindi di trasferire nel liberato palazzo sia il "museo Hercolanese" dalla reggia di Portici che il "museo Farnesiano" dalla reggia di HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Reggia_di_Capodimonte"Capodimonte, oltre alla biblioteca ed alle scuole di Belle Arti. Il progetto prevedeva inoltre che fossero inseriti nello stesso edificio una quadreria, la biblioteca, la collezione vasi, la scuola di arti e disegno, il laboratorio di pietre dure e le stamperie. I lavori di ristrutturazione vennero così affidati a Ferdinando Fuga e a Pompeo Schiantarelli che creano nuovi corpi di fabbrica. Già nel 1797 Ferdinando prova a spostare alcuni materiali da Portici, sede del Real Museo Ercolanense, al nuovo museo. Accade però che con la fuga a Palermo del 1799 le casse seguono il re a Palermo. Durante il decennio francese, con la seconda fuga del re a Palermo, alcuni materiali vengono portati a Roma a Palazzo Farnese dai Francesi, dove rimangono con la fine dell’esperienza della Repubblica Romana e da cui vengono riportate indietro perché la corte borbonica ordina a Marcello Venuti di riacquisire ciò che era stato sottratto. Alcuni materiali resteranno comunque a Palermo. Con Murat cominciano gli scavi della necropoli greca sotto il Museo e comincia l’acquisto di diverse collezioni. Dopo la parentesi murattiana ritornando il re Ferdinando IV sul trono di Napoli (ora come "Ferdinando I Re delle Due HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Ferdinando_I_delle_Due_Sicilie"Sicilie"), il 22 febbraio 1816 egli decretava ufficialmente l'istituzione del "Real museo Borbonico". In questa occasione fu eseguita da Antonio HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_Canova"Canova una scultura dedicata a Ferdinando posta sullo scalone monumentale del museo. Negli anni ’20 dell’Ottocento il Museo viene diretto da Michele Arditi, il quale si occupa della formazione del personale, attribuisce una divisa ai custodi e avvia gestione del museo come struttura museale. Nel 1852, con l'abbattimento dei granai di Napoli (le cosiddette "Fosse del Grano"), via Toledo veniva prolungata fino al museo, aprendosi così l'attuale via Pessina. Con il successivo abbattimento delle mura cinquecentesche della città e della porta di Costantinopoli, il museo entrava a pieno titolo a far parte del tessuto urbano della città. Agli inizi del ‘900 viene spostata la scuola di arti e disegno. Nel 1927 la biblioteca si sposta nel Palazzo Reale e nel 1957 la pinacoteca viene trasferita a Capodimonte. Dopo l'unità d'Italia il museo divenne proprietà dello Stato ed assumeva il nome di "Museo Nazionale"; nel 1920 dopo 335 anni, venne terminata la costruzione dell'edificio museale, completando gli ultimi ambienti del secondo piano nella parte rimasta incompleta, quella orientale. Nel 1929 si realizzò finalmente un ingrandimento del museo, il cosiddetto "braccio nuovo" esso consiste in una galleria costruita a ridosso del muro di contenimento del giardino dei padri teresiani soprelevata poi nel 1932 di un piano destinato ad accogliere la nuovissima "sezione di tecnologia e di meccanica antica". L'edificio del museo e le sue collezioni venne gravemente danneggiato dal terremoto del 23 luglio 1930. L'occasione fu colta per rimetterlo a nuovo, tanto da riuscire a superare pressoché indenne gli urti degli 89 bombardamenti in zona fra il 1940 e il 1943, sicuramente anche grazie ad uno speciale segno dipinto sui suoi tetti che lo facevano individuare quale obiettivo da non colpire. Ciò nonostante il Museo non fu indenne da attacchi, a cominciare dalle truppe di occupazione tedesche che tentarono più volte di requisire l'edificio, evenienza dapprima osteggiata, infine strenuamente impedita (non senza rischio personale) dal soprintendente archeologo Amedeo HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Amedeo_Maiuri"Maiuri che così evitò che il museo divenisse un obbiettivo militare. Nelle fasi più concitate della guerra e soprattutto delle quattro giornate di Napoli la salvaguardia dell'istituto la si deve unicamente al Maiuri che, benché avesse una gamba ingessata, si barricò nel museo impedendo a chiunque di accedervi. Con l'arrivo delle truppe alleate egli nuovamente impedì, personalmente, l'occupazione dell'edificio stavolta da parte delle truppe anglo-americane, concedendo loro unicamente che i medical stores utilizzassero (fino al giugno 1944) alcune sale al pianterreno come deposito di materiale sanitario e medicinali, mentre il genio civile occupò con i suoi uffici altre sale fino al 1948, essendo la sua sede danneggiata dai bombardamenti.
Sezione Egizia
La sezione egizia del Museo Archeologico nazionale è un piccolo allestimento nel sottoscala che rappresenta una piccola parte di una grande collezione (la seconda in Italia dopo quella di Torino) e che si è strutturata intorno a tre nuclei fondamentali: un primo nucleo è la collezione appartenente alla famiglia Borgia, formata nella seconda metà del Settecento dal Cardinale Stefano Borgia, personaggio di grande cultura, interessato allo studio della storia e di antiquariato, sfruttando la sua carica di prefetto della Propaganda Fide e quindi in condizione di intrattenere rapporti con tutto il mondo. Il Cardinale, già erede di una raccolta di oggetti antichi rinvenuti nei dintorni di Roma e di Velletri, si adoperò con passione per accrescere la sua raccolta fino a trasformarla in un vero e proprio museo. Con la morte del Cardinale nel 1804, la collezione fu in parte donata alla Congregazione di Propaganda Fide e per il resto passò al nipote Camillo che cercò di venderla prima al re di Danimarca, poi a Gioacchino Murat, allora re di Napoli, al quale si deve il merito dell’acquisto avvenuto nel 1814, sebbene le trattative si conclusero con il ritorno dei Borbone, ad opera di Ferdinando I nel 1815. Un secondo nucleo riguarda acquisti successivi dalla vedova di un viaggiatore collezionista, Giuseppe Picchianti, che era stato spesso nella valle del Nilo. Giuseppe Picchianti era un viaggiatore ottocentesco di origine veneta che, affascinato dal clamore delle scoperte fatte dal padovano Belzoni e dal commercio di oggetti antichi, intraprese un viaggio nel 1819 durato circa sei anni, durante il quale risalì la Valle del Nilo fino a raggiungere il deserto nubiano. Successivamente una parte venne da lui stesso venduta al British Museum ed un’altra l’acquistò il Museo di Napoli dalla vedova, la contessa Angelica Droso. Terzo nucleo risale ai ritrovamenti effettuati negli scavi vesuviani e nelle colonie greche; sia in epoca preromana che romana, infatti, si diffonde un apprezzamento per quelli che sono gli oggetti di origine egiziana che sono quindi stati rinvenuti negli scavi archeologici. Nella collezione sono presenti delle mummie. Il processo di mummificazione inizia nel 2700 a.C. nell’Antico regno egizio ma raggiunge un alto grado di sofisticazione nel Nuovo; prevedeva dei passaggi tecnici ben precisi e molto costosi. Bisognava prima disidratare il corpo con l'uso del natron e togliere gli organi interni, tenerlo sotto sale per 40 giorni, poi cosparse erbe aromatiche e profumi. In ultimo venivano messe delle bende in lino che avvolgevano tutto il corpo. Altri pezzi importanti che provengono dall’Egitto sono i canopi, vasi con i coperchi configurati con i quattro figli del dio Horus che servivano a contenere le viscere estratte durante il processo di mummificazione e poi imbalsamate. Ogni figlio di Horus proteggeva un organo specifico, il coperchio Amset a testa umana proteggeva il fegato, quello Hapy a testa di babbuino i polmoni, quello Duatef a testa di sciacallo lo stomaco, quello Quebesenuf a testa di falco l'intestino. Potevano essere fatti di diversi materiali e molti risalgono al medio regno egizio, mentre alcuni di quelli raccolti nella collezione provengono da Pompei ed Ercolano. Nella collezione sono presenti amuleti e scarabei – anche qui, oltre alle collezioni acquisite, molti di questi provengono da Pitecusa, Cuma e Napoli – stavano soprattutto nelle tombe di bambini e donne come protezione dalle malattie e si riteneva che proteggessero, soprattutto nel momento del parto. Non sempre ci sono scarabei originali perché sia in ambito assiro, che fenicio venivano prodotti oggetti di questo tipo, che erano genericamente definiti dai Romani “Egitiaca”. L’unico pezzo egizio proveniente dalla collezione Farnese è il naofaro Farnese. La scultura raffigura un personaggio maschile inginocchiato su una base parallelepipeda con le braccia piegate e protese a reggere un naos (la cella di un tempio poggiato sulle ginocchia, in cui è raffigurato Osiride Dio della morte e dell’oltretomba), stante, con corona sul capo, flagello nella mano destra, scettro nella sinistra. La statua indossa una parrucca che ricadendo sulle spalle, lascia scoperte le orecchie, una corta veste pieghettata ed un amuleto al collo raffigurante la dea Hathor. L'iscrizione, in cui sono indicati il nome e i titoli del funzionario rappresentato, contiene la cd. "formula di Sais" che consente, unitamente al tipo iconografico, di collocare la statua nella XXVI dinastia. Appartenuto alla Collezione Farnese, e collocato nella cd. Sala degli Imperatori di Palazzo Farnese a Roma, è il primo reperto egizio giunto nel Museo di Napoli, dove risulta attestato già negli inventari del 1803. Rinvenuto probabilmente nel XVI – XVII secolo a Roma, fu interpretato erroneamente alla metà del Seicento dal padre gesuita Athanasius Kircher come una raffigurazione di Iside recante un simulacro.
Sezione epigrafica
Accanto a quella egizia è stata organizzata la collezione epigrafica del Museo Archeologico di Napoli che è una delle principali nel suo genere per il valore dei documenti raccolti. La sezione comprende oltre duemila documenti principalmente in lingua latina, circa duecento in greco ed un centinaio nei dialetti dei popoli italici. Tuttavia un contributo sostanziale venne dato dai numerosi rinvenimenti occasionali e dagli scavi eseguiti dal Settecento ai nostri giorni in Campania e nelle regioni dell’Italia meridionale facenti parte del Regno delle Due Sicilie. La più importante di questi pezzi sono le Tavole di Eraclea (o di Heraclea). Queste sono delle tavole di bronzo rinvenute nel 1732 presso il greto del fiume Cavone, in località di Ucio (Montalbano HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Montalbano_Jonico"Jonico- provincia di Matera) o in località Acinapura (poco a nord della vecchia masseria Andriace). Contengono due decreti, databili probabilmente alla fine del IV secolo a.C., relativi alla delimitazione e localizzazione di terreni dei santuari di Dioniso e Athena Polias, presso la città di Heraclea (nell'odierno territorio di Policoro). Sul lato opposto, quello lasciato libero dalle iscrizioni greche relative ai terreni dei suddetti santuari, in età cesariana fu inciso successivamente un testo in latino si tratta della lex Iulia Municipalis promulgata da Gaio Giulio Cesare nel 45 a.C., la quale ha un carattere generale sulla riorganizzazione amministrativa delle città con alcune norme a carattere sociale. Con essa molte città e colonie assunsero il rango di municipio. Le Tavole sono estremamente importanti per la ricostruzione delle istituzioni di Eraclea e di converso di quelle della sua ben più significativa madrepatria Taranto, di cui si sa pochissimo per il silenzio delle fonti letterarie. Non meno importanti sono le laminette orfiche rinvenute in due sepolture del IV sec. a.C. nel territorio di Thurii, in Calabria; esse indicavano le istruzioni per condurre l’anima dei defunti, adepti alla dottrina misterica che si faceva risalire ad Orfeo, alla destinazione finale di beatitudine eterna al termine del ciclo di reincarnazioni. Una sezione particolare è dedicata alla grecità di Napoli, una città che mantenne e difese i suoi legami con la tradizione, la cultura e la lingua greca. Tra le diverse iscrizioni che attestano le istituzioni, i culti, gli agoni della città è quella con la dedica della fratria degli Aristei, della fine del I – inizi del II sec. d.C.
Corridoio centrale
Nel corridoio centrale, nell’ingresso, c’è l’allestimento delle sculture di bronzo di Ercolano dalla zona del teatro e della cosiddetta basilica. Teatro e basilica furono i primi edifici scavati ad Ercolano e si trovarono delle statue sia degli imperatori, della dinastia Giulio – Claudia e Flavia, allora regnante, e anche di coloro che avevano commissionato il teatro e l’Augusteo. La maggior parte dei bronzi di età romana provengono da Pompei ed Ercolano. Questo perché altrove erano stati fusi e i materiali riutilizzati.
Collezione Farnese
A destra dell’ingresso è stata allestita la collezione Farnese. La collezione Farnese è una collezione di opere d'arte nata nel periodo rinascimentale su volontà di Paolo III Alessandro Farnese (1468-1549) che dal 1543 iniziò sia a collezionare che a commissionare opere ai più grandi artisti dell'epoca. Sviluppatasi tra Roma, Parma e Piacenza, la collezione è stata trasferita nella prima metà del XVIII secolo, per motivi di eredità a Napoli. La raccolta si sviluppava essenzialmente su tre nuclei distinti. Da un lato vi era la collezione Farnese di Roma, legata allo stesso Alessandro che avviò la raccolta di opere in città. Da un'altra parte vi era quella di Parma, con una rilevante presenza di opere di scuola emiliana e fiamminga che venivano esposte nei palazzi ducali, del Giardino, di HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Palazzo_Ducale_(Colorno)"Colorno e Sala. Infine, una restante parte si sviluppò a Piacenza, nel palazzo di famiglia Farnese. Il trasferimento della collezione Farnese a Napoli venne avviato da Carlo poi completato quando Ferdinando IV di Borbone decise di spostare anche la collezione romana, costituita essenzialmente da sculture e reperti archeologici conservati nel palazzo Farnese di Roma. Il trasferimento, avvenuto tra il 1786 ed il 1788, suscitò non poche perplessità nella capitale pontificia. Infatti forti furono le proteste ed opposizioni sollevate da parte di papa Pio HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Papa_Pio_VI"VI, che provò a tenere in loco la collezione scultorea. Originariamente la collezione archeologica era composta prevalentemente da sculture provenienti dagli scavi delle terme di Caracalla e promossa da Paolo III, il duca Ottavio Farnese, e i cardinali Alessandro e Ranuccio Farnese, questi ultimi fratelli tra loro, tutti nipoti di Paolo III. La collezione archeologica era alloggiata nel palazzo Farnese a Campo dei Fiori, attuale sede della Ambasciata francese. Altra figura centrale della collezione fu Fulvio Orsini. Fu bibliotecario della famiglia Farnese e si occupò di sistemare i pezzi di antichità presenti nel palazzo Farnese. Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta Farnese e Filippo V di Spagna, aveva ereditato tutta la collezione, presente in Villa Madama, Villa Farnesina, il nucleo dei Giardini Farnese sul Palatino, Villa Farnese a Caprarola fuori Roma, e Palazzo Colonna a Parma, in quanto Carlo eredita anche il ducato di Parma e Piacenza. Il grosso delle statue comunque proviene da Roma. Nell’allestimento del Museo di Napoli si è cercato di ricostruire la loro collocazione nelle diverse residenze Farnese. All’ingresso della collezione, sul lato destro dell’ingresso sono presenti due figure di prigionieri barbari, si riconoscono perché hanno il berretto frigio. Furono sottratte alla proprietà della famiglia Colonna, che era stata sconfitta dai Farnese ed avevano il significato di rappresentare la gloria dei Farnese. Sono di marmo proconnesio che è un marmo greco scuro, diverso dal marmo di Carrara, che è più bianco. Altri pezzi importanti sono i busti di filosofi e di imperatori che provenivano dagli scavi di Roma. Erano stati allestiti dal cardinale Alessandro nel Palazzo Farnese, poiché era di moda nel ‘500 e ‘600 avere una galleria di personaggi illustri. Il cosiddetto Pseudo-Seneca che è un busto romano della fine del I secolo a.C. scoperto a Ercolano nel 1754, si tratta del più bell'esempio rinvenuto tra le circa due dozzine di busti raffiguranti lo stesso soggetto. Inizialmente si credeva che rappresentasse Lucio HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Lucio_Anneo_Seneca"AnneoHYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Lucio_Anneo_Seneca" Seneca, il famoso filosofo romano del I secolo d.C. tuttavia gli studiosi moderni concordano che sia probabile un ritratto immaginario, probabilmente del poeta greco Esiodo (autore de Le opere e i giorni), anche se sussiste altresì l'ipotesi che possa trattarsi di Lucrezio. Sempre nella galleria dei ritratti c’è una immagine colossale di imperatore e un gran numero di busti. Ci sono molti busti dell’imperatore Marco Aurelio, l’imperatore filosofo per eccellenza: il ritratto di Marco Aurelio ha le caratteristiche di avere barba e baffi, come venivano spesso rappresentati i filosofi. Il ritratto di Agrippina si trova al centro della sala e sembra abbia ispirato il Canova per la mamma di Napoleone. Il prototipo di questa opera è un’opera di Fidia. Il Doriforo di Policleto fu trovato a Pompei nella palestra sannita. Si tratta della miglior copia di un’opera di Policleto del V a.C. Policleto fissa un canone proporzionale per una rappresentazione perfetta del corpo umano, elemento essenziale della quale è il chiasmo che da proporzione agli arti: ad un braccio teso corrisponde una gamba piegata. Il gruppo dei Tirannicidi (letteralmente uccisori del tiranno) è un gruppo scultoreo raffigurante ArmodioHYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Armodio_e_Aristogitone" e HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Armodio_e_Aristogitone"Aristogitone, realizzato da Crizio e Nesiote; è la prima statua del mondo greco che raffigura personaggi e fatti storici. È considerato il punto di passaggio tra il periodo arcaico e lo stile severo. Le sculture romane si dividono in tre età: arcaica (prive di fisicità e movimento e dai volti privi di espressività), classica (in cui compare il movimento, si esprime la fisicità dei corpi e l’espressione del volto diventa più naturale) ed ellenistica (in cui il dato contestuale e scenografico viene aggiunto). Si definiscono di età severa quelle sculture a cavallo tra l’arcaica e la classica, che presentano elementi di fisicità pronunciata ma i cui volti sono ancora privi di espressione come in età arcaica. Il gruppo dei tirannicidi appartiene a questa classificazione di età severa. Le sculture che si trovano a Roma sono delle copie: i Romani cominciano a scolpire alla maniera greca a seguito della conquista romana. Ovviamente non tutti possono avere le grandi opere saccheggiate dalla Grecia. Nasce così un vero e proprio mercato delle copie, che cerca di riprodurre gli originali e nascono quindi delle botteghe che realizzano in serie copie fedelissime degli originali greci che erano nell’Ellade. Dopo lo stabilirsi della democrazia in Atene, allo scultore Antenore fu commissionato un gruppo scultoreo dei Tirannicidi che fu eretto nell'Agorà. Questo gruppo fu trafugato dai Persiani durante l'occupazione di Atene nel 480 a.C. e restituito agli Ateniesi da Alessandro Magno (secondo lo storico Arriano) o da SeleucoHYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Seleuco_I" I HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Seleuco_I"Nicatore (secondo lo scrittore romano Valerio Massimo). Nel frattempo, comunque, i cittadini attici avevano commissionato nuove statue a Crizio e Nesiote che furono erette nel 477 a.C. circa. Entrambi i gruppi di statue sono andati perduti, ma le opere più tarde furono oggetto di copia in epoca ellenistica e romana. Una di queste copie, databile al II secolo d.C., è nella collezione Farnese. Essa mostra ritratti idealizzati dei due eroi: un Armodio (il più giovane) nudo e sbarbato con un fisico molto più adulto di quello che avrebbe potuto avere, che spinge in avanti una spada col suo braccio destro alzato e ne tiene un'altra nella mano sinistra; anche Aristogitone (più anziano), rappresentato con la barba, brandisce due spade ed ha una clamide poggiata sulla spalla sinistra. Delle quattro spade si sono salvate solo le else e la testa originale di Aristogitone è andata perduta, sostituita da un'altra. L’episodio cui si riferisce la storia riguarda il fatto che Armodio e Aristogitone tentarono di uccidere I figli di Pisistrato, Ippia e Ipparco, riuscendo ad uccidere solo il secondo. Successivamente l’episodio fu reintrerpretato politicamente come emblema della democrazia ateniese contro la tirannide, ma probabilmente le motivazioni erano altre: stando a quello che dice Aristotele i figli del tiranno Pisistrato avevano preso in giro o forse anche violentato una delle sorelle dei tirannicidi, che avevano ucciso il tiranno e il figlio per ritorsione. Si tratta di una replica, l’unica in cui compaiono entrambe le statue. La collezione include anche una statua in marmo rosso del Tenaro rappresentante Apollo citaredo (con la cetra) con la testa restaurata dall’Albacini in marmo bianco. Un altro importante pezzo della collezione proviene dalla Domus Aurea di Nerone e rappresenta Afrodite (Venere) che si specchia nell’acqua, volgendosi verso le spalle. Il nome è Venere Callipige. Va detto che le statue maschili erano spesso svestite, mentre il nudo femminile era connesso al bagno, e infatti la statua rappresenta una scena di bagno. C’è poi un gruppo di statue che rappresentano delle persone cadute morte nella vittorie degli Attalidi di Pergamo. Facevano a loro volta parte di gruppi di quattro differenti rappresentazioni: la galatomachia (battaglia contro i Galati), amazzonomachia, battaglia contro i persiani e gigantomachia contro i Titani.
Il Supplizio di Dirce, più conosciuto come Toro Farnese, è un gruppo scultoreo ellenistico in marmo che fu rinvenuto nelle terme di HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Terme_di_Caracalla"Caracalla a Roma nel 1545, durante gli scavi commissionati da Papa Paolo III allo scopo di recuperare antiche sculture per abbellire la sua residenza di palazzo Farnese. Inizialmente questa fu attribuita agli artisti di Rodi, Apollonio di Tralle e suo fratello Taurisco, grazie agli scritti di Plinio il Vecchio. Questi afferma infatti che la scultura fu commissionata alla fine del II secolo a. C. e fu tratta da un unico blocco di marmo. Successivamente fu poi trasferita a Roma da Rodi come parte dell'incredibile collezione di sculture e opere d'arte di AsinioHYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Asinio_Pollione" Pollione, un politico romano vissuto nel periodo di passaggio tra la repubblica e il principato. Il supplizio di Dirce rappresenta una tragedia di Euripide, con i figli di Antiope (Anfione e Zeto) che, desiderosi di vendicare gli insulti alla madre Antiope legano alle corna di un toro selvaggio Dirce. Quest’ultima aveva sottratto i figli di Antiope Anfione e Zeto alla mamma Antiope (che li aveva avuti da Zeus) in tenera età. Riconosciuta Antiope in occasione di una festa bacchica, Dirce comanda ai figli di legarla al carro, ma un pastore riconosce in Antiope la madre dei ragazzi e spiega loro gli eventi. I ragazzi, saputa la verità legano Dirce al toro e vengono rappresentati all’atto di legarla. Per questo il gruppo è noto anche come supplizio di Dirce. Nella scena appaiono altri personaggi secondari, restaurati nel cinquecento o settecento: un cane, un bambino e una seconda figura femminile, quest'ultima raffigurante forse Antiope. La scultura pesa 24 tonnellate, ed è posta su di un basamento, infatti viene definita “montagna di marmo”. In un primo momento pare che sia stata commissionato a Michelangelo l’utilizzo della statua come Fontana nei giardini Farnese a Trastevere. Il buco che è stato ritrovato nella statua, però, potrebbe essere anche antecedente, visto che non sussistono notizie certe di questo utilizzo. Diverse sono le datazioni proposte per la statua, dal I a.C fino al II d. C. ad ogni modo le terme di Caracalla risalgono al terzo secolo d. C. quindi Caracalla doveva aver acquistato la scultura e per poi collocarla nelle terme (non era stata dunque commissionata per questo scopo).
L'Ercole Farnese è una scultura ellenistica in marmo alta 317 cm che riporta la firma di GlyconHYPERLINK "http://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Glycon_Ateniese&action=edit&redlink=1" Ateniese databile al III secolo d.C. Essa risulta essere una copia dell'originale bronzeo creato da Lisippo nel IV secolo HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/IV_secolo_a.C."a.CHYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/IV_secolo_a.C." che rappresenta Ercole alla fine delle fatiche. È stanco, ma anche pensoso perché deve decidere se utilizzare l’immortalità che gli daranno le Esperidi o menoHYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/IV_secolo_a.C.". La statua fu trovata per la prima volta priva di alcuni pezzi, tra i quali i due polpacci. Così Guglielmo Della Porta, allievo di Michelangelo, eseguì il restauro della scultura inserendo le suddette parti mancanti. Successivamente, quando furono ritrovati i due frammenti di arti inferiori, si decise di lasciare i pezzi di recente aggiunta in quanto considerati di migliore fattura rispetto all’originale. Solo durante il periodo dei Borbone di Napoli, alla fine del Settecento, si decise di ripristinare gli antichi arti sostituendoli a quelli di restauro. Oggi nel museo archeologico di Napoli è possibile vedere alle spalle dell'Ercole una parete sulla quale sono esposti i due polpacci scolpiti da Guglielmo Della Porta. L'eroe personificava il trionfo del coraggio dell'uomo sulla serie di prove poste dagli Dei gelosi. A lui, figlio di Zeus, era concesso di raggiungere l'immortalità definitiva. Nel periodo classico, il suo ruolo di salvatore dell'umanità era stato accentuato, ma possedeva anche difetti mortali come la lussuria e l'avidità. L'interpretazione che ne diede Lisippo rispecchiava questi aspetti della sua natura mortale e fornì all'eroe un ritratto al quale si guardò per il resto dell'antichità. Questa statua rappresenta Ercole, stanco al termine delle fatiche, che si riposa appoggiandosi alla clava, tenendo con la mano destra, dietro la schiena, i pomi d'oro rubati alle Esperidi. Un’altra copia di Ercole Farnese, sempre trovata nelle terme di Caracalla, si trova all’ingresso della Reggia di Caserta, ma questa è di migliore fattura e presenta una firma. I Farnese avevano anche dipinti raffiguranti Ercole, come l'“Ercole al bivio” (attualmente a Capodimonte) dei Carracci che rappresentano l’Ercole al bivio, ma è seduto come i pomi in mano e pensa il da farsi).
È una scultura altamente scenografica grande esempio dell’arte ellenistica, l’originale infatti è di Lisippo, uno degli scultori ellenistici più importanti e artista preferito da Alessandro Magno. Lisippo nelle sue opere tende a cogliere e sottolineare il carattere del personaggio, ricostruendone la storia da un gesto o da un aspetto particolare. L’ellenismo è una sorta di barocco: esalta le forme e da molta importanza alla scenografia.
La statua di Artemide Efesia costituisce una delle copie della statua di culto di Artemide venerata nel santuario di Efeso, a noi nota solo da riproduzioni soprattutto dalle monete, emesse dalla zecca della città, a partire dall'età ellenistica. Il busto regge quattro file di mammelle, come simbolo di fecondità, o secondo altri, gli scroti dei tori a lei ritualmente sacrificati. Il volto, le mani ed i piedi sono in bronzo, frutto di un restauro del Valadier, cui si devono anche, insieme all'Albacini, il Polos, parte del nimbo e la parte inferiore del corpo; i restauri furono eseguiti in occasione del trasferimento da Roma a Napoli, dove la statua venne per la prima volta esposta.
Sarcofagi
Sempre al piano terra è presente, nell’ala a sinistra dell’ingresso una ampia sezione di sarcofagi che provengono per la maggior parte da Pozzuoli e dall’area Flegrea. Nel mondo romano il sarcofago utilizzato come tomba appare verso il III secolo d.C. e infatti a Pompei abbiamo ben pochi sarcofagi, perché il rito maggiormente utilizzato era l’incinerazione e ci sono vasetti con le ceneri. Nasce così una vera e propria moda del sarcofago, spesso orientale, quindi realizzati da officine in Asia o in Grecia e poi portati in occidente. Ciò non toglie che anche a Pozzuoli e a Napoli erano presenti alcune officine. Le tematiche sono soprattutto scene mitologiche, talvolta appare il defunto accompagnato da simbologismi mitologici, altre volte il defunto non appare ed è raffigurato solo il mito. Alcuni sarcofagi sono strigliati, cioè hanno decorazioni molto simili allo strigile, strumento che i gladiatori usavano per spalmarsi l’unguento. C’erano poi i sarcofagi cristiani, con scene dall’antico o nuovo testamento.
Sezione delle gemme
La glittica si sviluppa soprattutto in età ellenistica con la tecnica del cammeo. I Farnese avevano una delle dattiloteche più importanti di Roma stessa, anche questa curata dal Fulvio Orsini. Molte fanno riferimento a miti più o meno noti (infanzia di Dioniso, mito di Ermes e Marsia, ecc.). C’erano gemme con raffigurazione di imperatori e filosofi). Il pezzo più importante della sezione è la cosiddetta Tazza Farnese di cui si hanno notizie certe sulla sua esistenza dal 1239, quando ne è documentato l'acquisto da parte di Federico II di Svevia. Notizie successive ne documentano la presenza a Samarcanda o Herat nel 1430, mentre ricomparve a Napoli nel 1458, anno in cui venne vista da Angelo Poliziano nella collezione di Alfonso V d'Aragona. Lorenzo il Magnifico la acquistò a Roma nel 1471 e passò quindi nella collezione della famiglia Farnese, dalla quale prende il nome con il quale è conosciuta attualmente. Datata alla prima metà del II secolo a.C. Della sua storia precedente si sa molto poco, anche se è convinzione universalmente condivisa che sia stata portata a Roma a seguito della conquista dell'Egitto da parte di Ottaviano nel 31 a.C. Passata poi a Bisanzio, venne probabilmente riportata a Roma a seguito della presa della città del 1204. Pervenuta eccezionalmente intatta attraverso i secoli, venne infranta nel XX secolo dall'inavvedutezza di un custode che la colpì con un ombrello. Restaurata, oggi i segni delle fratture sono stati resi il meno percepibili possibile. La superficie interna della tazza raffigura un’immagine con sette personaggi, che hanno spinto a diverse interpretazioni, tutte legate all’Egitto grazie alla presenza della Sfinge. Secondo una interpretazione tradizionale, viene visto nell'immagine il riferimento alle piene del Nilo rappresentato dall’uomo barbuto, la donna rappresentata sulla Sfinge è la dea Iside, mentre le altre figure femminili rappresentano le stagioni dell’inondazione e della mietitura. Una seconda interpretazione collega la tazza al tempo di Cleopatra I, riconoscendo nella sfinge Tolomeo VI Filometore (re egizio, figlio di Cleopatra I) e nella donna seduta sulla sfinge la stessa Cleopatra. Nel lato retrostante è presente un bassorilievo con una immagine di Medusa. Sicuramente la coppa aveva utilizzo rituale, forse per cerimonie della famiglia stessa dei Lagidi, che si fecero rappresentare nella coppa stessa. La coppa è realizzata in agata sardonica.
Sezione dei mosaici
Al piano ammezzato ci sono i mosaici, il gabinetto segreto e le monete antiche. Il mosaico si sviluppa in età alessandrina in Egitto e in età romana dal II secolo d. C. sia per pavimentazioni che per decorazioni di pareti e fontane. Nasce dal mondo egizio, ma la tecnica viene perfezionata in età ellenistica (III a. C.). Il museo vanta un numero cospicuo di mosaici, provenienti dall’area vesuviana (Pompei, Ercolano e Stabiae). Le tecniche erano tre: Opus sectile costituito da intarsi di marmi con decorazioni geometriche, tecnica molto più articolata. Nel Museo sono presenti ad esempio delle scene di menadi invasate durante una cerimonia dedicata al culto del dio Bacco. Si usa anche per marmi policromi con funzioni diverse dal pavimento. Si trova soprattutto nelle ville di Ercolano. Era il più costoso dei tre.
Il tessellato con tessere bianche e nere, con almeno il 90 % delle tessere nere. Le tessere erano grandi circa un centimetro quadrato. Il più famoso rappresenta uno scheletro che invita a godere la vita, seguendo quasi il motto oraziano del "carpe diem" veniva utilizzato in genere per rappresentazioni geometriche;
Il vermicolato con tessere di colori differenti e dimensioni più piccole era in grado di rappresentare figure con sfumature. Ad esempio l’immagine a mosaico con la ruota e sopra la farfalla, che rappresenta l’anima e a destra e sinistra gli abiti di un ricco e di un povero, a mostrare che la morte rende uguali.
Altri mosaici famosi sono quelli firmati da Dioscuride di Samo (la firma è riportata in alto a destra). La presenza della firma in un mosaico è alquanto inusuale, in quanto il mosaico era considerato un’opera minore della pittura, che neanche era firmata: una consultazione magica, nella quale sono rappresentate 4 figure di donne che raccontano di un momento clou di tutte le commedie, per cui due megere anziane stanno preparando dei filtri da dare altre due donne. Il tutto viene rappresentato con sullo sfondo un palcoscenico teatrale, con il proscenio sullo sfondo; i musici ambulanti, rappresenta le scene di una commedia – perché vestono la maschera – e c’è anche la maschera di una donna (sempre rappresentate da uomini).
Altro importante mosaico è quello dei filosofi sullo sfondo dello stesso è stata identificata l’accademia di Atene, fra il filosofi rappresentati è stato identificato Aristotele, che con altri filosofi discute di una questione probabilmente di ordine musicale. L’ultima parte dei mosaici riguarda quelli provenienti dalla casa del Fauno a Pompei, scavata nel 1830. Gli scavi a Pompei cominciarono nel 1748 opera dei Borbone. Con la scoperta di un sito, sistematicamente venivano asportati sia gli affreschi che i mosaici. Talvolta, quando venivano trovati non in perfetto stato di conservazione o quando non riuscivano ad asportarli li distruggevano per evitare che altri li potessero prendere. La casa del Fauno fu trovata ad un punto avanzato degli scavi. Lo scavo della casa del Fauno nel 1830 permise di recuperare tutti i mosaici tranne quello del leone, che è andato perso. La casa risale al 130 a.C. Uno dei criteri fondamentali dell’arte romana era il decoro: la statua o il mosaico hanno la funzione di decorare un ambiente e l’arte è elemento di arredo. Per questo motivo la tipologia di mosaico è in connessione con la funzione dell’ambiente e si possono distinguere le funzioni sulla base delle decorazioni. Allo stesso modo, mosaici ittici rappresentavano il tipo di pesce che veniva consumato in quella abitazione. I mosaici della casa del fauno riguardano la scena erotica del satiro con ninfa, la fauna marina, Dioniso bambino che cavalca i leoni, scene nilotiche (dal Nilo).
Il più famoso mosaico rappresenta la battaglia di Isso di Alessandro Magno. Si tratta di una copia di un affresco più antico. Il dipinto originario dovette essere commissionato da uno dei generali di Alessandro, Cassandro (quello che, a seguito della morte di Alessandro e della divisione dell’impero, otterrà la Macedonia, mentre Tolomeo l’Egitto). Si ritiene che quella rappresentata sia la battaglia di Isso (333 a.C.), che viene individuata sulla base dell’albero secco sullo sfondo. Alessandro sta guidando l’esercito contro le truppe persiane, e un frigio ha provato a sacrificarsi buttandosi a terra, rallentando le fine della battaglia e Dario III si volge indietro a guardare la scena mentre seguendo il loro re, tutto lo stuolo dei carri persiani sta facendo retro front. Alessandro ha uno sguardo fiero e sicuro, mentre Dario lo guarda con occhi spaventati perché sa a cosa sta andando incontro.
La sala del Gabinetto Segreto è il nome che i re Borbone di Napoli hanno dato alle sale riservate (alle quali "avessero unicamente ingresso le persone di matura età e di conosciuta morale") in cui vennero raccolti i vari reperti a soggetto erotico o sessuale che man mano venivano alla luce negli scavi di Pompei ed Ercolano o erano acquisiti in altro modo. Una sezione dedicata a tali manufatti era presente anche nel Museo Hercolanense. Nei secoli la collezione è stata chiamata anche "Gabinetto degli oggetti riservati" o "osceni" o "pornografici". Dopo i moti rivoluzionari del 1848 il Gabinetto divenne simbolo delle libertà civili e di espressione, quindi maggiormente censurato in quanto considerato politicamente pericoloso. Quando nel settembre 1860 Garibaldi arrivò a Napoli, egli diede subito l'ordine di rendere accessibile la sala "giornalmente al pubblico". Delle tre chiavi, non trovandosi quella in dotazione alla casa reale, Garibaldi non esitò, tra lo sconcerto generale, ad ordinare di "scassinare le porte". Nel corso dei decenni successivi, alla libertà ridata da Garibaldi subentrò progressivamente la censura del regno d'Italia che vide il suo culmine durante il ventennio fascista, quando per visitare il Gabinetto occorreva il permesso del ministro dell'educazione nazionale a Roma. La censura ha perdurato nel dopoguerra fino al 1967, allentandosi solo dopo il 1971 quando dal ministero furono impartite le nuove regole per regolamentare le richieste di visita e l'accesso alla sezione. Completamente riallestita con criteri del tutto nuovi, la collezione è stata definitivamente aperta al pubblico nell'aprile del 2000. Sono presenti reperti in bronzo, marmo e diversi affreschi. Sculture provenienti da giardini pompeiani come la Venere in bikini o Pan che si accoppia ad una capra proveniente dalla villa dei Papiri di Ercolano. Alcuni affreschi rappresentano Zeus che cambiava sembianze per raggiungere le donne mortali che gli interessavano, o accoppiamenti tra Ninfe e Satiri, o ancora scene erotiche provenienti da cubicula o da lupanari. Molti simboli fallici, con funzione apotropaica, che avevano la funzione di scacciare il malocchio; alcuni tintinnabula in bronzo hanno forme falliche e numerosi amuleti in osso, corallo, avorio in tale forma.
La sezione numismatica contiene la collezione di monete dall’età greca all’epoca borbonica. Nella storia del museo era stata sempre chiusa e per un breve periodo nel 2001 fu riallestita e aperta al pubblico. Contiene monete della collezione Farnese e di tutto il regno di Napoli.
Il Gran Salone della Meridiana è una delle più imponenti aule coperte d’Europa (lunghezza m. 54,80, larghezza 20,80 e altezza m 20,35). La sua costruzione risale agli anni 1612-1615, quando, per volere del viceré don Pedro Fernando de Castro Conte di Lemos ad opera dell’architetto Giulio Cesare Fontana, si decise di trasformare le strutture di un edificio cinquecentesco incompiuto e destinato alla Real Scuderia, per ospitarvi gli Studi, fino ad allora situati nelle stanze del cortile di San Domenico Maggiore. L’opera celebra le virtù di Ferdinando IV e di sua moglie Maria Carolina d’Austria come protettori delle arti: la Virtù incorona i due sovrani circondati dalla personificazione delle Scienze, delle Lettere, delle Arti, della Fede, della Giustizia, della Forza e della Verità. Completano l’allegoria, a sottolineare l’impegno svolto dalla coppia reale nella cultura, due motti: “Regis virtutibus fondata felicitas”, la felicità si fonda sulle virtù del re, e “Iacent nisi pateant”, le cose d’arte languono se non sono esposte al pubblico. Fu realizzata sul pavimento una meridiana, che dà tuttora nome alla sala. Disegnata da Pompeo Schiantarelli, lunga oltre 27 metri, essa è composta da un listello di ottone disposto tra riquadri di marmo nei quali sono incastonati graziosi medaglioni dipinti raffiguranti i dodici segni dello zodiaco. A mezzogiorno locale, la luce del sole, penetrando dal foro dello gnomone collocato in alto nell’angolo Sud-Ovest, cade sulla linea meridiana del pavimento, percorrendola in base alle stagioni. In questa sala trovano spazio anche l’Atlante Farnese, che rappresenta l’Atlante che si unì a Kronos a lottare contro gli dei olimpici, sconfitto, fu costretto a tenere la terra sulle proprie spalle. La testa è restaurata e il torso di epoca romana, il globo è in gran parte di epoca romana. L’originale di questa scultura è di periodo ellenistico, ma quella Farnese è l’unica replica romana che abbiamo.
Affreschi : La coppia dei Pacuvi, e la Pseudo Saffo. Ci sono poi altri affreschi, che rappresentano alcuni miti come il mito di Europa e Zeus (che si trasforma in toro), il mito di Medea che medita di uccidere i figli, il mito di Perseo e Andromeda. Perseo era figlio di Zeus e concepito con Danae. Zeus si era trasformato in pioggia per avere un rapporto con Danae. Perseo aveva ucciso Medusa e aveva liberato Andromeda dal mostro marino che Poseidone le aveva messo a guardia. Il mito di Admeto e Alcesti (Alcesti cerca di sacrificarsi al posto di Admeto che deve morire per andare nell’Ade), il sacrificio di Ifigenia, figlia di Agamennone, che deve essere sacrificata prima di partire per la guerra contro Troia. Ci sono due versioni de mito: in una muore e nell’altra (quella rappresentata nell’affresco) viene sostituita da una cerva. Gli ultimi due erano nella casa del poeta tragico di Pompei, così chiamata perché erano rappresentate delle tragedie greche. All’ingresso della casa del poeta tragico c’era la famosa scritta mosaicata cave canem. Ancora, altre rappresentazioni: Teseo uccide Minosse, Enea ferito, Chirone e Achille, Ercole e Telefo, ecc.
Cratere dei Persiani : Il cratere è una ceramica apula a figura rossa italiota ed è certamente uno dei vasi più famosi della collezione. Sul collo del lato A è dipinta una Amazzonomachia, con Amazzoni vestite di costume orientale ed armate di ascia da combattimento impegnate in duelli, che si svolgono su più piani, contro i guerrieri greci, i quali, nudi, indossano l'elmo corinzio crestato e sono muniti di scudo circolare e lunga lancia. La decorazione figurata del corpo si stende su tre registri, in ciascuno dei quali si trova, in posizione centrale, una figura seduta. In quello superiore si trova Zeus, con una Nike alata appoggiata alle ginocchia, alla cui sinistra stanno Afrodite con un cigno in grembo ed Artemide su una cerva e dall'altra parte Athena, Ellade, Acate con due fiaccole e l'Asia, seduta su un altare con l'immagine di una divinità. La fascia centrale presenta Dario in trono, alle cui spalle sta presumibilmente una guardia del corpo, intento ad ascoltare un messaggero ritto al suo cospetto su un podio circolare, alla presenza di dignitari seduti e, pare, del pedagogo, identificabile con l'anziano appoggiato al bastone. L'ultimo fregio dispone intorno ad un uomo seduto, da identificarsi verosimilmente con il tesoriere, cinque orientali, tre dei quali in ginocchio con le braccia protese in gesto di supplica. Sul lato B, analogamente strutturato, si svolge il mito di Bellerofonte: in alto Bellerofonte cavalca Pegaso, mentre una Nike alata lo corona di alloro; a sinistra un giovane nudo stringe un ramo di alloro fra le mani e di fronte a lui Poseidone, con il tridente, siede su uno sperone di roccia. A destra Pan, con pisside e ramo di alloro in mano, di fronte ad Athena, seduta su una roccia, con una lunga lancia nella sinistra. Il fregio mediano reca al centro la Chimera, raffigurata come un mostro bicefalo con corpo leonino, testa di leone e di capra, e coda di serpente, a destra due Amazzoni in fuga ed a sinistra altre due Amazzoni, una delle quali in atto di attaccare. Il registro più basso presenta infine due Amazzoni cadute, armate rispettivamente di lancia e di ascia, ed un uccello palustre. Sul collo di questo lato della raffigurazione si trova una scena dionisiaca, con un gruppo con Menade e Sileno a sinistra, poi un uomo ed una donna ai lati di una fontana, ed infine una seconda Menade. La scena principale è stata variamente letta ed interpretata: l'identificazione dei personaggi è indubbia, dal momento che accanto ad ogni figura è dipinto il nome; più difficile è contestualizzarla. Qualcuno ha pensato di vedere qui una scena di una tragedia di Frinico, che rappresenterebbe il momento in cui la Persia sta per dichiarare guerra all'Ellade; e più recentemente, l'analisi della struttura compositiva ha portato a concludere che lo spazio viene simbolicamente usato per alludere allo spazio teatrale vero e proprio, con il coro nel registro inferiore, il proscenio al centro, e la tribuna degli dei in alto. Altrimenti l'intero impianto decorativo potrebbe fare riferimento alla rivolta delle città greche d' Asia, e riecheggiare il travagliato periodo delle guerre contro Lucani e Messapi in Magna Grecia, proprio durante il periodo di attività del pittore di Dario.
È anche presente l’Hydra di Vivenzio.: Orlo piatto, corpo globulare rastremato verso il basso, due anse orizzontali a bastoncello impostate obliquamente, un'ansa verticale a bastoncello impostata tra collo e spalla, basso piede. Decorazione: sul labbro, due fasce di motivi a ovoli; sul collo fascia con motivo a girali; sulla spalla scena figurata delimitata in basso da una fascia ad ovoli; ventre interamente verniciato, eccetto la parte superiore dove è presente una fascia a palmette contrapposte a sette lobi, alternate a volute. La scena figurata, che rappresenta alcuni episodi della presa di Troia da parte dei Greci, consta di diciannove personaggi: Neottolemo in atto di uccidere Priamo, seduto sull'altare di Giove Erceo, mentre, già ferito al capo, si copre con ambo le mani la faccia e tiene sulle ginocchia il corpo sanguinante del piccolo Astianatte; un guerriero greco mentre combatte contro una donna troiana ( Andromaca ?) che tenta di difendersi con una sorta di bastone in legno; un guerriero greco (Demofonte o Acamente) in atto di prendere per il braccio destro la nonna Etra seduta per terra; un altro guerriero greco, con scudo circolare su cui vi è raffigurato un leone, seguito da un'altra donna troiana inginocchiata con una mano alla fronte; due giovani fanciulle troiane inginocchiate in atto di strapparsi i capelli per la disperazione; Aiace Oileo che calpesta un guerriero troiano, mentre trattiene con la mano sinistra i capelli di Cassandra, raffigurata nuda, con un mantello sulle spalle soltanto ed in procinto di cadere stringendosi alla statua di Athena, ed è sul punto di essere trafitta con la spada; Enea, con il padre Anchise sulle spalle ed il piccolo Ascanio per mano, mentre fugge da Troia. Appartenuta ai fratelli Nicola e Pietro Vivenzio, famosi scavatori di tombe e collezionisti del Settecento, l' Hydria presenta una delle più famose e celebri rappresentazioni di Ilioupersis. Vengono tuttavia illustrate non solamente le scene tipiche legate alla presa di una città (uccisioni, sacrilegio, disperazione), ma anche altri fattori che mai erano stati rappresentati e mai lo saranno poi in un simile tema, quali il coraggio delle donne troiane, la liberazione della vecchia Etra salvata dai nipoti, la speranza legata alla fuga di Enea con Anchise ed Ascanio. Il vaso, contenuto in un dolio, fungeva da cinerario: al suo interno furono ritrovati cinque unguentari in alabastro, una gemma raffigurante un'aquila con un serpente tra gli artigli, oltre, ovviamente, alle ossa del defunto.
Gli scavi di Ercolano
Capitolo XV
Secondo Dionigi di Alicarnasso nel I secolo a.C. Ercolano venne fondata da Ercole, mentre Strabone vissuto tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C. scrisse che fu fondata dagli Osci su un promontorio tra due torrenti, ai piedi del Vesuvio, affacciata sul mar Tirreno. Fu quindi conquistata dagli Etruschi e poi dai Sanniti. Come la vicina Pompei, Ercolano si allea con la lega nucerina, sotto l’influenza dei romani, trasformandosi in un piccolo borgo fortificato anche se con mura di modeste dimensioni. Mentre Pompei aveva una funzione commerciale, Ercolano aveva una funzione residenziale. Durante le guerre sociali, Ercolano, così come le altre città della zona, si ribellò a Roma e venne quindi conquistata da Titius Didius, un legato di Lucio Cornelio Silla, nel 89 a. C., ottenendo nel 30 a.C. lo stato di municipio, cioè avere diritti civili ma non politici e fu in questo periodo che si trasformò principalmente in un centro di villeggiatura, risentendo sempre maggiormente dell'influsso della vicina Neapolis, della quale può essere considerata un suburbio.
Ercolano fu scoperta casualmente nel 1710 quando un contadino scavò un pozzo per l’irrigazione ritrovandosi nel frons scenae del teatro di Ercolano. Il principe Emanuele Maurizio d'Elboeuf, capitano delle truppe austriache, venne a conoscenza dei ritrovamenti, acquistò il pozzo e per nove mesi, fino al 1711, condusse a proprie spese una prima sommaria esplorazione, tramite una serie di cunicoli sotterranei. Questo primo scavo consentì di accedere al Teatro di Ercolano, erroneamente ritenuto nei primi periodi come il Tempio d'Ercole, ma si intuì ben presto che le rovine appartenevano all'antica città scomparsa in seguito all'eruzione del Vesuvio del 79 d. C., la cui colata di lapilli e fango aveva creato uno strato tufaceo di circa 20/25 metri. Il tipo di eruzione ha generato una coltre spessissima e difficile da scavare. Ad Ercolano, al contrario che a Pompei si ha l’impressione di accedere proprio ad uno scavo, sottoposto al livello stradale. Inoltre, la copertura di Ercolano da parte del flusso piroclastico ha consentito la conservazione di materiali come il legno, il cibo e i tetti non sono crollati come a Pompei. Degli scavi abbiamo notizie che venivano redatte dai militari borbonici che controllavano gli ergastolani che realizzavano gli scavi in tunnel e i reperti venivano trasferiti al Museo Erculanense nella Reggia di Portici.
Nel 1828, sotto Francesco I di Borboni , ripresero le indagini. In questa nuova fase cambiò anche il modo di effettuare le esplorazioni, passando dai cunicoli sotterranei alla tecnica degli scavi a cielo aperto. Tuttavia si contarono solo pochi ritrovamenti e i lavori vennero interrotti nel 1855. Anche a partire dal 1869, sotto la direzione di Giuseppe Fiorelli, ci fu una breve campagna di indagini, inaugurata da Vittorio Emanuele II, ma per lo stesso motivo della precedente esplorazione, venne sospesa nel 1875. Con la salita a capo della Soprintendenza agli Scavi ed alle Antichità della Campania nel 1924 di Amedeo Maiuri, venne attuato un programma di espropri al fine di evitare ulteriori danni e di proteggere le rovine di Ercolano dalla forte espansione edilizia. Il 16 maggio 1927 inoltre, partì una nuova campagna di scavi, che fino all'inizio del secondo conflitto mondiale, nel 1942, quando si interruppe, grazie alla rimozione di oltre duecentocinquantamila metri cubi di tufo, venne riportata alla luce circa quattro ettari dell'antica città. Si tratta del parco archeologico visibile ancora oggi. Dal termine della guerra fino al 1958 si provvide a mettere in sicurezza ed al restauro di tutto il patrimonio architettonico rinvenuto. L'idea del Maiuri fu quella di realizzare una sorta di museo a cielo aperto. In seguito dal 1996 al 1998 venne riportata alla luce buona parte della Villa dei Papiri e dell’insula nord occidentale.
Per quanto riguarda l’urbanistica dell'antica Ercolano sono stati riportati alla luce solo 4,5 ettari dei venti ettari totali della sua estensione. La città era cinta da mura, definite dallo storico Lucio Cornelio Sisenna "piccole", mentre Strabone e Dionigi di Alicarnasso la definivano “oppidum”. Le mura avevano uno spessore che variava dai due ai tre metri e costruite in opera a secco con grossi ciottoli, risalenti per lo più al II secolo a. C., mentre lungo la linea di costa erano in opera reticolata. Come a Pompei, dopo le guerre sociali, le mura persero la loro funzione difensiva e vennero ben presto inglobate all'interno degli edifici costruiti nelle loro prossimità, come ad esempio è visibile nella Casa dell'Albergo, vicino all'ingresso del parco archeologico. L'impianto urbano era di tipo ortogonale con incroci ad angolo retto e con i decumani che correvano parallelamente alla costa, a cui si incrociavano perpendicolarmente i cardini, i quali, nei pressi della mura lungo la spiaggia, avevano ognuno una rampa con porta ad arco, in modo tale da consentire un diretto accesso al mare. La città disponeva di tre decumani, di cui due scavati, e cinque cardi di cui sono visibili sono il terzo, il quarto ed il quinto. Tutte le strade della zona scavata, fiancheggiate da marciapiedi, risultano poco consumate dal passaggio di ruote di carri, in quanto, a seguito della conformazione del territorio, particolarmente ripido, il transito era consentito maggiormente a muli e pedoni, i quali trasportavano le merci dal porto al centro cittadino. I marciapiedi dei cardi erano molto più alti di Pompei e iniziavano dai 30 – 40 cm e poi si alzavano. All’altezza della casa del bel cortile e la casa di Nettuno e Anfitrite, il marciapiede aumenta di altezza. Ciò era dovuto ad una esigenza di reflusso e delle acque e alla pendenza naturale del terreno. Ad Ercolano è stata rinvenuta una fognatura, quella lungo il cardo III, che convogliava le acque del Foro e quelle degli impluvi, delle latrine e delle cucine delle case che si affacciavano lungo questa via, mentre il resto degli scarichi avveniva direttamente in strada, eccetto quelli delle latrine che erano dotate di pozzo assorbente. Questo sistema assorbente è l’unico presente a Pompei. Ercolano ha anche un sistema dei collettori. Ad esempio sotto il cardo III all’altezza della casa dello Scheletro c’è un collettore, cioè un sistema di vasche che consentiva alla fogna di collegare le varie zone con lo scarico a mare. Di recente è stato aperto un Antiquarium che si trova sulla sinistra scendendo la via di accesso. In questo è presente una nave, che è stata trovata sulla antica spiaggia lungo le terrazze meridionali. Il percorso di visita parte scendendo attraverso un tunnel proprio nei pressi dell’antiquarium e ci porta sulla antica spiaggia. La zona è in continua manutenzione a causa dell’acqua che affiora e che viene pompata all’esterno. Qui sono stati scavati circa dodici fornici all’interno dei quali sono stati trovati circa 300 scheletri, a testimonianza del fatto che loro attendevano le barche per fuggire, infatti molti sono stati trovati con oggetti personali e preziosi. Qui è possibile notare il dislivello causato dall’eruzione e la sedimentazione delle ceneri per un altezza di 21 metri. Dalla spiaggia si saliva verso la città che era in pendio. Attraverso una scalinata si accede a due terrazze, che sono una di fronte all’altra nei pressi della Terme Suburbane. Qui si apre un'ampia piazza dedicata a Marco Nonio Balbo ed al suo monumento funerario è rivolto verso il mare e su una base in marmo era una statua raffigurante Balbo vestito da una corazza, distrutta in parte dall'eruzione, tant'è che la testa venne ritrovata durante gli scavi effettuati da Amedeo Maiuri, mentre il resto del corpo solo nel 1981.
M. Nonio Balbo fu dichiarato protettore di Ercolano.
Nella piazza c’è un altare cenotafio (cenotafio = tomba vuota). L’altare aveva la funzione di ricordare questo personaggio, del quale era rimasto solo una falange della mano e il corpo di cremazione in un contenitore rosso, conservato al Museo archeologico nazionale. Alle spalle del cenotafio c’è la statua di M. Nonio Balbo, dedicata dal liberto M. Nonio Volusiano (il liberto prendeva il nome del padrone). Di fronte alla terrazza di Nonio Balbo c’è un’area sacra, con alle spalle alcuni spazi di servizio. Tutta l’area sacra era dedicata a Venere. Nel sacello A è un tempio anfiprostilo (ossia con colonne solo sul davanti) con un piccolo altare marmoreo. Tutta l’area fu costruita in età augustea, ma fu ristrutturata a seguito del terremoto del 62 d. C. Il sacello B è anch’esso un tempio anfiprostilo con un pronao sul davanti. Al suo interno ci sono quattro rilievi di Minerva, Mercurio, Nettuno e Vulcano, che si riconoscono a partire dagli attributi che hanno con se. Minerva si riconosce dall’elmo con cimiero e dalla lancia. Mercurio si riconosce dalla presenza del caduceo, delle scarpe alate (le ali ai piedi) e il berretto frigio. Nettuno si riconosce da l tridente. Vulcano si riconosce dagli strumenti che ha in mano.
Superata la scalinata si procede verso destra e si supera la porta che è coperta e consente di accedere al cardo V. Ad Ercolano troveremo solo case residenziali, perché gli edifici pubblici sono pochissimi. La Casa del Rilievo di Telefo (Insula Orientalis I), appartiene allo stesso proprietario della Casa della Gemma, che potrebbe essere M. Nonius Balbus costruita in età augustea, fu completamente restaurata a seguito del terremoto del 62; le colonne dell'atrio sorreggono gli ambienti del piano superiore, la diaeta e l'oecus sono interamente rivestite in marmo e con vista sul mare. La particolarità dell'abitazione era la presenza di un gran numero di statue, tutte di scuola neoattica, ritrovate al suo interno, tra cui otto oscilla, cioè dei tondi in marmo appesi tra le colonne. Gli oscilla erano legate all’ambiente dionisiaco e avevano funzione apotropaica e venivano portati in processione. La casa presente un altorilievo del mito di Telefo, di cui oggi è possibile osservare il calco. Le domus di Ercolano si distinguono da quelle di Pompei perché non hanno il compluvium e le colonne dell’atrio sorreggevano un secondo e talvolta un terzo piano. Si è pensato che la casa potesse appartenere ad un medico (invece che a Nonio Balbo) perché Telefo era stato ferito da Achille e per 20 anni la ferita non era stata rimarginata. Nessun medico riusciva a curare la stessa che invece potè essere rimarginata dalla ruggine che proveniva dalla lancia che la aveva procurata. La casa del rilievo di Telefo è opposta alla Casa dei Cervi. La casa dei Cervi (la numero 8) è una delle case più belle e deve il nome al ritrovamento, nel giardino, di una statua raffigurante due cervi sbranati da cani oltre a quella di un Satiro con otre. Grazie al bollo ritrovato su un pezzo di pane carbonizzato, si è risalito anche al nome del proprietario, ossia Q. Granius Verus. La casa si divide nel quartiere di rappresentanza, nel quartiere servile ed un ampio corridoio: nel criptoportico fenestrato furono rinvenuti sessanta quadretti raffiguranti amorini, nature morte e divinità. All’ingresso dell’abitazione c’è un piccolo sedile in pietra dove i clientes attendevano gli ordini del padrone. Clientes erano schiavi liberti che erano legati al padrone da rapporti di lavoro e che stavano seduti tutto il giorno in attesa degli ordini. Si accede ad un piccolo atrio che conduce a destra nella zona più servile mentre a sinistra conduce nel criptoportico una sorta di galleria finestrata su cui si affacciano le varie stanze. La casa era orientata verso il mare con una vista scenica su di esso ed occupava una superficie di circa 1100 metri quadri. Il criptoportico aveva dei fascioni di diverso colore per decorazione e tra i muri affreschi con piccole scene di genere (amorini, nature morte, pitture di caccia, eccetera). La grande Taberna (numero 10) si trovava vicino alla fontana pubblica e di fronte alla palestra e aveva due aperture una sul decumano V e l’altra sul cardo inferiore, presenta un banco rivestito in marmo, un affresco di una nave e diversi graffiti.
I termopolia erano zone di ristoro dove si serviva da mangiare. Probabilmente c’era una saletta posteriore dove era possibile consumare i pasti. Nella bottega retrostante c’è una piccola iscrizione che dice “Diogene Cinico nel vedere una donna travolta da un fiume esclamò: lascia che un malanno travolga un altro malanno”. La Palestra venne costruita in età augustea ed era un complesso destinato alle attività educative e sportive. Si trattava di una struttura su due piani. L'ingresso era ornato con due colonne, in parte crollate, ed una volta affrescata a cielo stellato, di cui sono rimasti pochi frammenti; internamente presenta un triportico in ordine corinzio ed al centro una vasta area alberata con una piscina, decorata con una fontana in bronzo con al centro l’Idra di Lerna (mostro a più teste di serpente. era una delle dodici fatiche di Ercole). Accanto alla fontana era presente una vasca rettangolare, utilizzata come vivaio, caratterizzato da alcune anfore incassate nella parete, per la deposizione delle uova, ma già inutilizzato al momento dell'eruzione. Nella zona della terrazza superiore si poteva assistere agli allenamenti degli atleti. La palestra presenta una parte deputata al culto dove è un altare.
La parte verde in pianta è quella non scavata, vi si trovano i cunicoli borbonici illuminati.
Il Pistrinum è la bottega del pane, il più famoso è quello di Sex Patulcius Felix, caratterizzato da due falli contro il malocchio situati nei pressi dell'ingresso e venticinque teglie in bronzo usate per infornare le placentae, un tipo di focaccia. All’interno sono visibili due macine. Una parte fissa (una sorta di muretto cilindrico di pietre), al di sopra del quale era presente un a struttura conica fissa sul quale era infilata una struttura cilindrica con un foro che accoglieva un palo in legno che veniva trainato da un animale. Ruotando il grano veniva macinato e cadeva su di un pezzo di legno che lo raccoglieva. Dirigendosi verso il decumano inferiore troviamo la casa numero 11 (Taverna vasaria) era a due piani. Il primo era per la vendita il piano superiore probabilmente per la vita privata del proprietario. Doveva trattarsi di una bottega di anfore e non di vino perché le anfore ritrovate presentano tutte il medesimo marchio di provenienza e la medesima forma. Se si fosse trattato di vini ogni vino avrebbe avuto una propria forma peculiare ed una propria. La bottega del Lanario era il pannivendolo (non vendeva solo lana, ma tutti i vestiti). La particolarità è che c’è la scala in legno completamente conservata e una pressa. La Casa del Tramezzo in Legno (casa 36) viene così denominata per via del ritrovamento di una sorta di porta pieghevole in legno, una sorta di separé, con battenti sagomati e sostegni in bronzo per reggere le lucerne, con la funzione di dividere l'atrio dal tablino (zona di soggiorno dove ci si poteva chiudere). La trave era fissata al muro nella parte superiore. Il tramezzo ha delle borchie e sostegni che sostenevano le lucerne. Ciò lascia pensare ad un identico tramezzo per come viene descritto da Petronio nel Satyricon come presente nella casa di Trimalcione. Probabilmente c’era l’uso di separare il tablinio dall’atrio. La casa fu costruita prima della conquista romana ed in seguito restaurata in età giulio-claudia, quando vennero rifatti tutti gli affreschi, in terzo stile. Il pavimento è in coccio pesto con inserti di marmo bianco. La Casa a Graticcio (numero 35) è un tipo di abitazione plurifamiliare, edificata quasi del tutto in opus craticium, una particolare tecnica, utilizzata per risparmiare, in cui le mura venivano costruite in modo molto sottile, con intelaiature in legno e sezioni in opus incertum (pietrisco, conglomerati di metallo e risulta). Vitruvio affermò che questo tipo di tecnica è predisposta all’incendio come una torcia. Inoltre l'intonaco veniva poi applicato su due strati di canne, poste prima in orizzontale e poi in verticale, fissati con chiodi. Esternamente la casa presenta un balcone sorretto da tre colonne in laterizio, mentre all'interno è decorata con affreschi in quarto stile: furono inoltre ritrovati pezzi di mobilio carbonizzato, come letti ed armadi con all'interno vasi in vetro, statuette di lari, lucerna ed una collana. Accedendo al Cardo IV ritornando indietro andiamo alla Casa 31, la Casa Sannitica (casa risale al II secolo a.C. e per questo detta sannitica) presenta nell'atrio colonne con capitelli di ordine corinzio in tufo, decorazioni parietali in primo stile, soffitto a cassettoni con affreschi in secondo stile e impluvium rivestito in marmo, anche se a seguito di restauri, molte delle decorazioni vennero effettuate in quarto stile. La casa è anche dotata di un piano superiore, raggiungibile tramite due scale, mentre nel tablino si osserva una pavimentazione a mosaico a forma di rombi disposti intorno ad una piastrella di rame, e in un cubicolo è stato ritrovato un affresco su fondo verde raffigurante il ratto di Europa. Nella parte superiore è presente una finta loggetta con semicolonne.
Alle terme femminili si accede dal cardo IV (quelle maschili dal Cardo III) sono raffigurati un tritone, pistrici, delfini e un polpo. Presenta un pavimento a mosaico bianconero. Nel tepidarium c’è un pavimento a meandri con raffigurazioni all’interno (anfore, simboli fallici, ecc). Nel caldarium è presente un pavimento in marmo con opus sectile, senza decorazione particolare. Vi è una piccola panchina per sedersi in marmo, una vasca per rinfrescarsi. Il soffitto è strigilato e serviva a canalizzare le gocce per smaltire l’acqua in eccesso di modo che le gocce cadessero nuovamente nella vasca del caldarium perché i bordi laterali erano in pendenza.
La Casa di Nettuno ed Anfitrite (numero 29) ha ridato alla luce due lastre in marmo dipinte con la tecnica dei monocromi in rosso, l’ambiente è ricco di decorazioni compreso anche il tablino, che presenta alla parete un mosaico in pasta vitrea raffigurante Nettuno ed Anfitrite, nella bottega della casa, adibita a caupona, furono ritrovati dolii con fave e ceci e tutto l'arredamento in legno carbonizzato, oltre alle suppellettili come un fornello e gli scaffali.
Particolare del mosaico di Nettuno e Anfitrite
La Casa del Bel Cortile (numero 28) fu costruita nel I secolo a. C. e ristrutturata in epoca claudia (I d. C.), quando alcuni ambienti furono ripavimentati a mosaico e affrescati con pitture in terzo stile, anche se in alcune zone si riscontrano resti di affreschi in secondo stile. L’impianto della casa è caratteristico per la presenza di una scala al posto di un atrio e di un impluvium e compluvium, e serviva ai piani superiori. Detta del bel cortile perché caratteristico è il cortile mosaicato (mosaico bianco con tesserine nere) e si è ipotizzato fosse una sorta di condominio. Sono stati recuperati degli affreschi e due rilievi marmorei con l’aurora e il Tramonto alla presenza di Apollo.
La bottega del plumbarius (numero 17) si trova all’angolo e ha due aperture e serviva per la costruzione dei tubi di piombo per l’approvvigionamento idrico, sono stati ritrovati alcuni attrezzi del mestiere o stampi per i tubi. Vi erano anche delle grosse anfore e in questi orci di terracotta veniva raffreddato il piombo.
La bottega ad cucumas (Numero 19) (in latino “la brocca”) deve il suo nome a quattro brocche disegnate su un pilastro all'ingresso come insegna, con i tipi di bevande disponibili ed il prezzo del vino; oltre alla raffigurazione di Semo Sancus che era una divinità cui si prestava giuramento per il buon affare. Non c’è un ambiente nel quale si accede. Al di sotto delle immagini c’è la scritta Nola che pubblicizza uno spettacolo.
Il Collegio degli Augustali è un edificio pubblico che venne costruito tra il 27 ed il 14 a. C., quando Augusto era ancora in vita ed il giorno della sua inaugurazione, i fratelli Lucius Proculus e Lucius Iulianus, offrirono un pranzo ai membri del senato e agli Augustali. Questi ultimi erano un ordine cittadino costituito da liberti che si organizzavano in collegio e si votavano per il culto di Augusto (l’imperatore). La costruzione risale al I secolo d. C. L'edificio è a pianta quadrata, con pareti ad archi ciechi, quattro colonne centrali e pavimento in coccio pesto, mentre il piano superiore era in opus spicatum; la maggior parte degli affreschi rinvenuti, sono tutti in quarto stile e ricordiamo la raffigurazione di Ercole nell'Olimpo con Giove (rappresentato sotto forma di arcobaleno), Giunone e Minerva ed Ercole con Acheloo. Ospitava inoltre numerose statue come quella di Augusto e Claudio, nei panni di Giove con un fulmine tra le mani o quelle raffiguranti la famiglia di Marco Nonio Balbo; fu inoltre rinvenuto al suo interno lo scheletro del custode disteso sul letto.
Pompei
Capitolo XVI
Secondo gli storici negli ultimi giorni di Agosto del 79 d. C. vi fu l’eruzione che ha seppellito la città di Pompei. E’ importante ribadire che la città fu sepolta dalle ceneri e lapilli del Vesuvio e non distrutta altrimenti non avremmo trovato tutte le strutture che hanno fatto riemergere la città come era al giorno dell’eruzione. Nella mattina di quel giorno forse verso le tredici si apre una faglia sul monte Vesuvio e si alza una nuvola di cenere e lapilli che raggiunge anche Pompei. Cominciano le bombe vulcaniche che arrivavano da un distanza di dieci chilometri. Le persone si raccolgono nelle case che lentamente vengono coperte da ceneri e lapilli e dopo alcune ore sotto la pressione dei detriti iniziano a crollare. La nube arriva a trenta chilometri di altezza e non riuscendo a risalire ulteriormente inizia a collassare. I primi flussi piroplastici colpiscono Ercolano. Si è ormai fatta sera la gente inizia a scappare dalle case uscendo dal secondo piano delle case dato che non si poteva uscire dai piani terra. Difficoltà a respirare ed ormai le tenebre avevano avvolto tutto. I flussi piroclastici raggiungono Pompei ed uccidono tutti gli abitanti rimasti in città. L’ultimo flusso piroclastico ha spazzato via tutti i secondi piani, ciò che emergeva dalla cenere e lapilli che aveva già coperto la città. Il Vesuvio ha avuto una eruzione paragonabile a più bombe atomiche ed in quella occasione le ceneri arrivarono a Salerno ed a Pestum. La struttura della città era divisa in quartieri chiamati: salinenses per la porta del Sale, forenses per la vicinanza al Foro, Campanienses per la vicinanza alla porta di Capua che oggi non possiamo vedere e urbulanenses per la vicinanza alla porta Urbulana che è in direzione di Sarno. È stato trovato un graffito a Pompei di Novella Primigenia con indicazioni su come trovare una persona e ci indica la città, Nuceria, la zona (presso porta Romana) ed il nome della persona Primigenia, in questo modo venivano date le indicazioni dato che non c’erano indirizzi così come li concepiamo noi oggi. La città di Pompei è divisa in Regio.
fig 1 Tre fasi dello sviluppo di Pompei
Nel periodo arcaico abbiamo la conquista osca la città era sviluppata nella zona del Foro quindi la regio VII e parte della regio VIII. Successivamente abbiamo la venuta degli Etruschi e dei Greci e cominciano ad espandersi nella zona della regio VI e del foro triangolare con il tempio dorico. Le strade sono ancora irregolari ed ancora oggi alcune ricalcano l’andamento delle fortificazioni antiche, ad esempio il vicolo Stretto e il vicolo del Lupanare ricalcano l’andamento tortuoso delle fortificazioni. L’espansione verso nord dalla regio VI inizia in epoca sannitica agli inizi del VI secolo ed in seguito l’espansione verso est. Vi sono due momenti importanti uno è nel III secolo a. C. durante la seconda Guerra Punica perché tra il 218/202 a.C. la città di Nuceria fu conquistata e Pompei ospitò i nocerini in fuga causando un aumento della popolazione che nel II secolo a.C. generò un notevole fervore edilizio. Ci fu la costruzione dei monumenti sannitici come la palestra, le terme stabiane, il quadriportico del teatro e il teatro, il primo terrazzamento del tempio di Venere e le grandi domus come la casa del Fauno. Nel periodo repubblicano nell’80 a.C. i romani costruiscono l’anfiteatro ed operano alcune ristrutturazioni, le terme del foro e l’odeion. In età imperiale sostanzialmente si procede per ristrutturazioni e abbellimenti, sostanzialmente l’impianto urbano resta invariato come lo conosciamo noi oggi. Gli scavi del Foro sono iniziati nel 1813 fino al 1980 in più fasi non complete. L’area è sempre stata una zona pubblica sin dalla nascita della città in epoca arcaica ed era l’incontro tra la via Marina e la via del Sale. L’agorà poi Foro romano ha la funzione amministrativa e giuridica, è il luogo dove avvenivano le discussioni politiche e giuridiche. Nelle città magno greche l’agorà era dotata di un tempio non perfettamente in asse con la piazza e lo stesso impianto si è mantenuto a Pompei fino ai sanniti che ricostruiscono il Tempio di Apollo riallineando con la piazza, che è di forma trapezoidale, la struttura del tempio stesso. In età sannitica viene ristrutturata la zona del Foro triangolare e vengono costruiti la curia, il tabularium e la casa dei duoviri, il comitium, la porticus duplex quindi il portico di Popidio, la Basilica, il tribunale della città. Noi conosciamo le chiese come Basiliche questo perché quando il cristianesimo viene riconosciuto da Costantino dovevano creare luoghi di culto. Nei templi degli Dei c’erano luoghi dove non accedevano i fedeli ma solo i sacerdoti nel culto cristiano invece c’è l’accoglienza e viene adottato il modello delle basilicale a piante quadrata diviso da colonne. Viene ristrutturato il tempio di Apollo, il tempio di Giove, il Macellum e tutto il lato est è occupato da taverne e abitazioni quindi una grossissima funzione commerciale. La pianta attuale è del periodo imperiale e nel II secolo a. C. e veniva frequentato anche da gladiatori. L’unica modifica del periodo sillano è la trasformazione del tempio di Giove in Capitolium mentre in età imperiale abbiamo la pavimentazione in travertino e il lato est è dedicato al culto imperiale con l’edificazione del palazzo di Eumachia, zona commerciale delle stoffe di lana. Inoltre vi è il tempio di Vespasiano ed il tempio di Augusto. All’ingresso del Foro da via Marina incontriamo i propilei costituiti da due colonne di tufo, nello spazio del foro sono dislocate le basi per le statue che adornavano la piazza tra queste si ricorda la statua di Sallustio che era stato magistrato quinquennale insignito con il titolo di patronus. Il tempio di Giove in età sannitica diventa Capitolium in epoca romana ed è caratterizzato da varie fasi di costruzione e ristrutturazione, situato nella parte nord del Foro, di tipo italico, presenta un alto podio, lungo 37 mt. e largo 17 mt., realizzato con inserti in lava e tufo, decorato con semicolonne e vuoto al suo interno, con ingresso lungo il lato est. Questa zona è divisa in tre navate, con volta a botte e le mura in opera incerta; i vani, tre per la precisione, chiamati favissa, venivano utilizzati o come depositi, probabilmente dai sacerdoti, o come custodia per il tesoro della città. La gradinata che introduce al tempio ha una forma particolare: si tratta in realtà di due fila di scale, che entrambe convergono su di un pianerottolo e da qui una scala più ampia conduce all'altare. Ai lati di queste gradinata erano poste due statue equestri, come riprodotto in un affresco della casa di Lucio Cecilio Giocondo. La decorazione era simile a quella del Capitolium romano, nella seconda fase intorno all’80 a.C. fu modificato per ospitare la triade capitolina e all’ingresso della scalinata venivano praticati riti sacrificali come testimoniano i canaletti di scolo laterali. La Basilica fu edificata nel II secolo a. C. come testimoniano le due tegole recanti la data di costruzione, il nome dal greco basileus indica un edificio civile adibito ad attività giuridiche e commerciali. La sua particolarità è l’ingresso tradizionale secondo le descrizioni di Vitruvio, su come si costruivano gli edifici, le colonne interne sorreggevano un tetto aggettante e sono eseguite in opus reticulatum e a forma di stella. Il tempio di Apollo si trova usciti lateralmente alla Basilica, costruito nel VI secolo a.C. di cui rimane traccia in un angolo del tempio che venne ricostruito nel II secolo a. C. e ristrutturato nel periodo augusteo quando venne aggiunta la meridiana. Tempio su alto podio con gradinata di accesso e peristasi con all’interno la cella con la statua. La mensa ponderaria è un ambiente molto piccolo che serviva per tarare le misure di peso utilizzate, una sorta di pesa pubblica. Fu creata dalla municipalità per impedire gli arbitri dei commercianti. Nel grosso lastrone di calcare vi sono 9 cavità circolari, ciascuna corrispondente ad una misura. Un foro sul fondo consentiva la fuoriuscita della merce pesata. La mensa è anteriore alla fondazione della colonia e, poiché le misure osche non corrispondevano a quelle romane, nel 20 a. C. una commissione conformò le cavità alle nuove unità di misura. Il foro Olitorium detto anche il Granaio era il mercato dei cereali. L’edificio presenta nella facciata otto aperture. I muri interni non hanno traccia di decorazione, segno che non era stato ancora completato nel 79 d. C.
Il Macellum la pianta è simile a quella dei mercati traianei in Roma. L’ingresso è doppio con due colonne, abbiamo un quadriportico con colonne in tufo e la caratteristica è la tholos un edificio circolare; sul lato sud si aprivano le botteghe dove sono state rinvenuti i resti di ossa provenienti dalla macellazione della carne. Nella zona ad est il tempio di Vespasiano, l’edificio di Augusto e l’edificio di Eumachia che inizialmente fu ritenuto un collegio per i fullones, ma è provato essere un edificio per il culto dell’imperatore. Eumachia era una sacerdotessa di Venere a cui i fullones dedicarono una statua.
Fig 2 Pianta degli itinerari
Un ulteriore itinerario parte da piazza Esedra l’ingresso da porta Marina inferiore, il quartiere dei teatri era formato dal quadriportico, il teatro grande e il teatro piccolo adibito al canto. Il quadriportico era il fourier del teatro detto anche porticus post scenam del II secolo a. C. è costituito da 74 colonne di tufo stuccate nella parte inferiore con prevalenza di colore rosso, ed era la zona del disimpegno tra un’ intervallo e l’altro durante gli spettacoli, nel 62 d. C. dopo il terremoto il quadriportico venne utilizzato come caserma e vengono aggiunte delle stanzette sia ad est che ad ovest in alcune di esse sono trovate affreschi di gladiatori, inoltre vesti ed elmi da parata.
Il teatro grande fu costruito nel II secolo a. C. ma l’aspetto attuale è frutto della ristrutturazione in età augustea dopo il terremoto del 62 d. C. L’architetto era un certo Marcus Artorius su committenza della famiglia degli Olconi cui vengono dedicate alcune statue su via dell’Abbondanza e nel teatro gli viene dedicato il bisellium cioè le panche in prima fila.
Giuseppe Fiorelli (Napoli, 8 giugno 1823 – Napoli, 28 gennaio 1896) è stato un archeologo e numismatico italiano del XIX secolo. Il 5 febbraio del 1863 mentre si sgombrava un vicolo, il Fiorelli, il direttore degli Scavi, venne avvertito dagli operai che avevano incontrato una cavità, in fondo alla quale si scorgevano delle ossa. Ispirato da un tratto di genio, Fiorelli ordinò che si arrestasse il lavoro, fece stemperare del gesso, che venne versato in quella cavità e in altre due vicine.
Dopo aver atteso che il gesso fosse asciutto, venne tolta con precauzione la crosta di pomici e di cenere indurita. Eliminati dunque questi involucri, vennero fuori quattro cadaveri.
Amedeo Maiuri (Veroli, 7 gennaio 1886 – Napoli, 7 aprile 1963) è stato un archeologo italiano
Il teatro era servito da una cripta per smistare la folla e la gradinata poggiava su di essa e su un terrapieno, la gradinata è divisa in ima, media e summa cavea e in cinque cunei. L’orchestra, proscenium cioè la fronte del palcoscenico decorata, la frons scenae. Sotto l’orchestra era collocata una cisterna, collegata ad un’altra più in alto, in coccio pesto per alimentare i giochi di acqua. L’Odeion fu costruito nell’80 a. C. e si eseguivano spettacoli musicali, danza e opere di mimo scritte anche per Silla. Le strutture originarie sono quelle in opus reticulatum miste cosiddette a vela. È caratterizzato da un’acustica perfetta dovuta alla forma delle gradinate e dalla copertura. Abbiamo diverse decorazioni in tufo locale che suddividevano le gradinate e i telamoni per sorreggere vari elementi.
Partendo dall’ingresso dell’anfiteatro, costruito nell’80 a.C. in una zona periferica sia perché era dentro le mura priva di costruzioni, sia perché venne sfruttato il loro sostegno. La zona era facilmente raggiungibile da più punti. Conteneva 20.000 mila spettatori con due ordini di scalinate, all'esterno presenta un ordine inferiore ad archi ciechi, realizzati in opera incerta, mentre l'ordine superiore presenta archi a tutto sesto. L'arena è in terra battuta ed è divisa dalla platea da un parapetto altro circa due metri, che era affrescato con immagini di lotte tra gladiatori. La cavea è divisa in tre zone, destinata ai diversi ceti sociali degli abitanti della città e l'intero complesso disponeva di un velarium che veniva utilizzato per proteggere gli spettatori dal sole o dalla pioggia. L'anfiteatro fu inoltre lo scenario di una violenta rissa tra pompeiani e nocerini, nel 59 d. C., che portò a numerosi feriti ed alla perdita di diverse vite umane. A seguito di questo evento, il senato decise di chiudere l'edificio per dieci anni, ma il provvedimento fu poi annullato dopo il terremoto del 62 d.C. da Nerone. Di fronte all’anfiteatro c’è una palestra, di età imperiale, con quadriportico con una piscina a diversi livelli. Troviamo la casa della nave Europa è una casa di età sannitica e venne poi modificata nella metà del I secolo a. C. Il nome è dato dal graffito sulla parete del portico, è una nave da carico mercantile con l’iscrizione Europa. Inizialmente appartenente a un proprietario terriero in seguito divenne proprietà di un marinaio. La casa include un grande orto e vigneti. Persistono decorazioni di primo stile del II secolo a. C. Il termopolio di Vetutius Placidus è una sorta di ristorante dove venivano consumati i pasti caldi, caratterizzato da un bancone con i dolia incassati all’interno. il tempietto con serpenti agatodemoni che proteggevano dal male: i lari, Mercurio e Dioniso dio del vino. La fullonica è la lavanderia e presenta affreschi in quarto stile del I secolo d.C. e dopo il 62 d.C. fu convertita in lavanderia usata per la tintura la sgrassatura ed il lavaggio in una vasca centrale che sostituì il compluvium dell’abitazione originaria. Gli ambienti erano coperti da un terrazzo su cui venivano stesi i panni lavati. Altre tre vasche comunicanti e cinque cosiddetti bacini pestatoi si trovavano nel peristilio. Nella stessa area si trova la cucina per gli schiavi che lavoravano nella fullonica e una latrina. Il lavaggio avveniva in varie fasi. Prima si pestavano i tessuti con i piedi nei bacini pestatoi in acqua mista a soda o ad urina (umana o animale) per smacchiarli. Poi venivano ammorbiditi con argilla o terra, battuti con l'ausilio della pressa per ricondensarne la trama e infine risciacquati in acqua per eliminare le sostanze fulloniche.
Villa dei misteri fu costruita nel II secolo a. C. ed ebbe il periodo di massimo splendore durante l'età augustea. Nel corso del suo sviluppo fu notevolmente ampliata ed abbellita. Si trattava originariamente di una villa d'otium dotata di ampie sale e giardini pensili, in una posizione panoramica, a pochi passi dal mare, ma in seguito al terremoto del 62 d. C. cadde in rovina, così come il resto della città, e fu trasformata in villa rustica con l'aggiunta di diversi ambienti ed attrezzi agricoli come torchi per la spremitura dell'uva. La costruzione fu infatti adibita alla produzione e alla vendita del vino. Della villa non si conosce il proprietario, ma solo il nome del custode che l'ha abitata durante l'età augustea, Lucio Istacidio Zosimo, come testimoniato da un sigillo. Venne detta anche villa Item dal nome del proprietario del terreno che iniziò lo scavo a proprie spese fino all’esproprio del 1929 per condurre gli scavi in maniera sistematica. Durante lo scavo non furono trovate suppellettili segno che probabilmente era in ristrutturazione nel 79 d. C. Uno dei proprietari era della famiglia degli Stacidi molto influente nel periodo augusteo. L'ingresso principale, in parte ancora da scavare, si trova lungo una via secondaria che forse si collegava alla via delle Tombe. Nella zona dell'ingresso è posto il quartiere rustico e servile con diversi ambienti adibiti a panificio, cucine, forno, torchio con il tronco a testa d'ariete e cella per i vini. Superato un piccolo ingresso, quattro stanze che rappresentano il cuore della zona signorile, si tratta del peristilio a sedici colonne, costruito tra il 90 e il 70 a. C.. L'atrio maggiore, senza colonne e decorato con paesaggi nilotici, il tablino ed una veranda absidata con vista mare, creata nel I secolo, da cui oggi si entra. Ai lati di queste stanze si sviluppano vari altri ambienti, come cubicola, che nel corso dei lavori di ampliamento della villa hanno perso la decorazione in secondo stile per passare a quella in terzo stile, il triclinio del grande fregio ed il quartiere termale, dismesso dopo il terremoto del 62 e utilizzato come deposito e come scala per l'accesso al piano superiore, il quale affacciava sul peristilio e accoglieva le stanze utilizzate dalla servitù. Noto è il salone degli affreschi del triclinio, raffiguranti riti misterici, ben conservati, da cui la struttura prende il nome. Si tratta di una raffigurazione del I secolo a. C., opera di un artista anonimo del luogo, che ha lavorato su tutte le pareti dell'ambiente, dipingendo personaggi a grandezza naturale, con una tecnica chiamata megalographia, ispirata fortemente alla pittura greca. Ancora incerto è il soggetto e il significato dell'affresco: si tratta di una serie di sequenze, dieci per l'esattezza, che potrebbero raffigurare uno spettacolo di mimi o i preparativi per un matrimonio oppure momenti di un rito.
Il Santuario di Pompei della Beata Vergine
La storia del Santuario è legata a quella del Beato Bartolo Longo, suo fondatore e della contessa Marianna de Fusco (moglie del defunto conte Albenzio de Fusco), con la quale condivise una vita al servizio dei più bisognosi. La scelta di Longo fu dettata dalla volontà del beato di dedicare la sua vita alla chiesa dopo un lungo periodo di anticlericalismo e per sua volontà l’opera della costruzione fu affidata a Papa Leone XIII ed è per questo che il Santuario a tutt’oggi è territorio ecclesiastico alle dirette dipendenze della Santa Sede. Il Santuario è stato eretto con le offerte spontanee dei fedeli di ogni parte del mondo. La sua costruzione ebbe inizio l’8 maggio 1876, con la raccolta delle offerte. Primo a seguirne i lavori fu Antonio Cua, che diresse gratuitamente la costruzione della parte rustica. Giovanni Rispoli in seguito si occupò della decorazione e della monumentale facciata inaugurata nel 1901. Il Santuario fu eretto in Basilica Pontificia Maggiore da papa Leone XIII il 4 maggio 1901. A croce latina, inizialmente aveva una sola navata, con abside, cupola, quattro cappelle laterali e due cappelle nella crociera. Ai due lati del santuario vi erano altre due cappelle con ingressi distinti, ma intercomunicanti con la navata centrale. Nel 1925 venne costruito il campanile e tra il ’34 e il ’38 vennero aggiunte le due navate laterali. Bartolo Longo, nel suo intento di propagandare la pratica del Rosario tra i Pompeiani, si recò a Napoli per comprare un dipinto della Madonna del Rosario. L’idea era quella di acquistarne uno già visto in un negozio, ma per puro caso infatti incontrò in Via Toledo Padre Radente (suo confessore) che allo scopo gli suggerì di andare al Conservatorio del Rosario di Portamedina e di chiedere a Suor Maria Concetta De Litala un vecchio dipinto del Rosario che egli stesso le aveva affidato dieci anni prima. Bartolo seguì tale suggerimento, ma fu presto preso da sgomento quando la suora gli mostrò il dipinto: una tela corrosa dalle tarme e logorata dal tempo, mancante di pezzi di colore, con la Madonna in atteggiamento antistorico, cioè con la Vergine che porge la corona a Santa Rosa, anziché a Santa Caterina Da Siena, come nella tradizione domenicana. Bartolo titubante ritirò comunque il dono per l’insistenza della Suora. Nel tardo pomeriggio del 13 novembre 1875, l’immagine della Madonna giunse così a Pompei, su un carretto adibito al trasporto di letame. Furono tutti d’accordo che il dipinto non si potesse esporre per timore di interdetto, prima di un restauro anche solo parziale. Il primo restauro fu opera di Guglielmo Galella, un pittore riproduttore delle immagini dipinte negli Scavi dell'antica Pompei, il secondo restauro qualche anno dopo venne effettuato dal Maldarelli che sostituì Santa Rosa con Santa Caterina; l’ultimo restauro fu effettuato nel 1965, al Pontificio Istituto dei Padri Benedettini Olivetani di Roma durante il quale, sotto i colori sovrapposti nei precedenti interventi, furono scoperti i colori originali che svelarono la mano di un valente artista della scuola di Luca Giordano del XVII secolo. Il quadro inizialmente venne esposto nella chiesa del S.S. Salvatore e già iniziavano le donazione i lasciti ma soprattutto pietre preziose che adornavano il dipinto tra cui diamanti e quattro smeraldi di particolare valore, queste pietre vennero rimosse nell’ultimo restauro onde evitare che lo danneggiassero. Il 16 ottobre 2002, il dipinto è tornato a piazza San Pietro, per esplicita richiesta del Papa Giovanni Paolo II che, accanto alla “bella immagine venerata a Pompei”, ha firmato la Lettera Apostolica Rosarium Virginis Mariae. All’interno si può ammirare l’organo a canne che inizialmente ordinato da Bartolo Longo a Pacifico Inzoli lo strumento venne collocato sopra la cantoria in controfacciata e la sua inaugurazione fu l'8 maggio 1890. L'organo era a tre tastiere con pedaliera, ma dopo la seconda guerra mondiale, Vincenzo Mascioni, della famosa fabbrica, ricostruì l'organo su progetto di Fernando Germani; il nuovo strumento venne realizzato nel 1949 e inaugurato nel 1952. A causa di una scarsa manutenzione,attualmente, l'organo Mascioni è stato sostituito nell'accompagnamento delle liturgie da un organo elettronico.
Penisola Sorrentina
Capitolo XVII
La penisola sorrentina è situata tra il golfo di Napoli e il golfo di Salerno e rientra nella provincia di Napoli. È ricca di zone famose per le loro bellezze storiche e naturali. Tutte le località della penisola hanno una antica e consolidata vocazione turistica e sono conosciute in tutto il mondo. Il territorio è completamente attraversato dalla catena montuosa dei Monti Lattari, che digradando verso il mare terminano con la località di Punta Campanella. Di fronte alla stessa a poche miglia marine c'è l'isola di Capri, che un tempo era attaccata alla penisola sorrentina. La città più famosa che dà il nome alla penisola è Sorrento. Secondo alcuni il toponimo "Sorrento" deriva dal latino Surrentum, ben documentato in epoca classica (anche da fonti greche) potrebbe essere un derivato della forma greca Syrrentón, dal verbo syrréo, "confluisco", in riferimento alle acque che scendono dalle strette valli nelle vicinanze, quindi "confluenza delle acque". Un'etimologia popolare vuole che derivi dalla denominazione “Sirenide” forse anticamente data alla zona, collegata alla supposta identificazione di Sorrento con il luogo di presenza delle Sirene, leggendarie creature che la tradizione omerica ci ha tramandato come metà donne e metà uccello, che ammaliavano i naviganti con i loro canti facendoli naufragare contro le scogliere. La fondazione della città è tradizionalmente e leggendariamente attribuita ai greci, ma Sorrento ebbe come primi abitanti stanziali i popoli italici, dagli Etruschi e poi, dal 420 a. C., vi fu importante l'influsso degli Osci. In età romana è ricordata per aver partecipato all'insurrezione degli Italici (90 a. C.) vi fu quindi dedotta da Silla una colonia a cui seguì più tardi uno stanziamento di veterani di Ottaviano. Fu poi municipio della tribù Menenia. Sorrento fu sede vescovile almeno dal 420 e durante la crisi del dominio bizantino in Italia, acquistò autonomia come ducato, prima sotto la supremazia dei duchi di Napoli, poi con arconti e duchi propri, sempre in lotta con Amalfi, Salerno ed i Saraceni. Il Ducato di Sorrento costituito nell'VII secolo sotto la giurisdizione del Ducato di Napoli si rese indipendente nel IX secolo. Il suo territorio comprendeva la zona della penisola HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Penisola_sorrentina"sorrentina compresa tra Positano e Stabia. Poco dopo l'acquisizione dell'indipendenza, dovette nell'839 far fronte all'assedio del principe di Benevento Sicardo, a cui riuscì a resistere grazie all'appoggio dei napoletani. Per la sua posizione non poteva che entrare in conflitto con la repubblica marinara di Amalfi, che affrontò e vinse in battaglia navale nell'890, causando la fine del potere politico del conte Marino di Amalfi, che guidava la flotta. Dovette peraltro allearsi con la rivale nelle numerose leghe delle città campane contro i temuti saraceni, che sconfisse nelle battaglie di Licosa e Ostia. Nel 1040 il potere fu preso dal principe di Salerno GuaimarioHYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Guaimario_IV_di_Salerno" IV, che affidò la città al fratello Guido di Sorrento. Nel 1072 il ducato passò al duca di Napoli Sergio V, per poi finire nelle mani di GisulfoHYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Gisulfo_II_di_Salerno" II di Salerno. Quando questi fu sconfitto dal normanno Roberto il HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Roberto_il_Guiscardo"Guiscardo nel 1077, Salerno cadde e con essa anche Sorrento che entrarono nell'orbita normanna. L'indipendenza sarà definitivamente persa nel 1137, quando il ducato sarà inglobato nel Regno di Sicilia. Nel 1558 la città fu presa e saccheggiata dai Turchi. Nell'inverno del 1648 Sorrento sostenne valorosamente l'assedio di Giovanni Grillo, generale del duca di Guisa. Archeologicamente si attesta che dal I sec. a. C. Sorrento assiste al sorgere in tutti i punti più panoramici della costa di ville romane costruite dalla élite romana che la aveva eletta come luogo di villeggiatura prediletto. Le ville marittime costruite in Penisola vennero costruite per celebrare gli “otia” degli uomini politici romani che, durante le pause dalla vita politica, si dedicavano alla soddisfazione di vari piaceri o alla coltivazione dei propri interessi culturali. L’imponenza e il lusso di queste dimore aristocratiche sorrentine è documentata da alcuni ritrovamenti degni della capitale, avvenuti per la maggior parte nei punti più belli della costa.
Fig 1 Ricostruzione della villa di Pollio Felice
La Villa di Pollio Felice è un esempio di villa di cui sono rimasti alcuni ruderi. Essa si trova seguendo la costa da Massa Lubrense verso Sorrento. Pollio Felice, illustre esponente di una nobile famiglia di Pozzuoli. La ricostruzione di questo complesso è stata ricavata dalle informazioni contenute in due carmi che il poeta Stazio. Probabilmente l’edificio era dotato di uno splendido portico, costituito da colonne monolitiche in marmo e si articolava su due piani, con camere orientate sia verso terra sia verso il mare. Si può ammirare un plastico che ricostruisce la villa, nella seconda sala del museo archeologico Georges Vallet. Altri resti di Ville romane si possono ritrovare a Sorrento, presso l’attuale Hotel Syrene, dove sorgeva la villa di Agrippa Postumo, di cui rimangono solo i ruderi delle peschiere e poi la villa che si trovava presso l’attuale Hotel Corallo a Sant’Agnello, di cui rimangono le vasche e i ninfei. Il centro storico mostra ancora il tracciato ortogonale delle strade di origine romana, mentre verso monte è circondato dalle mura cinquecentesche. Vi si trovano il Duomo, riedificato nel XV secolo con facciata neogotica e la Chiesa di San Francesco d'Assisi, con un notevole chiostrino trecentesco, con portico arabeggiante ad archi che s'intrecciano su pilastri ortogonali. Nel "museo Correale" sono esposte collezioni di reperti greci e romani e di porcellane di HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Porcellana_di_Capodimonte"Capodimonte, con una sezione di pittura del XVII-XIX secolo, dal parco si gode inoltre una magnifica vista sul golfo. Osservando le antiche mappe della città si notano gli antichi valloni naturali che la delimitavano, l’estensione delle mura e soprattutto l’impianto ippodameo. Queste caratteristiche sono andate perse in seguito ai lavori del 1866 dove ci sono state molte colmate dei valloni, è stato smontato il castello e demolite molte delle porte che davano accesso alla città. Infatti, compiuta nel 1840 la nuova strada (attuale SS. 145) che gira intorno a Scutolo sostituendo la storica mulattiera Seiano-Meta. Nel 1866, con la realizzazione di via Duomo (attuale Corso Italia) e via De Maio alla Marina Piccola, si dava avvio ad una fase di modifica e di alterazione profonda del vecchio impianto (vedere la carta del Cangiano del 1855, unica descrizione planimetrica della città prima delle trasformazioni ottocentesche). Via Duomo costituiva infatti la prosecuzione della strada Nazionale nel centro cittadino, che veniva sventrato determinando un ampio processo di urbanizzazione e la conseguente eliminazione delle aree verdi e dei giardini del centro con una modifica della struttura urbana. La città sembra oggi essere sorta e sviluppata attorno a questa strada, perdendo quindi buona parte dell'immagine di "compatto e chiuso aggregato urbano", ricco del rigoroso equilibrio delle insulae. La prima cattedrale di Sorrento era ubicata nella zona dell'attuale cimitero e fu spostata all'interno della cinta muraria, nella chiesa dei Santi Felice e HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_dei_Santi_Felice_e_Baccolo"Baccolo, durante il X secolo, in attesa della costruzione di una nuova, la quale fu terminata intorno all'XI secolo e consacrata dal cardinale Riccardo de Albano, il 16 marzo 1113, alla Vergine Assunta e ai santi apostoli Filippo e Giacomo. Durante il corso degli anni subì notevoli ampliamenti come quelli voluti dal vescovo Domizio Falangola, nel 1450 e dal cardinale Francesco Remolines, nel 1505. Dopo l'invasione dei Turchi nel 1558, fu totalmente ricostruita nel 1573, per volere del vescovo Giulio Pavese ed assunse l'aspetto attuale, in stile barocco, a seguito dei lavori di inizio Settecento, portati avanti dai vescovi Didaco Petra e Filippo Anastasio. Unico cambiamento degno di rilievo è la facciata, completamente rifatta nel 1924, in stile neogotico, a seguito di una violenta tromba d'aria che danneggiò l'intera struttura. Nel 1936 tutte le opere pittoriche presenti all'interno della chiesa furono sottoposte a restauro. La chiesa, costruita sui resti di un antico tempio greco, si affaccia sulla piazza del vescovado. Suddivisa in due da una trabeazione, la parte inferiore presenta tre ingressi, ossia quello centrale, il principale, risalente al XVI secolo, caratterizzato da due colonne in marmo rosa, provenienti da antichi templi pagani, sulle quali posa un arco ogivale, che funge da tettoia e due laterali, più piccoli. Sugli ingressi, tre lunette affrescate: in quella centrale la Vergine Assunta, mentre in quelle laterali i Santi Filippo e Giacomo. L'interno è a forma di croce latina, con tre navate, separate da quattordici pilastri e soffitto piano, decorato con tele in stile barocco, raffiguranti i martiri sorrentini del II secolo, realizzate da Francesco Francareccio ed Oronzo e Nicola Malinconico. Degna di nota è la cattedra episcopale realizzata con marmi sia di epoca romana che cinquecenteschi ed il pulpito, del XVI secolo, poggiante su colonne angolari in marmo che culminano con capitelli dorici, decorato con un bassorilievo, effigiante il battesimo di Gesù. Al di sotto del pulpito è un altare con una tavola di Salvatore Buono del 1573, che raffigura la Madonna con il bambino e i santi Giovanni Battista ed Evangelista ed ancora una lastra marmorea scolpita con la figura di una leonessa, utilizzata come lapide sepolcrale e risalente al X secolo e quattordici composizioni in legno, riproducenti la Via Crucis, intarsiate da Giovanni Paturzo. La data di costruzione della basilica di Sant’Antonino risale al XI secolo, sullo stesso luogo dove in precedenza esisteva un oratorio dedicato a Sant'Antonino, risalente al IX secolo ed in parte inglobato nella nuova costruzione. La scelta di tale luogo fu dettata dal fatto che in quella zona erano poste le spoglie del santo, nei pressi delle mura cittadine ed alla confluenza delle tre principali strade. Per la realizzazione vennero utilizzati numerosi pezzi di marmo provenienti sia da templi pagani che da ville d'HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Villa_romana"otium di epoca romana che sorgevano lungo la costa. Nel 1608 la chiesa passò ai Padri Teatini i quali furono i promotori di importanti lavori di restauro, secondo i criteri dettati dalla controriforma, e facendo assumere alla basilica un'impronta fortemente barocca. Nel 1668 venne rifatta la facciata con il campanile, mentre nel corso del XVIII secolo furono aggiunti fregi e stucchi. Nel 1866, con la soppressione dei monasteri, i frati dovettero lasciare la chiesa che venne affidata nuovamente ad un rettore. Importanti lavori di ristrutturazione si ebbero a seguito del terremoto del 1980, mentre altri interventi di restauro sono stati compiuti tra il 2010 ed il 2011. La facciata della basilica è in stile romanico, in tufo grigio, divisa in due da una trabeazione, mentre delle lesene, la dividono verticalmente in tre parti. Nella zona inferiore al centro è un arco che funge da ingresso, mentre nella zona superiore si aprono tre grossi finestroni a volta, quello centrale di maggiori dimensioni, rispetto ai due laterali, più piccoli. Sul lato sinistro, incassato nella facciata, è il campanile, con la cella campanaria illuminata da quattro monofore. Si possono anche osservare le ossa di una balena, la quale, secondo una leggenda, aveva ingoiato un bambino, salvato poi per intervento di Sant'Antonino. Internamente la basilica è a croce latina e divisa in tre navate, una centrale e due laterali, tramite sei archi, sostenuti da altrettante colonne in granito, in larga parte provenienti da costruzioni di epoca romana. Nella navata centrale, nello spazio tra due archi, sono posti degli ovali, all'interno dei quali sono affrescati scene della vita di sant'Antonino. La cripta, chiamata volgarmente Succorpo, si trova in un'area sottostante la chiesa ed ha accesso tramite due scalinate in marmo poste alla fine delle due navate laterali, con balaustre scolpite nel 1753 e decorazioni alle pareti in stucco del 1778 che hanno coperto gli affreschi del 1699, opera di Pietro Anton Squilles. La cripta è sostenuta da quattro colonne, realizzate con marmo recuperato da antichi templi pagani, che sorreggono quattro archi piccoli nella zona dell'altare e quattro più grandi che vanno verso l'esterno. Racchiuso in una balaustra è l'altare con la statua e le spoglie del santo ed una lampada ad olio in argento, perennemente accesa, ed accarezzata dai fedeli in segno di devozione, in quanto, secondo la tradizione, dopo essersi rotto una gamba, sant'Antonino sognò di prendere dell'olio da un'ampolla su suggerimento della Madonna, risvegliandosi, il mattino successivo, guarito. L'organizzazione amministrativa di Sorrento si articolava nel '500 in una ripartizione dell'abitato in due Sedili. Essi erano "edifici in forma quadrangolare con ampi ingressi laterali, nei quali i nobili convenivano per intrattenervici e i delegati di costoro discutevano gli affari pubblici". Il Sedil Dominova è l'unica testimonianza rimasta in tutta la Campania degli antichi sedili nobiliari. E' una costruzione del sec. XVI e la sua fondazione e denominazione derivano dall'iniziativa di alcuni patrizi del più antico Sedile di Porta, situato all'angolo sud-ovest di via S. Cesareo, ancora oggi parzialmente osservabile. Edificato nel XVI Sec. come domus novae (da cui Dominova), per volontà di quei nobili che si erano affrancati da quello preesistente di Porta, a seguito di rivalità e lotte intestine, assunse il patronato della zona occidentale della Città. Questo Sedile ha però perso le originarie forme tardo-medievali. Infatti l'attuale conformazione architettonica rispecchia nel suo insieme una tipologia rinascimentale, con portico quadrangolare e saletta attigua per le riunioni non pubbliche. Le due facciate in piperno a conci lisci presentano due grandi arcate polistili a pieno centro, con arcaici capitelli di tipo bizantino intagliati a decorazione piana. Ai lati dello spigolo, in alto sono visibili due scudi trecenteschi, di cui uno coi gigli angioini attraversato dal rastrello durazzesco e l'altro raffigurante l'impresa civica di Sorrento con le cinque losanghe. Fanno da coronamento un fregio orizzontale di gusto classico ad ovoli e dentelli ed un aggettante cornicione con mensole e rosette. Interventi di manutenzione si susseguirono a partire dalla seconda metà del XVIII sec. In questo periodo furono affrescate le due pareti di fondo della loggia con scenografiche quinte prospettiche, che dilatano illusionisticamente lo spazio, e un maestoso stemma della Città circondato da una teoria di angeli reggi cortina. La piccola sala interna ha raccolto in passato le antiche iscrizioni marmoree che sono state successivamente trasferite al Museo HYPERLINK "http://www.sorrentoholiday.info/italian/museo-correale.htm"Correale. Nello stesso museo è anche conservato un dipinto del Duclére, dove è raffigurato il pittoresco largo del Sedil Dominova con al centro una fontana a forma di pilastro. Oggi la fontana non esiste più, ma è ricordata nel nome "Schizzariello", che ancora si dà comunemente alla piazzetta del Sedile. La Fondazione Correale di Terranova fu istituita nel 1902 grazie ai lasciti testamentari di Alfredo e Pompeo Correale discendenti di una famiglia di Conti Sorrentina. Venne così istituito l’attuale Museo all’interno della “Villa alla Rota” di loro proprietà, con l’ordine di ospitare le loro collezioni di arte pittorica e decorativa. La donazione Correale comprende inoltre un giardino ed un vasto fondo rustico, le cui rendite, per volontà dei Fondatori, devono contribuire al mantenimento dell’Ente. Il museo ha la forma di un rettangolo, che presenta al piano terra, sulla facciata principale orientata a ovest, due corpi sporgenti. Al centro vi sono tre campate arcuate e con pilastri listati. La campata di mezzo inquadra il portale d’ingresso che presenta un arco a tutto sesto e piedritti con bugne lisce. Lo stemma dei Correale è in marmo ed è posto sulla chiave di volta dell’arco. Al piano terra si può visitare la sezione archeologica che propone al visitatore una ricca testimonianza della storia antica di Sorrento. I reperti risalgono all’età imperiale, è presente un’ara scolpita sui quattro lati con episodi commemorativi dell’inaugurazione del tempio di Vesta sul Palatino, su di essa probabilmente c’era una statua dedicata ad Augusto. Nella sala inoltre si possono ammirare reperti provenienti dalle necropoli della Penisola Sorrentina, frammenti di plutei, amboni scolpiti a pegasi, grifoni ed aquile risalenti al IX- XII secolo. Sempre nelle sale del piano terra sono esposti dipinti e arredi. La sezione pittorica propone il ritratto, risalente alla seconda metà del sec. XIX, che raffigura Alfredo Correale, la moglie Angelica De’ Medici ed il conte Pompeo Correale. A destra c’è l’albero genealogico della famiglia e la livrea del casato. Pregevole è anche la sezione degli arredi con cassettoni e comodini napoletani del XVII secolo, intarsiati con strumenti musicali e maniglie in smalto francese, sedie e trumeaux stile Luigi XV. Sono da ammirare le sedie, tavole e pannelli della tarsia sorrentina, dono dello scrittore Silvio Salvatore Gargiulo. Ricca la collezione di orologi francesi ed inglesi del XVII – XIX secolo, vetri di Murano e Boemia, argenti del Settecento. Dal lato sinistro dell’atrio si accede allo scalone d’onore che porta ai piani superiori, disegnato nel corso del ‘700 dal Regio Ingegnere Giovan Battista Nauclerio. I pianerottoli sono abbelliti da balaustre in piperno con motivo di volute. Al primo piano sono due le sezioni che si possono ammirare: la pittorica e quella delle porcellane. La sezione pittorica propone ritratti di gentiluomini e dame nonché paesaggi. Sono di matrice caravaggesca la “Pietà” di A. Vaccaio e Sant’Ignazio. I paesaggi sono di Domenico Gargiulo e “Marina con pescatori” di Salvator Rosa. Nella sezione delle porcellane vi sono porcellane orientali dei secc. XVIII-XIX. All'ingresso del secondo piano, uno splendido arredo da farmacia, lavoro napoletano del Settecento, contiene parte di un servizio di piatti in maiolica di Marsiglia, (seconda metà del secolo XVIII), Manifattura Veuve Perrin. Al secondo piano sono esposti quadri della scuola di Posillipo (Giovan Battista Ruoppolo, Andrea Belvedere, Gaetano Cusati). La scuola era formata da artisti napoletani e stranieri. Questi ultimi, infatti, giunti in Italia sull’onda del Grand Tour dipingevano sul posto dei piccoli quadri che rappresentavano con vivacità di colori ed immediatezza le caratteristiche del paesaggio sorrentino e napoletano. Situato non molto lontano dal centro di Sorrento, a pochi metri da Piazza Sant'Antonino, nelle vicinanze della Villa Comunale in Piazza Francesco Saverio Gargiulo, sorge il complesso del Convento di San Francesco d'Assisi, composto dalla Chiesa ed il Monastero. La chiesa di San Francesco, risalente nel XIV secolo, è realizzata principalmente in stile barocco. La facciata in marmo bianco è stata rifatta nel 1926, mentre il portale d’ingresso principale risale al XV secolo ed è stato realizzato in legno. Inizialmente l'edificio era un antico oratorio fondato proprio da Sant'Antonino, Patrono di Sorrento, che lo dedicò a San Martino di Tours, successivamente (XIV secolo) i frati Francescani costruirono la chiesa in stile barocco, con decorazioni in stucco. All'interno oltre a elementi provenienti principalmente da templi pagani, sono presenti due affreschi del '700 emersi dal restauro del 1926 raffiguranti Sant'Antonio di Padova e San Giacomo, ed una statua legno di San Francesco con il Cristo crocifisso. All'esterno della Chiesa, posizionata dinanzi al portone è presente una statua di bronzo raffigurante San Francesco, realizzata dallo scultore Alfiero Nena. Nel monastero è possibile ammirare il Chiostrino di San Francesco è tra i monumenti più antichi di Sorrento, risalente al ‘300, in esso sono visibili influenze di stili architettonici di epoche dovute ai diversi restauri subiti dall’intero complesso, inoltre vi sono resti provenienti da templi pagani e materiali di altri antichi insediamenti. Il Chiostro ha una forma rettangolare ed è delimitato da colonne ed archi di tufo che formano delle bifore con lunetta. Su un lato del il Chiostro sui capitelli delle colonne impressi gli stemmi delle famiglie di coloro che nelle varie epoche finanziarono i lavori di restauro, mentre dal lato opposto sui capitelli sono impressi motivi vegetali che si rifanno all’influsso dell’arte bizantina. Accanto al Chiostro è situato il refettorio, che conserva la struttura del '300. Il Chiostro è utilizzato per gli appuntamenti musicali dell'estate sorrentina e per esposizioni di opere d'arte.
S. Agnello è un comune che precede Sorrento e tra i monumenti abbiamo l’omonima chiesa, percorrendo la strada verso Sorrento nonostante le sue forme imponenti la chiesa dei Santi Prisco e Agnello quasi non ci si accorge della sua presenza. Invece percorrendo al contrario la statale non passano inosservati l’alto campanile e la facciata barocca, introdotti da una scalinata in pietra vesuviana. Non si conosce con esattezza la data di costruzione della chiesa che in origine era intitolata al solo San Prisco e intorno al XIII-XIV secolo si presentava come una cappella «estaurita», ovvero di fondazione e gestione popolare, dalle ridotte dimensioni. Come si evince da alcune relazioni delle visite pastorali del XVI secolo la parrocchiale di Sant’Agnello, a quell’epoca, mostrava già una pianta a croce latina, con abside e tre cupole. Nel Seicento l’interno della chiesa subisce i primi lavori di risistemazione e la facciata viene dotata di tre ingressi, uno per navata, che sostituiscono l’unica apertura centrale. A quel secolo risale la decorazione del soffitto a cassettoni lignei con tre teloni del pittore napoletano Giuseppe Castellano (c. 1660-1725), seguace del più anziano Francesco di Maria e come lui portavoce di un gusto «classico». Nel periodo 1840-1870 la chiesa assume l’attuale veste neoclassica e scompaiono in buona parte le preesistenze settecentesche, in particolare la ricca ornamentazione in stucco e il pavimento in riggiole patinate a fuoco. Sopravvivono però pregevoli opere sia del Seicento che del Settecento: i dipinti di Giacomo de Castro, allievo di Battistello Caracciolo (Napoli 1578-1635), conservati nelle cappelle laterali (lo Sposalizio della Vergine e l’Annunciazione a sinistra; San Giovanni Evangelista e San Michele a destra); le sculture seicentesche in legno dorato e dipinto dei Santi Prisco e Agnello (in fondo alla navata sinistra); l’altare maggiore in marmi commessi, preceduto da un’elegante balausta che reca incisa la data 1733. Un altro altare degno di nota è quello dell’ultima cappella a destra che si caratterizza per il bel paliotto a motivi floreali, resi con marmi policromi e pietre dure, attribuito alla bottega dello scultore e architetto Dionisio Lazzari (Napoli 1617-1689). Nella stessa cappella è stato sistemato un pavimento in opus sectile di epoca romana (I secolo d.C.) che alterna marmi di forma quadrata e triangolare, proveniente, con ogni probabilità, da una delle ville marittime della costa sorrentina. La cittadina di Piano di Sorrento è dominata dai 643 metri del Monte Vico Alvano, occupa la parte centrale della penisola HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Penisola_sorrentina"sorrentina, confinando con i Comuni di Meta, Vico HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Vico_Equense"Equense e Sant'Agnello; a Nord la costa, costituita da alte falesie di tufo guarda il Golfo di Napoli, mentre a Sud la costa è rocciosa. L'uomo è presente in questo territorio fin dalla preistoria: tre grotte: La Porta, Mezzogiorno ed Erica, scoperte negli anni cinquanta e sessanta nella zona collinare del comune sono ancora lì a testimoniare questo ancestrale connubio. In esse furono ritrovati elementi risalenti al Paleolitico Superiore ed al Mesolitico. Ma di gran lunga più importante è il rinvenimento dei resti di un villaggio e di una necropoli nei pressi della sorgente S. Massimo. Le Genti del HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Cultura_del_Gaudo"Gaudo si insediarono qui nel II millennio a. C.. A partire dal VII secolo a. C. giunsero prima i Greci e poi i Sanniti. Infine, come il resto della Penisola HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Penisola_Sorrentina"Sorrentina, anche la Planities romana fece parte del municipio di Sorrento. La storia di Piano è, da quel momento, indistinguibile da quella di Sorrento, e caratterizzata, se si vuole, da ripetuto, ostinato anelito di rivolta nei confronti della sudditanza sorrentina e tuttavia, a ben vedere, anche d'amore verso il più famoso capoluogo. Una prima insurrezione è da segnalare nel 1218 il Gran Giustiziere Enrico de Morra ebbe il compito da Federico II di Svevia di ascoltare le lamentele di alcuni rappresentanti del Piano. Risale al 1308 una prima richiesta formale dei cittadini del Piano di staccarsi da Sorrento, la risposta non fu positiva. Nel 1491 Piano (che all'epoca comprendeva anche Meta e Sant'Agnello), con i Capitoli di Re Ferrante d'Aragona, ottenne un sindaco e quattro eletti fra i rappresentanti dell'Universitas di Sorrento. Nel 1542, all'epoca del viceré don Pedro di Toledo, gli eletti passarono a cinque, ma soprattutto ottenne 24 consiglieri che ebbero potestà di riunirsi autonomamente come Universitas del Piano presso la Chiesa di San Michele. L'astio con Sorrento era però fortissimo proprio a causa della sempre agognata e mai raggiunta indipendenza. Particolarmente degna di nota, a tal proposito, è la ribellione del 1648, "appendice" della rivolta napoletana del 1647 ad opera di Masaniello. La terribile repressione spagnola piegò i ribelli che chiesero aiuto alla Francia. Il Duca di Guisa, Enrico II Lorena capitanò una spedizione di 30 navi contro gli spagnoli. Ad un avventuriero genovese, Giovanni Grillo, fu affidato il compito di prendere Sorrento: egli fomentò il popolo di Piano e di Massa e strinse d'assedio Sorrento. La rivolta, cominciata verso la fine di gennaio del 1648, si concluse agli inizi di aprile senza espugnare la città. Anzi gli spagnoli soffocarono nel sangue la rivolta. Questa lunga ricerca di autonomia e di libertà si concluse l'8 gennaio 1808, quando con decreto n. 71 di Giuseppe Bonaparte Piano fu proclamato Comune autonomo. Tra i monumenti degni di nota citiamo Villa Fondi De Sangro – Costruita nel 1840 dal Principe di Fondi don Giovanni Andrea De Sangro, con ampio parco a picco sul mare. Distrutta dal terremoto del 1980 è diventata di proprietà comunale e ricostruita quale struttura polifunzionale. L’esterno è in stile neoclassico su due piani e pianta rettangolare, l’interno ospita il museo archeologico territoriale della Penisola HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Museo_archeologico_territoriale_della_Penisola_sorrentina_%E2%80%9CGeorges_Vallet%E2%80%9D&action=edit&redlink=1"sorrentinaHYPERLINK "http://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Museo_archeologico_territoriale_della_Penisola_sorrentina_%E2%80%9CGeorges_Vallet%E2%80%9D&action=edit&redlink=1" “Georges HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Museo_archeologico_territoriale_della_Penisola_sorrentina_%E2%80%9CGeorges_Vallet%E2%80%9D&action=edit&redlink=1"ValletHYPERLINK "http://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Museo_archeologico_territoriale_della_Penisola_sorrentina_%E2%80%9CGeorges_Vallet%E2%80%9D&action=edit&redlink=1"”. Il Parco è un tipico giardino della metà dell'Ottocento, in parte giardino “informale“, in parte giardino di “acclimatazione”. All'inizio dei lavori di restauro fu effettuata una ricerca sulle essenze arboree del giardino: ne risultarono ben duecentocinquanta: circa cento le piante di olivo, varie specie di palme, molte cactacee, totale assenza di agrumi così tipici, invece, di questa zona. La Basilica di San Michele Arcangelo rappresenta il luogo intorno al quale, nel tempo, si è sviluppato il borgo di Carotto ed è un vero concentrato di opere d’arte e tesori artistici. Costruita inizialmente intorno al IX secolo (in una visita pastorale la si definisce antecedente al vescovo Leopardo, 913-917) su di un tempio pagano (come si evince da un documento dell’archivio parrocchiale del XV sec. che la definisce chiesa spaurita capitolare), secondo alcuni dedicato a Minerva, secondo altri comunque adibito a necropoli. Nel 1886, durante il rifacimento della pavimentazione, fu rinvenuta un’urna funeraria romana di incerta datazione (probabilmente di età imperiale) con la scritta “diis manibus C.Volussi Isochrysi” (Agli Dei, per mano di Caio Volussio Isocriso) ed un bassorilievo con Gesù crocifisso e due figure ai piedi di epoca bizantina. Il nucleo originario della chiesa dovette corrispondere alla superficie occupata dall’attuale abside, dal campanile e dalla cappella Cota-Cafiero con apertura sul lato corto ad est e campanile a destra. La chiesa è stata nei secoli più volte ristrutturata. Anticamente era praticamente attigua alla vicina chiesetta di S. Maria della Neve ed a quella di S. Maria di Monserrato (poi divenute nel tempo S. Maria della Misericordia e SS Annunziata). Nel 1405 fu praticamente riedificata dopo che la chiesa del IX secolo era andata distrutta. Risalgono al 1422 ed al 1451, atti notarili che la menzionano. Nel 1688 un terremoto fece crollare il campanile, la cupola maggiore sulla crociera, parte delle navate e della facciata esterna e dunque altri lavori di ricostruzione e restauro furono completati nel 1726, anno in cui la chiesa fu riconsacrata dall’Arcivescovo di Sorrento Ludovico Agnello Anastasio. Ad essa è annessa una antica struttura conventuale che conserva una cappella ed il pavimento in cotto maiolicato dei primi dell’Ottocento. Proprio nel 1726 i fedeli di Carotto deliberarono in Parlamento di elevare la parrocchia a Collegiata, con sette canonici. Nel 1914 la chiesa fu elevata a basilica pontificia da papa Benedetto XV. Meta di Sorrento il nome deriva probabilmente dalla sua posizione geografica: il paese sorge infatti al termine della Penisola Sorrentina; per di più dove attualmente si trova la Basilica della Madonna del Lauro, vi era nell'antichità la pietra miliare terminale della Penisola. Si fa risalire la fondazione di Meta all'incirca al VII secolo d. C. Nel IX secolo i metesi avevano un'ottima Marina Mercantile e frequentavano i porti dell'Oriente, compresi quelli della Palestina. Si può quindi pensare che fossero devoti alla Madonna del Taborre, la cui statua poi fu trasportata a Meta. In seguito ad un'apparizione divina fra rami di alloro, la Santa prese il nome di Madonna del Lauro. La tradizione paesana colloca l'apparizione della Madonna proprio nel luogo dove oggi sorge la Basilica a lei dedicata. Sotto la dominazione aragonese, re Ferdinando emanò nel 1491 un decreto detto "capitolo", in cui si stabiliva che Sorrento doveva amministrare la città entro le sue mura ed il territorio che comprendeva i due paesi confinanti: Piano e Meta. Da questo si deduce che solo da quella data i Metesi ebbero un'effettiva rappresentazione nel governo sorrentino. In epoca medievale Meta e Piano di Sorrento erano riunite in un unico comune e mal sopportavano la presenza della nobiltà sorrentina che non solo li gravava di tributi, ma li opprimeva anche politicamente, quasi negando loro la partecipazione al Parlamento ed imponendo le sue leggi ed ordinanze comunali. Durante la grande invasione saracena del 1541, Meta conobbe unitamente a Sorrento e Massa, assedi, eccidi ed incendi, ma valorosamente affrontò le navi dei nemici che cedettero solo dopo una estenuante battaglia. Nel 1656 la peste colpì Napoli e si diffuse anche a Meta dove fece moltissime vittime. A questo periodo risale il cantiere navale Alimuri la cui costruzione pare risalga al 1650. A partire dal 1734 i Borbone diventano i nuovi sovrani del Regno di Napoli. In seguito alla caduta dei Borbone, Meta entra a far parte del Comune di Sorrento. Nel 1819 Meta era diventata autonoma; tale autonomia durò fino al periodo fascista. Nel 1927 si riunì a Sorrento insieme ai comuni di Piano e di Sant'Agnello, formando un Comune unico, la "Grande Sorrento". Dal 1946 è ritornata ad essere comune indipendente. La Basilica di Santa Maria del Lauro è il luogo di culto più importante di Meta, fu eretto dove una volta sorgeva un tempio dedicato alla Dea Minerva. La tradizione vuole che in questo luogo, intorno al IX secolo, una vecchia contadina abbia trovato accanto ad un cespuglio di lauro una statua aurea della Madonna; ai suoi piedi c'erano anche una chioccia con dodici pulcini. Dopo il ritrovamento la statua fu spostata a Sorrento per ordine del Vescovo; ma il giorno dopo essa ricomparve nuovamente nei pressi dello stesso cespuglio. Tale avvenimento portò così alla costruzione di una chiesa dedicata alla Madonna del Lauro dove si troverebbe tuttora. L'interno della Basilica presenta una pianta a croce latina, costituita da tre navate raccordate da un sistema di colonne sormontate da archi. La struttura è arricchita da un alto campanile in stile barocco. Altro paese importante della costiera è Vico Equense. Le prime testimonianze di vita nell'area del comune risalgono al periodo del VII secolo a.C., grazie a ritrovamenti di corredi funerari facenti parte di una necropoli scoperta negli anni sessanta del XX secolo. La prima citazione scritta riguardante il territorio invece risale al I secolo, quando SilioHYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Silio_Italico" Italico, nel poema Punica, cita un certo guerriero di nome Murrano, proveniente dall'Aequana, un territorio vicino Sorrento. Documenti di epoca medievale confermano poi l'esistenza del borgo di Aequa, nel tratto di costa che oggi viene identificato oggi nella frazione di Seiano. Tuttavia doveva anche esistere un piccolo borgo, a forma di impianto Ippodameo sul pianoro dove sorge l'attuale città, di cui non si conosce il nome e che andò spopolandosi durante il medioevo. A testimonianza di questa ipotesi è un documento del 1213 che indica una località denominata ad Vicum dicitur e della struttura viaria attuale che ricorda quello dell'antico borgo. Con l'arrivo degli Aragonesi e poi degli Angioini, il vecchio paese sul pianoro ritorno a vivere, grazie anche allo spopolamento dell'abitato di Aequa, divenuto oggetto di razzie da parte dei pirati. Vennero cosi costruite mura, al cui interno fu edificata la cattedrale con annesso episcopio e castello. Con il passare degli anni intorno al centro si svilupparono intorno a chiese, piccoli borghi, che costituisco le attuali frazioni. Tuttavia fu nel XIX secolo che si ebbe un totale riassetto dell'urbanistica vennero infatti eliminate le mura e fu aperta la strada che collegava Castellammare di HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Castellammare_di_Stabia"Stabia con Sorrento. In questo periodo iniziò la forte vocazione turistica del paese, soprattutto durante il periodo estivo, sia come luogo balneare che termale, grazie alla presenza del complesso termale dello Scrajo. Da ricordare che tra il 1284 ed 1289, si narra per volere del re Carlo II d'Angiò, ma più probabilmente del feudatario Sparano di Bari, il castello HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Castello_Giusso"Giusso è stato sia utilizzato come struttura militare, ma soprattutto per uso residenziale. Viene così chiamato dal nome dei proprietari Luigi ed il figlio Girolamo HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Girolamo_Giusso"Giusso, che durante il XIX secolo eseguirono numerosi lavori di restauro e abbellimento, come la costruzione di una cappella e la creazione di un ciclo di affreschi all'interno di alcuni saloni. Della sua fisionomia originale rimane ben poco, solo parte della cinta muraria ed una terrazza sul mare. Nel XV secolo furono costruite tre torri, di cui una chiamata Torre Mastra, un ponte e un fossato, nel secolo successivo due torri furono abbattute per far posto al palazzo baronale. Semidistrutto dall'invasione gotica e notevolmente provato da numerose incursioni pirata, fu in parte ricostruito nel 1604. Nel XVII secolo furono eseguiti numerosi lavori di restauro che trasformarono il castello in una residenza signorile. Furono infatti sistemati i giardini, adornati con grotte, giochi d'acqua e piante secolari, furono impreziositi gli interni e furono create alcune sale per ospitare la collezione d'arte, andata poi perduta, di Matteo Di Capua. In seguito, Luigi Giusso, e poi il figlio Girolamo, ristrutturano notevolmente l'edificio, donandogli la caratteristica colorazione rosa salmone ed affrescando i saloni come quello delle Armi e quello dei Ventagli, oltre alla piccola cappella privata, dedicata a Santa Maria della Stella, la quale si trovava sullo stesso luogo in cui sorgeva una chiesa, retta dai monaci benedettini, abbattuta per far posto al castello. All'interno del castello morì il 21 luglio 1788 il giurista napoletano Gaetano HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Gaetano_Filangieri"Filangieri, convinto che l'aria del posto avrebbe giovato alla sua salute cagionevole. La cittadina posta all’inizio della penisola sorrentina è Castellammare di Stabia. Diversi ritrovamenti documentano che la zona era già abitata a partire dall'VIII secolo a. C. data la sua favorevole posizione sul mare, in una zona ricca di acque e con pianure fertili di origine vulcanica. I primi insediamenti si svilupparono in quella che oggi è conosciuta come la collina di Varano, all'epoca uno sperone a picco sul mare poiché la piana dove oggi si sorge l'attuale città era ancora in parte sommersa. La sottile linea costiera esistente era esposta alle incursioni nemiche. Diverse sono state le dominazioni come quella dei Sanniti seguite poi dagli Etruschi e dai Greci, il nome di questo insediamento era Stabiae. Dopo la distruzione di Stabiae ad opera del Vesuvio, alcuni abitanti del luogo scampati all'eruzione, tornarono alle loro vecchie abitazioni, ormai distrutte, per recuperare oggetti e denaro: furono questi che costituirono un villaggio lungo la costa. Questo nuovo villaggio, che viveva soprattutto di pesca ed agricoltura, entrò a far parte del Ducato di Sorrento. Furono proprio i Sorrentini che costruirono un castello sulla collina nei pressi di Pozzano, per difendere il ducato dalle incursioni barbariche. In questo periodo, intorno all'anno 1000, precisamente nel 1086, si ritrova per la prima volta in un documento il nome del villaggio, ossia Castrum ad Mare, molto probabilmente derivante dal fatto che il castello si trovasse a picco sul mare. Il castello medioevale di Castellammare di Stabia si trova lungo la statale sorrentina, nei pressi della salita per il santuario della Madonna della Libera. Fu in seguito riparato da Federico II e ricostruito dagli angioini. Quando perse il suo ruolo difensivo il castello fu rifatto e rinforzato da Alfonso d'Aragona. Fu attivo fino ai secoli della dominazione spagnola, ma nel XVIII cominciò il suo lento declino. Ridotto per lo più ad un rudere venne venduto dallo Stato al marchese Alaponzone di Verona, che attorno agli anni trenta del Novecento lo cedette a Edoardo de Martino. Questi ne iniziò il restauro, completato poi dal figlio. Oggi, abitazione privata, è visitabile solo all'esterno. La struttura ha una grande importanza nella storia di Castellammare di Stabia, poiché è proprio da questo che la città prende il nome. Secondo tradizione, si dice che il mare, in tempi remoti, arrivava fino al castello. In realtà questo aveva una cinta muraria che si originava dal complesso centrale per scendere giù per la collina fino alla zona dove oggi si trova la chiesa di Portosalvo, dove terminava con una torre di avvistamento. In questo punto il mare incontrava il castello e da qui il nome di Castello a mare. La chiesa principale è la concattedraleHYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Concattedrale_di_Maria_Santissima_Assunta" di Maria Santissima Assunta, i cui lavori di costruzione risalgono al 1587, mentre la solenne consacrazione è avvenuta solamente nel 1893, anche se già utilizzata dal 1643. Basilica a forma di croce latina, è divisa in tre navate, una centrale e due laterali sulle quali si aprono cinque cappelle, tra cui quella dedicata al patrono stabiese San HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Catello_di_Castellammare"Catello. Durante la costruzione di questa cappella, nel 1875, vennero ritrovati reperti archeologici e strutture riconducibili a necropoli, strade, case e botteghe risalenti all'epoca romana. Tra le opere principali conservate al suo interno la Deposizione e la Natività dello Spagnoletto, un sarcofago paleocristiano, utilizzato come altare nella cappella di San Catello, una statua di San Michele Arcangelo di epoca medioevale e precedentemente ospitata nel santuario di San Michele al HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Santuario_di_San_Michele_Arcangelo_al_Monte_Faito"Faito, oltre a dipinti di Domenico Morelli, Francesco De Nicola, Angelo HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Angelo_Mozzillo"Mozzillo, Giacinto Diano, Giuseppe Bonito, Nunzio Rossi e Vincenzo Paliotti. Nel periodo natalizio viene allestito il presepe del Duomo con circa 70 pastori dai 90 ai 150 centimetri, risalenti al Seicento, Settecento e 'Ottocento. La data precisa della costruzione della Reggia di HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Reggia_di_Quisisana"Quisisana è ancora tutt'oggi avvolta nel mistero. Sicuramente nel 1268 già esisteva sulla collina di Quisisana la casa di re Carlo I d'Angiò, ma poiché gli Angioini avevano conquistato il Regno di Napoli solo due anni prima è ipotizzabile che possa risalire agli Svevi. In posizione dominante sulla città, la reggia è formata da tre corpi di fabbrica. Il primo, su due livelli, è quello che permette l'accesso alla struttura tramite un ampio portale. Il primo piano era il piano nobile che si affacciava direttamente all'interno del parco. Il secondo corpo è ubicato perpendicolarmente rispetto all'ingresso, sul ciglio della collina, anch'esso su due livelli con l'aggiunta del sottotetto. Infine la terza parte scende lungo il pendio della collina ed è caratterizzato dalla presenza di un portico. All'interno della reggia è presente un giardino all'italiana. Nel corso della sua storia numerose personalità abitarono la reggia da Giuseppe Bonaparte a Gioacchino HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Gioacchino_Murat"Murat ai Borbone anche Carolina Bonaparte, sorella di Napoleone, vi soggiornò a lungo. Con l'unità d'Italia, la tenuta passò tra i Beni Riservati della Corona di Casa Savoia, trasferita poi al demanio dello Stato. Nel 1879 fu acquistata dal comune e dato in concessione lo stesso anno a privati che lo trasformarono in un albergo, chiamato Royal Hotel Quisisana. Alla fine degli anni sessanta, dopo che per brevissimo periodo fu adibito a ospedale, la reggia venne abbandonata. Gravi danni si aggiunsero a quelli causati dall'incuria e da infiltrazioni d'acqua, a seguito del terremoto del 1980, provocando il crollo parziale di alcune mura, solai e scale facendo perdere ornamenti e stucchi. Ridotto ad uno stato di rudere, dopo una serie accurata di studi iniziarono i lavori di restauro che terminarono nel 2008. La reggia verrà in parte utilizzata per la scuola di restauro, in parte adibita a museo per l'esposizione dei reperti provenienti dagli scavi di Stabiae. Da ricordare in Stabia anche la presenza di due ville romane Villa Marco e Villa Arianna.
Ischia e Procida
Capitolo XVIII
L’isola d’Ischia ha una forma approssimativa di un trapezio, è larga 10 km da est a ovest e 7 da nord a sud, ha una linea costiera di 34 km e una superficie di circa 46,3 km². Il rilievo più elevato è rappresentato dal monte Epomeo, alto 788 metri e situato nel centro dell'isola. L'intera isola, altri non è che il picco del Monte Epomeo, ultimo punto del vulcano ancora in superficie. Tra l’attività eruttiva di cui si ha conoscenza ricordiamo quella del 2.200 a. C. anche se precedentemente ci sono state altre di maggiore intensità che hanno dato vita al caratteristico “tufo verde” dell’isola. L’attività vulcanica è stata sempre presente si ricorda l’eruzione dell’89 a. C. nel periodo di Silla ed un’altra nel 1301. La stessa attività ha dato vita anche al fenomeno del bradisismo, infatti oggi troviamo un sito di epoca romana che è sprofondato sotto il livello del mare. I terremoti sono frequenti e ne ricordiamo tre quello del 1265, del 1881 e 1886. L'isola d'Ischia era abitata fin dal Neolitico, come dimostrano i vari reperti ritrovati ad esempio sulle alture di Punta Imperatore, nella frazione di Panza, nella zona S-O dell'isola. Il ritrovamento fortuito di muri a secco, avvenuto nel 1989 a seguito di uno smottamento, in località Punta Chiarito, avvenuto sempre nella frazione di Panza, ha dato l'avvio tra il 1993 ed il 1995 ai lavori di scavo che hanno permesso il ritrovamento di una fattoria greca tenuta da agricoltori benestanti, come dimostra la buona fattura dei vasi che sono stati rinvenuti ed ha permesso di anticipare lo sbarco dei primi coloni greci di circa venti anni rispetto all'originaria ipotesi, cioè intorno al 790, 780 a. C. Nel 474 a. C. l'isola è occupata dal tiranno siracusano Gerone I, nel quadro delle sue campagne espansionistiche. Dal IV secolo a. C., dopo le guerre sannitiche, l'isola passò con Napoli sotto il dominio romano, e divenne centro di attività commerciali e manifatturiere. Oltre al sito di origine greca di Pithecusae (località Mazzola sopra Lacco Ameno), è stato infatti individuato in località Carta Romana, nello specchio d'acqua antistante l'isolotto del Castello Aragonese, un insediamento industriale comprendente una fonderia di piombo e stagno (da cui il nome di Aenaria) e una fabbrica di vasellame, i cui reperti più significativi come lingotti di piombo iscritti, stagno e taluni oggetti ceramici, sono attualmente esposti nella sala VIII del Museo Archeologico di Pithecusae a Lacco Ameno. Il sito, oggi a 5-7 metri sotto il livello del mare, sprofondò per bradisismo verso il 130-150. Nell’isola trovò rifugio Gaio Mario inseguito da Silla. Per punire i napoletani di ciò, Silla sottrasse l'isola al loro dominio assoggettandola direttamente al Senato di Roma. Qualche decennio dopo, tuttavia, Augusto la restituì alla città di Napoli, tenendo per sé la prediletta Capri. Tra il IX e X secolo l’isola è soggetta alle invasioni saracene ed è proprio in questo periodo che viene identificata con il nome odierno di Ischia. Con i Normanni fino al 1130 Ischia segue le sorti di Napoli sotto i Duchi, finché nel 1135, Ruggero il Normanno saccheggia l'isola, nuovamente invasa da Tancredi, il cui figlio Guglielmo III fu vinto da Arrigo il Severo. Nel 1194 genovesi e pisani invadono l'isola e, occupato il Castello Aragonese (presente sull'isola dal 474 a. C.), consegnano l'isola ad Arrigo VI. Gli Svevi prendono il governo dell'isola nel 1214. In seguito gli Angioini con Carlo I inizia l'opera di fortificazione del Castello Aragonese e la sua dinastia procede al riordino delle vecchie strutture del governo dell'isola. Nel 1282, però, accesa la scintilla in Sicilia da Giovanni da Procida, gli isolani cacciano gli Angioini e acclamano re Pietro III d'Aragona, marito di Costanza di Hohenstaufen, l'unica figlia di Manfredi, sfuggita a Carlo d'Angiò che per punire l'isola, la invade nuovamente. Alla morte di Carlo I d'Angiò, l'isola passa nelle mani del nipote Carlo Martello, in attesa del legittimo erede Carlo lo Zoppo. Il 22 giugno 1287, Ischia passa sotto il governo di Carlo II d'Angiò detto lo Zoppo, che grava di un pesante dazio il vino uscente dall'isola. Gli Aragonesi con Alfonso V di Aragona che approda a Ischia nel 1423, su invito di Michele Cossa, cittadino d'Ischia e IV signore di Procida e occupato il Castello Aragonese, lo ristruttura e vi si stabilisce in attesa di poter conquistare anche Napoli. Nel 1441, partendo da Ischia, assedia Napoli dove può trionfalmente entrare il 26 febbraio del 1443. Per ricompensare gli isolani dell'appoggio fornito, il sovrano concede ampi favori all'isola. Lui è innamorato dell'isola, ne affida il governo alla sua favorita Lucrezia d'Alagno. Dietro alterne vicende il figlio Ferrante perde l’isola e poi la riconquista e quando nel 1494, muore. Il figlio Alfonso II si prepara a fermare Carlo VIII che di lì a poco incombe sull'Italia. Abdica perciò a favore del figlio Ferrante II (o Ferdinando II).
I comuni dell’isola
Ischia porto da distinguersi da Ischia Ponte che è il borgo più antico separato da un iniziale ponte in legno e da una colata lavica visibile fino alla seconda guerra mondiale. Ischia Porto presenta diverse sorgente termali e nel 1735 Onofrio Bonocore sotto i Borbone sfrutta il termalismo della zona a scopo curativo, la sua tenuta diventerà poi la tenuta estiva della famiglia reale. Nel 1876 la casina borbonica venne adattata a stabilimento termale militare mentre oggi è un osservatorio. Qui fu costruita dall’Astarita nel 1780 la chiesa di Santa Maria delle Grazie o San Pietro con pianta ellittica, questo è il luogo dove avvenne l’esecuzione di Pasquale Battistessa facente parte dei rivoluzionari della Repubblica napoletana. Prima di giungere ad Ischia Ponte, si possono notare la Chiesa ed il Convento di Sant'Antonio eretti nel 1740, su primitive costruzioni del 1225 distrutte dalla colata dell'Arso. Custodisce il corpo di San Giovan Giuseppe della Croce. A fianco alla Chiesa si trova oggi la Biblioteca Antoniana. Non lontano è la cattedrale. Fu costruita da Pietro Cossa, duca di Bellante, nel 1390, rinnovata dagli Agostiniani che la tennero dal 1596 al 1613, divenne cattedrale nel 1810. Al suo interno, il fonte battesimale con colonne e statue proviene dalla tomba di Giovanni Cossa nella vicina cattedrale del Castello Aragonese. Dello stesso Castello fu portato nel 1811 un crocefisso ligneo del XIII secolo e il reliquiario del braccio di sant'Andrea con lo stemma dei Cossa. La costruzione del primo castello, oggi noto come castello aragonese, risale al 474 a. C. sotto il nome di Castrum Gironis, ovvero castello di Gerone, in onore del suo fondatore. In quell'anno, infatti, il greco Gerone I detto il tiranno di Siracusa prestò aiuto con la propria flotta ai Cumani nella guerra contro i Tirreni, contribuendo alla loro sconfitta al largo delle acque di Lacco Ameno. Debitori di tale intervento, i Cumani decisero allora di ricompensare l'alleato cedendogli l'intera isola. Secondo altri il termine gironis non indicherebbe Gerone il tiranno ma la forma circolare delle mura che circondano l’isolotto. La fortezza venne poi occupata dai Partenopei, ma nel 315 a. C. i Romani riuscirono a strappar loro il controllo dell'isola e vi fondarono la colonia di Aenaria. Il Castello venne utilizzato come fortino difensivo e vi furono edificate anche alcune abitazioni ed alte torri per sorvegliare il movimento delle navi nemiche. Nel Medio Evo in virtù delle invasioni saracene il castello divenne un vero e proprio castrum difensivo, parallelamente l’eruzione del 1301 spinse gli ischitani che si rifugiarono in questa zona ritenuta più tranquilla. Dall’ottocento in poi il castello venne abbandonato e Ferdinando I nel 1823 lo trasforma in luogo di pena per gli ergastolani fino all’unità d’Italia, solo nel corso del ‘900 il castello fu ristrutturato da privati ed oggi è visitabile nel suo antico splendore. Accanto al castello c’era la cattedrale che si componeva di due piani: la chiesa e la cripta. Al suo fianco è posta la torre campanile e l’ex palazzo vescovile. La chiesa è di epoca medievale, ristrutturata più volte nel corso dei secoli fino alla metà del 1700. La cattedrale è a tre navate, intorno all’altare c’erano sette cappelle di cui sei gentilizie, un tempo ricche di affreschi. La cripta custodisce degli affreschi attribuibili alla scuola di Giotto. Nel 1509, il giorno 27 del mese di dicembre fu celebrato il matrimonio tra la poetessa Vittoria Colonna e Ferrante D’Avalos, marchese di Pescara. Ricca di monumenti furono distrutti nel 1722 dal vescovo Capecelatro e nel 1809 la cattedrale cadde definitivamente sotto le cannonate della flotta inglese. La Chiesa della Immacolata e Convento delle Clarisse della Consolazione fu costruita nella prima metà del 700, fu voluta dalle monache clarisse del convento della consolazione adiacente alla chiesetta. Il convento fu edificato nel 1576 dalla N.D. Beatrice della Quadra, e chiamato della consolazione, perché la fondatrice ormai vedova, cercava consolazione nella preghiera e nel silenzio della clausura. Nei piani interrati del monastero è situato il cimitero, dotato di scanni in pietra con foro centrale, per la raccolta dei resti organici in decomposizione. Le monache vi si recavano ogni giorno per meditare sulla morte. L'esposizione dei resti dei cadaveri fu soppressa negli anni 60 dal vescovo Dino Tomasini. Il Maschio situato nella parte più alta dell'isola, fu costruito dagli Angioin, e rifatto in seguito dagli Aragonesi. Di forma quadrangolare è fornito di quattro torri. Fu occupato da Alfonso I d'Aragona, da Ferdinando II d'Aragona fuggito da Napoli dopo che fu occupata da Carlo VIII, re di Francia nel 1495. Nel 1823 fu adibito a carcere dal governo Borbonico. Nei pressi del Maschio ci sono alcuni locali del castello dove vengono esposti attrezzi e macchine di tortura.
Il comune Casamicciola Terme è noto per la costruzione da parte del Pio Monte della Misericordia del primo stabilimento termale di tipo popolare del 1607. Situato originariamente nei pressi di piazza Bagni, fu ricostruito in riva al mare dopo il terremoto. Questa istituzione caritatevole ha fornito, per molti secoli, i benefici delle cure termali ai poveri napoletani, che vi si potevano curare ricevendo gratuitamente, oltre alle cure termali, vitto e alloggio per un periodo di 15 giorni. La struttura, ricostruita dopo il terremoto del 1883, è stata attiva fino alla fine degli anni sessanta per poi cadere in disuso, restando in uno stato di totale abbandono in cui versa tuttora.
Lacco Ameno, Il nome Lacco secondo la maggior parte degli studiosi deriva dal greco lakkos che significa pietra. Il 18 novembre 1862 il Consiglio comunale, presieduto dal Sindaco Carmine Mennella, chiedeva al re Vittorio Emanuele II l'aggiunta dell'aggettivo "Ameno" al nome Lacco. Il simbolo del comune è la coppa di Nestore e questo fungo formatosi in seguito all’erosione della roccia. Il comune si snoda attorno alla piazza di Santa Restituta con la relativa Basilica, il culto di questa Santa originaria di Cartagine è molto sentito sull’isola. Una tradizione ultramillenaria narra che la barca con il corpo della Santa, guidata dall'angelo, approdò ad Ischia, toccando terra nella località detta ad ripas, oggi San Montano. Viveva in quel luogo una matrona cristiana di nome Lucina. Quest’ultima avvertita in sogno dall'angelo, si recò sulla spiaggia, dove trovò l'imbarcazione arenata e in essa il corpo intatto e splendente di Santa Restituta. Radunata la popolazione, venne data solenne sepoltura alla martire nel luogo detto Eraclius, alle falde dell'attuale Monte Vico in Lacco Ameno. Oggi sorge la Basilica dedicata alla santa dove negli anni ’50 sono stati effettuati degli scavi che hanno portato alla luce l’originaria struttura di una basilica paleocristiana ad opera dell’archeologo Pietro Monti. Molti reperti si trovano esposti nel vicino museo di Pitecusa. Nella zona furono ritrovati resti di una necropoli d’origine greca con numerosi vasi e oggetti di corredo. Nel 1999 è stato inaugurato come “Museo Archeologico di Phitecusae”, al cui interno è custodita l’antica e autentica “Coppa di Nestore”, prezioso reperto dell’8 secolo a. C., su cui è incisa una delle più antiche iscrizione metrica in greco, che celebra il vino che conteneva. La coppa proviene dalla tomba di un bambino. L’isola di Ischia fu dai Latini chiamata Pithecusa, nome che la tradizione fa derivare dal Greco “pithos” (vaso), cioè l’Isola dei vasai. Altra interpretazione, collega il nome a “pithekos” (scimmia) nel senso di esotico, oppure come isola dei Cercopi che avevano rubato la clava di Ercole e per punizione trasformati in scimmie secondo il poeta Xenofore. L’interpretazione è data anche da un cratere dell’ VIII secolo a. C. con la figura di una scimmia. Un altro modo di chiamare l’isola è Aenaria da Enea che vi si fermò.
Un altro comune dell’isola è Forio D’Ischia che oggi è uno degli ultimi centri termali avendo conservato per anni la sua vocazione agricola, il termine deriverebbe da Fiorio in quanto fiorì dopo la distruzione di altri Casali, altri studiosi ritengono più probabile invece dal greco phòros, φόρος (ferace – fertile). La chiesa di Santa Maria di Loreto fondata nel XIV secolo da pescatori di Ancona e dedicata a S. Nicola da Tolentino e un altare dedicato a S. Maria di Loreto. Questa Chiesa nata come oratorio fu in seguito ingrandita ed allungata nel XVII sec., fu poi arricchita di stucchi e marmi nel 1780. Dell'antica costruzione gotica non resta molto. Il Salvati ipotizza che la chiesa originaria fosse costituita da un solo ambiente, corrispondente all'attuale navata centrale, coperta da tetto e con finestre ad ogiva. La costruzione della chiesetta diede avvio allo sviluppo dell'abitato di Forio dalla zona collinare della chiesa di S. Vito verso sud, nell'area del molo. A partire dalla fine del secolo XVI l'edificio subì una serie di interventi e di ampliamenti che trasformarono l'originario oratorio in una chiesa di notevoli dimensioni. Furono presumibilmente costruite le due navate laterali, il transetto e la cupola. Tra il 1581-82 si pervenne alla definizione della struttura. Ulteriori aggiunte portarono alla creazione di un vero e proprio complesso polifunzionale comprendente, oltre alla chiesa, un oratorio ed un ospedale. Nel 1585 fu edificata sul lato destro della chiesa una Cappella dedicata all'Assunta per soddisfare le esigenze di culto dei membri della congrega. Qualche anno più tardi, in corrispondenza della navata sinistra, furono costruite alcune camere comunicanti, che costituivano un ospedale funzionante già dal 1596. Da un punto di vista paesaggistico non si può non parlare del Giardino delle Mortelle. Il termine mortella indica, nel dialetto napoletano, il "mirto divino" (Myrtus communis), una pianta che spunta in abbondanza tra le rocce della collina su cui si sviluppa il giardino e che rivestiva notevole importanza nella mitologia greco-romana, a volte rappresentando la bellezza o la verginità, altre volte l'amore o la fortuna pagana. Nel 1949 il musicista William Walton decise di stabilirsi nell'isola d'Ischia con la moglie argentina Susana. I coniugi costruirono ai piedi del Monte Zaro, una colata di roccia lavica, una villa circondata da un grandioso giardino botanico. La realizzazione del giardino (la cui ideazione risale al 1956) fu affidata, negli anni '60, all'architetto paesaggista Russell Page, il quale disegnò tutta la sistemazione del Giardino a Valle, integrandolo fra le pittoresche formazioni rocciose. Oggi La Mortella è composta da due parti profondamente diverse: La Valle, disegnata da Russell Page, caratterizzata da un clima subtropicale umida e protetta dal vento, e la Collina o giardino superiore, interamente ideato e sviluppato da Lady Walton, con zone assolate e battute dal vento e caratterizzate da vegetazione proveniente dalle aree mediterranee. Sul monte Epomeo si può visitare l’eremo di San Nicola che è interamente scavato nel tufo risalente al XV secolo. La chiesetta, scavata nel tufo, esisteva già nel 1459, come veniamo a conoscenza da un racconto del Pontano, mentre le cellette del convento furono costruite nel 1587. I primi interventi di ampliamento della cappella originaria con lo scavo del masso tufaceo per la realizzazione delle cellette ed altri ambienti destinati alla comunità dei cenobiti sono del 1754.
L’isola di Procida
La superficie comunale ricopre interamente l'isola di Procida e il vicino isolotto di Vivara , le due isole del golfo di Napoli appartengono al gruppo delle isole flegree. Il rilievo più elevato è rappresentato dalla collina di Terra Murata, sovrastata da un borgo fortificato di origine medioevale. L'isola si trova ad una distanza minima dalla terraferma di circa 3,4 km (Canale di Procida). E’ collegata da un sottile ponte alla vicina isola di Vivara. Dal punto di vista geologico, l'isola è completamente di origine vulcanica, nata dalle eruzioni di almeno quattro diversi vulcani, oggi completamente spenti e in gran parte sommersi. Per modalità di formazione e morfologia, l'isola di Procida si avvicina dunque moltissimo alla zona dei Campi Flegrei, di cui fa geologicamente parte. L'isola è infatti formata principalmente da tufo giallo e per il resto da tufo grigio, con tracce di altri materiali vulcanici quali, ad esempio basalti. Il nome dell'isola deriva dal nome di epoca romana Prochyta. Secondo una prima ipotesi questo nome deriva da Prima Cyme, ovvero "prossima a Cuma", come doveva apparire l'isola ai coloni greci nella migrazione dall'isola d'Ischia a Cuma. Un'altra ipotesi fa derivare il nome dal greco pròkeitai (πρόκειται), cioè "giace", in considerazione di come appare l'isola, vista dal mare. Dionigi di Alicarnasso infine, nel suo Archeologia Romana volle far derivare il nome da quello di una nutrice di Enea, Procita, da lui qui sepolta quando vi approdò. Recenti ritrovamenti archeologici sulla vicina isola di Vivara fanno ritenere che l'isola fosse già abitata intorno al XVI – XV secolo a. C., probabilmente da coloni Micenei. L'isola fu più probabilmente luogo di villeggiatura dei patrizi romani e di coltura della vite. Giovenale, nella terza delle sue Satire, ne parla come di un luogo atto ad un soggiorno. Dopo la caduta dell'Impero Romano, l'isola subì le devastazioni dei Vandali e dei Goti, non cadde invece mai in mano longobarda, rimanendo sempre sotto la giurisdizione del duca bizantino di Napoli, nel territorio della Contea di Miseno. Tra le notizie storiche importanti ricordiamo l’esponente della famiglia Da Procida, Giovanni Da Procida, terzo (III) che fu, consigliere di Federico II di Svevia e animatore della rivolta dei Vespri Siciliani. Nel 1339, comunque, l'ultimo discendente dei Da Procida vendette il feudo alla famiglia di origine francese dei Cossa, famiglia di ammiragli fedele alla dinastia D'Angiò, allora regnante su Napoli. Dei Cossa, esponente di maggior rilievo fu Baldassarre Cossa, eletto antipapa nel 1410 con il nome di Giovanni XXIII. Durante la dominazione di Carlo V a Napoli l'isola fu confiscata all'ultimo Cossa e concessa in feudo alla famiglia dei d'Avalos d'Aquino d'Aragona (1529), fedele alla casa d'Asburgo. Il primo feudatario fu appunto Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto e generale di Carlo V, cugino di Fernando Francesco d'Avalos. Nel 1799 Procida prende parte alle sommosse che portano alla proclamazione della Repubblica Napoletana. Con il ritorno dei Borbone, pochi mesi dopo, dodici Procidani, tra i più influenti e in vista dell'isola, vengono impiccati per questo nella stessa piazza dove era stato issato l'albero della libertà. Nel 1907 inoltre, Procida perde il suo territorio di terraferma, che diventa un comune autonomo denominato Monte di Procida. Terra Murata sorge sul promontorio più alto di Procida a circa 91 metri sul livello del mare. Grazie alla sua posizione strategica, la Terra divenne, dal IX secolo, il nucleo abitativo dell'isola e fu denominata Terra Casata. Era possibile accedervi da due porte: la Porta della Terra, o di Sant'Angelo e la Porta di Mezz'Omo. La particolare forma ovale della cittadella testimonia ancora oggi la vita quotidiana che si svolgeva tutt'attorno all'Abbazia. In via del Borgo è possibile ammirare un'abitazione tipica che rappresenta un esempio di edilizia locale. L'unico esemplare invece di architettura gentilizia è il Palazzo De Iorio ritenuta l'abitazione di Giovanni da Procida, primo feudatario dell'isola ed eroe dei Vespri Siciliani. Nel 1656 l'edificio fu adibito a Conservatorio delle Orfane. Le continue incursioni piratesche che imperversarono per tutto il XVI secolo, spinsero il Cardinale Innico d'Avalos d'Aragona, feudatario dell'isola nonché Abate Commendatario dell'Abbazia di San Michele Arcangelo (1561-1600), a ordinare il riassetto dell'intero borgo di Terra Casata. Nel 1563, egli fece costruire il Castello d'Avalos, in luogo dell'antica Porta della Terra ed edificare intorno alla cittadella delle mura bastionate nelle quali venne aperta la Porta di Ferro: la Terra Casata divenne così Terra Murata, terra cinta di mura. Con i Borboni palazzo D’Avalos venne trasformato prima in fortezza militare e poi nell’ottocento in bagno penale.
Giovanni da Procida fu un medico della Scuola Medica Salernitana ed uno dei politici più influenti del suo periodo storico. Nato nel 1210 a Salerno dalla Famiglia da Procida, signori dell'omonima isola napoletana, studiò presso la prestigiosa scuola di medicina di Salerno e divenne consigliere fidato di Federico II di Svevia che gli affidò l'educazione del figlio Manfredi.
Dopo la disfatta di Benevento, durante la quale Manfredi morì e lasciò il regno di Napoli agli Angioini, Giovanni iniziò un'opera diplomatica presso le corti di tutta Europa per restaurare la dinastia Sveva nel Sud Italia. Fu uno dei principali organizzatori dei Vespri Siciliani ed autore dell'intervento aragonese in Sicilia. Dopo la vittoria di Pietro d'Aragona divenne Gran Cancelliere di Sicilia e continuò, nonostante la tarda età, nella sua opera diplomatica. Morì a 88 anni a Roma.
I Vespri siciliani furono una ribellione scoppiata a Palermo all'ora dei vespri di Lunedì dell'Angelo nel 1282. Bersaglio della rivolta furono i dominatori francesi dell'isola, gli Angioini, avvertiti come oppressori stranieri. Da Palermo i moti si sparsero presto all'intera Sicilia, espellendone la presenza francese.
La ribellione diede avvio a una serie di guerre, chiamate "guerre del Vespro" per il controllo della Sicilia, definitivamente conclusesi con il trattato di Avignone del 1372.
Dopo la morte di Corrado, la sconfitta di Manfredi a Benevento e la decapitazione a Napoli il 29 ottobre 1268 dell'ultimo e pericoloso pretendente svevo Corradino, il Regno di Sicilia era stato definitivamente assoggettato al sovrano francese Carlo I d'Angiò. Papa Clemente IV, che, il 6 gennaio 1266 aveva già incoronato Carlo re di Sicilia, e sperava così di poter estendere la propria influenza all'Italia meridionale senza dover subire i veti precedentemente imposti dagli svevi, dovette rendersi conto che gli angioini avrebbero perseguito una politica aggressivamente espansionistica: conquistato il meridione d'Italia, le mire di Carlo volgevano infatti già ad Oriente ed a quel che restava dell'impero bizantino.
In Sicilia la situazione si era fatta particolarmente critica per una generalizzata riduzione delle libertà baronali e, soprattutto, per una opprimente politica fiscale. L'isola, da sempre fedelissima roccaforte sveva, che dopo la morte di Corradino aveva resistito ancora per alcuni anni, era ora il bersaglio della rappresaglia angioina[2]. Gli Angiò si mostrarono insensibili a qualunque richiesta di ammorbidimento ed applicarono un esoso fiscalismo, praticando usurpazioni, soprusi e violenze. Va segnalato a tal proposito che Dante, che nel 1282 aveva solo 17 anni, nell'VIII canto del Paradiso, indicherà come Mala Segnoria il regno angioino di Sicilia. I nobili siciliani e in particolare il diplomatico Giovanni da Procida riponevano le proprie speranze in Michele VIII Palaeologo, imperatore bizantino già in contrasto con Carlo I d'Angiò, in Papa Niccolò III, che si era dimostrato disponibile ad una mediazione, ed in Pietro III d'Aragona.
Il re d'Aragona, in particolare, era guardato con favore perché sua moglie Costanza, in quanto figlia di Manfredi e nipote di Federico II, risultava l'unica pretendente legittima della casa di Svevia; tuttavia il sovrano aragonese era impegnato nella riconquista di quella parte della penisola iberica ancora in mano agli arabi. Alla fine del 1280, in concomitanza con la morte di papa Niccolò III e con la guerra che impegnava il Paleologo contro una coalizione di cui facevano parte veneziani ed angioini, i baroni siciliani ruppero gli indugi organizzando una sollevazione popolare che desse un segno tangibile della loro determinazione, convincendo l'unico interlocutore rimasto, Pietro d'Aragona, ad accorrere finalmente in loro aiuto. In quel mentre avveniva l'elezione del papa di origini francesi Martino IV che, eletto proprio grazie al determinante sostegno degli Angiò, si mostrò fin dall'inizio insensibile alla causa dei siciliani.
Nell'instabile panorama politico della fine del XIII secolo, la rivolta siciliana, intrecciando l'opposizione al potere temporale dei papi al contenimento dell'inarrestabile ascesa dei loro vassalli angioini, innescherà nel Mediterraneo un vero e proprio conflitto internazionale: da una parte Carlo I d'Angiò, sostenuto da Filippo III di Francia e dai guelfi fiorentini, oltreché dal papato; dall'altra Pietro III d'Aragona, appoggiato da Rodolfo d'Asburgo, da Edoardo I d'Inghilterra, dalla fazione ghibellina genovese, dal Conte Guido da Montefeltro e da Pietro I di Castiglia, oltreché, più tiepidamente, dalle Repubbliche marinare di Venezia e di Pisa[3].
Giovanni da Procida (Salerno, 1210 – Roma, 1298) fu un medico della Scuola Salernitana, diplomatico e uomo politico legato alla dinastia sveva degli Hohenstaufen e uno dei familiares di Manfredi. Dopo la caduta della dinastia sveva, fu uno dei protagonisti dei Vespri Siciliani.
Membro della famiglia nobiliare dei da Procida, signori dell'isola omonima dal XII al XIV secolo, era il terzo con questo nome (Giovanni III da Procida), figlio primogenito di Giovanni II da Procida e Clemenza Logoteta. Probabilmente la sua dimora può essere individuata nel Palazzo Fruscione di Salerno. Fu tra i consiglieri di Federico II di Svevia, da cui si vide affidare l'educazione del giovane Manfredi.
Si trovò al fianco di Manfredi fino alla disfatta di Benevento del 1266 dopo la quale, costretto alla fuga, cominciò a viaggiare tra le corti di tutta Europa al fine di dispiegare una grande opera diplomatica finalizzata al ritorno della dinastia sveva sui troni di Napoli e Sicilia e alla cacciata degli Angioini dalla penisola italiana. Ciò lo fece divenire uno dei principali avversari di Carlo I d'Angiò nei due decenni successivi.
Fu particolarmente attivo a Roma, a Costantinopoli e in Aragona, dove offrì per lungo tempo i suoi servigi al re Giacomo I d'Aragona e in seguito a suo figlio Pietro III d'Aragona che, avendo sposato Costanza di Hohenstaufen, era tra l'altro anche genero di Manfredi. Fu quindi tra i principali organizzatori e animatori dei Vespri Siciliani e della guerra che ne seguì, così come fautore dell'intervento di Pietro d'Aragona in Sicilia. Il 2 febbraio 1283 fu nominato Gran Cancelliere di Sicilia, pur continuando, nonostante l'età, la sua frenetica attività diplomatica tra le diverse corti d'Europa.
Fu in un'ennesima missione diplomatica che Giovanni da Procida morì, a Roma, nel 1298, all'età di ottantotto anni. Il giudizio storico sulla sua figura, nei secoli successivi, fu spesso controverso: diversi storici, in particolare di parte guelfa, lo videro a lungo come un mero "cospiratore contro l'autorità costituita". Nonostante ciò, a partire dal XIX secolo la sua figura è stata sempre più riabilitata, figurando in tali giudizi come uno dei primi uomini politici e diplomatici nel senso "moderno" del termine. Nel 1817 Giovanni Battista Niccolini gli dedicò una sua tragedia, inizialmente censurata per il contenuto giudicato di propaganda risorgimentale.
Capri
Capitolo XIX
L’isola di Capri prende il nome dal greco kàpros ossia cinghiale collegato al latino capreae, capre. L’isola di origine calcarea, la sua sezione più bassa è al centro, mentre i suoi lati sono alti e circondati per lo più da precipizi, dove si trovano numerose grotte. La sua orografia è composta, ad ovest, dalle pendici del monte Solaro e, ad est, dal monte San Michele, con la Croce e il monte Tuoro. Lo storico e geografo greco Strabone riteneva che Capri fosse stata un tempo unita alla terraferma. Recentemente questa sua ipotesi è stata confermata sia dall'analogia geologica che lega l'isola alla penisola sorrentina, sia da alcune scoperte archeologiche. Le prime scoperte di epoca preistorica si ebbero più di duemila anni fa, quando, in epoca romana, dagli scavi per la costruzione delle prime fabbriche imperiali vennero alla luce resti di animali scomparsi decine di migliaia di anni prima e tracce di vita di uomini primitivi dell'età della pietra. È stato Svetonio a raccontare l’avvenimento e di come Augusto avesse conservato i resti di animali ritrovati. Durante i lavori di scavo del 1905-1906, per un ampliamento dell'Hotel Quisisana, all'inizio della Valle di Tragara, sotto uno strato di materiale eruttivo e un banco di argilla rossa del Quaternario, affondate in limo essiccato, derivato da un antico bacino lacustre, vennero alla luce ossa gigantesche di mammiferi estinti come il Mammut. La colonizzazione greca dell’isola ha un’origine mitologica legata al leggendario Ulisse con i suoi viaggi nell’Italia meridionale come narrato dall’Odissea. Nel suo commento all’Eneide Servio descrive le sirene come metà donna e metà uccello e sarebbero vissute a Capri. Oggi a Marina Piccola la presenza dello Scoglio delle Sirene è frutto di un’idea del settecento a ricordo del mito. A partire dall'VIII secolo a. C., i Greci cominciarono a percorrere tutto il Golfo di Napoli e secondo Livio si insediarono inizialmente sull'isola di Ischia e, sulla terraferma a Cuma, solo più tardi giunsero a Capri. La storia della colonizzazione lega leggendariamente Capri al popolo dei Teleboi, abitanti delle coste dell’Acarnania e delle isole greche dello Ionio. Virgilio, infatti, narra nell'Eneide che uno dei nemici di Enea era Ebalo, figlio della ninfa Sebetide e di Telone, re dei Teleboi di Capri e signore di gran parte della Campania. Nel VII e VIII secolo a. C. tutta la vita politica e marittima del Golfo di Napoli gravitava intorno a Cuma, mentre Capri non ebbe una funzione altrettanto importante. Lo storico Strabone racconta che "nei tempi antichi a Capri vi erano due cittadine in seguito ridotte ad una sola". Con certezza una delle due cittadine era collocata dove sorge l'odierna Capri. Ciò è confermato dalla presenza di resti delle mura di fortificazione, costruite con grandi massi di calcare pseudo poligonale nella parte inferiore e da blocchi squadrati nella parte superiore, visibili dalla terrazza della funicolare e in un tratto alle falde del Castiglione. Questi, insieme ad altri tratti andati ormai distrutti, chiudevano l'antico abitato. Sembra, inoltre, che la prima cittadina fosse anch'essa il risultato di due nuclei: uno, in alto, tra il monte San Michele e il Castiglione e l'altro in prossimità del porto. Per quanto riguarda la seconda cittadina, tante ipotesi sono state avanzate, ma la più attendibile è quella che la riconduce ad Anacapri ipotesi sostenuta anche all'esistenza della Scala Fenicia che la collegava al porto. Il ruolo rivestito da Capri in epoca romana fu notevole. La svolta che segnò la storia dell'isola fu nel 29 a. C., quando Cesare Ottaviano, tornando dall'Oriente, sbarcò a Capri dove, secondo il racconto di Svetonio, una quercia vecchissima cominciò a dar segni di vita. Il futuro Augusto, interpretando questo come un segno favorevole, tolse Capri dalla dipendenza di Napoli (sotto la quale era dal 328 a. C.), dando in cambio la più grande e fertile isola di Ischia e facendola diventare dominio di Roma. Nel racconto di Svetonio sull'ultimo viaggio di Augusto si narra che egli fosse solito chiamare la città Apragopolis, cioè "città del dolce far niente", e con quel nome venisse battezzata tutta l'isola, o perlomeno la parte di essa dove sembrava fosse situata anche la tomba del suo fondatore Masgaba. Augusto morì a Nola nell'agosto del 14 d. C. Suo successore fu Tiberio il quale tanto ereditò la predilezione per Capri, dove si trasferì per dieci anni, abbandonando la dimora imperiale di Roma. Merito di Augusto e Tiberio fu la costruzione di numerose ville imperiali. Le tre più importanti furono villa Jovis, Damecuta e Palazzo a Mare. Quest'ultima, secondo Maiuri, fu residenza ufficiale di Augusto, preferita al nucleo residenziale di Torre per la sua vicinanza all'approdo e la sua collocazione all'ombra e in luogo poco ventilato. Nel Medioevo Capri subisce le scorribande dei pirati e nel 866 passa sotto il domino di Amalfi per decisione dell’imperatore Ludovico II come premio per gli amalfitani che erano divenuti una delle repubbliche marinare più potenti del mezzogiorno. La dipendenza di Capri ad Amalfi, che aveva rapporti frequenti con l'Oriente, è particolarmente evidente nell'arte e nell'architettura, nelle quali furono introdotti, sui saldi stilemi classici, moduli bizantini ed islamici. Con gli Angioini, Capri ebbe il suo primo signore nel conte Giacomo Arcucci, che nel 1371 fondò la Certosa di San Giacomo nella valle fra il Castiglione e il Monte Tuoro. Il territorio fu donato dalla regina Giovanna I. Numerosi furono i privilegi concessi dalla monarca e da diversi Papi alla Certosa, i cui monaci, grazie al prestigio acquisito, poterono rivestire un ruolo politicamente e socialmente influente. L'impianto iniziale, rimaneggiato nei secoli, presentava la classica partizione funzionale alla vita cenobitica. Un'area destinata alla clausura e l'altra ai servizi, nel caratteristico stile tardo romanico che accomuna gli edifici isolani del periodo. Sin dalla fondazione godé di ampi privilegi concessi dalla regina Giovanna che i monaci certosini riuscirono a mantenere nei secoli successivi. Seppero far risorgere il monastero anche dalle incursioni piratesche, che flagellarono l'isola e la costiera amalfitana nella prima metà del Cinquecento, ricostruendo e ampliando il monastero con l'aggiunta del chiostro cinquecentesco. Il 24 ottobre 1496 Federico I di Napoli stabilì la parità tra Capri ed Anacapri, riconoscendo a questa le stesse franchigie ed immunità dell'altra, separandone le amministrazioni e le rendite, atto confermato poi dal Generale Consalvo di Cordova il Gran Capitano, primo viceré della dinastia spagnola di Ferdinando il Cattolico. Come tutta la penisola Sorrentino – Amalfitana, l'isola di Capri farà parte dell'antico e prestigioso Principato di Salerno. Con Gioacchino Murat, nel 1808, i beni della certosa furono confiscati, essa divenne prima una caserma (1815), poi un ospizio e, dal 1868 al 1898, un soggiorno punitivo per militari e anarchici. Nella prima metà del Novecento la Certosa attraversò brevi momenti di attività quando nel 1936, ad esempio, i Canonici Lateranensi vi avevano istituito un ginnasio; per declinare durante la seconda guerra mondiale verso un deplorevole disfacimento con il conseguente allontanamento dei Canonici. Il chiostro grande con le celle monastiche è il fulcro dell'antico convento e si caratterizza per i suoi archi a tutto sesto in pietra calcarea sostenuti da ampie colonne (oggi le sale che si trovano lungo il suo perimetro ospitano un liceo classico). Le 5 arcate in lunghezza e 4 in larghezza del chiostro piccolo, invece, fanno affidamento su colonne decisamente più esili e decorate con capitelli di età romana e bizantina. Nell’isola tra le costruzioni religiose ricordiamo la chiesa di San Costanzo, chiamata anche di Maria Santissima della Libera, è un chiesa monumentale di Capri. Alcuni storici sostengono che un primo impianto sia già esistito nel V secolo, edificato sui resti di un edificio romano di epoca tardo repubblicana e formato da otto colonne e due absidi. Altri affermano che potrebbe essere stata costruita tra il IX ed il XII secolo. Tuttavia una primitiva chiesa doveva sicuramente esistere quando fu creata la diocesi di Capri nel 987, periodo in cui fu profondamente rinnovata, passando da uno stile paleocristiano ad uno bizantino, assumendo la forma a croce greca. Originariamente, era intitolata a San Severino e solo dopo la morte di San Costanzo, nel VII secolo, ne assunse la denominazione. Importanti lavori di ristrutturazione ci furono nel 1330, quando, per volere del conte Giacomo Arcucci, fu aggiunto il presbiterio e assunse l'architettura tipica gotica. Nel 1560 perse la sua funzione di cattedrale, spostata nella chiesa di Santo Stefano. Nel 1775 la struttura fu notevolmente indebolita a causa del distacco di tre colonne, in giallo antico, per essere utilizzate come pavimentazione nella cappella reale della Reggia di Caserta. Altri danni ci furono nel 1928 quando fu costruita la casa del parroco, abbattendo il pronao e modificandone la facciata. La pianta è a croce greca inserita in un quadrato, nelle cui diagonali si aprono quattro cappelle con volta a crociera nel punto d'incontro dei bracci, con volta a botte, poggiante su quattro archi a sesto rialzato, si apre la cupola. La chiesa di Santo Stefano sorge sullo stesso luogo dove in origine doveva esistere un'altra chiesa dedicata a Santa Sofia ed un vecchio convento benedettino, risalente al 580, di cui rimane solo il campanile sulla Piazzetta. La nuova chiesa fu costruita nel 1688 su progetto dell'architetto Francesco Antonio Picchiatti e completata, grazie alla realizzazione da parte di Marziale Desiderio, nel 1697. La pavimentazione è in marmo policromo, proveniente da Villa Jovis. Questa bellissima villa è situata sulla vetta del monte Tiberio, che si trova nella parte orientale dell'isola di Capri, secondo alcuni il termine si riferisce al genitivo Jovis dal latino Villa di Giove. Altri suppongono a Ionis cioè la “Villa di Io” una sacerdotessa di Era amata da Giove e trasformata in mucca. Si suppone che la villa fossa già stata utilizzata da Augusto anche se poi divenne la dimora preferita di Tiberio che visse stabilmente per almeno 11 anni. La villa si trova su una posizione sublime da cui si può osservare l'isola d'Ischia, Procida, il golfo di Napoli, la penisola sorrentina, il golfo di Salerno fino alle terre del Cilento. La villa si caratterizza per la sua particolare costruzione compatta a pianta quadrata, dalla quale si distaccano alcuni ambienti. Infatti, avendo poco spazio a disposizione, villa Jovis si dispone su terrazze costruite elevandosi a più piani. La villa si dispone attorno ad un ambiente centrale che è occupato dalle cisterne, costruite per soddisfare il bisogno d'acqua necessario per le esigenze di un palazzo imperiale. Sul lato meridionale del complesso vi è l'atrium, con quattro colonne di marmo cipollino, vicino al quale si dispongono i bagni. Il più complesso piano superiore funge come una vera e propria terme romana, disponendo di uno spogliatoio e perfino di un calidarium e di un tepidarium. Nella parte settentrionale dell'edificio v'è il quartiere imperiale, dove c'erano le aule private di Tiberio; la porzione sud del complesso, invece, corrisponde al quartiere servile ove soggiornava la servitù dell'imperatore.
Fig. 1 pianta di Villa Jovis
Un’altra villa presente ad Anacapri di epoca romana è la villa di Damecuta che era costituita da una lunga loggia porticata di 80 metri, che culminava in un ampio belvedere semicircolare. Inoltre c’era un quartiere residenziale con sala triclinare all’estremità ovest, e dall’altro lato un nucleo abitativo. Sulle rovine della villa, danneggiata nel 79 d. C. dall'eruzione del Vesuvio e forse fin d’allora abbandonata, nel Medioevo, fu costruita una torre di avvistamento. Al di sotto della torre medioevale sono stati individuati i resti di un cubicolo, all’interno del quale è stato rinvenuto un torso maschile di statua, preceduto da un vestibolo e da un terrazzamento probabilmente realizzato con funzione di belvedere. Verso ovest, sotto la loggia, si trovano due ampi ambienti di soggiorno. Il vasto pianoro che si estende alle spalle della loggia e del quartiere del belvedere conserva qualche traccia di pavimento a mosaico e condotti di canalizzazione. Palazzo a Mare costruito in riva al mare e ancora denominato "Palatium", fu la residenza preferita da Ottaviano Augusto. Restano pochi ruderi dopo le continue spoliazioni subite, specie nel XVIII secolo. Si estendeva per circa 850 metri lungo la costa. Sono ancora visibili, tra l'altro, i resti di un'esedra e di un piccolo bacino portuale, oggi denominati Bagni di Tiberio. Tra le grotte ricordiamo la grotta di Matermania trasformata in epoca romana in un lussuoso ninfeo del quale oggi rimangono pochi resti murari. La grotta venne dedicata dagli stessi Romani alla dea Cibele, la loro Mater Magna, da cui probabilmente ha origine il suo nome. Il toponimo «Mitromania» ha invece origine dal ritrovamento di un bassorilievo mitriaco nella piana di San Costanzo, il quale ha portato a pensare che la grotta anticamente fosse un tempio dedicato al dio Mitra, un'importante divinità ellenistica e romana. Nei pressi di bagni di Tiberio si trova l’entrata della Grotta azzurra. La Grotta Azzurra è conosciuta sin dai tempi dei romani, infatti gli imperatori che trascorrevano le vacanze sull'isola sembra la utilizzassero come piscina privata, in particolare pare che Tiberio si fosse fatto costruire un passaggio tra la sua villa e la grotta, oggi se anche questo cunicolo fosse realmente esistito, risulterebbe crollato. La sua fama arrivò nel 1826 quando fu visitata dall'artista tedesco August Kopisch su indicazione di Angelo Ferraro, un pescatore del luogo. La caratteristica della Grotta Azzurra è il gioco dei colori creato dalla luce esterna che penetra attraverso la sua parte sommersa, che può variare nelle diverse ore del giorno e col mutare delle condizioni atmosferiche. Dopo gli scavi archeologici di Pompei e la Reggia di Caserta, è il terzo sito della Campania. I famosi giardini di Augusto nascono nell'antica proprietà che l'industriale tedesco dell'acciaio Friedrich Alfred Krupp agli inizi del XX secolo acquistò per costruire la sua dimora a Capri. Inizialmente i giardini assunsero il nome di giardini di Krupp, appellativo mantenuto fino al 1918, in cui i giardini vennero ribattezzati giardini d'Augusto, nome corrispondente a quello odierno. I giardini, strutturati in terrazze a picco sul mare, possono considerarsi una testimonianza della ricca flora presente nell'isola di Capri: infatti all'interno dei giardini d'Augusto è possibile trovare varie piante e fiori ornamentali, quali gerani, dalie e ginestre. Da qui parte la famosa via Krupp che porta a marina piccola. I faraglioni sono: il faraglione di Terra detto Saetta, che è l’unico ancora unito alla terraferma, è il più elevato con i suoi 109 metri. Il faraglione di Mezzo detto Stella, è quello in cui è presente la cavità al centro, una galleria naturale lunga 60 metri che lo attraversa per intero, raggiunge un’altezza di 81 metri. Il terzo il faraglione di Fuori detto Scopolo, cioè promontorio sul mare, che raggiunge un’altezza di 104 metri. In realtà esiste anche un quarto faraglione, chiamato scoglio del Monacone in quanto fino al secolo scorso nelle acque antistanti si poteva ammirare la foca monaca. I faraglioni furono citati anche da Virgilio nell'Eneide narrando il mito delle Sirene. Il nome deriva dal greco pharos, che vuol dire faro. Infatti, anticamente sui monti e sulle rocce vicino alle coste, venivano accesi dei grandi fuochi durante le ore notturne, in modo da segnalare ai navigatori sia la rotta che eventuali ostacoli pericolosi per la navigazione stessa. Molto probabilmente i faraglioni ebbero la stessa funzione. Anacapri è l’altro comune in zona montana, sul monte Solaro, in questa zona abbiamo la scala Fenicia e il castello Barbarossa, così chiamato a causa del soprannome del corsaro ottomano Khayr al-Dīn che lo espugnò nel 1535. La data di costruzione non è certa, ma risale forse alla fine del IX secolo. La struttura, della quale rimangono solo dei ruderi, fu proprietà dal 1898 del medico svedese Axel Munthe. Nella struttura, il cui territorio adiacente si presenta ricco dal punto di vista botanico, ha sede una stazione ornitologica. Dopo la morte di Munthe, a partire dal 16 giugno 1950, il castello fa parte della Fondazione Axel Munthe ed è di proprietà del Consolato Svedese che ha sede nella villa San Michele anacaprese. Axel Munthe fu un medico che esercitò la sua professione sia a Parigi che a Roma e nel 1903 divenne medico della Casa Reale svedese. Nel 1884 accorse a Napoli per curare i colpiti dall'epidemia di colera di quell'anno. A seguito di questa esperienza scrisse il libro: "Lettere da una città dolente", che egli cita anche nella "Storia di S. Michele". Nel 1908 fu tra i volontari stranieri che prestarono soccorso alla popolazione dopo il terremoto di Messina. Dopo essersi ritirato dalla vita pubblica, visse presso villa San Michele sull'isola di Capri. Scrisse La storia di San Michele quando ormai, negli ultimi anni della sua vita, fu costretto a tornare nella natia Svezia a causa di una malattia agli occhi. Fu un "animalista" ante litteram. Lasciò infatti una cospicua somma perché fosse creata una fondazione che si adoperasse per vietare l'impiego degli animali nei circhi equestri, nonché per eliminare i giardini zoologici, cose che egli reputava indegne della civiltà. Villa San Michele prende il nome da una piccola cappella che sorgeva in epoca medioevale alla fine della Scala Fenicia nel territorio appunto di Anacapri. Nel 1895 il medico svedese Axel Munthe si innamorò delle rovine di un'antica cappella, costituite da una volta sfondata ed alcuni muri diroccati, e volle acquistarla a tutti i costi. Mentre eseguiva i lavori di restauro rinvenne nel vigneto adiacente il rudere la presenza dei resti di un'antica villa romana. Vi attinse per adornare la nuova villa con numerosi reperti archeologici che tuttora si possono osservare nella costruzione. Proseguendo verso il centro del comune di Anacapri troviamo la cosiddetta Casa Rossa di proprietà di un generale americano oggi è un museo divenuto proprietà del comune dove sono esposti i reperti dell’isola. Nei pressi troviamo la chiesa di San Michele che fu eretta a cavallo tra il 1698 e il 1719 con la volontà di Madre Serafina di Dio, suora locale, e con l'approvazione del vescovo caprese Michele Gallo. Il progetto è dell'architetto Domenico Antonio Vaccaro, importante esponente del barocco napoletano, che edificò l'attuale chiesa sui resti della precedente dedicata a San Nicola. Durante l'occupazione inglese dell'isola la chiesa venne soppressa e il monastero utilizzato come deposito per le munizioni, fino a quando Ferdinando I di Napoli decise di riaprirla al culto e destinarla alla Congregazione dell'Immacolata Concezione. L'edificio si presenta con una pianta centrale ottagona con due cappelle a lato e quattro nicchie e copertura a cupola. Nell'abside si trova un altare in marmo policromo realizzato dal marmorario napoletano Agostino Chirola su disegno dell'ingegnere Angelo Barletta. I dipinti conservati nella chiesa sono del pittore napoletano Giacomo del Pò e del pittore cilentano Paolo De Matteis. Il capolavoro della chiesa è il pavimento maiolicato realizzato dal riggiolaio napoletano Leonardo Chiaiese, che raffigura la cacciata dal paradiso di Adamo ed Eva. Per chi ama i percorsi c’è un bellissimo itinerario che si snoda tra i fortini nella zona di Anacapri.
Pozzuoli e Cuma
Capitolo XX
I campi flegrei
Fig 1 Carta Geo strutturale dei Campi Flegrei
Il termine flegreo è di origine greca e significa ardente, che brucia, infatti un altro nome attribuito a quest’area è “campi ardenti”. Nella zona in questione si contano circa 40 vulcani che comprendono anche il circondario di Napoli. Dal punto di vista geologico l’intera zona è nata dall’attività vulcanica prima ancora dell’insediamento dell’uomo e della stessa ne rimangono oggi molte testimonianze. La zona è definita anche come una grande caldera, che deriva dal collasso di parte dell'edificio vulcanico all'interno della camera magmatica una volta che questa si è svuotata del magma interno. Ciò che fa collassare il vulcano è l'intenso svuotamento della camera magmatica che, a causa della pressione persa dopo l'eruzione, non riesce più a sostenere l'edificio vulcanico. L’ultima eruzione risale al 1538 quando si formò il Monte Nuovo. Conosciamo tre periodi eruttivi di una certa importanza. Il primo tra i 42 mila e 35 mila anni fa si definisce come ignimbrite campana o del tufo grigio, che ha prodotto la maggior parte dei depositi di piperno; il secondo periodo tra i 35 mila e i 10.500 anni fa, e corrisponde alla fase della formazione del tufo giallo; l’ultima eruzione del terzo periodo, detto della pozzolana bianca, tra 8 mila e i 500 anni fa. Per quanto riguarda i laghi vulcanici citiamo il lago D’Averno, il cui nome significa privo di uccelli, a causa delle esalazioni solforose che già nel periodo dei greci suggerivano la presenza di un mondo infernale. Gli stessi greci e poi i romani, tuttavia, già usufruivano delle proprietà termali delle acque e delle caratteristiche della zona, ne sono testimonianza le terme di Agnano. Ricordiamo che Strabone, e altre fonti, sottolineano la produttività e lo sfruttamento termale di questi luoghi.
La Solfatara
La solfatara si trova a circa 3 km da Pozzuoli e costituisce un vulcano in stato quiescente, ma ancora attivo, dove è possibile apprezzare attività tipiche del vulcanesimo secondario. Ha una forma ellittica con diametro di 770 e 580 metri, mentre il perimetro è di 2 chilometri e trecento metri. La parte più alta della cintura craterica è posta a 199 metri ed è chiamata monte Olibano mentre il fondo del cratere è posto a 92 metri sul livello del mare. Nasce nel terzo periodo delle eruzioni vulcaniche. Tra il 1904 ed il 1921 si sono formate 4 nuove fumarole. Quest’ultime sono emanazioni di vapore e altri gas vulcanici presenti generalmente in prossimità dei crateri o dei fianchi di vulcani attivi, nonché in aree idrotermali in cui i centri vulcanici non sono più attivi. Le fumarole sono piccole ma profonde fessure nel suolo nelle quali si ha una risalita di gas emessi a temperature che, a seconda del tipo di attività vulcanico-idrotermale, vanno da circa 100° fino a 900° Centrigradi. A contatto con l'aria, a causa della sensibile diminuzione di temperatura, i gas condensano formando i caratteristici "fumi", da cui deriva il nome del fenomeno. Nel corso dei secoli la Solfatara è stata utilizzata anche come cava di estrazione. Molti minerali come il bianchetto ed il cinabro, estratti già al tempo dei romani, venivano utilizzati per la produzione dei colori per gli affreschi, soprattutto il cinabro per le tonalità rosso scuro. Nel corso del Rinascimento veniva estratto il caolino utilizzato per la produzione di ceramiche. Nella zona si possono visitare: 1) La fangaia che è costituita da acque di origine piovana e acqua di condensazione dei vapori, che si mescolano con il materiale di tipo argilloso presente alla superficie del cratere. La composizione dei gas che fuoriescono dalla fangaia è molto varia e ricca. Il fango così prodottosi naturalmente è ottimo per usi termali. La composizione chimica dei gas indica una presumibile origine dei vapori a poche centinaia di metri sotto il suolo della Solfatara, ad una temperatura fra i 170° ed i 250° Centigradi. Le scure striature sulla superficie del fango sono costituite da colonie di batteri resistenti a condizioni estreme di acidità e temperatura, che sono considerati di grande interesse scientifico. 2) La Grande fumarola è il nome della principale fumarola della Solfatara con temperatura del vapore acqueo di circa 160° Centigradi. Nell'interno di tale bocca si condensano alcuni sali contenuti nel vapore tra cui il realgar, solfuro di arsenico, il cinabro e l'orpimento che danno una colorazione giallo rossiccia alle rocce circostanti è inoltre presente l'acido solfidrico che da il caratteristico odore di uova marce. La zona della Bocca Grande era denominata dagli antichi Forum Vulcani ovvero la Dimora del Dio del Fuoco. Agli inizi del '900 fu qui edificato, per il vulcanologo tedesco Friedländer, un piccolo Osservatorio Vulcanologico, di cui restano alcune rovine. 3) Il pozzo, ricordiamo che nell'alto medioevo erano attive nei Campi Flegrei almeno 40 sorgenti termali tra cui quella della Solfatara, alcune di esse risultano già conosciute in età Classica. Le acque termali della Solfatara erano ritenute curative dei nervi, della vista, delle febbri, delle malattie della pelle e della sterilità. Il pozzo attualmente visibile venne costruito nei primi anni del '800 per estrarre allume dall'acqua emunta dalla sottostante falda a circa 10 metri di profondità. L'acqua della Solfatara possiede un caratteristico aspro sapore di limone e nel Medioevo serviva a curare la sterilità femminile. L'acqua minerale venne successivamente utilizzata per riprendere l'antica attività termale che proseguì fino agli anni '20. 4) Le stufe sono due antiche grotte scavate nel fianco della montagna sul lato nord alla fine del '800 per realizzare sudatorii naturali e successivamente rivestite di muratura. Si sostava all'interno delle grotte per non più di pochi minuti, ciò provocava una energica sudorazione ed a respirare gli intensi vapori sulfurei che si sprigionavano. Per questo erano ritenute ottime per la cura delle affezioni delle vie respiratorie, delle malattie della pelle e dei reumi. I sudatorii naturali erano peraltro conosciutissimi sin dall'età Classica ed erano una delle attrattive termali dei Campi Flegrei. Nei pressi è la chiesa di San Gennaro che sorse nel 1574 in ricordo del martirio del santo che secondo la leggenda avvenne proprio in quei luogo. La chiesa sorge sui resti di una precedente chiesa databile all’ VIII secolo d. C. Nel 1701 avvenne il restauro e la consacrazione della chiesa che nel 1860 subì dei danni a causa di un incendio per essere restaurata di nuovo dopo l’unità d’Italia intorno al 1877. Attualmente la chiesa è parrocchia e dedicata inoltre anche ai due altri martiri Festo e Desiderio. Presenta una semplice facciata neoclassica è ad unica navata, coperta da una volta a botte e con cappelle laterali. La facciata ha un atrio a pronao con colonne tuscaniche. All’interno ci sono una serie di lapidi che ricordano visite importanti. Tra le opere ricordiamo un rilievo del 1695 di Andrea Vaccaro che rappresenta le scene del martirio del Santo. All’interno, la prima cappella custodisce il busto del Santo, risale al XII secolo di autore sconosciuto. Tra i miracoli attribuiti al busto c’è la guarigione dalla peste del 1600 liberando la popolazione dal male che aveva falcidiato molti puteolani. Si racconta che nei giorni della peste apparve una macchia evidente che divenne quasi un bubbone che poi si squarciò e la peste fu allontanata da Pozzuoli. Un leggenda racconta che i Saraceni sbarcarono a Pozzuoli staccarono il naso alla statua di San Gennaro che buttarono a mare; i pescatori la ritrovano in una pesca tra le reti e la attaccarono miracolosamente senza bisogno di collante. Nella cappella a sinistra si trova una pietra macchiata del sangue del santo che, in corrispondenza con l’evento della liquefazione del sangue nel Duomo di Napoli, assume, anch’essa, la colorazione propria del sangue vivo. A destra della chiesa, attorno ad un piccolo chiostro, si sviluppa il convento, con al piano terra la dispensa, la cella vinaria, la cucina ed il refettorio. Al 1° piano si trovano la biblioteca e la clausura dei frati come nei monasteri Benedettini.
I principali centri
Pozzuoli è stata fondata dagli esuli di Samo (greca) in fuga dal tiranno Policrate nel 530 a. C. con il nome di Dicearchia che significa “giusto governo”. Di questa fase iniziale greca rimangono oggi poche attestazioni concentrate sull’altura dell’attuale rione Terra, probabilmente l’originaria acropoli. La fase di massima espansione è sotto il governo di Roma a partire dal 338 a. C. con il nome di Puteoli che indicava i piccoli pozzi che caratterizzavano la zona. Il porto di Pozzuoli ha rappresentato per Roma il principale porto verso l’Oriente. Si calcola che nel porto franco all’epoca arrivassero ogni anno circa 500 navi (Olio dalla Spagna, grano dall’Africa, vino dalla Grecia) ed era forse la seconda città per grandezza dopo Roma. Sotto Augusto fu ribattezzata Iulia Augusta Puteoli e la città dotata di grandi infrastrutture come l’impianto viario in collegamento con l’Urbe e i due anfiteatri ancora oggi visibili (l’anfiteatrom minore, di età sillana, è stato distrutto durante i lavori della metropolitana). Del periodo repubblicano rimangono le necropoli di via Celle databili tra il I° secolo a. C. alla metà del II° secolo d. C., costituite da un blocco di 14 edifici detti anche colombari, ovvero edifici funerari destinati a sepolture collettive e caratterizzati da nicchie disposte per ospitare olle cinerarie. I colombari di via Celle sono quasi tutti realizzati su più piani, molto grandi e dunque destinati a gruppi numerosi. Con il tempo, a causa del cambio delle consuetudini nei riti, in questi edifici, inizialmente pensati per l’incinerazione, vennero realizzati anche spazi per sepolture ad inumazione. Pozzuoli è una delle pochissime città che conserva ben due anfiteatri di epoca romana il più importante è l'anfiteatro Flavio che è uno dei maggiori anfiteatri in Italia. E’ presente è una iscrizione che ne riferisce la costruzione all’epoca Flavia. Secondo alcuni, fu edificato sotto Nerone, intorno agli anni ’70 e forse ampliato successivamente, poteva contenere fino a 40.000 spettatori. Nei sotterranei sono presenti molte colonne, capitelli e marmi che provengono probabilmente dalla parte superiore. Nei sotterranei sono tuttora visibili parti del sistema per sollevare le gabbie che portavano nell'arena le belve feroci e le macchine sceniche. Nel perimetro dell'arena si aprivano botole, anche lungo la "fossa scenica", "asse mediano" o "media via", da dove le belve (tigri, leoni e giraffe) facevano la loro entrata attraverso un sistema di carrucole. L’animale veniva spinto verso la gabbia che successivamente veniva sollevata nell’arena. Durante lo spettacolo le botole e la media via venivano chiuse con tavole di legno. La parte superiore aveva tre corridoi anulari per regolamentare l’accesso. Accanto alla summa cavea (primo livello) c’era un muretto per evitare che le belve aggredissero gli spettatori. C’erano tre livelli (al primo gli aristocratici, al secondo gli uomini, al terzo donne e schiavi. Sembra che Pozzuoli però donne e schiavi fossero separati). Con Teodosio l’Anfiteatro fu abbandonato perché abolì i giochi gladiatori. Venivano comunque utilizzate le botteghe come tabernae. Sembra che i munera – i combattimenti tra gladiatori – si tenessero solo nell’anfiteatro minore, mentre in questo solo le venationes, ossia i combattimenti contro le fiere. Uno dei motivi per cui si pensa che questo anfiteatro fosse già presente in epoca neroniana sono delle famose venationes del 76. La forma ellittica aveva una doppia funzione quella di consentire una buona visione e di agevolare l’acustica. L’anfiteatro inoltre conserva memoria dei martirii cristiani; l’evento più noto fu il martirio di Gennaro vescovo di Benevento nel 305 d. C. In ricordo della presenza del santo nel 1689 nell’anfiteatro fu eretta una chiesetta, distrutta poi dagli scavi ottocenteschi e sostituita da una cappella visibile nell’ambulacro. Il tetto nella parte superiore era coperto da un velario che proteggeva dal sole. Procedendo più avanti su Via Terracciano si raggiungono le cosiddette Terme di Nettuno, che sono state rinvenute in epoche borbonica e che risalgono al I – II secolo d. C. Alle spalle è presente uno spazio dedicato a Diana. Le terme erano disposte a terrazzamento sul mare ed erano una sorta di biglietto da visita per Puteoli. L’altra area monumentale conosciuta come il Tempio di Serapide è erroneamente attribuita al dio egizio a causa del ritrovamento di una statua della divinità in realtà è la zona del macellum cioè del mercato. L'insieme si presenta come un cortile a pianta quadrata circondato da un porticato sul quale si affacciano le botteghe che si aprono alternativamente ora verso l'interno ora verso l'esterno; mentre resti di scale che conducevano al piano superiore del porticato si conservano ai lati dell'ingresso monumentale che si apriva verso il porto. Al centro del cortile vi è una costruzione circolare sopraelevata, circondata un tempo da colonne (coperta forse da una cupola o da un tetto conico, chiamata tholos), sul quale podio si poteva salire tramite quattro scalinate disposte a croce, presentando al centro resti di condutture per una fontana, si ipotizza che fosse destinato al mercato del pesce utilizzata appunto per pulirlo e sciacquarlo facilmente. Questo macellum è un ottimo esempio di come il bradisismo ha consentito la conservazione. Il mercato è stato coperto dal mare e da alghe che lo hanno conservato. Vi si trovano anche le decorazioni che invece normalmente vengono spogliate nel corso dei secoli, cosa che nel caso del macellum di Pozzuoli non è avvenuto. Il monumento è importante perché ha rappresentato per alcuni secoli l'indice metrico più preciso che si aveva per misurare il fenomeno del bradisismo. Tre delle quattro grandi colonne di marmo cipollino che ancora fronteggiano la sala absidata al centro della parete di fondo, servivano come strumento di misurazione del fenomeno, lungo il loro fusto, i fori dei litodomi (molluschi chiamati popolarmente "datteri di mare"), indicano chiaramente il livello più alto a cui è giunta in passato l'acqua del mare (m. 6,50 ca.), a testimonianza della sua massima sommersione marina avvenuta in epoca medievale quando il monumento risultava sepolto nelle parti basse. Il rione Terra è un agglomerato urbano che costituisce il primo nucleo abitativo di Pozzuoli abitato fin dal II secolo a. C. Si trova su una piccola altura che permetteva di controllare bene gli arrivi di nemici sia dal mare che da terra. Il quartiere fu sgomberato nel 1970 per i danni subiti a seguito di una crisi bradisismica, sebbene lo sgombero fosse richiesto anche per le pessime condizioni igieniche che vi albergavano. La rocca del rione Terra è l'unico luogo che è stato protagonista di tutte le evoluzioni storiche. Dai primi anni della colonizzazione greca e romana fino all'epoca moderna. Secondo lo storico greco Strabone, la rocca era da considerarsi lo sbarco di Cuma e fu qui quindi che con ogni probabilità, nel 529 a. C. sbarcarono gli esuli dell'isola di Samo e fondarono Dicearchia, il governo dei giusti. Fu però in epoca romana che Pozzuoli e la rocca conobbero il loro periodo di maggior splendore. Pozzuoli per secoli è stato, prima della nascita di Ostia, il maggior porto di Roma. L'allora Puteoli venne dedotta a colonia romana nel 194 a. C. ed aveva proprio nella rocca il suo cuore pulsante. Con la nascita del porto di Ostia prima ed il decadimento dell'Impero Romano poi, Pozzuoli cadde velocemente in declino, fino a che la vasta città che si estendeva fino a comprendere la moderna Bacoli, si ridusse proprio alla piccola rocca del rione Terra. E da questo momento (400 d. C. circa) che questo angolo di città inizia a “stratificarsi”. Le culture che si sono succedute hanno costruito le loro botteghe le loro abitazioni su quelle che un tempo erano le mura romane. L'esempio più lampante di questo fenomeno è senza dubbio il duomo della città di Pozzuoli che fu edificato proprio sulle mura del tempio di Augusto. Il Duomo, costruito all'epoca della dominazione spagnola ingloba il tempio di Augusto di epoca romana che a sua volta inglobava un tempio di età repubblicana risalente al 194 a. C., che venne già ristrutturato da Silla nel 78 a. C.. Le prime notizie di una chiesa risalgono al 1027 citando la chiesa di San Procolo, nel corso del ‘500 questo edificio subì gravi danni a causa del terremoto che portò alla nascita del monte Nuovo, in seguito nel 1636 il vescovo Mertinas, in conformità ai dettami della controriforma, diede inizio alla ricostruzione del Duomo, che terminò nel 1647, progettata dall'architetto Bartolomeo Picchiatti con la consulenza artistica di Fanzago. Nel 1967 un incendio devasta il soffitto e le tele e ci si rende conto che è presente al di sotto l’augustaeum. Ezio De Felice, l’archeologo che segue il progetto, intende procedere ad una anastilosi, per riprendere la situazione precedente. In seguito al terremoto dell’80 e ad alterne vicende l’intera area è sottoposta a restauro. Fino agli anni '60 il rione Terra era il centro pulsante, per quanto popolare, della città ed il passare dei secoli avevano ormai nascosto le costruzioni dei tempi romani. Il 2 marzo del 1970 la rocca venne evacuata a seguito di uno dei frequenti sciami bradisismici della storia di Pozzuoli. Da qual momento in poi la rocca sarà abbandonata. Questo abbandono finirà nei primi anni '90 quando finalmente si decide di rimettere a nuovo quello che da sempre è stato il centro pulsante di una città da una storia millenaria. Proprio durante i primi lavori di ripristino che la storia romana è riaffiorata. Oggi al di sotto del rione Terra c'è un intero percorso archeologico quasi perfettamente conservato, che rende l'idea di cosa era il rione Terra 2000 e più anni fa. Senza esagerazioni si può dire che questa rocca sia uno museo a cielo aperto di tutta la storia puteolana, dal 500 a. C. fino ai giorni nostri.
Cuma
La città di Cuma in linea di massima si pensa che sia stata fondata intorno al 740 a. C., anche se la più antica documentazione archeologica risale al 725-720 a. C. Secondo la leggenda, i fondatori di Cuma furono gli Eubei di Calcide, che sotto la guida di Ippocle di Cuma e Megastene di Calcide, scelsero di approdare in quel punto della costa. Il termine Cuma deriva dalla parola greca Onda. Potrebbe anche essere che il nome della città derivi dal nome di uno dei due ecisti, Ippocle di Cuma (l’altro è Megastene di Calcide, una delle due città dell’isola di Eubea). Secondo la leggenda i due seguirono il volo di una colomba, indicata da Apollo e dove si fermò la colomba decisero di fondare la città. Esistono delle fonti che riferiscono di una fondazione al 1050 a. C. cosa che oggi viene considerata non possibile perché gli scavi non restituiscono materiali precedenti all’VIII secolo. Il territorio era già occupato dalle popolazioni indigene e su di essi si innestarono la cultura e le tradizioni dei nuovi colonizzatori greci che in questo caso svilupparono una città forte dal punto di vista commerciale e marittimo. Infatti ricordiamo che nel 524 a. C. lottarono contro gli Etruschi sconfiggendoli e in seguito nel 474 a. C. a fianco dei Siracusani nella battaglia navale di Cuma per la cacciata definitiva degli Etruschi dalla Campania. Nel 421 a. C. Cuma cade nelle mani dei Sanniti, fase che dura poco e nel 334 a. C. Cuma è romana. In epoca greca esistevano dieci Sibille, sacerdotesse di Apollo che presiedevano ad un culto oracolare. Il più importante oracolo era a Delfi. Gli oracoli si contattavano per conoscere il proprio futuro. Uno dei luoghi più suggestivi è l’antro della Sibilla Cumana, titolo che era detenuto dalla somma sacerdotessa dell'oracolo di Apollo e di Ecate, antica dea lunare pre-ellenica. Ella svolgeva la sua attività oracolare nei pressi del Lago d'Averno, in una caverna conosciuta come l'"Antro della Sibilla" dove la sacerdotessa, ispirata dalla divinità, trascriveva in esametri i suoi vaticini su foglie di palma le quali, alla fine della predizione, erano mischiate dai venti provenienti dalle cento aperture dell'antro, rendendo i vaticini "sibillini". La Sibilla veniva invasata dalla voce di Apollo e attraverso di lei Apollo parlava ai fedeli. La Sibilla di Apollo non profetizzava probabilmente in un antro, ma nello stesso tempio di Apollo, tempio che in precedenza era stato tempio di Era. La sua importanza era nel mondo italico pari a quella del celebre oracolo di Apollo di Delfi in Grecia. La Sibilla fa parte dei personaggi mitici che gli scrittori avevano inserito nei loro poemi. Ulisse va nell’Averno per cercare i propri parenti e Enea fa lo stesso, scendendo negli inferi cercando il padre e chiedendo notizie sul proprio futuro alla sibilla cumana. All’ingresso dell’area archeologica c’è una sessantina di versi che furono usati da Amedeo Maiuri per risalire all’antro della Sibilla. L’antro è una cripta, una galleria militare, che fu in età romana dotata di celle più piccole per la raccolta dell’acqua e poi utilizzata in periodo paleocristiano come area di sepoltura. La tesi di Maiuri resta suggestiva ma di sicuro l’antro della Sibilla non è quello che viene indicato. La Sibilla secondo alcuni racconti era una vergine, alcune fonti avevano detto che Apollo aveva dato l’immortalità ma si era dimenticato di darle l’eterna giovinezza. C’era inoltre un ulteriore elemento che riguarda l’età, in quanto erano sempre a rischio di essere violate, e quindi da un certo punto in poi si decise che le Sibille fossero anziane così da evitare gli stupri. La galleria è lunga circa 130 metri, e l’altezza è di circa 5 metri. In fondo ci sono altre tre nicchie, in cui la profetessa avrebbe potuto accogliere le persone per il responso. L’antro si trova su quella che era l’acropoli di Cuma e quando negli Anni Venti, si procedette a una campagna di scavi, la caverna risultò più grande di quanto ci si aspettava, ossia lunga 183 m, con pozzi luce e cisterne d’acqua. La galleria attraversava in linea retta la collina e venne presto identificata come un’opera militare costruita dal generale romano Agrippa. Nel 1932 fu scoperta una seconda caverna, che gli archeologi ritennero essere quella della Sibilla. Vi si accede tramite una galleria lunga 107 m, con 12 brevi passaggi laterali che si aprono sul fianco del colle, da cui filtra la luce. Sull’acropoli si trovano i due templi il primo di Apollo nella terrazza più bassa ed il secondo più in alto il tempio di Giove dell’impianto greco rimane solo il basamento mentre tutto il resto è di epoca romana. Nelle fosse votive di Apollo sono state trovate cose varie che ci lasciano capire che almeno nelle forme originarie fosse un tempio di Era. Nel tempio di Apollo resta pochissimo. Si vedono i blocchi di basamento di tufo giallo tutto il resto è di età romana. La pianta è tale da vedere intorno colonne e all’interno era presente il podio. In età romana viene modificato l’ingresso, che non è più da Nord a Sud ma da Est a Ovest. Le mura sono tre colonne in una di età romana in un lastrone in laterizio e 90 fosse di età paleocristiana in quanto il tempio fu trasformato in una basilica cristiana ed appartiene a quel periodo il basamento ottagonale posto lungo il lato sud della cella ed interpretato come fonte battesimale. Numerose forme sepolcrali vennero inoltre realizzate nel pavimento della basilica. Il tempio di Giove durante l'età greca, probabilmente tra il VI e V secolo a. C. venne costruito un primitivo tempio dedicato a Demetra, divinità molto venerata dai cumani e su di esso venne costruito il Tempio di Giove alla fine del I secolo, in età augustea. In seguito tra la fine del V d. C. venne trasformato in basilica cristiana, dedicata a san Massimo martire ed in questo periodo subì notevoli mutamenti. Fu abbandonato nel XIII secolo a seguito dello spopolamento di Cuma ed esplorato tra il 1924 ed il 1932. Del tempio greco non si hanno molte notizie, l'unica testimonianza della sua esistenza rimane la base in tufo, lunga trentanove metri e larga ventiquattro, riutilizzata anche per il tempio romano; la struttura sacra sorgeva sulla sommità dell'acropoli ed era la più importante della città. Il tempio romano invece, alterato nella struttura durante la dominazione bizantina, oggi ridotto in ruderi e parzialmente crollato insieme al costone della collina, quando fu trasformato in basilica era circondato da un muro perimetrale in opus reticolatum che presentava tre aperture. Internamente era diviso in cinque navate, due delle quali vennero in parti murate e divise in piccoli ambienti per ospitare delle cappelle. La cella era arricchita con delle semicolonne e delle nicchie poi murate, oltre ad una serie di quattro pilastri; nello stesso ambiente venne inserito un altare in marmi policromi ed un fonte battesimale, completamente ricoperto in marmo e costituito da tre scale, in modo tale da permettere l’immersione per il battesimo.
Nella zona della cosiddetta città bassa troviamo invece il capitolium che è il tempio dedicato alle divinità capitoline Giove, Giunone e Minerva, del quale è sopravvissuto soltanto l’alto podio su cui c’era la cella per il culto. In età sannita era presente un tempio di Giove. Vi è stata trovata una statua di Giove, che fu spostata nel palazzo Reale (il cosiddetto “Giove di Palazzo”). Sono inoltre presenti le terme del foro costruite dove c’era un quartiere abitativo, del complesso rimangono tracce del tiepidarium e del calidarium ed alcune colonne e tubazioni in terracotta. Il foro è in corso di scavo, con colonne che risalgono ad edifici diversi. La masseria del Gigante era un tempio in età imperiale che fu inglobato in una masseria rustica. Ci si è accorti successivamente che si trattava di un tempio che sorgeva lungo i margini della piazza del foro. Masseria del Gigante perché vi fu trovato nei pressi il Gigante di palazzo o giove di palazzo.
I Giochi Gladiatori
I giochi gladiatori nascono nella società etrusca e sannita come qualcosa di privato, spettacoli funerari che venivano offerti dai nobili. I Romani nel III a. C. prendono questo costume, ma ne fanno una questione di propaganda elettorale e governo della pace sociale. I giochi gladiatori diventano (“panem et circenses”) pagati dallo Stato ed esistevano una serie di figure pubbliche deputate (sia in epoca imperiale che repubblicana). Molti anfiteatri vengono realizzati già in Campania, prima che a Roma. I gladiatori potevano essere schiavi o prigionieri di guerra. Se erano schiavi, dopo circa dieci vittorie potevano essere liberati o potevano scegliere di proseguire la propria attività gladiatoria. I giochi di gladiatori potevano avvenire tra gruppi diversi di gladiatori.
Il Trace prende il nome dal popolo trace. Aveva un elmo con una apertura a grata davanti. Le gambe erano coperte da delle ginocchiere in metallo. L’arma era la sica e consentiva anche colpi posteriori. La seconda categoria che conosciamo è il Mirmilione. I mirmiliones erano solitamente grossi uomini, che avevano un casco che impediva la visione frontale. Avevano anche una spada piccola che è il gladio arma tipica dei gladiatori. In genere queste due tipologie combattevano tra di loro in quanto il mirmilione era più forte, mentre l’altro era meglio attrezzato. Il “retiario” inoltre era più agile e aveva una protezione su di un braccio, solitamente era più basso e più agile ed aveva il tridente (simbolo di Nettuno). Era l’unico che non proteggeva la testa con un elmo. Il secutor era quello con la spada più corta e resistente poteva deviare i colpi del “retiario”.
Da Bacoli a Miseno
Capitolo XXI
La zona da Cuma a Miseno è costellata di tantissimi bei luoghi. Iniziamo dal castello di Baia costruito su una collina che in epoca romana era occupata da un grandioso complesso residenziale, forse la "villa di Cesare" (Tacito afferma che la villa di Cesare si trovava su di un'altura dominante il golfo di Baia), i cui resti furono distrutti e talora inglobati nell'attuale fortezza. La costruzione del castello fu avviata dagli Aragonesi nel 1495, poco prima dell'invasione dei francesi di re Carlo VIII. Per la progettazione del sistema difensivo e delle singole fortezze, il re Alfonso II d'Aragona si servì della consulenza di Francesco di Giorgio Martini, architetto senese, rinomato per le nuove tecniche e le soluzioni da lui applicate a difese militari. Dopo l'eruzione del Monte Nuovo, nel generale programma di difesa delle coste dalle incursioni saracene e turche, il viceré spagnolo Pedro Álvarez de Toledo avviò una radicale ristrutturazione ed ampliamento del castello (1538-1550), in seguito alle quali esso assunse il suo aspetto attuale, a forma di stella. L'edificio mantenne la sua funzione di fortezza militare nel periodo del vicereame spagnolo (1503-1707), nel dominio austriaco (1707-1734), ed infine del regno borbonico (1734-1860). Gravemente danneggiato nella guerra che contrappose gli austriaci ai Borbone (1734), fu restaurato ed ulteriormente fortificato dal re Carlo di Borbone. Dopo l’unità d’Italia il castello divenne sede di una prigione, in seguito divenne orfanotrofio militare e solo recentemente è stato affidato alla sovrintendenza dei beni archeologici e restaurato. Dobbiamo citare la storia di Johann Joachim Winckelmann (Stendal, 9 dicembre 1717 – Trieste, 8 giugno 1768) che è stato un archeologo e storico dell'arte tedesco. Fu il primo a adottare, nella storia dell'arte, il criterio dell'evoluzione degli stili cronologicamente distinguibili l'uno dall'altro. L'11 giugno 1754 avvenne la conversione al cattolicesimo per poter coronare il suo sogno di recarsi a Roma. Dall'ottobre 1754 al settembre 1755 soggiornò a Dresda. Il suo capolavoro, "Storia delle arti del disegno presso gli antichi", pubblicato a Dresda nel dicembre 1763 con la data 1764, fu ben presto riconosciuto come contributo importante nella lettura delle opere d'arte dell'antichità. In quest'opera la storia dell'arte antica è considerata come il prodotto di determinate condizioni politiche, sociali e intellettuali che erano alla base dell'attività creativa e quindi frutto di successive evoluzioni. Suddivide gli stili in arcaico, classico ed ellenistico, con una particolare predilezione per quello classico che Lui definì "nobile semplicità e quieta grandezza". Un errore commesso dal Winckelmann è che le sculture osservate all’epoca erano delle copie romane di opere greche. Oggi il ritrovamento di molti calchi a Baia ha permesso di capire il lavoro di bottega degli artisti e la capacità dei romani di riprodurre le opere più importanti di origine greca. Il museo è diviso in cinque sezioni: La sezione su Cuma ha poche sale sull’età del ferro in cui vengono conservati i corredi funerari dell’età prima dei greci che non giunsero in luoghi disabitati ma già popolati; altre sale presentano i reperti di epoca greca che sono i più numerosi in ordine cronologico. Particolarmente interessante è l’allestimento di età sannita dove è stato ricostruito il capitolium prima dell’arrivo dei romani grazie a dei ritrovamenti da parte dell’Università di Napoli. La sezione romana è stata allestita grazie agli scavi nel foro e nella città bassa, dal IV secolo a. C. quando la città fu conquistata dai romani. La sezione su Puteoli detta Delus Minor intesa come città più recente e non più piccola o meno importante. Diventata uno dei porti più importanti del mondo romano per i commerci con l’Egitto e con l’Oriente. Le sculture di questa sezione riguardano il mondo egizio e del culto di Iside, come il Naoforo cioè un sacerdote egizio. La sezione del Rione Terra con molte statue di togati ed elementi della trabeazione del tempio che oggi corrisponde alla chiesa. Nella torre Tenaglia del castello sono esposti il sacello degli augustali e la sezione del ninfeo di Punta Epitaffio; del primo sono visibili le sculture e la decorazione del frontone che non è visitabile sul luogo del ritrovamento a causa del bradisismo che ha provocato un abbassamento e relativa inondazione. Il sacello degli augustali era il tempio dove si veneravano gli imperatori, prima con Augusto e poi con gli imperatori successivi, il culto era affidato ai liberti gli schiavi liberi che si erano arricchiti; qui sono stati trovate le statue di Vespasiano e Tito. Il ninfeo degli augustali era un edificio di forma rettangolare, con un'abside semicircolare sul lato di fondo e quattro nicchie rettangolari su ognuno dei lati lunghi. Nell'abside c'erano le statue di Ulisse che, con un altro compagno Baios, offre a Polifemo una coppa con il vino. La costruzione risale quindi al 41-54 d. C. gli anni del principato di Claudio. L'ingresso principale dell'edificio si trovava sul lato opposto a quello di fondo e si apriva verso il mare, con l'acqua che entrava dentro l'ambiente e che circondava una piattaforma a forma di "U", più alta rispetto al livello del pavimento. Molto probabilmente era un ninfeo-triclinio. Ninfeo perché la presenza dell'acqua e la decorazione delle pareti sono tipici di questo tipo di edifici, che imitano grotte naturali. L'abside e le nicchie dell'edificio di baia erano infatti rivestite con pezzi di calcare naturale (finta roccia) e con mosaico di paste vitree policrome e conchiglie, mentre il resto delle pareti era coperto da lastre di marmo colorato. Era anche un triclinio perché secondo gli archeologi sulla piattaforma c'erano i letti tricliniari, su cui stavano sdraiate le persone. Probabilmente i cibi venivano serviti su piatti galleggianti che "navigavano" sull'acqua che circondava la piattaforma, cosicché i commensali avevano l'impressione di mangiare sospesi tra le onde, in un ambiente fresco e pieno di riflessi luminosi, per l'acqua che si rifletteva sui mosaici e sui marmi colorati. L’ultima sezione su Liternum è nella zona della polveriera.
Fig 1 Pianta delle strutture sommerse di Baia
Baia secondo la leggenda, il suo nome deriva da Bajos, il nocchiero di Ulisse, che qui fu sepolto. In epoca romana, come testimoniato dalle ricche ville, fu luogo di riposo e di villeggiatura frequentato da patrizi romani. La località era infatti famosa per le sue calde acque termali, ricercate per lusso e per la cura delle malattie. Dal II secolo a. C. c’è un’esplosione di ville romane che oggi costituiscono il parco archeologico più famoso affacciato su un golfo splendido. In realtà il golfo è ciò che resta di un antico cratere vulcanico in parte eroso dall’azione del mare. Per capire l’uso termale del territorio di Baia dobbiamo accennare alle terme romane e alle loro funzioni, esse erano degli edifici pubblici con degli impianti che oggi chiameremmo igienico-sanitari. Sono i precursori degli impianti odierni e rappresentavano uno dei principali luoghi di ritrovo durante l'antica Roma, a partire dal II secolo a. C.. Alle terme potevano avere accesso anche i più poveri in quanto in molti stabilimenti l’entrata era gratuita. Le terme erano un luogo di socializzazione, di relax e di sviluppo di attività per uomini e donne che, in spazi ed orari separati, facevano il bagno completamente nudi. Veri e propri monumenti o addirittura piccole città all'interno della città stessa, esistevano due classi di terme, una più povera destinata alla plebe, e una più fastosa destinata ai patrizi. Lo sviluppo interno tipico era quello di una successione di stanze, con all'interno una vasca di acqua fredda, la sala del frigidario, solitamente circolare e con copertura a cupola e acqua a temperatura bassa, seguita all'esterno dal calidario, generalmente rivolto a mezzogiorno, con bacini di acqua calda. Tra il frigidario e il calidario vi era probabilmente una stanza mantenuta a temperatura moderata, il tepidario, stanza adiacente al calidario in cui veniva creato un raffreddamento artificiale. Assieme al calidario veniva usata quella che ai nostri giorni viene chiamata la sauna finlandese, ovvero il passaggio repentino dal caldo al freddo e viceversa. Le natationes erano invece le vasche utilizzate per nuotare. Attorno a questi spazi principali, si sviluppavano gli spazi accessori. L'apodyterium (uno spazio non riscaldato adibito a spogliatoio), la sauna, la sala di pulizia, la palestra. All'interno delle terme più sontuose (come le Terme di Caracalla) si poteva trovare spazio anche per piccoli teatri, fontane, mosaici, statue e altre opere d'arte, biblioteche, sale di studio e addirittura negozi. Il parco archeologico di Baia si estende su di una superficie di 40.000 mq è diviso convenzionalmente in vari settori (Villa dell’Ambulatio, Settore di Mercurio, Settore della Sosandra, Settore di Venere), racchiude i resti di residenze patrizie e di impianti termali. La Villa dell’Ambulatio si estende su due terrazze: quella superiore ospita il quartiere domestico e quella inferiore un grande porticato coperto che dà nome alla struttura. Il Settore di Mercurio è costituito da due nuclei distinti con funzione prevalentemente termale, si è supposto o un frigidarium o una natatio (piscina). Il Settore della Sosandra (nome dettato dalla statua della Sosandra) in cui sono state individuate quattro fasi edilizie, si sviluppa su quattro livelli: i primi due con funzione abitativa, mentre i due livelli inferiori ospitano un complesso architettonico scenografico interpretato come un teatro-ninfeo. In una delle stanze della Sosandra sono stati ritrovati dei calchi di gesso ammucchiati. Si è supposto che fosse un ebeterion cioè luogo di aggregazione dei giovani. Il Settore di Venere, chiamato così dagli studiosi del ‘700 che definivano “stanze di Venere” alcuni ambienti del livello inferiore, si articola su tre livelli sovrapposti con ambienti di servizio con funzione termale. Questo settore comincia ad essere costruito nel I sec. a. C. fino al II sec. d. C. sottoposto quindi a varie fasi di costruzione e ampliamento.
Miseno
Il sito, frequentato già nell'età del ferro, diventò porto cumano nel IV secolo a. C. Nel III secolo a. C. vide la presenza di Annibale. Nel II secolo a. C. divenne un fiorente centro residenziale. Con l'impraticabilità del Portus Julius, fu colonia autonoma e trasformato in base della flotta pretoria romana del basso Tirreno. In età augustea era il più importante sito militare romano della zona, e lo divenne ancora di più all'epoca di Marco Aurelio (161 d. C.), ma decadde con la caduta dell'impero romano d'Occidente. Ospitava la prima flotta imperale, la Classis Praetoria Misenensis. Per rifornire la flotta venne costruito l’acquedotto del Serino che riforniva d’acqua le principali località del tempo fino a Napoli. La piscina Mirabilis è un grossa cisterna grande 70×25 mt interamente scavata nel tufo con 48 pilastri su quattro file. L'acqua veniva prelevata attraverso i pozzetti realizzati sulla terrazza che sovrasta le volte con macchine idrauliche, e da qui canalizzata verso il porto. La struttura muraria è realizzata in opus reticulatum e, così come i pilastri, è rivestita di materiale impermeabilizzante. Una serie di finestre lungo le pareti laterali e gli stessi pozzetti superiori provvedevano all'illuminazione e all'aerazione dell'ambiente.
Bacoli
Bacoli fu fondata dagli antichi romani che la chiamarono col nome di Bauli. In epoca romana era un luogo di villeggiatura rinomato quasi quanto la vicina Baia. Dell'antica Bauli si conservano a tutt'oggi i resti delle Cento Camerelle, della Piscina Mirabile, del cosiddetto Sepolcro di Agrippina. Nell'età augustea Bacoli diventò addirittura il principale avamposto militare e capitale elettiva della politica, della cultura e della mondanità insieme alla vicina Baiae.
Sul lago Fusaro già frequentato al tempo dei romani, a partire dal 1752 divenne la riserva di caccia e pesca dei Borbone, che affidarono a Luigi Vanvitelli le prime opere per la trasformazione del luogo. Salito al trono Ferdinando IV gli interventi furono completati da Carlo Vanvitelli, figlio di Luigi, che nel 1782 realizzò il Casino Reale di Caccia sul lago (Detta Casina Vanvitelliana), a breve distanza dalla riva. la Casina si inserisce tra le più raffinate produzioni settecentesche, con alcuni rimandi alla conformazione della Palazzina di caccia di Stupinigi, progettata alcuni anni prima da Filippo Juvarra facendo ricorso a volumi plastici e ampie vetrate. L'edificio voluto dai Borbone presenta una pianta assai articolata, composta da tre corpi ottagonali che si intersecano l'uno alla sommità dell'altro, restringendosi in una sorta di pagoda, con grandi finestre disposte su due livelli. Un lungo pontile in legno collega inoltre la Casina alla sponda del lago.
Basiliche di Cimitile
Capitolo XXII
In antichità Nola, a differenza dell’attuale divisione amministrativa, era una città molto estesa tanto da avere uno sbocco al mare presso l’attuale Torre del Greco. In un primo momento si pensava che era una città Italica costruita dagli osci antichi abitati della zona, ma un ritrovamento straordinario ha dimostrato che la zona è stata sempre abitata. E’ stato da poco scoperto un villaggio preistorico che per motivi di conservazione è stato nuovamente ricoperto per lasciarlo ai posteri (la riproduzione è presso il museo di Nola). L’antica nuvla così come era chiamata nell’antichità Nola doveva il suo sviluppo alla posizione strategica sulla “via Popilia” che collegava Capua, la città allora più importante del sud a Reggio Calabria. L’importanza della zona è testimoniata dalla presenza di importantissime ville. E’ in questa zona che muore l’imperatore Augusto nella sua famosa villa fino ad oggi non ancora identificata. Alcuni studiosi ritengono che la villa dovrebbe essere nella zona di Somma Vesuviana altri la identificano nella zona di Ottaviano. A Nola sono da visitare il Museo Archeologico, il museo diocesano con il cippus abellanus ed il magnifico duomo con la cripta di San Felice vescovo. Il luogo artistico e storico più importante della zona è a Cimitile dove sono le Basiliche Paleocristiane che si devono a Ponzio Anicio Meropio Paolino detto comunemente San Paolino. Questo straordinario personaggio nato nel 355 a Bordeaux era figlio del prefetto della provincia di Aquitania e ben presto fa valere le sue doti diventato a poco più di venti anni uno tra i seicento senatori di Roma. Paolino per il suo status di senatore aveva diritto ad una provincia e scelse la Campania, ma invece di stabilirsi nella città più importante dell’epoca Capua, preferì Nola dove la sua famiglia aveva alcuni possedimenti. E qui che Paolino nota un grande flusso di pellegrini che vengono a venerare San Felice sepolto dagli abitanti di Cimitile presso la loro città. Rimane affascinato da questo attaccamento dei fedeli tanto che prima di lasciare Nola fa un gesto bizzarro, si taglia la barba e la lascia sulla tomba di San Felice. Questo San Felice definito in Pincis non deve essere confuso con San Felice Vescovo di Nola che vive prima del famoso prete taumaturgo, quest’ultimo fu il primo vescovo di Nola e vive a cavallo dell’anno 0. Muore a Nola il 15 Novembre del 95. Si racconta che, sotto il governatore di Nola Archelao, con la preghiera aveva liberato due uomini indemoniati e questi per pressione dei sacerdoti pagani lo arrestò. Mentre cercava di costringerlo ad adorare le divinità pagane una profonda voragine inghiotti l’edificio ed Archelao chiese a Felice di essere battezzato. Felice fu acclamato dal popolo vescovo di Nola. Nel 95 fu arrestato dal prefetto Marciano durante una delle prime persecuzioni cristiane ed i racconti ci tramandano che Felice dato in pasto ai Leoni, questi ultimi indietreggiano davanti a lui, fu buttato in una fornace, ma con l’intervento di un angelo si salvò. Allora Marciano lo fece appendere a testa in giù e dopo atroci torture lo fece decapitare il 15 Novembre del 95. La tradizione vuole che il martire fu seppellito all’interno di un pozzo, sul quale fu successivamente edificata la chiesa. Qui nella cripta il 15 Novembre e l’8 dicembre fuoriesce dalla tomba del santo un liquido rugiadoso detto manna e da questo evento i nolani traggono i buon auspici per la città. L’altro Felice la cui tomba è nelle basiliche paleocristiane è detto in Pincis. Era un sacerdote cristiano che morì a Nola il 14 gennaio del 313 . Tutto ciò che noi conosciamo di San Felice lo dobbiamo proprio a Paolino che nei suoi carmi natalizi, scritti dal 395 al 409 raccoglie la tradizione orale appresa nel territorio nolano. Secondo San Paolino, Felice nacque a Nola nella seconda metà del III secolo, figlio di un ricco di origini siriane trasferitosi in Italia per lavoro. Divenne sacerdote e collaboratore di Massimo, all'epoca vescovo di Nola. Fu imprigionato e torturato nel corso delle persecuzioni cristiane. La tradizione vuole che fu un angelo a liberarlo e che prestò le cure al malato vescovo Massimo che intanto si era rifugiato in un luogo segreto. Felice rifiutò più volte l’episcopato. Nonostante non sia stato ucciso, è stato riconosciuto come Martire dalla Chiesa per le numerose sofferenze affrontate in vita. La sua tomba fu detta Ara Veritatis, perché gli si attribuiva particolare efficacia contro la falsa testimonianza. Ma torniamo al personaggio più importante della zona Paolino. Dopo il suo gesto bizzarro lo troviamo a Barcellona ed e qui che conobbe Therasia sua moglie. Donna ricca e bella, ma cristiana, lo guidò sulla strada della conversione. Nel 389 infatti, a 35 anni, nella chiesa di Bordeaux, Paolino ricevette il battesimo dal vescovo Delfino. Nel 392 dalla coppia nacque Celso, ma appena otto giorni dopo la nascita morì. Questo evento segnò Paolino per sempre e lo spinse ancor più a rifugiarsi nella fede. Il suo percorso di conversione fu così completo. Nel 393 si trova a Barcellona dove nella messa del giorno di Natale lo invocano sacerdote, ma successivamente vende tutti i suoi beni ed insieme a sua moglie decisero di stabilirsi a Nola, lì proprio dove era stato governatore della Campania e dove si trovava la tomba di San Felice martire. Fondò un cenobio maschile e femminile ed insieme alla moglie si contraddistinsero per l’intensa vita di preghiera e l’assistenza ai poveri. Si ammalò gravemente e secondo la leggenda la guarigione fu opera di San Felice. Innalzò la Basilica a San Felice al posto del precedente santuario con ricchi chiostri, colonnati e fontane per accogliere le migliaia di pellegrini che venivano presso la tomba del Santo. La moglie morì tra il 409 ed il 414. Nel 410 morì Paolo il vescovo di Nola ed i fedeli invocarono Paolino Vescovo. Nello stesso anno Nola fu presa e devastata da Alarico I re dei visigoti e gran parte degli abitanti vennero fatti prigionieri. Paolino utilizzò tutti i suoi averi per riscattare i prigionieri e la croce episcopale. Quando non ebbe più niente offrì la propria persona per riscattare l’unico figlio di una vedova. Fatto schiavo lo ritroviamo in Africa a fare il giardiniere-ortolano del proprio padrone. Qui attraverso alcune premonizioni gli fu concessa dal suo padrone qualsiasi cosa voleva. Paolino chiese la sua liberazione e quella di tutti i nolani. Liberati furono accompagnati con navi cariche di grano e sulla spiaggia di Torre Annunziata (scoglio di rovigliano) fu accolto insieme ai prigionieri dai fedeli nolani che sventolavano gigli. A ricordo di questo evento ancora oggi la prima domenica dopo il 22 Giugno a Nola si tiene la Festa dei Gigli. Nella festa ogni mestiere della città è rappresentato da un grande obelisco ed il primo mestiere a sfilare per tradizione è quello dell’ortolano (giardiniere) a ricordo dell’attività del vescovo nella sua prigionia in Africa. Paolino scrisse, i Carmina, che restano una delle più alte testimonianze della poesia cristiana dei primi secoli. Ci sono pervenuti 33 carmi di cui 14 carmi natalizi, ne compose uno ogni anno durante la sua permanenza a Nola. Nel periodo di formazione e di studi compose vari poemetti, ma non ci è pervenuto nessuno di questi. Inoltre molto probabilmente a lui si deve l’utilizzo delle campane come mezzo per richiamare i fedeli alle funzioni religiose. Le Basiliche paleocristiane sono costituite da vari edifici di culto dedicati ai Santi Felice, Stefano, Tommaso, Calionio, Giovanni, ai Martiri ed alla Madonna degli Angeli.
La Basilica di S. Felice che contiene la tomba del Santo ha un orientamento est-ovest, costituita da due absidi contrapposte e da una edicola. La modesta tomba di San Felice in Pincis ha una lapide di marmo con l’effige del buon pastore e due fori. Nella tradizione il 14 Gennaio nel foro di destra veniva versato un unguento profumato e veniva ripreso dal foro di sinistra facendo passare un pezzo di stoffa creando un unguento miracoloso. L’altare di San Felice era un ara dedicatis dove venivano risolte diatribe sullo spergiuro. Tra il 484 ed il 523 intorno alla tomba dei Santi Felice e Paolino fu costruita un’edicola. Nel mosaico raffigurato con fogliame e pavoni simboli della cristianità c’era una scritta che solo ultimamente è stata decifrata. Questa racconta che in alcuni momenti dell’anno in questo luogo c’era una tale quantità di persone che le stesse dovevano restare immobili e schiacciati tra loro per poter partecipare alle funzioni o solo per restare vicino al Santo. Alla primitiva basilica a pianta quadrata fu sostituita una più ampia aula con abside a nord e ingresso a sud. Nella seconda metà del IV secolo vi fu aggiunto un edificio absidato a tre navate con asse est-ovest, indicato con il nome di 'basilica orientale'. Il campanile, situato tra l'abside occidentale e l'ingresso della basilica, a pianta quadrata, fu costruito tra XII e XIII secolo. L’abside occidentale è schiacciata dalla parrocchiale del 1794 e la tomba diventa cripta della chiesa basta guardare la grande vetrata dalla quale scendeva una scala chiocciola per accedere alla tomba del Santo. Quest’ultima sempre con una luce accesa. A volte per sostituire le lucerne venivano utilizzate le monete o le conchiglie perché si credeva che la madre perla, il bronzo e le lucerne erano gli unici elementi che permettevano di stabilire un contatto con Dio. Vicino alla tomba di San Felice troviamo le tombe vescovili, addirittura i Vescovi Musonio e Paolino omonimo del Santo si fanno seppellire sotto le soglie delle scale, per voto d’umiltà. Le spoglie di San Paolino sotto i longobardi vengono sottratte e portate a Benevento e poi arrivano alla basilica di San Bartolomeo sull’isola Tiberina in Roma, dove sono ancora oggi. Addirittura a Sutera in Sicilia si ritrova la mandibola del santo. Nel 1909 finalmente alcune delle spoglie del Santo raggiungono Nola e sono custodite nella cattedrale. La Basilica nuova, costruita da S. Paolino tra il 401 ed il 403 sul lato settentrionale di quella già esistente, alla quale era collegata da un atrio e da un triplice ingresso. Era articolata in tre navate, separate da undici colonne, con quattro cappelle laterali ed un'abside trichora, il cui catino era decorato da un mosaico, purtroppo perduto, ma descritto nella lettera 32 di Paolino a Sulpicio Severo. Dopo il crollo, seguito all'alluvione del VI secolo, fu adibita ad uso funerario, mentre, nel basso medioevo, i resti della trichora e delle due arcate antistanti della navata centrale furono trasformate nella chiesa di S. Giovanni. Dalla Basilica di San Felice si accede ad una parte dove c’è l’abbassamento del soffitto per la costruzione della parrocchiale. Qui troviamo una piccola raccolta degli affreschi staccati dalla basilica dei Santi Martiri. Le due lunette staccate rappresentano La cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso e l’atro l’episodio di Giona e la balena. Si possono vedere dei sarcofagi che da una parte hanno rappresentazioni della mitologia. Sul più grande c’è la storia di Selene per Endemione. Selene (la luna) innamorata dello splendido giovane Endemione chiede per lui la vita eterna dimenticando di chiedere anche la giovinezza eterna. Vediamo ancora un’urna cineraria in alabastro che è un marmo trasparente. Lavorato con delle fasce che danno l’idea che l vaso si avviti su se stesso. Fu utilizzato come fonte battesimale. Da notare la bellissima croce con la rappresentazione di un pellicano con tre piccoli uccellini che lo stanno scarnificando e per i cattolici rappresenta il sacrificio di Cristo per gli uomini. Qui sotto nella navata di sinistra c’è un cunicolo con una fornace che per la tradizione dovrebbe essere quella nel quale fu calato San Gennaro per essere bruciato dopo la condanna di Timoteo. Rientrando nella basilica di San Felice seguendo le scale della vecchia entrata qui molto probabilmente vi erano sepolture dei bambini. Notiamo la presenza dell’acquasantiera. Tutte le entrate dei luoghi di culto normalmente guardano ad est verso Gerusalemme ma qui non è così. Tutte le basiliche guardano a San Felice. Lungo le scale possiamo notare degli affreschi con un Cristo bellissimo disegni della Madonna con San Paolino. Tomba ad arcosolio sulla sinistra delle scale con Cristo bizantino e la rappresentazione del mito di Persefore ed Ade. Dall’altro lato l’albero di Jesse che è l’albero genealogico della famiglia di Cristo albero che inizia a fiorire dopo San Giovanni. Usciti dalla basilica si può accedere tramite delle scale alla basilica del SS. Martiri.
Cappella dei SS. Martiri che rappresenta la trasformazione di un mausoleo funerario gentilizio del III secolo. Comprende vari ambienti con pittura databili alla seconda metà del III secolo. All'inizio del X secolo il vescovo Leone III la trasformò in oratorio con abside, due altari a blocchi con nicchie e protiro, recante l'iscrizione: "Leo tertius episcopus fecit". La cappella è quasi sempre chiusa, ma è molto interessante. Il monumento funerario viene aperto per ampliarlo dotandolo di abside. Si chiama così perché qui erano seppelliti tutti i martiri in un pozzo, qui il sangue dei martiri ribolliva ogni venerdì. Si racconta che una donna prese un secchio per verificare e presa da spavento lasciò cadere una goccia di sangue che ancora oggi si può notare. La stessa è sotto una piccola grata di ferro dove il marmo è stato consumato dal passaggio di tutti i fedeli che accorrevano a toccare. Alla destra dell’abside si nota una raffigurazione regale con la scritta Maria Magdala. La basilica era sotto la protezione dei cavalieri di Malta lo si può notare dalla croce che è nel muro. C’è inoltre un bellissimo Cristo in croce che è una delle ultime rappresentazioni del Cristo con gli occhi aperti.
Basilica di S. Stefano, a navata unica con abside, costruita nel V secolo, anteriormente all'alluvione. Preceduta da un atrio, presenta un arco trionfale sorretto da due colonne scanalate con capitelli corinzi, due arcate nelle pareti laterali, di cui una è murata. Basilica di S. Tommaso, a navata unica absidata costruita tra VI e VII secolo per uso funerario sullo strato alluvionale. Contiene ottantaquattro tombe, che conservano oggetti databili tra il VI e il VII secolo. Sulla parete meridionale sono visibili alcuni volti di santi dipinti nel XIV secolo. È affiancata da un campanile a pianta quadrata con copertura a bulbo, edificato alla fine dell'XIX secolo. Cappella di S. Calionio, piccolo edificio absidato situato lungo la parete occidentale della navata destra della basilica di S. Felice. Costruito prima del V secolo, fu ristrutturato dal vescovo Leone III con un altare al centro e due nicchie laterali, recanti le figure dei santi Felice e Paolino. Cappella di S. Maria degli Angeli, edificata sul lato nord dell'abside occidentale di S. Felice. E’ un edificio a pianta quadrata, con volta a crociera, di età basso medievale.
Salerno e Cava de’ Tirreni
Capitolo XXIII
Il primo insediamento sul territorio di Salerno risale al VI secolo a. C. e si tratta di un centro osco-etrusco sito sul fiume Irno. Molti ritrovamenti di quell’epoca sono stati fatti nella zona di Fratte. A partire dal 197 a. C. viene fondata sulla costa la colonia romana di Salernum (l’etimologia del nome è riconducibile, probabilmente, al termine greco salos, che significa mare e da erno che vuol dire pianta uscita dal mare). Nell’area di Fratte sono stati scoperti i resti di un’antica cinta muraria e di una necropoli, segno di un’iniziale insediamento etrusco sannitico. Altri reperti di epoca romana sono rinvenuti all’interno del palazzo Arcivescovile, nello specifico: il colonnato probabilmente appartenute al tempio di Pomona, dea dell’agricoltura. L’attuale via Tasso che corrisponde, nell’impianto greco romano, al decumano massimo. Al museo archeologico di Salerno, tra gli altri reperti, vi è conservata una testa in bronzo di Apollo casualmente ritrovata da un pescatore negli anni ’30. I secoli d’oro della città vanno dal IX sec., quando venne fondata la scuola medica salernitana, al XII secolo, con Roberto il Guiscardo nel 1076.
Castello Arechi
Il castello medievale di Arechi sul monte bonadies (buongiorno), fu costruito sui resti di un precedente castrum romano. Esso raggiunse il suo apice nell’VIII secolo con il principe longobardo Arechi II, il quale ne fece il baluardo difensivo della città e dove spostò l’intera corte del ducato di Benevento. Il castello racchiude tre secoli di civiltà longobarda (dall’VIII all’XI secolo). Le mura fino al mare, la fortificazione del castello e la sua collocazione su un monte naturalmente protetto, resero Salerno "per natura e per arte imprendibile, non essendo in Italia una rocca più munita di essa", come testimonia Paolo Diacono nella sua "Historia Longobardorum". Al periodo normanno-angioino appartiene la torre cosiddetta della Bastiglia, costruita per assicurare il controllo del castello sul versante Nord, fu così chiamata nell'800 perché ritenuta erroneamente una prigione.
La scuola medica salernitana
La scuola medica salernitana è stata fondata all’incirca nel IX secolo d. C., secondo una leggenda, da un medico greco, Pontus, il quale riparatosi sotto gli archi dell’acquedotto prestò soccorso ad un viandante, il latino Salernus ferito, a lui si accostarono altri due medici l'ebreo Helinus e l'arabo Abdela, messa insieme l’esperienza multiculturale dei quattro si diede vita alla scuola medica che si è sempre contraddistinta per il carattere multiculturale e l’approccio empirico alla pratica medica. Federico II, nella costituzione di Melfi nel 1231, sancì l’importanza della scuola stabilendo che solo chi possedesse un diploma rilasciato dalla stessa poteva esercitare la professione medica. Nel 1280 Carlo II approva il primo statuto della scuola. Nelle adiacenza del Duomo persistono due sale all’interno delle quali si tenevano i corsi di medicina, la sala di S. Tommaso e la sala di S. Lazzaro. Nella scuola medica era la forte presenza delle donne, sia come allieve sia come dottoresse. Nel corso del XIX secolo la scuola cominciò a perdere di importanza a favore di altre università come quelle di Napoli, Bologna ecc., fino alla sua chiusura nel 1811 ad opera di Gioacchino Murat, nell’ambito della riorganizzazione dell’istruzione pubblica nel regno di Napoli. Il vicino giardino della minerva è un orto botanico proprietà della famiglia Silvatico che nel 1300 istituiscono il cosiddetto “giardino dei semplici”, cioè un’area per lo studio delle proprietà curative delle piante. La struttura è a terrazze collegate da una scala, inoltre dotata di un sistema di vasche, fontane e canalizzazioni risalenti al 1600. Di particolare pregio estetico sono una fontana con un mascherone tardo antico, che raffigura una Gorgone e la fontana della conchiglia, sul terrazzo panoramico del settecentesco palazzo Capasso.
Il Duomo
Il Duomo è stato costruito su di un’antica chiesa paleocristiana dedicata a santa Maria degli Angeli a sua volta sorta su di un tempio romano. I lavori proseguirono parallelamente alla tumulazione dei resti di S. Matteo, rinvenuti nel 954 nell’antica chiesa. Nel 1080 Roberto il Guiscardo, con il vescovo Alfano I, dà il via alla ristrutturazione. Nel 1688 in seguito ad un grosso terremoto la chiesa fu sottoposta ad un deciso restauro ad opera degli architetti Ferdinando Sanfelice e Arcangelo Guglielmelli. La pianta con il transetto triabsidato ci mostra delle forti analogie con l’abbazia di Montecassino, dovute soprattutto al vescovo Alfano I, assiduo frequentatore di Montecassino e monaco benedettino. L’ingresso, dallo scalone principale si apre su di un quadriportico in pieno stile romanico. . Il quadriportico ha quattro lati in stile romanico con colonne di spoglio di preesistenti edifici romani e, per la quantità delle stesse, si suppone che non siano soltanto dei templi presenti a Salerno ma probabilmente provengono dalla città di Roma. L’interno ha una pianta è articolata in un corpo longitudinale a tre navate con uno orizzontale, il transetto e tre absidi che insieme alla forma particolare della cripta, ad aula con lo spazio scandito da colonne e con le absidi in corrispondenza con quelle del transetto superiore. All’ingresso del quadriportico sulla destra si aprono due ambienti non visitabili, probabilmente le aule di S. Tommaso e S. Lazzaro della scuola medica salernitana. La facciata del Duomo è in stile barocco, realizzata nel 1767 dall'arcivescovo Isidoro Sanchez De Luna, che sostituì l’originario ingresso romanico, di cui rimane il portale detto “Porta dei leoni”, per la presenza di due leoni – uno maschio a rappresentare la forza e l’altro femmina con un leoncino a rappresentare la carità. Al centro dell’atrio esisteva una fontana in granito rosso egiziano sottratta da Ferdinando IV nel 1820 e portata a Napoli nella villa comunale oggi nota come la fontana delle paperelle, al suo posto c’è una piccola fontana, anch’essa un antico fonte battesimale. Il loggiato è adornato, in un doppio ordine, di bifore e pentafore. All’interno della cattedrale ritroviamo antichi sarcofagi appartenuti a nobili romani e riutilizzati nei secoli successivi, pertanto non stupisce che in un tempio cristiano esistano monumenti funebri con scene campestri, rurali o di feste al dio Bacco, accanto a sarcofagi di natura cristiana tutti disposti ai lati del porticato. L’ingresso della chiesa è caratterizzato da un portale in bronzo del 1099 donato da due coniugi Landolfo e Guisana Butrumile, è costituito da 54 formelle in gran parte raffiguranti croci bizantine, presenta al centro una teoria di santi tra i quali spicca san Matteo, la raffigurazione di due grifi che si abbeverano ad un fonte battesimale, ricordiamo che il grifo, oltre che dell'immortalità dell'anima, è anche simbolo della famiglia normanna degli Altavilla, ai quali apparteneva il fondatore Guiscardo. Al di sopra della porta principale sono collocate le tre statue di S. Matteo, Cristo e S. Giovanni Battista. Il campanile è a quattro ordini, i primi due in travertino e i restanti due in laterizio, ogni piano è alleggerito dalla presenza di bifore ed è sormontato da una torretta circolare adornata da dodici archi a tutto sesto in materiale policromo in stile arabo normanno.
L’interno è a tre navate ma si suppone che originariamente fosse a cinque navate, oggi l’impianto decorativo è in stile seicentesco anche se sono state ritrovate tracce di affreschi di scuola giottesca. Di stile e fattura romanica sono i due amboni o pulpiti alla fine della navata, essi appartengono a due distinte famiglie che li hanno donati a pochi anni di distanza l’uno dall’altra. Il primo a sinistra è della famiglia Guarna, donato dall’arcivescovo Romualdo Guarna nel 1180 , Il pulpito è retto da quattro colonne, tre delle quali sormontate da capitelli figurati, mentre la quarta presenta il capitello a motivi vegetali. Al di sopra i pannelli degli archi presentano i simboli dei quattro Evangelisti mentre la decorazione a mosaico è fondata sul ripetersi e sul complicarsi del modulo di ispirazione bizantina di un disco inscritto in una fascia a motivi geometrici. Il secondo pulpito a destra è della famiglia D’Aiello, donato dall’arcivescovo Niccolò D’Aiello nel 1195, è di dimensioni maggiori rispetto al primo, l'ambone è a pianta rettangolare su dodici colonne a fusto liscio con capitelli a motivi ornamentali. Sui pannelli a mosaico si ritrova il motivo del disco inserito in una cornice a spirale, caratteristica di questo ambone è la colonna per il cero pasquale.
Nella controfacciata, cioè la parete che ci lasciamo alle spalle quando entriamo in chiesa, è stato rinvenuto, dopo l’ultimo restauro, un affresco del 1200 di S. Matteo nella lunetta sopra il portale d’ingresso. Tra i monumenti funebri all’interno del Duomo ricordiamo la tomba della regina Margherita di Durazzo opera di Antonio Baboccio da Piperno di cui si conservano tracce della colorazione originaria. I tre absidi sono decorati da mosaici che in parte furono rifatti negli anni ’50 ad opera della scuola di mosaicisti di Ravenna. L’abside maggiore quello centrale presenta un mosaico della Vergine immersa nella luce e attorniata da una serie di personaggi di cui ricordiamo Roberto il Guiscardo, la moglie la principessa Sichelgaita e il vescovo Alfano I. Nell’abside di sinistra detto abside reale c’è la rappresentazione del battesimo di Gesù. L’abside di destra detto dei crociati perché si riteneva che qui venissero benedetti i crociati prima di partire è anche l’abside di Gregorio VII le cui spoglie riposano in una teca qui esposta. Fu Giovanni da Procida a commissionare la costruzione della cappella nel 1258 ornandola di splendidi mosaici che rappresentano S. Michele e S. Matteo. Alle pareti della cappella ci sono due affreschi datati 1722, probabilmente commissionati dall'arcivescovo Poerio che raffigurano l'ingresso di Gregorio VII in Salerno, l'altro Gregorio VII che consegna le insegne cardinalizie ai canonici di Salerno. Ricordiamo che Gregorio VII visse in esilio a Salerno durante la lotta per le investiture e qui morì. Su di uno scrigno d'argento sono riportate in latino le ultime parole del pontefice: "Amai la giustizia ed odiai l'iniquità perciò muoio in esilio". Dalla sagrestia si accede alla cosiddetta cappella del tesoro, in fondo sulla sinistra, dove sono esposti gli ex voto dei fedeli. Inoltre, è possibile ammirare la statua in argento di papa Gregorio VII, di S. Matteo e dei S.S. Martiri salernitani, una statua lignea di S. Giuseppe tutte portate in processione il 21 settembre festa patronale. Al di sotto della chiesa si accede alla cripta in stile barocco, restaurata nel 1680 da Domenico Fontana, che custodisce le spoglie di S. Matteo qui deposte nel 1081. Sull’altare è esposta la statua bifronte di S. Matteo opera di Michelangelo Naccherino del 1605. La cripta ospita nella zona est la cappella dei santi martiri salernitani e i relativi resti (Fortunato, Gaio, Ante e Felice), che subirono il martirio all'epoca delle persecuzioni di Diocleziano (303-310) e le reliquie dei Santi Confessori.
Il complesso di San Pietro a Corte si è rivelato essere una stratificazione di più edifici di diverse epoche a partire dall’età romana di cui restano visibili il complesso termale del frigidarium e del calidarium del I secolo d. C., questo complesso abbandonato a causa di un’alluvione nel V secolo i cristiani vi insediarono una chiesa paleocristiana con relative sepolture.
Nel 774 il principe Arechi II, duca di Benevento, nel suo progetto di spostare la corte a Salerno utilizzò l’area per costruire il suo palazzo, che in parte ha conservato gli ambienti riscoperti nella seconda metà del ‘900 quando l’area è stata interessata da un recupero storico e archeologico.
Del palazzo di Arechi rimangono poche tracce negli archi, nei capitelli e nelle colonne disseminati negli edifici che hanno inglobato il complesso. Della struttura originaria rimane l'aula settentrionale, costruita sulle preesistenti terme romane. Nel XII secolo venne costruita la chiesa di cui rimangono alcuni affreschi e che ha subito parecchi restauri nel corso dei secoli.
La chiesa di S. Giorgio è in puro stile barocco, a poche centinaia di metri dal Duomo, faceva parte di un complesso monastico del IX secolo di suore benedettine soppresso dopo l’unità d’Italia e oggi sede dell’arma dei Carabinieri e della Guardia di finanza. La fase di massimo splendore è nel 1600/1700 quando fu ristrutturato da Ferdinando Sanfelice. La chiesa presenta affreschi inerenti il ciclo della Passione e il Paradiso di Angelo Solimena, mentre del figlio Francesco sono i tre pannelli con le Storie di Santa Tecla, Archelaa e Susanna del 1680 circa.
Cava dei Tirreni e l’Abbazia della SS. Trinità
La fondazione dell’abbazia di Cava risale all’XI secolo ad opera di S. Alferio Pappacarbone, il quale visse in eremitaggio in una grotta. In pochi anni, attratti dalla santità di Alferio, si formò una numerosa comunità di monaci riconosciuta dai papi nei secoli avvenire. Ricordiamo che Pietro I, nipote di Alferio e abate della comunità, ordinò più di tremila monaci. Già nel 1025 il principe Guaimario III di Salerno e suo figlio Guaimario IV con un diploma donarono alla nuova comunità la zona boschiva e le terre coltivate nella zona tra il fiume Selano e i due rigagnoli suoi affluenti Sassovivo e Giungolo. Con lo stesso diploma fu conferito alla comunità monastica l'esenzione dalle imposte e la libera designazione degli abati da parte del predecessore. L’estensione dei possedimenti dell’abbazia arrivava fino a Vietri dove la chiesa aveva un suo porto e gestiva i traffici commerciali di seta e preziosi come la vicina Amalfi. Il 7 agosto 1394 Papa Bonifacio IX conferì il titolo di città al territorio di Cava , elevandola a diocesi. Il monastero, non venne più governato da un abate, ma da un priore sottoposto al vescovo e la comunità dei monaci formava il capitolo della cattedrale. Il vescovo godeva di tutti i privilegi e di tutti i diritti di un abate regolare sull'abbazia cavense e doveva risiedere alla Badia, la cui chiesa venne dichiarata cattedrale della nuova diocesi. Tra il 1500 e il 1700 l’abbazia vive un grande momento di rinnovamento architettonico e dell’antica struttura rimangono l’ambone del XI secolo e la cappella dei S.S. Padri. Di notevole importanza a tutt’oggi è la biblioteca che conserva moltissimi volumi e opere dall’ VIII all’XIX secolo.
Paestum e provincia Salerno
Capitolo XXIV
Paestum viene fondata dai Greci intorno al 600 a. C., si chiamava inizialmente Poseidonia, da Poseidone (o Nettuno), dio del mare, al quale la città era stata dedicata. La zona, però, registra la presenza dell’uomo fin dal paleolitico superiore, addirittura dal 3000 a. C., pertanto al neolitico risalgono i rinvenimenti che sono stati trovati nell’area tempio di Cerere. Le scoperte più interessanti inerenti questa datazione più antica riguardano la cultura del Gaudo, che è una delle culture dell’inizio del II° millennio, la quale fa parte delle culture dell’Italia pre-romana che seguivano o la pratica dell’incinerazione o quella dell’inumazione per i propri defunti. Per quel che riguarda l’abitato di Paestum, già dall’età del ferro, che va dal IX secolo a. C., si parla di una cultura precedente ai primi insediamenti dei greci e facente parte dei popoli italici: la cultura detta Enotria, che smentisce alcune fonti secondo le quali la zona in oggetto era “eremos chora” che dal greco indica una zona abbandonata o incolta. Le prime colonie greche vengono fondate nel VIII secolo a.C., la stessa Poseidonia è fondata verso la fine del VII secolo in una zona che, come dimostrano i rinvenimenti, era sicuramente già abitata. Poseidonia in realtà è una sub-colonia, cioè una colonia non fondata direttamente dai greci della madrepatria ma dai greci che si erano stanziati in Italia, fondata alla fine del VII secolo a. C. dai Sibariti. Strabone, un geografo che visse durante il periodo di Augusto, quindi successivamente alla fondazione, ci dice che prima di fondare la città i greci fecero una breve sosta ad Agropoli, poco oltre il Cilento, dove costruirono un tempio dedicato a Poseidone (Nettuno). Questo elemento fotografa l’inizio della colonia, l’origine del nome ed anche il primo stanziamento dei greci che fondano la città. La città nacque per il bisogno dei Sibariti di aprirsi una via commerciale fra lo Ionio e il Tirreno attraverso la dorsale appenninica, per evitare la circumnavigazione della costa calabra e lo stretto di Messina. Una data da ricordare è il 540 a.C., anno della fondazione di Elea (la futura Velia, attuale Ascea), per la quale i poseidoniati si faranno garanti della fondazione e del possesso del territorio da un altro gruppo di greci, provenienti da Focea, in questo caso nella zona appunto situata poco oltre. Nel corso del VI secolo a. C. nella metà del V secolo a.C. dobbiamo parlare di una decadenza di Poseidonia dovuta alle invasioni dei Lucani. Per cui, ad una fase greca versa la metà del V secolo subentra un’egemonia lucana, la quale ha vita non lunghissima. Altra tappa fondamentale della vita di Poseidonia è individuata nel 273 a. C., quando i romani occupano la colonia e cambiano il nome in Paestum, laddove già i lucani avevano sostituito il nome di Posidonia in Paistom.
Dalla pianta della città notiamo l’estensione della città di Poseidonia (Paestum), infatti si conosce meno di un terzo della città antica. Tutto il resto è noto perché la cinta muraria è quasi del tutto conosciuta: le mura e i templi di Paestum sono alcuni degli elementi che si sono conservati nel corso dei secoli. Se, da un lato, si conosce l’estensione della città, dall’altro, non si conosce tutto quello che vi era dentro, perché la maggior parte di questi territori sono ancora in mano a privati.
Il circuito murario che oggi si conosce risale al VI secolo, è in calcare e si estende per 4.750 metri con blocchi isodomi, secondo la tecnica di costruzione dell’epoca. Il perimetro dell’area è dotato di porte d’ingresso come la porta Sirena ad est quella che è di fronte alla stazione della ferrovia.
La città di Paestum fu importante dal punto di vista commerciale, essa arrivava fino al mare, per cui sul lato ovest, che non è attualmente esplorato c’è la porta Marina. A nord la porta Aurea (che in realtà era ben conservata però purtroppo è stata demolita nell’800 e non rimane quasi niente), e poi porta Giustizia a sud. Per le mura si è fatto un grosso lavoro di restauro.
Negli scavi il primo tempio che si incontra è il Tempio di Cerere, poi si raggiunge il tempio di Nettuno e poi la Basilica.
Potrebbe tornare utile una ripetizione delle varie parti di un tempio greco, che riportiamo di seguito nella figura.
Tempio di Cerere
Il tempio di Cerere è un tempio che si data intorno al 500 a. C. ed è cronologicamente l’ultimo dei tre templi esistenti. La dedica a Cerere è frutto delle attribuzioni fatte nell’800, quando è ricominciato l’interesse verso la zona archeologica fino ad allora una palude malsana. I templi venivano riutilizzati o come stalle oppure come, nel caso del tempio dio Cerere, trasformati in chiese. La riscoperta è dovuta all’opera dei Borbone che cominciarono in quel periodo gli scavi di Ercolano e Pompei. Successivamente, nel 1762, Carlo III costruisce la strada statale che permette di arrivare nella zona degli scavi archeologici, la statale 18 che taglia in due tutta la zona e taglia lo stesso anfiteatro romano. Nell’800 i templi vennero ribattezzati con nomi che in realtà non corrispondono alle divinità a cui erano dedicati , ad esempio il tempio di Cerere, che è la dea dell’agricoltura, in realtà è il tempio di Atena, quindi lo si può ribattezzare “Atenaion”, alla greca. Va qui ricordato che la reale attribuzione del tempio ad una divinità si stabilisce o attraverso una decorazione scultorea o, più spesso, attraverso i rinvenimenti delle fosse votive. Si trattava di fosse scavate nel terreno nelle quali venivano disposte le offerte votive. Quando se ne trovano è facile risalire alla divinità cui era attribuito il tempio sulla base dei materiali rinvenuti. Accanto al cosiddetto tempio di Cerere è stata trovata una di queste fosse votive contenente statuette dedicate alla dea Atena. Il tempio ha una caratteristica distintiva, cioè presenta delle colonne maggiormente scanalate all’esterno di tipo dorico mentre all’interno della cella utilizza delle colonne ioniche, la misura è di 6 x 14, che significa un colonnato di sei colonne sul lato breve e quattordici colonne sul lato lungo. Inoltre, insieme al Tempio di Nettuno il tempio di Cerere restituisce il frontone con i fregi.
Tempio di Nettuno
Andando verso gli altri due templi di epoca greca si attraversa la via sacra delle processioni, ancora in perfette condizioni. Il tempio di Nettuno (anche questo con pianta 6×14) è quello meglio conservato in assoluto, anche rispetto ad alcuni templi siciliani; in questo caso le attribuzioni sono duplici. Il nome Nettuno è stato attribuito nell’800, mentre alcuni studiosi sono in disaccordo tra Apollo e Zeus. L’attribuzione a è legata al fatto che sono state trovate delle iscrizioni, placchette, statuette fittili e degli ex voto che fanno riferimento alla figura di Zeus, marito di Era, la divinità cui è dedicata la cosiddetta basilica. L’attribuzione ad Apollo è legata al fatto che sono stati trovati dei cippi che facevano riferimento al Chirone (centauro medico) e Apollo. Il tempio presenta una divisione interna della cella in 7 colonne e si distingue per la presenza dell’opistodomo, zona di servizio per raccogliere tutti gli oggetti di culto, quindi con funzione di stivaggio.
Basilica
La cosiddetta basilica, denominazione nata dalle attribuzioni errate nell’800, è in realtà il tempio di Era e non ha niente a che vedere con la basilica romana. L’errore di denominazione nasce dal fatto che non era stato rinvenuto il frontone. È un tempio con 9 colonne sui lati brevi e 18 sui lati lunghi, è il tempio più antico e di particolare grandezza dedicato ad Era, la divinità più importante del mondo acheo e di Sibari, la madre patria di Poseidonia; questo ci indica un rapporto di continuità tra la madre patria e le colonie attraverso il culto delle stesse divinità, infatti si parla di un rapporto tra l’Era di Paestum che era paestana e l’Era Argiva, cioè Argo, una delle città più importanti di riferimento. La basilica è un tempio ed è un Heraion a tutti gli effetti; essa presenta delle colonne che hanno un minor numero di scalanature mostrando un entasis, cioè un rigonfiamento, minore rispetto agli altri due templi e, quindi, una struttura più affusolata delle colonne con proporzioni totalmente diverse.
Heroon
Lasciandosi il tempio di Cerere alle spalle e andando verso destra, ci si sofferma su Heroon (14 in figura 1), cioè il cosiddetto edificio di culto all’eroe, piccolo tempio ipogeo recentemente scavato, che vuol dire sotterraneo. È stato attribuito all’ecista, cioè all’eroe fondatore della città che veniva divinizzato dopo la morte: il tempio, costruito in suo onore, era considerato sacro anche dalle successive dominazioni lucane e romane che lo interrarono anziché raderlo al suolo; è detto anche cenotafio che indica una tomba senza spoglie. Sono state trovate le offerte fatte all’eroe, come ad esempio: un’idria (vaso di bronzo). Le analisi fatte hanno dimostrato che conteneva del miele utilizzato durante i funerali o durante i riti sacrificali. Degli spiedi di ferro utilizzati per cuocere la carne; dei vasi a figure nere con la rappresentazione di Ercole, importante perché egli era considerato dalle colonie greche come una divinità/eroe fondatore di molte città. Dal lato opposto, si vede un altro edificio circolare che si chiama bouleuterion o ekklesiasterion: era il luogo in cui si riuniva il popolo in ecclesia o in bule, cioè in assemblea. Presenta una forma semi-circolare, con gradoni che permettevano a tutti i partecipanti di intervenire durante le assemblee popolari, l’edificio si trova presso l’antica agorà, che fu poi abbandonata in epoca romana, quando venne costruito il foro. Seguendo le descrizioni di Strabone venne scoperta l’esistenza di un altro tempio che i greci avevano fondato, non nella zona archeologica di Paestum ma alla foce del fiume Sele, ed è un altro Heraion, cioè un altro tempio dedicato ad Era.
Ekklesiasterion
Un altro edificio che si trova nell’ambito dell’area archeologica di Paestum è l’Ekklesiasterion o Bouleutheerion. È l’edificio che faceva parte dell’Agorà greca perché i lucani lo riutilizzarono per le riunioni. In età romana fu costruito il foro e questo luogo venne ricoperto .
Il Museo archeologico di Paestum
Alla foce del Sele è stato rinvenuto un ulteriore tempio, fondato alla foce del fiume Sele. Due archeologi, Zanotti Bianco e Zancani Montuoro, con la fonte di Strabone sulla base della distanza da Paestum trovarono resti di templi e tantissime metope. Nel 1954 tutte le metope ritrovate presso il Sele vennero ricollocate presso il museo in una delle ricostruzioni di un piccolo tempietto ritenendo erroneamente che facessero parte della medesima costruzione, in realtà appartengono a tempi diversi. Le più antiche sono della metà del VI secolo a. C. e invece le più moderne sono della fine del VI secolo a. C.. I tre gruppi in cui sono stati suddivise le metope presentano diverse raffigurazioni: la maggior parte rappresentano le fatiche di Ercole, il cui nome greco è Eracle, simbolo delle colonie greche perché eroe fondatore, che viaggia e si sposta. Eracle era un semi dio, cioè figlio di un mortale e di un dio e nella fattispecie Eracle era figlio di Zeus e Alcmena, in realtà è nato con un inganno dato che Zeus si trasformò in suo marito Anfitrione e dopo una notte d’amore fu concepito Eracle. Già da piccolo Eracle si dimostrò molto forte e da piccolo dovette uccidere dei serpenti che gli furono inviate dalla moglie di Zeus Era. Eracle è famoso per le mitiche fatiche che vengono rappresentate in alcune metope, ad esempio vediamo Eracle che combatte contro un gigante che è Anteo. Eracle che porta sulle spalle due figure che erano i cercopi, due briganti che avevano tentato di rubargli la clava e lui li punisce- L’ultima metopa rappresenta Eracle che sta uccidendo il celebre leone di Nemea. Altre metope rappresentano altri cicli figurativi, come il ciclo troiano, una serie di miti che fa riferimento a personaggi che hanno combattuto nella guerra di Troia, come Agamennone o Clitemnestra; un altro nucleo fa riferimento a Giasone. Nel museo si possono vedere gli elementi utilizzati per decorare i templi, che non erano spogli ma dipinti con colori sgargianti, le colonne erano tutte dipinte di giallo, ocra, rosso, blu, verde e la parte dei tetti era tutta decorata con queste terrecotte architettoniche. Si può vedere la statua più importante del culto di Era, che nell’iconografia tradizionale è seduta in trono con un copricapo molto alto, il polos, e nella mano sinistra ha una scodella, dove c’erano le offerte e nella destra ha un melograno, simbolo della fertilità e prosperità. La fase successiva è quella lucana, dal V secolo fino al III a. C., di cui si ricorda soprattutto lo splendore delle tombe dipinte, tradizionalmente costruite lontano dal centro abitato.
Tomba del tuffatore
La più nota tra le tombe c’è la tomba del tuffatore. Una tomba a camera con le pareti interne dipinte, si è pensato che le pitture venissero realizzate sul posto poco prima che venisse calata la salma del defunto, infatti sono state trovate le impronte delle corde sulle pareti, a testimonianza del fatto che gli affreschi fossero ancora umidi quando fu calato il defunto. La tomba del tuffatore rappresenta un pezzo unico nel suo genere perché ci propone un’iconografia che non è tradizionale; è databile all’inizio del periodo lucano intorno al 470 a. C.. Ha 4 lati affrescati e una lastra di copertura piana, anch’essa era affrescata. All’interno della tomba sono stati trovati tutti gli oggetti del corredo, come i vasi utilizzati durante l’ultimo banchetto prima della deposizione e oggetti personali, in particolare è stato trovato il guscio di una tartaruga, che i greci utilizzavano per fare degli strumenti a corde come la lira. I due lati lunghi della tomba rappresentano scene di simposio, cioè del classico banchetto greco, il momento più importante dell’incontro tra gli aristocratici greci, rappresentati stesi sui letti a bere. Va sottolineato che gli uomini sono rappresentanti solitamente più scuri perché avevano maggiore possibilità di andare all’aperto e quindi di abbronzarsi, mentre le donne, stanno in casa, avevano la pelle chiara.
La lastra principale è quella del tuffatore, il giovane tuffatore si lancia da una colonna che rappresenta le colonne d’Ercole, allegoria della fine del mondo conosciuto. Il tuffo è un’allegoria del passaggio dalla vita terrena all’oltretomba attraverso la purificazione del contatto con l’acqua. La tomba che, all’interno della necropoli, è stata trovata in una posizione più appartata è probabilmente appartenuta ad un personaggio di rango superiore. La scena è incorniciata da fregi con palmette e presenta delle raffigurazioni di piante. La Tomba doveva appartenere ad un aristocratico o ad un principe: si trovava appartata, aveva un corredo funebre molto ricco e il banchetto è una rappresentazione di questo rango.
Altre tombe
Nel corridoio del museo dedicato alla necropoli, si trovano raffigurazioni e iconografie più standardizzate. Un altro tipo di tomba, più semplice e diffusa, è stata ritrovata nella necropoli circostante e risale ad un periodo successivo, a partire dalla fine del V e nel corso del IV, e ha una rappresentazione che ricorda il mondo dei cavalieri con guerrieri che tornano dalla guerra a cavallo accompagnati da donne in trionfo. Anche in queste tombe i corredi funebri ci hanno restituito oggetti della vita quotidiana, oggetti d’oro e vasellame di vario tipo.
I corredi
I corredi erano caratterizzati da vasi, oggetti d ornamento personale, monete, gioielli, oggetti di terracotta che rappresentano cibi che fanno riferimento all’ultimo pasto in occasione della sepoltura che sono presenti in una serie di vetrin apposite nel museo. Per quanto concerne i vasi, in genere di dividono in forme chiuse e forme aperte, a seconda che il diametro del corpo sia più ampio del diametro dell’apertura (orlo). Una distinzione di altra natura invece è legata alla funzione del vaso: ci sono vasi per trasportare e conservare, vasi per mescolare i cibi o le bevande, vasi per versare, vasi per bere e vasi per la toeletta.
Conosciamo tutti le anfore (il numero 1 nell’immagine che segue), le idrie (numero 2) con un solo braccio e servivano al trasporto dell’acqua. Dal 2 al 7 si trovano vasi di varia forma e denominazione che erano deputati al trasporto dei liquidi. Il vaso n. 7 è il cratere, che serviva a mescolare acqua e vino. Il numero 5 – 6 è l’oeconoe per versare e coppe per bere. C’erano poi vasi per la pulizia personale.
Quello che ci interessa è la cosiddetta ceramica a figure rosse che riguarda il mondo italiota. A Paestum dobbiamo ricordare addirittura due vasi firmati, da Astrias e Piton, che erano due ceramografi che firmano diversi vasi.
Paestum romana
Nel 273 a.C. Roma sottrasse Paistom alla confederazione lucana, vi insediò una colonia, e cambiò il nome della città in Paestum. I rapporti tra Paestum e Roma furono sempre molto stretti: i paestani erano socii navales dei Romani, alleati che, in caso di bisogno, dovevano fornire navi e marinai.
Le imbarcazioni che Paestum (e la non lontana Velia) fornirono ai Romani dovettero probabilmente avere un peso non irrilevante durante la Prima Guerra Punica. Nella Seconda Guerra Punica, Paestum rimase fedele alleata di Roma: dopo la battaglia di Canne, Paestum addirittura offrì a Roma tutte le patere d’oro conservate nei suoi templi. La generosa offerta fu rifiutata dall'Urbe, che però non disdegnò, invece, le navi cariche di grano grazie alle quali i Romani, assediati da Annibale entro le mura di Taranto, potettero resistere. Come ricompensa della sua fedeltà, a Paestum fu permesso di battere moneta propria, in bronzo, fino ai tempi di Tiberio; tale conio si riconosce per la sigla "PSSC" (Paesti Signatum Senatus Consulto). Per quanto concerne il sito archeologico, l’area romana va ad occupare parte dell’agorà greca e abbiamo la costruzione dell’anfiteatro, del foro e una serie di edifici che ruotano intorno al foro e di quartieri abitativi. Ci sono anche le terme, delle quali non ci sono molte evidenze (e si trovavano ad ovest della via Sacra). L’anfiteatro: nella zona dell’arena avvenivano i combattimenti (gladiatori contro gladiatori, animali contro gladiatori, animali contro animali). Il nome arena viene dalla denominazione della sabbia, che si trovava nella parte centrale. Si vedono anche i gradini dei primi posti a sedere e parte di alcune porte che portavano verso l’arena. L’anfiteatro fu attraversato da una strada, e spezzato a metà. Nel foro gli edifici erano stati impaludati per secoli, per cui restano soltanto le parti inferiori. Riconosciamo alcuni edifici: il cosiddetto Tempio italico, che presenta dei gradini che portavano al podio e delle colonne che sono state rierette nell’ambito del restauro. Il tempio italico di Paestum si data alla metà del III secolo. Potrebbe trattarsi di un capitolium (la cella sarebbe stata divisa in età romana in tre). Dietro al tempio italico si vede la piscina del tempio di Venus Verticordia, che era Venere “pudica”. Di questo aspetto del culto di Venere ci scrive Ovidio. Fu introdotto a Roma in un periodo in cui si cerco di limitare a freno il lusso femminile, sia nel senso del vestire che nel senso delle pulsioni sessuali. Nella cerimonia era previsto un bagno rituale di purificazione ed è possibile vedere il basamento della piscina che faceva parte del tempio della Venere. Il quartiere abitativo restano un paio di domus. Si vedono delle case ad atrio. Restano infine il macellum (il mercato) e la curia, che è il luogo dove si riunivano i senatori locali anche durante il governo dei municipia. Nel museo archeologico di Paestum c’è anche una sezione romana.
Elea /Velia
Lo storico e geografo greco Strabone, nella sua Geografia, parla della città di Elea-Velia, specificando che i Focei (nella attuale Turchia), suoi fondatori, la chiamarono inizialmente Hyele, (che era il nome di una sorgente che vi si trovava) nome che poi divenne Ele e infine Elea. I Romani per il nome della città adottarono la forma Velia, attestata a partire da Cicerone. Elea fu fondata nella seconda metà del VI secolo a. C., da esuli Focei in fuga dalla Ionia (sulle coste dell'attuale Turchia, nei pressi del golfo di Smirne) per sfuggire alla pressione militare persiana. La fondazione avvenne a seguito della Battaglia di Alalia, combattuta dai Focei di Alalia contro una coalizione di Etruschi e Cartaginesi, evento databile in un arco temporale che va dal 541 al 535 a. C.. La città fu edificata sulla sommità e sui fianchi di un promontorio, comprato dai Focei agli Enotri, situato tra Punta Licosa e Palinuro. Intorno al V secolo a.C., la città era felicemente nota per i floridi rapporti commerciali e la politica governativa. Assunse anche notevole importanza culturale per la sua scuola filosofica presocratica, conosciuta come Scuola eleatica, fondata da Parmenide e portata avanti dall'allievo Zenone. Nel IV secolo entrò nella lega delle città impegnate ad arrestare l'avanzata dei Lucani, che avevano già occupato la vicina Poseidonia (Paestum) e minacciavano Elea. Con Roma Elea intrattenne ottimi rapporti: fornì navi per le guerre puniche (III-II secolo) e inviò giovani sacerdotesse per il culto a Demetra (Cerere), provenienti dalle famiglie aristocratiche del posto; divenne infine luogo di villeggiatura e di cura per aristocratici romani, forse grazie anche alla presenza della scuola medico-filosofica. La città raggiunge un periodo di grande sviluppo in età ellenistica e in gran parte dell'età romana (fine IV a.C. – V sec. d.C.). Elea a differenza di Paestum non ebbe un periodo lucano, in quanto riuscì a resistere alla pressione lucana.
Il percorso all’interno della zona archeologica: Il percorso guidato comincia dalla città bassa (A), i cui edifici risalgono all'età ellenistica e romana. Il vialetto d'ingresso costeggia la cinta muraria, lunga 5 km, la quale, costruita nel VI sec a. C., acquista la sua attuale fisionomia con la costruzione di circa 30 torri alla fine del IV sec a. C. per contenere l'avanzata dei Lucani. Davanti alle mura si ha una necropoli di età imperiale (I-II sec. d.C.) di cui sono visibili sepolture individuali e recinti funerari, all'interno dei quali si raccoglievano diverse deposizioni. L'accesso vero e proprio alla città avviene attraverso Porta Marina Sud, protetta da una torre quadrangolare di cui è possibile distinguere due fasi costruttive: la prima della prima metà del V sec. a. C., riconoscibile dai blocchi parallelepipedi di arenaria posti nella parte bassa, la seconda databile al III sec. a. C., per cui sono stati usati blocchi in conglomerato. Percorrendo via di Porta Marina, a destra si può vedere un edificio pubblico, costituito da un criptoportico a tre bracci, databile all'età età augustea (31 a. C. – 14 d. C.) con rifacimenti nel corso del II sec. d. C. che è stato variamente interpretato come palestra, scuola medica o come un sacello del culto imperiale visto il ritrovamento di numerose erme e statue dedicate a medici locali e di teste ritratto della famiglia imperiale. L'isolato a sinistra di Porta Marina ha, invece, un carattere abitativo e commerciale ed è costituito da quattro case di età imperiale costituite da un vano centrale, con vasca per la raccolta delle acque, su cui si aprono gli altri ambienti. La zona B è la via di Porta Rosa, dove possiamo visitare le Terme Adrianee (II sec. d.C.) di cui sono visibili vari ambienti del calidarium e la sala del frigidarium, decorata da uno splendido mosaico con tessere in bianco e nero che raffigurano animali e mostri marini. Continuando a destra si trova, invece, la cosiddetta agorà, di recente interpretata come un santuario dedicato ad Asclepio, divinità medica e guaritrice, che si distribuisce su almeno tre livelli di cui quello inferiore presenta un ampio corpo rettangolare, circondato su tre lati da un porticato e decorato all'ingresso con una fontana. L'edificio pubblico, datato al II sec. a. C., usufruiva l'acqua della sorgente Hyele che si trova più in alto, dove in età ellenistica viene costruito un complesso termale, un'ampia vasca di forma rettangolare per il bagno caldo e un vano per piccole vasche di terracotta. La via di porta Rosa arriva in una grande gola che permetteva il passaggio verso il Quartiere meridionale. Ci si ritrova in un vero e proprio valico artificiale dove si trova questa porta (B), splendido esempio dell'utilizzo dell'arco da parte dei Greci. Più che una porta era un viadotto che collegava le due sommità naturali dell'acropoli di Elea: è assente, ad esempio, ogni traccia di cardini. Attorno al III secolo a. C. l'arco fu ostruito e l'intera struttura interrata, presumibilmente da una frana o perché l'apertura costituiva un punto debole nella difesa della città. L'interramento ne ha permesso la perfetta conservazione. Porta Rosa fu riportata alla luce l'8 marzo 1964 dall'archeologo Mario Napoli, il quale la battezzò "Rosa" in omaggio al nome della propria moglie, sorella dell'archeologo Alfonso De Franciscis. Salendo verso l'Acropoli (zona C), si trova il più antico abitato di Velia (VI sec. a.C.), di cui sono visibili i resti di abitazioni allineate lungo una strada, abbandonato ed obliterato nel V sec. per permettere di costruire edifici pubblici, civili e religiosi. Di essi parzialmente conservati: un teatro, costruito in età romana sui resti di un altro più antico; un tempio, di cui sono sconosciute la datazione e la divinità a cui era dedicato; un edificio con fronte porticata funzionale alle esigenze religiose. Gli edifici dell'acropoli sono stati danneggiati nel medioevo, quando viene costruito un castello. Di questo periodo si conservano la Torre angioina, resti di mura e due chiese, la cappella Palatina e la chiesa di Santa Maria, che ospitano dei piccoli ma esaurienti antiquaria.
Pontecagnano
Il territorio dell'odierno comune di Pontecagnano vanta una frequentazione che risale all'età del rame (3500 – 2300 a.C.). Gli scavi archeologici hanno documentato l'esistenza di due santuari, una porzione del centro abitato (oggi visitabile presso il Parco Archeologico) e due necropoli che, complessivamente, hanno restituito circa 9000 sepolture databili in una cronologia che va dal 3500 a. C. fino all'alto medioevo. In fase preistorica il sito fu abitato dalle popolazioni della cultura del Gaudo, tipiche della Campania dell'età del rame. Tra il IX e l'VIII secolo a. C. emergono i classici tratti della Civiltà villanoviana tipici dell'Etruria del tempo che sfociano nel successivo periodo Etrusco, a cui risalgono le iscrizioni oggi conservate al Museo Archeologico di Pontecagnano insieme a numerosi altri reperti. Nel IV secolo a. C. il centro viene a contatto diretto con alcune popolazioni limitrofe (Sanniti e Lucani) e le tracce archeologiche restituiscono le influenze che le nuove culture hanno esercitato nella società urbana. Per il periodo romano sappiamo, grazie alle fonti di Plinio il Vecchio e Strabone, che i romani edificarono sul sito della città etrusco-campana, nel 268 a. C. Picentia, per accogliere una parte della tribù italica dei Picentini deportata dalle Marche. Picentia insorgerà due volte contro Roma, al tempo di Annibale, schierandosi dalla parte di quest'ultimo, fatto che porterà i romani a fondare una nuova colonia, oggi Salerno, per controllare il territorio e i Picentini ribelli durante la Guerra Sociale (89 d.C.). L'autonomia amministrativa perduta e la dispersione degli abitanti, riducono l'antico centro a frequentazioni modeste attestate con ogni probabilità poco oltre la caduta dell'Impero Romano.
Nuceria
Le prime testimonianze relative ad una frequentazione della città risalgono al periodo noto come Bronzo Antico (2000-1800 a.C. circa). La nascita di Nuvkrinum Alafaternum, la "nuova città" (che rappresenta il nucleo della futura Nuceria Alfaterna, che si sviluppa al di sotto del territorio comunale dell'odierna Nocera Superiore), è datata intorno al VI secolo a. C. Durante gli scavi del teatro ellenistico-romano di Pareti, è emersa un'estesa necropoli: il reperto più interessante è rappresentato da un'oinochoe (una brocca) in bucchero che presenta un'iscrizione, che, da destra verso sinistra, reca la scritta, traslitterata, Bruties esum (letteralmente: Sono di Bruto). L'iscrizione di Nocera potrebbe perdersi tra le centinaia di altre iscrizioni etrusche se non fosse per una particolare lettera, a forma di alberello, che non si è ancora riscontrata altrove. Ciò è bastato ai linguisti per far pensare loro ad un alfabeto nucerino. La ricchezza della città, oltre che dalla fertilità dei suoli, arriva dalla peculiarità del suo sottosuolo, da cui si estrae il tufo grigio (la nocerite), ottimo materiale da costruzione (a Pompei si parla di una "età del tufo" dal 200 all'80 a. C.). Senofonte Efesio (scrittore greco vissuto, stando al lessico Suda, tra il II e il III secolo d.C.), nel suo romanzo "Racconti Efesi intorno ad Abracóme e Anzia", dopo varie peripezie, fa giungere il suo protagonista a Nuceria, in Campania, a lavorare nelle cave di pietra.
Divenuta municipium, Nuceria Alfaterna fu iscritta alla tribù Menenia. In epoca triumvirale (42 a.C.) l'appellativo Alfaterna fu sostituito da Costantia, dando, così alla città il nome di Nuceria Costantia. Cittadini illustri furono Publio Sittio, esule nucerino in Africa, che dopo le guerre civili tra Cesare e Pompeo, si vide assegnato metà del regno di Mauretania, dove fondò alcune colonie ispirandosi alla sua patria. Altro nucerino illustre fu Marco Nonius Balbus. Originario di Nuceria, trasferì la sua residenza ad Ercolano, città di cui divenne benefattore. Fece carriera anche a livelli molto alti: ricoprì, infatti, le cariche di pretore prima e proconsole della provincia di Creta e di Cirene. Nel 32 a. C. fu poi tribuno della plebe e partigiano di Ottaviano. Nuceria nel 57 d. C. fu dedotta colonia romana da Nerone. Si trattò di un duro colpo per la vicina Pompei, la quale dovette probabilmente perdere parte del suo territorio agricolo in favore della nuova colonia. La circostanza dovette essere uno dei motivi scatenanti della famosa rissa avvenuta all'anfiteatro di Pompei del 59 d. C. ricordata da Tacito.
La Costiera Amalfitana
Capitolo XXV
La Costiera Amalfitana è il versante meridionale della penisola sorrentina, caratterizzata dai monti lattari che creano gole molto profonde che terminano con delle spiaggette. I luoghi più importanti sono di origine greco romano come piccoli centri commerciali verso il mare. Famosissimo è Il sentiero degli Dei percorso alternativo alla statale, che fu aperta solo nell’800 esso si snoda tra la costiera amalfitana e la costiera sorrentina, tra le località di Bomerano (frazione di Agerola) e Nocelle (frazione di Positano). Si pensi che durante le varie invasioni saracene era l’unica via di fuga verso l’interno per gli abitanti della costa. Scendendo dalla costa si scorgono una serie di piccoli scogli dove seconda la leggenda dimoravano le sirene che oggi consideriamo affascinanti figure mitologiche ma che all’epoca dei greci e dei romani erano viste come figure pericolose e mortali per i marinai. In realtà il tratto di costa è molto pericoloso a causa delle correnti ma i greci ne danno una spiegazione mitologica, Omero racconta che Ulisse si fece legare all’albero maestro della nave e costrinse i suoi a tapparsi le orecchie per attraversare il tratto incolumi, tra le sirene c’era Partenope che innamoratasi di Ulisse morì per amore e approdata sulle spiagge napoletane fu seppellita dando il nome al primo insediamento di Partenope. In un documento del 1200 Federico II di Svevia dona le isole de li Galli ai benedettini per la costruzione del loro tempio, ed è citato come isola delle sirene. Si vuole che il nome Li Galli derivi dalla iconografia delle Sirene nell'arte figurata greca arcaica, nella quale vengono immaginate metà donna e metà uccello. Le Sirene "greche" quindi non vanno confuse con le Sirene metà donna e metà pesce della fantasia popolare, alimentata peraltro da molte pellicole e cartoni animati. L'accostamento più immediato che si può fare con le sirene "pennute" è quindi quella della gallina o del gallo, da qui il nome Li Galli ancora oggi utilizzato. Li Galli ha da sempre esercitato un grande fascino, tanto da renderla ambita a molti personaggi famosi. Nel 1924 il coreografo e ballerino russo Leonide Massine acquistò l'arcipelago, facendo costruire su quelle rovine una magnifica villa che l'architetto Le Corbusier abbellì ulteriormente. La proprietà passò poi ad un altro celeberrimo ballerino russo, Rudolf Nureyev, che l'acquistò nel 1989. Poco dopo la sua morte, avvenuta nel 1993, l'arcipelago è passato in mano ad altri privati. Di fronte all’isola de Li Galli si trova Positano che secondo la leggenda fu fondata da Poseidone ed è caratterizzata da una serie di case arroccate sul versante della montagna e accostate l’una all’altra per potersi proteggere sia dalla calura estiva ed in tempi antichi per difendersi dagli attacchi. L'età medioevale vide la costruzione di numerose torri per l'avvistamento dei Saraceni, autori di numerose incursioni e razzie ai danni della popolazione locale. La prima torre si trova al di fuori del comune Positanese, in località Punta Campanella, dove termina la Costiera Amalfitana ed inizia quella Sorrentina. Da lì, avvistati gli arabi, si lanciava il primo segnale, un colpo di cannone, e da questo poi il tam tam si spostava alla seconda, alla terza e poi così via, percorrendo Positano e tutta la Costiera Amalfitana. In questo modo i Positanesi potevano rifugiarsi sulle ripide alture (così sono state create le frazioni di Montepertuso e Nocelle). Infatti i Saraceni, abili navigatori e combattenti, erano sfavoriti nell'addentrarsi sulle alture, ed erano facilmente preda dei contrattacchi da parte della popolazione locale. Famosa negli anni ’50 per lo sviluppo del turismo d’elite e dei VIP che spesso vi dimoravano, inoltre la creazione di uno stile e di una moda che rispecchiava l’idea di libertà e di benessere che si diffondevano in quegli anni e che ancora oggi caratterizza l’artigianato locale. La chiesa principale è quella di Santa Maria dell’Assunta, la cui storia è legata a quella del monastero benedettino di Santa Maria, che secondo tradizione non documentata sarebbe stato eretto in occasione dell'arrivo a Positano dell'icona bizantina della Madonna, ancor oggi venerata nella Chiesa. L'icona bizantina è verosimilmente giunta a Positano nel sec. XII ad opera dei monaci benedettini, i quali, a bordo delle loro navi, percorrevano le rotte commerciali e di pesca lungo le coste dell'Italia meridionale. Una piccola pergamena, conservata nell'archivio parrocchiale, ricorda la dedicazione della Chiesa ad onore della Beata Vergine Maria ad opera ai Giovanni II Vescovo di Amalfi nell'anno 1159. La tradizione popolare, invece, vuole che l'icona sia giunta a Positano in modo prodigioso. Essa faceva parte del carico di un veliero che proveniente dalle regioni orientali che, giunto al largo di Positano, incappò in una forte bonaccia che ne fermò il viaggio. Dopo vari tentativi inutili di proseguire, i marinai sentirono voce: "Posa, posa", il capitano interpretò questo prodigio come manifestazione della volontà della Vergine di restare in quel luogo e decise di dirigere la prua verso terra; a quel punto la nave riprese a muoversi. Giunti a riva, i marinai sbarcarono l'icona e la consegnarono agli abitanti di Positano, i quali la elessero loro protettrice erigendo un tempio in suo onore. La Chiesa così come oggi si presenta al visitatore, salvo alcuni interventi particolari attuati per adeguare il tempio alle indicazioni della riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II, risale ai lavori compiuti tra il 1777 e il 1782. L'interno è diviso in tre navate con cinque archi ai quali corrispondono, lungo le navate laterali, altrettante cappelle per ciascun lato. Procedendo dall'ingresso verso l'altare maggiore, si susseguono a destra le cappelle di San Biagio, Immacolata, Sant'Antonio e Sant'Anna; all'estremità destra vi è l'altare della Circoncisione con un bel dipinto opera di Fabrizio Santafede datato 1599. A destra dell'altare maggiore vi è la cappella di Santo Stefano all'interno della quale è custodita la statua lignea settecentesca della Madonna con Bambino. Sopra l'altare maggiore si erge il tempietto con l'icona bizantina recentemente restaurata; ai lati dell'abside vi è il coro in noce massiccia alle cui estremità due nicchie custodiscono l'Addolorata (a destra) ed un pregevole Cristo alla colonna opera di Michele Trillocco del 1798 (a sinistra). A sinistra dell'altare maggiore c'è la cappella del SS. Sacramento quindi, all'estremità del transetto, l'altare della Madonna del Carmine con un bel dipinto proveniente dalla Certosa di Serra San Bruno in Calabria. Proseguendo verso l'uscita, lungo la navata sinistra si trovano le cappelle del Crocefisso, dell'Annunziata, di San Vito e di San Nicola di Bari. Uscendo sul sagrato, a pochi passi dalla Chiesa si erge il campanile, edificato nel 1707 per opera di uno sconosciuto frate cappuccino ricordato in un frammento di lapide che si trova attualmente murata sulla parete esterna della Chiesa lungo la via Vito Savino. Al di sotto della cripta nel 2004 sono stati ritrovati degli affreschi appartenenti ad una villa romana marittima con accesso dal mare. Le coste della Campania avevano già registrato, fin dai tempi repubblicani, residenze dedicate all’otium, ma la preferenza espressa dai primi imperatori Augusto e Tiberio per l’isola di Capri e quel gusto per la natura selvaggia e l’orrido, che le alte coste scoscese ai lati della baia di Positano esaudivano pienamente, dirottarono le scelte dei romani, tra la fine del I sec. a. C. e l’inizio del I sec. d. C., verso questo tratto di costa. Le ville di Positano e dei Galli sono "un tipico esempio di come sono stati utilizzati in età claudia anche spazi più reconditi di una costa selvaggia. Di questa villa, utilizzata, come le altre lungo la Costa, per la villeggiatura di ricchi romani, si hanno notizie a partire dal 1758, quando ad una profondità di 6,50 m furono rinvenuti, poco lontano dalla Collegiata, fortuitamente degli ambienti. L'ispezione dei vani, effettuata poi anche nel 1931, portò alla scoperta di un peristilio di cui si indagarono tre lati, la cui lunghezza era di 32,00 m. Colonne di laterizi, coperte da stucchi, ornavano questa struttura, a Nord della quale fu individuato dagli archeologi un ampio giardino. Recenti lavori, che hanno interessato la cripta della vicina Collegiata, hanno permesso di acquisire nuovi dati archeologici, in quanto sono stati scavati tratti di muri, pertinenti alla stessa struttura, rivestiti da un paramento in opera reticolata e da un affresco riproducente un "ippocampo". La storiografia locale ricorda che il rivestimento pavimentale marmoreo del presbiterio della Collegiata e alcune colonne vendute alla Chiesa di S. Teresa a Napoli provenivano da questa struttura sepolta.
Appartenente al territorio della costiera troviamo Praiano il cui nome probabilmente deriva dal termine praia, ossia spiaggia, dal greco plagion (piano inclinato). Il monumento più importante è la Chiesa Parrocchiale dedicata a San Gennaro. Il sacro edificio, di stile basilicale del rinascimento, a tre navate e a croce latina, ha la sua cupola regolamentare ovale, maiolicata policroma, sulla crociera. Essa nacque ufficialmente il 18 agosto 1589, e fu edificata dalle fondamenta sul suolo reso disponibile dalla demolizione di una chiesa precedente, anch’essa dedicata a San Gennaro. Quest’ultima era a pianta centrale, molta antica, risalente, forse, alla prima metà del 1200. Secondo le indicazioni dettate dall’ingegnere storico amalfitano Matteo Camera la nuova chiesa sarebbe stata ultimata nel 1602, data che trova riscontro nei vari momenti di vita della parrocchia. All’ interno della navata destra si snodano i seguenti altari : l’altare del Rosario, con quadro di valore mistico e storico su tela, commemorativo della battaglia di Lepanto. L’altare della Sacra Famiglia, l’altare dell’Immacolata con quadro su tela datato 1747 e firmato da Gian Battista Lama. La Cappella del Sacro Cuore costruita nel 1898 ad opera di Domenico Rispoli-Zingone. Segue l’altare di San Bartolomeo e infine l’altare dell’Annunciazione. Vicino Praiano c’è “il paese che non esiste” Furore che è l’unico fiordo naturale della costiera che per la sua natura non è mai stato invaso dai Saraceni; il paese è diviso in due frazioni quella in alto e quella bassa. Il fiordo è inoltre scavalcato dalla strada statale mediante un ponte sospeso alto 30 m, dal quale, ogni estate, si svolge una tappa del Campionato Mondiale di Tuffi dalle Grandi Altezze. All'interno del fiordo si trovano lo Stenditoio e la Calcara, due edifici utilizzati per le produzioni locali. Lo Stenditoio era usato per asciugare i fogli di carta estratti dalle fibre di stoffa. La Calcara invece era adibita alla lavorazione delle pietre per l'edilizia locale. La Grotta dello Smeraldo è una cavità carsica parzialmente invasa dal mare situata nel territorio del comune di Conca dei Marini. Fu scoperta dal pescatore Luigi Buonocore nel 1932. Misura circa 45 x 32 metri ed è alta circa 24 metri, e deve il suo nome alle tonalità smeraldine che assume l'acqua per via della luce solare filtrata attraverso una fenditura sottomarina che la collega al mare aperto. In tempi molto remoti era posta al di sopra del livello del mare e al suo interno si sono create, col passare del tempo, numerose stalattiti e stalagmiti, che in alcuni tratti si uniscono a formare delle possenti colonne alte più di dieci metri; solo in seguito ad un fenomeno di bradisismo, il suolo della grotta si è abbassato, facendola sprofondare sott'acqua. Nel comune di Conca vi è il Conservatorio di Santa Rosa Da Lima, fondato nel 1681, è un ex-monastero domenicano, ora adibito ad albergo di lusso, situato a Conca dei Marini, posto su una rupe a dominare la costa, ed è un monumento di rilevante interesse storico-artistico della provincia di Salerno. In questo luogo di serenità claustrale nacque la famosa sfogliatella "Santarosa". Le monache non capirono subito la straordinaria invenzione dolciaria che avevano fatto e che sarebbe diventata tipica della tradizione napoletana. Immediatamente la sua bontà fu apprezzata e le suore, visto il successo, le diedero il nome della loro protettrice.
Amalfi
Il villaggio di Amalfi era stato fondato da un gruppo di Romani che, diretti a Costantinopoli, avevano fatto naufragio sulle coste pugliesi; poi, dopo aver fondato Melphi (oggi Melfi), si erano spinti verso sud per stabilirsi sulla costiera amalfitana. Amalfi era nata, tra i monti Lattari e il Tirreno, come un piccolo villaggio di pescatori. I Bizantini, per difendersi dall'invasione dei Longobardi di Alboino, trasformarono il villaggio in fortezza (castrum). Gli Amalfitani, a ridosso della montagna che li isolava dagli agglomerati campani del golfo di Salerno, dovettero espandere le loro attività sul mare con il commercio. La posizione strategica in cui sorgeva Amalfi, tra le montagne e il mare, fece acquisire al piccolo agglomerato una notevole importanza durante la lotta tra Bizantini e Longobardi. L'influenza napoletana-bizantina non impedì agli abitanti di Amalfi di godere di una sostanziale "autonomia periferica" che andò sempre più rafforzandosi. Ciò permise un notevole sviluppo dei traffici della gente della costiera amalfitana. Essi erano, inoltre, agevolati anche dalle buone relazioni con Napoli e Bisanzio. Intorno all'836 i commerci condotti da Amalfi erano in piena espansione e raggiungevano i territori dell'Italia meridionale fino alla Sicilia e quelli dell'Africa mediterranea, ormai da molto tempo sotto il dominio degli arabi. Nell'839, sempre nel contesto della lotta fra Longobardi e Greco-Bizantini, la filobizantina Amalfi viene assalita ed espugnata dal longobardo, principe di Benevento, Sicardo, poi assassinato in una congiura di palazzo. In seguito alla tragica morte di Sicardo e la lotta per la successione al Principato di Benevento, gli amalfitani si ribellarono riuscendo a cacciare il presidio longobardo. Il primo settembre dell'839, fu acquistata l'autonomia amministrativa (anche se sussisteva una formale tutela di Bisanzio tramite il Ducato di Napoli); ma era un principio di libertà. Con la ripresa della politica espansionistica degli Arabi del Magreb, il duca di Napoli Sergio fu costretto a costituire una Lega Campana a cui aderirono Gaeta, Sorrento e Amalfi. Allorché i Musulmani tentarono di penetrare in Roma, attraverso il Tevere, la Lega Campana, spronata dal pontefice Leone II, mobilitò la sua flotta e sconfisse gli invasori alla foce del fiume romano (849). La vita degli abitanti di Amalfi si svolgeva essenzialmente sul mare, data la sua particolare posizione geografica, tra la costa e i monti. Alle attività legate al commercio si interessavano tutti gli abitanti, non esclusa la nobiltà che era tradizionalmente più legata alla proprietà fondiaria. La prassi commerciale era regolata secondo le norme contenute nelle Tavole amalfitane, una delle basi del diritto societario moderno. Lo sviluppo dei commerci favorì l'espansione degli Amalfitani verso i territori del Mediterraneo centrale e orientale dove sorsero i primi stanziamenti di mercanti che si stabilirono in colonie. È del 996 la sicura conoscenza di una numerosa e forte colonia al Cairo.
A partire dal XI secolo, però, cominciarono una serie di lotte di potere interne che portarono ad un indebolimento generale della Repubblica che dovette subire a più riprese sconfitte militari da parte dei Normanni che ne erosero pian piano i possedimenti fino a conquistarla definitivamente nel 1131. Da questo momento la città cadde sotto il dominio normanno senza perdere, comunque, l´antica floridezza commerciale. Nel 1343 una terribile tempesta di mare la colpì duramente e ne distrusse larghe parti dell´area portuale: fu questo il colpo che la mise in ginocchio e la fece rientrare nel rango di normale città di pescatori che conservò fino ai giorni nostri quando, grazie alle meraviglie architettoniche risalenti all´epoca d´oro della Repubblica e al fascino dei suoi luoghi, ha cominciato ad essere rinomata località turistica. In origine le basiliche ad Amalfi erano due, ed entrambe a tre navate: la prima corrisponde al Duomo vecchio eretto dal duca Mansone II attorno all'anno 1000: la seconda eretta a metà del IX secolo è più ampia. In quei tempi i due luoghi di culto venivano ad essere officiati contemporaneamente come avveniva in tutte le chiese paleocristiane della Campania. La basilica venne trasformata nei primi decenni del XIII secolo sotto l'arcivescovo Matteo Capuano e il cardinale Pietro Capuano, entrambi unirono i due luoghi di culto in uno solo a cinque navate. Ulteriori ampliamenti e ricostruzioni avvennero tra il XVI secolo e il XVIII secolo che gli ha conferito la veste attuale. La facciata attuale è stata costruita nel XIX secolo da Errico Alvino coadiuvato da un'élite di discreti architetti; la riedificazione è avvenuta dopo il presunto crollo di quella originale. Il progetto dell'Alvino si presenta con una facciata neomoresca, con influenze neogotiche, preceduta da un corridoio che collega il campanile, il chiostro del Paradiso e la chiesa-cappella del Crocifisso. L'interno, rimaneggiato in forme barocche, ha una pianta basilicale con transetto e abside; il tutto è rivestito da marmi commessi e racchiudenti colonne antiche. Le navate sono coperte da un soffitto a cassettoni. Sull'altar maggiore barocco si trova una grande tela raffigurante Il martirio di sant'Andrea Apostolo, patrono di Amalfi, dei pescatori e dei marinai. Su quello postconciliare, invece, si trova un moderno Crocifisso ligneo dipinto. Nelle cappelle sono conservate opere di arte gotica e rinascimentale. In una cappella si trova un gruppo ligneo raffigurante l'Apparizione di san Michele Arcangelo a san Felice; in un'altra c'è una Madonna tra san Filippo e un vescovo. La Basilica del Crocifisso fu eretta nell'Alto Medioevo e restaurata nel periodo barocco, nel 1931 venne restaurata ulteriormente con l'eliminazione di sovrastrutture barocche, fu abbandonata per decenni e riaperta con un ennesimo restauro nel 1996. L'interno, a tre navate divise da colonne reggenti archi rialzati, leggermente acuti sulla quale è posto un matroneo sono conservate opere risalenti al periodo gotico e alcuni sarcofagi romani, oltre ad alcuni resti di affreschi duecenteschi e a frammenti di mosaici provenienti dall'antica facciata della cattedrale. La maggior parte delle decorazioni sono state trasportate all'interno del museo diocesano. Il Chiostro Paradiso venne edificato ad opera dell’arcivescovo Filippo Augustariccio tra il 1266 ed il 1268, un cimitero per i nobili della città attaccato alla basilica dell’ Assunta, collegato al palazzo arcivescovile e formato da un quadriportico con volte a crociera, archi acuti, colonnine binate ed archi intrecciati d’influsso moresco (da qui il nome di Paradiso). In tale cimitero vi erano sei cappelle affrescate tra la fine del tredicesimo e gli inizi del XIV secolo. Esse appartenevano a nobili famiglie amalfitane ed ospitavano i sarcofaghi con i corpi dei loro illustri rappresentanti. L’ affresco più importante del Chiostro è quello di scuola giottesca raffigurante la Crocifissione. Il ciclo pittorico continua nella vecchia cattedrale con le immagini di fine Duecento dei Ss. Cosma e Damiano, del Beato Gerardo Sasso in abiti di cavaliere angioino, della Madonna col Bambino. Uscendo da Amalfi incontriamo il comune più piccolo che è Atrani, che un tempo era divisa da Amalfi ed aveva il compito di eleggere il Vescovo e il Doge che veniva incoronato nella chiesa di S. Salvatore del Diretto (il termine diretto deriva dal berretto che veniva posto in testa ai dogi al momento della nomina). Le origini di Atrani sono ancora oggi sconosciute. Ricerche archeologiche hanno stabilito che nel I secolo d.C. lungo la Costa d'Amalfi esistevano delle ville romane, le quali furono, però, coperte dal materiale che, eruttato dal Vesuvio nel 79 d.C., si era depositato sui monti circostanti e da lì, in seguito, era franato a valle. Nel V secolo d.C., a seguito delle invasioni barbariche, numerosi romani fuggiti dalle città si rifugiarono prima sui Monti Lattari e successivamente, lungo le coste, ove crearono insediamenti stabili. La prima prova documentale dell'esistenza di Atrani è rappresentata da una lettera del papa Gregorio Magno al vescovo Pimenio datata 596. La chiesa del S. Salvatore de Birecto fu costruita nel X secolo, la chiesa ha pianta quadrata con pronao antistante ed è suddivisa in tre navate con volte a botte. In origine era orientata ad ovest (con ingresso in Via Arte della Lana). In epoca barocca venne realizzata l'attuale facciata con l'orologio, la scalinata e l'atrio. Al tempo della Repubblica di Amalfi la chiesa era la cappella palatina dove venivano incoronati i duchi e dove si depositavano le loro ceneri. Le testimonianze più antiche sono: una pietra tombale del XIV secolo raffigurante la nobile dama di Atrani Filippa Napolitano; una lastra marmorea del XII secolo raffigurante due pavoni. Il pavone, sacro a Giunone, era venerato da molti popoli orientali: in quanto simbolo della vanità e dell'orgoglio, ben rappresentava le qualità preponderanti nei nobili di Amalfi; era però anche simbolo di resurrezione; le porte di bronzo, realizzate nel 1087, donate alla chiesa dal nobile di Atrani Pantaleone Viarecta, lo stesso che aveva inviato vent'anni prima la porta del Duomo amalfitano. Suddivise in formelle di pregevole valore artistico, contengono l'effigie di Cristo, quella della Madonna e di alcuni Santi. Attualmente sono custodite presso la chiesa di Santa Maria Maddalena. Nella parte alta della costiera si giunge a Ravello. Essa fu fondata nel V secolo come luogo di rifugio dalle scorrerie dei barbari che segnarono la caduta dell'Impero romano d'Occidente, ma per leggenda vi immigrarono dei patrizi amalfitani in seguito a uno scontro tra più fazioni della classe alta amalfitana, che sfociò quasi in una guerra civile. La cittadina crebbe in popolazione, prosperando con l'arte della lana e con il commercio verso il mediterraneo e Bisanzio e raggiunse il suo massimo splendore dal IX secolo, sotto la Repubblica marinara di Amalfi e il Principato di Salerno. Per volere del normanno Ruggero, figlio di Roberto il Guiscardo, Ravello divenne sede vescovile nel 1086 per porla a contrasto della troppo potente Amalfi. Al volgere del XII secolo la città giunse a contare una popolazione di oltre 25.000 abitanti. Nel 1135 riuscì a sostenere gli attacchi portati dai Pisani al Ducato di Amalfi, ma due anni dopo, nel 1137, dovette soccombere, fu saccheggiata e distrutta. A seguito delle devastazioni iniziò il suo declino economico e demografico: a partire dal XIV secolo molti dei suoi abitanti si trasferirono a Napoli e dintorni anche se nel 1400 i patrizi ravellesi erano ancora molto attivi. Vi erano i Rufolo, banchieri del Regno di Napoli. Fu il pesantissimo sistema fiscale dell'inefficiente governo spagnolo che ne determinò la decadenza, durata sino alla fine del XVIII secolo. Dal XIX secolo, riscoperta da intellettuali e artisti, riacquistò la sua importanza come luogo di turismo culturalmente elitario. Il duomo di Ravello è dedicato a Santa Maria Assunta, prospetta sull'omonima piazza di Ravello. È stato fondato nel 1086-1087 sul modello dell'Abbazia di Montecassino. A questo periodo risalgono gli architravi delle tre porte nella facciata. Notevole è il portale centrale, a formelle bronzee, opera di Barisano da Trani datata 1179, donate da Sergio Muscettola, marito di Sigilgaida Pironti. Il campanile a due piani, con bifore e archi intrecciati, risale al XIII secolo. Nel XVIII secolo fu demolito il portico antistante la facciata (ne rimangono quattro colonne). Nello stesso secolo, l'interno era stato ridecorato con stucchi barocchi, oggi rimossi (sono stati conservati solo nel transetto). All'interno due splendidi amboni a intarsi marmorei lo arricchiscono fronteggiandosi. A destra l'ambone del Vangelo, opera di Nicola di Bartolomeo da Foggia (1272), e a sinistra un altro di derivazione bizantina, con la raffigurazione dell'episodio biblico del profeta Giona e del mostro marino, donato dal secondo vescovo di Ravello. Nella cappella seicentesca a sinistra del presbiterio è custodita l'ampolla del sangue di San Pantaleone, reliquia presente in Ravello già nel 1112 e che, ogni anno, presenta il fenomeno della liquefazione.
Minori
Anche se la presenza di Villae di età romana rinvenute a Minori, Tramonti, Positano e Li Galli, testimoniano la vocazione ormai millenaria della Costa d’Amalfi quale luogo privilegiato per trascorrere lunghi periodi di riposo, esse, tuttavia, non giustificano l’ipotesi, più volte avanzata in passato, sull’esistenza nella città di Minori di un centro abitato riconducibile al I secolo d.C. Con la crisi della società romana, la villa di Minori, venne gradualmente abbandonata e sommersa dal materiale alluvionale portato a valle dalle piene del fiume Reginna. Il primo nucleo abitato si sarebbe, infatti, sviluppato nella località collinare di Forcella. Un dato condiviso dalle recenti acquisizioni storiografiche, secondo le quale la fondazione delle più antiche città della costa d’Amalfi sia stata preceduta dalla formazione di piccoli agglomerati urbani sorti nelle zone collinari dei Monti Lattari; un territorio facilmente difendibile dalle incursioni degli eserciti barbari del V secolo d. C. Solo successivamente, con la il cessare di tale minaccia si registrò un graduale spostamento dei centri urbani verso la costa. Per la città di Minori tale fenomeno fu sicuramente favorito dalle reliquie della Vergine e Martire siciliana Trofimena, che la tradizione locale riconduce al 640 d. C. La costruzione di una prima chiesa eretta in suo onore facilitò un graduale spostamento del centro urbano verso il litorale e nei pressi dell’edificio ecclesiastico. L’antica Reginna Minor conobbe quindi un primo e graduale sviluppo urbanistico in età medievale. L’origine della città va ricercata nei secoli compresi fra il V e il VI periodo in cui le aree interne della Campania furono devastate prima dalle invasione dei popoli di origine germanica e successivamente dalle distruzioni della guerra gotica. L’aggettivo Minor fu introdotto per differenziarla dalla vicina e più estesa Maiori. A partire dal XIII secolo, tuttavia, l’appellativo Reginna cadde in disuso, per il fenomeno delle formazioni neolatine per le quali l’aggettivo tende a sostituire e a cancellare l’uso del sostantivo, con la naturale conseguenza che i due centri costieri furono da allora identificati semplicemente come Minori e Maiori. Il privilegio di conservare il corpo di S. Trofimena, Martire di Cristo e prima protettrice del Ducato Amalfitano determinò l’elevazione a diocesi nel 987. Da questo momento in poi la città conobbe un notevole sviluppo urbano. Nel 1094 iniziarono i lavori di ampliamento della prima chiesa eretta sul sepolcro della Martire, il risultato fu la cattedrale medievale, il cui spazio oggi è occupato per buona parte dall’attuale transetto della maestosa basilica settecentesca e dalla Cappella dell’Arciconfraternita del SS Sacramento, alle cui spalle è possibile ammirare ancora due absidi.
Cetara
Fin dal 1030 Cetara fu debitrice al vescovo di Amalfi, dal quale dipendeva, dello "ius piscariae," la decima della pesca. Nel 1120 il borgo passò sotto la dominazione politica di Amalfi e fu poi soggetta, con i normanni, all'abbazia benedettina di S. Maria di Erchie ed infine passò alle dipendenze dell'abbazia di Cava. L'abbazia aveva collegamenti marittimi con i monasteri benedettini e traffici di pellegrini e merci in Africa. Pietro Pappacarbone, terzo abate di Cava e nipote di S. Alferio, fondatore della badia cavense, ebbe in donazione da Ruggero il porto di Vietri nel 1086 da Guglielmo quelli di Fonti nel 1117 e di Cetara nel 1120. Più tardi, nel 1124, I'abate Simeone comprò il porto detto del Traverso presso Punta Licosa per 15 soldi di tari salernitani, e il cenobio acquistò altri cinque porti o cale sulle spiagge cilentane i porti davano un reddito di diritti marittimi al monastero, in virtù della tassa di ancoraggio, che era variabile a seconda dell'appartenenza della nave. Nel 1534 i turchi, forti di 22 galee e capeggiati dal tremendo rinnegato Sinan pascià, fecero schiava parte della popolazione mentre gran parte dei superstiti trovò scampo a Napoli. Ed è appunto per difendersi da simili attacchi che venne costruita la Torre vicereale. Tradizione antica, che si è prolungata nel tempo, è quella della partenza dei pescatori per l'Algeria e il Marocco nei mesi di marzo ed aprile, per dedicarsi alla pesca delle acciughe, e conservare come acciughe sotto sale, per ritornare in autunno dopo aver rifornito i mercati di Messina, Genova e Livorno. Cetara è sempre stato un paese di pescatori, non a caso il suo nome deriva dal latino Cetaria, tonnara, o da cetari, venditori di pesci grossi. Lo stesso vocabolo latino deriva probabilmente dal greco Ketèia, che vuol dire sempre tonnara.
Vietri
I primi insediamenti nell'area di Vietri sul Mare furono etruschi. Probabilmente il nome della cittadina viene dal termine "Veteri" con cui i Romani definirono questi insediamenti. Una tradizione vuole associare Vietri a Marcina, città misteriosa di probabile fondazione etrusco-italica più volte citata in antiche epigrafi, ma mai identificata con certezza. La sua storia fino al 1806 è stata associata a quella di Cava de' Tirreni di cui era frazione. Marina di Vietri, infatti, era usata dai monaci della Badia come porto commerciale per gli scambi soprattutto con le zone a Sud di Salerno, quelle della "Piana del Sele". Dal 1806 al 1860 è stato capoluogo dell'omonimo circondario appartenente al Distretto di Salerno del Regno delle Due Sicilie. Dal 1860 al 1927, durante il Regno d'Italia è stato capoluogo dell'omonimo mandamento appartenente al Circondario di Salerno. Oggigiorno il comune ha una forte influenza di Salerno, per cui vi sono progetti di inserire Vietri sul Mare nell'area metropolitana di questa città. Nel 1944, quando Salerno fu capitale d'Italia per alcuni mesi, il Re Vittorio Emanuele III alloggiò nella vicina Villa Guariglia, sita in frazione Raito. La Chiesa Parrocchiale di San Giovanni Battista, patrono della città, eretta nel XVII secolo in stile tardo rinascimentale napoletano, è caratterizzato dal duplice coronamento della cuspide del campanile in ceramiche dipinte. Il portale è sormontato da un oculo chiuso nella seconda meta del XX secolo per inserire una figura del Santo patrono dipinto su ceramica. Nell'interno, a navata unica, gli altari sono decorati da maioliche e ceramiche tranne quello maggiore, realizzato in marmi commessi, interessanti sono i dipinti che partono dal XVII secolo e terminano al XVIII.
Cilento e Certosa di Padula
Capitolo XXVI
La zona del Cilento nella provincia di Salerno è la più incontaminata della Campania. Più precisamente si definisce con questo nome la zona compresa tra il golfo di Salerno ed il golfo di Policastro. Il nome lo si fa derivare da cis Alentum che significa al di qua dell’Alento. Fiume sul quale è stata costruita anche una diga creando un parco verde attrezzato visitato da migliaia di persone ogni anno. Tutto il cilento è straordinariamente bello ma noi ci soffermeremo sulla parte che va dalla Certosa di Padula verso il mare.
Padula è il paese natio di Joe Petrosino il più famoso poliziotto del mondo. Nato a Padula il 30 agosto 1860, di famiglia modesta. Il padre con il suo lavoro di sarto era riuscito a far studiare i suoi quattro figli maschi. Emigrò con la famiglia a New York nel 1873 e crebbe nel sobborgo di Little Italy. Il piccolo Giuseppe per vivere si era messo a vendere giornali, a lucidar scarpe e a studiare la lingua inglese. Nel 1877, Joe (come ormai si chiamava) prese la cittadinanza statunitense, facendosi assumere l'anno dopo come netturbino dall'amministrazione newyorkese. Era caposquadra quando, una dopo l'altra, avevano incominciato ad arrivare in America le fitte schiere degli emigranti italiani. I poliziotti erano quasi tutti ebrei ed irlandesi e non riuscivano a capire gli immigrati italiani creando un clima favorevole per le organizzazioni criminali. Dipendente dal Dipartimento di polizia come spazzino, Petrosino era stato poi impiegato come informatore. Nel 1883, non senza difficoltà, era stato ammesso alla polizia. Petrosino aveva grinta ed intelligenza, tutto ciò che gli aveva permesso di superare le difficoltà di essere l'unico poliziotto italiano, dileggiato dai connazionali e guardato con un certo sospetto dai colleghi. Determinante ai fini della sua carriera, oltre al suo impegno, era stata la stima riposta in lui da Theodore Roosevelt, assessore alla polizia (e poi presidente degli Stati Uniti). Grazie al suo appoggio nel 1895 Petrosino era stato promosso sergente, liberato dal servizio d'ordine pubblico e destinato alla conduzione d'indagini. I criminali di Little Italy si erano trovati improvvisamente di fronte ad un nemico che parlava la loro stessa lingua, che conosceva i loro metodi, che poteva entrare nei loro ambienti. Nel 1905, diventato tenente, gli era stata affidata l'organizzazione d'una squadra di poliziotti italiani, l’Italian Branch e ciò aveva reso più proficua ed efficace la sua lotta senza quartiere contro la Mano Nera, una tenebrosa organizzazione a carattere mafioso, con ramificazioni in Sicilia, attraverso la quale si esprimeva il racket. Un'occasione che vide Petrosino e l'"Italian Squad" contro la Mano Nera riguardò Enrico Caruso che, in tournée a New York, fu ricattato dai gangster sotto minaccia di morte. Petrosino convinse Caruso ad aiutarlo nel catturare i criminali. Proprio seguendo una pista che avrebbe dovuto portarlo ad infliggere, forse, un decisivo colpo alla Mano Nera, Petrosino era giunto in Italia. La missione era top secret, ma a causa di una fuga di notizie tutti i dettagli furono pubblicati sul New York Herald. Petrosino partì comunque nell'erronea convinzione che in Sicilia la Mafia, come a New York, non si azzardasse a uccidere un poliziotto. Alle 20.45 di venerdì 12 marzo 1909 in Palermo, tre colpi di pistola in rapida successione e un quarto sparato subito dopo uccidono Joe Petrosino. Il paese di Padula è arroccato sulle pendici di una montagna che domina la piana sulla quale si trova la famosa la Certosa di San Lorenzo. La certosa fu fondata da Tommaso Sanseverino conte di Marsico nel 1306 sul sito di un esistente cenobio. La sua struttura richiama l'immagine della graticola sulla quale il santo fu bruciato vivo. La storia dell'edificio copre un periodo di circa 450 anni. La parte principale della Certosa è in stile Barocco ed occupa una superficie di 51.500 m² sulla quale sono edificate oltre 320 stanze. Il monastero ha il più grande chiostro del mondo (circa 12.000 m²) ed è contornato da 84 colonne. Una grande scala a chiocciola, in marmo bianco, porta alla grande biblioteca del convento. Secondo la regola certosina che predica il lavoro e la contemplazione, nella Certosa esistono posti diversi per la loro attuazione: il tranquillo chiostro, la biblioteca con il pavimento ricoperto da mattonelle in ceramica di Vietri sul Mare, la Cappella decorata con preziosi marmi, la grande cucina dove, la leggenda narra, fu preparata una frittata di 1.000 uova per Carlo V, le grandi cantine con le enormi botti, le lavanderie ed i campi limitrofi dove venivano coltivati i frutti della terra per il sostentamento dei monaci oltre che per la commercializzazione con l'esterno. I monaci producevano vino, olio di oliva, frutta ed ortaggi. Oggi la Certosa ospita il museo archeologico provinciale della Lucania occidentale, che raccoglie una collezione di reperti provenienti dagli scavi delle necropoli di Sala Consilina e di Padula. La Certosa prende il nome dal primo monastero costruito da S. Brunone di Colonia nel 1084 a Grenoble nelle Prealpi francesi nei pressi del massiccio di Chartrouse e da qui l’ordine dei monaci. La Certosa nasce nel 1306 quando Tommaso Sanseverino proprietario di diversi feudi organizza qui una certosa con l’appoggio degli angioini, il territorio circostante bisognoso anche di una bonifica beneficerà del lavoro sia dei monaci che dei contadini ad essa legata per una migliore organizzazione del territorio stesso. L’ingresso nella Certosa dalla corte esterna da accesso alla cosiddetta casa bassa organizzata per i rapporti con l’esterno, comprende anche gli alloggi per i conversi cioè le persone che lavoravano e assistevano i monaci eremiti, la casa alta invece è la zona per eccellenza di preghiera e riposo dei padri. La facciata risale al 1500 e di impostazione tardo manieristica realizzata in pietra locale e rigidamente scandita dall'ordine dorico delle colonne binate, fu arricchita in epoca barocca con statue e pinnacoli: ai lati dell'ingresso le figure in pietra di San Paolo e San Pietro, San Bruno e San Lorenzo. Il portone, probabilmente opera di Baboccio da Piperno, racchiuso da un portale in pietra cinquecentesco, è costituito da formelle in cedro del Libano. A destra in alto, sono raffigurate alcune scene dei martirio di San Lorenzo, mentre a sinistra vi è la scena dell'Annunciazione. La Chiesa a navata unica con cinque cappelle sul lato destro è divisa in due zone, a sinistra è posto il coro dei conversi e a destra il coro dei padri certosini entrambi del 1500, mentre l’abside con il relativo altare è opera del Vinaccia del XVII secolo e decorato con scagliola e madreperla. Nella sagrestia è un altare con Ciborio opera di Iacopo del Duca anch’esso in scagliola e madreperla. La sala del capitolo dove si teneva l’assemblea generale dei monaci per l’organizzazione delle attività della Certosa è ricca di stucchi settecenteschi. Il secondo chiostro, detto anche del cimitero antico, ha al centro una croce in pietra e presenta diversi elementi riconducibili al periodo settecentesco. La balaustra traforata, i capitelli naturalistici, i doccioni a forma di mascheroni e gli stucchi. successivamente sarà costruito un nuovo cimitero nel chiostro grande dove si trova la cappella del fondatore Tommaso Sanseverino. Originariamente i locali che vennero adibiti a cucina costituivano il refettorio dei monaci di cui rimane un affresco del 1600 rappresentante la Deposizione con il Cristo circondato da monaci certosini. Ricordiamo inoltre il chiostro dei procuratori, che erano i gestori del patrimonio della Certosa, è composto da un portico al piano terra e da un corridoio finestrato al piano superiore: qui erano gli alloggi dei procuratori, mentre in basso era situato il refettorio dei monaci conversi. Una fontana in pietra con delfino e animali marini si trova al centro dei chiostro. La decorazione è a stucco. A differenza delle celle dei monaci l’appartamento del priore è costituito da dieci stanze con giardino e relativo chiostro la cui loggia è affrescata; dall’appartamento il priore aveva accesso diretto alla biblioteca. Il chiostro grande che è il più grande d’Europa misura 104 m x 149 m costruito nel 1583 su due livelli. Il primo livello è all’altezza del portico su cui si affacciano le celle dei monaci. L’altro livello corrisponde alla galleria per la passeggiata detta spaziamento che rappresentava il momento di incontro con altri monaci che ricordiamo vivevano in eremitaggio. Su di un lato corto dei chiostro fu costruito il nuovo cimitero che sostituì quello posto tra cucina e refettorio. Esso è racchiuso da una balaustra con alcuni teschi in pietra. Lo scalone ellittico a doppia rampa, che unisce i due livelli del chiostro grande, opera di Gaetano Barba del XVIII secolo.
Dopo aver visitato la Certosa proseguiamo il nostro itinerario verso il golfo di Policastro prendendo una comoda superstrada. Lungo la stessa troviamo l’uscita di Sanza dalla quale tramite una strada interna si può salire sul Monte Cervati m. 1898 che è il più alto monte, tutto in territorio campano, secondo al monte Gallinella che invece è il più alto della Campania, posto sul Matese al confine con il Molise. Bellissima è l’ascesa al monte dove si trova una chiesa con una bellissima vista su tutta la valle di Diano. Proseguendo sulla superstrada si esce al bivio per Morigerati paesino di cui è famosa l’oasi del WWF. Si accede scendendo dal paese lungo un percorso fatto a gradoni scoscesi e porta ad un vecchio mulino posto in fondo alla valle e qui che il Bussento esce dalla montagna per proseguire il suo percorso verso il mare. Lungo strade interne si può raggiungere Casaletto Spartano di cui sono famose le cascate dei capelli di Venere. Proseguendo sempre tramite i percorsi isolati delle montagne si raggiunge il paese più importante Sapri. Con il suo bel golfo è famosa soprattutto per la spedizione di Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera che imbarcatisi sul “Cagliari” il 25 giugno 1857 dal porto di Genova dopo averlo dirottato su Ponza liberarono 323 prigionieri e con essi sbarcarono sulla spiaggia di Villammare e Sapri. All’episodio è dedicata la poesia “La spigolatrice di Sapri” scritta da Luigi Mercantini. Da Sapri proseguendo in direzione nord si raggiunge Policastro. Policastro Bussentino antica città greca e poi romana ha una bellissima Cattedrale dedicata all’Assunta iniziata a costruire nel 1177. Attualmente ha una semplice facciata adornata da un portale rinascimentale del 1455. Sul lato destro è la possente torre campanaria. Da visitare ancora le magnifiche Marina di Camerota, Pisciotta e Palinuro con le sue grotte promontorio che prende il nome dal mitico nocchiero di Enea. La più bella è la Grotta azzurra. Alla foce del Mingardo troviamo il promontorio della Molpa sul quale doveva esistere una colonia di Velia. Le montagne più interessanti della zona sono il Bulgheria m. 1225 ed Il monte Gelbison m. 1705 chiamato monte Sacro per la presenza di un santuario ed il monte Stella più a nord. Tutti i paesi della zona sono caratteristici ed interessanti solo per citarne alcuni abbiamo Torre Orsaia, San Giovanni a Piro e Camerota. La superstrada tra Policastro e Salerno prosegue raggiungendo prima Vallo della Lucania importante centro della zona. Da Vallo Scalo si può raggiungere Velia antica città dei focesi. Proseguendo sulla superstrada verso Salerno si raggiungono Agropoli, bellissima cittadina sul mare, Capaccio, dove troviamo gli scavi di Paestum ed infine Battipaglia, la città più importante della provincia di Salerno.
Caserta Vecchia
e Reggia di Caserta
Capitolo XXVII
Caserta vecchia
Caserta vecchia sorge a 11 km di distanza da Caserta che è in pianura, l’appellativo vecchia venne utilizzato proprio per distinguerla dalla città nuova. Il centro della città vecchia sorge sul monte Virgo a 400 mt circa sul livello del mare. Le origini di Caserta vecchia sono incerte, una delle prime testimonianze nell’861 è data dagli scritti di un monaco benedettino Erchemperto dove si legge appunto il nome di questo borgo “Casahirta”. I ritrovamenti di elementi di un piccolo castrum ci parla di una precedente presenza dei romani, ma non documentata. Sappiamo con certezza della presenza nell’ anno 861 della dominazione Longobarda e della cessione del borgo nel 879 al conte Pandulfo di Capua. Nel IX secolo, sempre nel periodo longobardo abbiamo diverse incursioni saracene. Sia la città di Calatia, situata nei pressi dell’attuale Maddaloni, che la città di Capua vengono assediate dai Saraceni. Per tale motivo gli abitanti ed il clero delle zone circostanti trovarono in Casertavecchia, protetta dalle montagne, un rifugio sicuro. E’ in quest’epoca che viene costruito il castello, con una chiesa e la sede vescovile. La cittadina rimarrà sede vescovile fino al 1842, quando Papa Gregorio XVI trasferisce il vescovado in pianura. Nel periodo normanno governata da Riccardo I di Aversa viene costruita la Cattedrale sotto l’episcopato di Rainolfo e consacrata al culto di San Michele Arcangelo. Nel 1232 abbiamo gli Svevi con Riccardo di Lauro, che accresce lo splendore e l’importanza di Casertavecchia dal punto di vista politico e religioso. In questo periodo viene costruita la torre cilindrica. Si giunge al 1442 con la dominazione aragonese durante la quale assistiamo ad una progressiva decadenza di Casertavecchia da un punto di vista urbanistico. Non vi è interesse da parte degli aragonesi di costruire nuovi siti e nuovi monumenti, in quanto la vita si comincia a trasferirsi lentamente in pianura, che lascerà a Casertavecchia solo il vescovo ed il seminario. Prima di passare al diretto controllo della corona dei Borbone di Napoli, Caserta Vecchia fu amministrata da diversi nobili (fra i quali anche i Caetani di Anagni). Con i Borbone Caserta diventa il nuovo centro a scapito di Casertavecchia. Questo passaggio di solito viene spiegato come repentino, in realtà non lo è affatto perché già nel periodo medievale vi era una frequentazione della pianura con l’edificazione di casali policentrici con sfruttamento del territorio agricolo circostante, il tutto sempre controllato dal castello di Casertavecchia. Le strutture presentavano delle piccole torri che davamno il nome al villaggio “Torre”. L’ex via Trivio, l’odierna via Mazzini, diventa una zona di comunicazione tra questi casali, compreso il palazzo degli Acquaviva, con i monasteri e conventi che si stabiliscono all’interno del villaggio delle suore agostiniane e dei domenicani. Nel periodo Longobardo il collegamento era garantito da una mulattiera che non era altro che un “tratturo” che collegava Casertavecchia con Casolla, con l’Abbazia Benedettina di San Pietro ad Montes, simile nella pianta a Sant’Angelo in Formis ma anche al Duomo di Caserta vecchia, costruita con gli stessi materiali di spoglio del tempio di Giove Tifatino.
San Rocco
All’entrata del borgo si trova questa bellissima chiesatta dedicate a San Rocco. Costruzione che risale al 1400 nel 1600 ci fu il ciclo di affresci di cui restano trace. La chiesa è sconsacrata ma qui viene celebrate la messa il 16 Agosto nella sua festività. Da notare il Crocifisso del 1300, appena usciti fuori dalla chiesa a destra c’è un porticato successivo del 1600 con copertura a botte.
Castello vecchio
Il castello viene costruito nel periodo della dominazione Longobarda, probabilmente poco dopo l’861 da Pandolfo il Rapace sulla sommità del monte Virgo, posizione strategica in quanto presenta una visuale quasi a 360° per cui è possibile controllare tutta la pianura del casertano. Il castello è costituito da più edifici e accoglieva la guarnigione dei soldati ed il loro comandante, oltre al signorotto locale con la famiglia. Presentava sei torri quadrate erette con la cosiddetta muratura a secco. Nel periodo normanno si ha una sorta di ristrutturazione del castello trasformato in un maniero e viene annesso un ambiente termale. Nel periodo Svevo il castello viene ingrandito con l’edificazione del famoso mastio circolare ad opera di Riccardo di Lauro, ovvero di una torre concepita con un paramento in blocchi di tufo squadrato a vista poggiante su uno zoccolo in calcare molto alto tramite una sorta di unghie in calcare, unghie triangolari che si aggrappano al tufo. Tale configurazione è chiaramente ispirata alle due torri federiciane di Capua, vicine per collocazione geografica e temporale, induce ad ipotizzare che alla erezione del mastio casertano parteciparono gli stessi artefici capuani. La torre è tra le più grandi d'Europa, seconda per diametro alla torre della cinta urbana di Aigues Mortes, in Provenza. E' alta circa 30 metri per 19,14 di diametro, ha tre livelli di cui quello di mezzo accessibile dall'esterno grazie ad un ponte levatoio che la collegava al vicino castello. La sala superiore comunica con quella d'ingresso per mezzo di una scala in pietra ricavata all'interno dello spessore della muratura, il vano inferiore è accessibile solo per una botola. Il livello superiore era per il signorotto locale il collegamento tra il livello di mezzo e quello superiore era dato da una scala molto piccola di 50 gradini che appoggiava sulla muratura dello spessore di cinta della torre. Infine, la parte inferiore era adibita a cantina per le derrate alimentari e per l’acqua, per garantire parecchi giorni in caso di attacco.
La chiesa dell’Annunziata
La chiesa dell’Annunziata è in stile gotico costruita tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV, subì un incendio che ha distrutto completamente gli affreschi che la ricoprivano. La chiesa fu ricostruita nel 1953, degli affreschi ne rimangono pochi lacerti che adesso sono sull’arco trionfale e sull’altare, ma è stato trovato in sagrestia un affresco con l’Annunciazione di Maria. La facciata, preceduta da un portico ad unica arcata con decorazione ad affresco, è affiancata dal campanile e dall'edificio del vecchio ospedale. Il portale gotico, di cui si leggono ancora tracce delle parti superiori, peraltro affrescate, fu sostituito dall'attuale portale barocco nel 1737. Sul portale campeggia il consueto stemma dell'Annunziata. Il perimento murario esterno è in tufo. Il secondo piano presenta tre archi ogivali e la parte superiore un rosone che è tipico dell’arte gotica per dare la luce all’interno della navata. La chiesa è fiancheggiata da un bellissimo campanile a quattro piani che fu ricostruito nel 1953 perché la chiesa era completamente crollata. L’interno è ad unica navata con coperture a capriate lignee a vista tipica dell’arte gotica. Esso termina in un presbiterio quadrato, coperto con una volta a crociera costolonata, collegato alla navata grazie ad un arco trionfale a sesto acuto in piperno. Sulla sinistra dell'unica navata, scampato al restauro del '53, si apre un piccolo vano nella muratura, originariamente occupato da un altare barocco. Dal presbiterio una porta immette in un ambiente adibito a sagrestia nel quale, grazie ai recenti restauri (1993), è venuto alla luce un altro sbiadito frammento ad affresco di epoca medievale in stile gotico. L’arco trionfale, che divide la zona del transetto, è decorato con busti di santi. L’abside è coperta con volte con archi a crociera con costolonatura tipica dell’arte gotica, due finestre con loculo al centro, da cui entra la luce che proviene sia dal rosone di fronte sia dall’altare maggiore. E’ presente un’acquasantiera con un leone stiloforo con il bacino dell’acquasantiera. Qui si trova il vecchio portale centrale del Duomo in legno.
Piazza vescovado
Piazza vescovado, o piazza del borgo, nasce nel periodo normanno con la costruzione del palazzo dell’ Arcivescovado e del Duomo. Importanti sono I basamenti di granito al centro della stessa che segnano il cosiddetto privilegium immunitatis, ovvero la zona di rispetto che non poteva essere superata e permetteva di offrire il diritto d’asilo.
La Cattedrale di S. Michele Arcangelo
Viene costruita nel 1129, durante il vescovado di Rainolfo ma i lavori proseguirono sotto il suo successore Nicola I (1129-37) per concludersi col vescovo Giovanni, nel 1153. Il campanile e la cupola sono del 1234, quindi posteriori alla costruzione del Duomo, dedicato a San Michele Arcangelo. I materiali utilizzati nella costruzione del Duomo provengono dal tempio di Giove Tifatino soprattutto le 18 colonne di cui 16 di spoglio e 2 costruite ex novo così come i capitelli, infatti 2 sono in marmo cipollino e le altre in marmo normale, Pare secondo la leggenda che le fate, chiamate dai normanni, portarono le colonne per le strade impervie di Caserta vecchia: in una notte queste pesanti colonne vennero poste in opera grazie all’aiuto delle fate.. L’architettura è romanica ed è una delle più antiche testimonianze che abbiamo in Campania con influenze normanno-sicule ed arabo-bizantine, questo soprattutto nella costruzione della cupola. Il Duomo presenta il timpano con una finta galleria al di sopra, finestre che illuminano la navata e tre entrate, un’entrata grande al centro, per la navata centrale, e due piccole. Le decorazioni sono tipiche dell’arte normanna con figure mostruose soprattutto di leoni, perché i leoni erano i protettori della fede e proteggevano l’ingresso della chiesa. La simbologia animalesca è ampia con arieti, toro, centauri e se si nota il Leone alla sinistra tra le sue zampe ha una testa umana. Si può notare una tartaruga e un mollusco alle basi del portale principale. Il 29 settembre S. Michele giorno di festività si svolge la sagra del pane giallo. Il campanile sulla destra ha 5 piani ed è uno dei pochi campanili in Campania che è anche a cavallo della strada, cioè ha anche la funzione di passaggio- L’interno è a tre navate divise da colonne, il soffitto è a capriate e vi sono state delle manipolazioni, in quanto quasi tutte le chiese medievali nei periodi successivi vengono modificate nello stile barocco. In questo periodo vengono distrutti gli affreschi di Pietro Cavallini (1240 – 1330) un grandissimo pittore del tempo. Queste sovrastrutture barocche vengono completamente tolte intorno agli anni ’50, ne rimane solamente la Cappella del Rosario. Tra le numerose opere d'arte conservate ritroviamo: la cappella del Rosario, decorata dal vescovo Schinosi (1694-1734), al cui interno si trova un tabernacolo marmoreo rinascimentale. Il ciborio era quel contenitore per le ostie che poi fu trasformato in sacra olea, cioè in un vano che contiene i crismi santi, ovvero gli oli santi per la cresima, il battesimo, l’unzione degli infermi. Decorato nel periodo rinascimentale con degli angeli alati con trombe e dei putti che sorreggono la porticina. Il battistero gotico, trasformato in cappella di San Cristoforo, il pulpito oggi visibile nelle forme volute dal vescovo Gentile (1604-16) che riassemblò frammenti di uno (o più?) amboni commissionati dal vescovo Stabile (1208-16). il pulpito è mosaicato. Adiacente sul muro c’è l'altorilievo della la Madonna col Bambino; l’affresco della Madonna delle Grazie (sec. XIV); la tomba del vescovo Giacomo Martino (Martone per altri) morto nel 1360, nelle forme tipiche della scultura napoletana di scuola di Tino da Camaino. Nal transetto con il mosaico e l’altare che sono originali con pavimento a mosaico che raffigura l’aquila tipica della dinastia dei normanni ed il paliotto (anch'essi coevi all'ambone). Il cero pasquale (inizi 1300); la lastra tombale del vescovo Azzo (Azzone per altri) da Parma (deceduto nel 1310) ai piedi del quale si ha una raffigurazione della "Civitas Casertana"; il sepolcro a baldacchino del conte Francesco Della Ratta (1359). Sopra l’altare notiamo il bel crocifisso del 1500 restaurato da poco. La cupola a scacchiera notare la base è un poligono ottagonale, che man mano che si innalza raddoppia I prorpi elementi sedici colonnine e trantadue archetti prima della cupola ad ombrello.
Casa delle bifore
Chiamata così perché ha una bifora sulla parte frontale ed una all’interno. Era una vecchia chiesa dedicata a San Pietro acquistata da una sveva artista che si era innammorata del borgo. Negli anni 70 mentre aspettava la ristrutturazione della sua casa veniva ospitata dalla persone del borgo colpita dai pignatti che stavano sui focolari creò lo spiritello utilizzando la sua fantasia.
Eremo di San Vitaliano
Ameno luogo immerso nel verde a circa due chilometri dal centro del borgo tra le due frazioni di Casola e Pozzovetere. Località nella quale si era isolato San Vitaliano vescovo della Vecchia Capua. Sul santo Vitaliano ci sono notizie frammentarie, nato nella vecchia Capua attuale Santa Maria Capua Vetere ne fu vescovo. Alcuni uomini tramando contro di lui lo accusarono di immoralità ed egli amareggiato abbandonò la città che subito dopo fu colpita da varie calamità. Tornato a Capua richiesto dai sui vecchi fedeli fece cadere la pioggia che cadde copiosa risolvendo le calamità. Però non volle riprendere il suo seggio e si ritirò in questo eremo dove compì molti miracoli. Negli ultimi anni della sua vita si ritirò sul Monte Virgilio (Montevergine) dove vi morì nell’ 800 la sua tomba fu meta di molti pellegrini ma poi cadde in rovina e fu trasferito nel Santuario di Montevergine. Nel 1120 Papa Callisto II lo fece trasferire nel duomo di Catanzaro. Il restauro dell’eremo è avvenuto dal 2001 ad opera dei Don Valentino Picazio. La prima costruzione risale a prima dell’anno 1000 ed era posto vicino ad una pietra detta miliarum. Il crocifisso molto probabilmente del 1500 restaurato, la cappellina alla sinistra è dedicata a San Vitaliano.
La Reggia
La posa della prima pietra avvenne il 20 Gennaio 1752 alla presenza del re Carlo con la Regina Maria Amalia, Bernardo Tanucci e l’architetto Luigi Vanviteli. Nel periodo borbonico si avvia la progettazione della nuova città, quando la regina Maria Amalia di Sassonia e re Carlo di Borbone decidono di comprare villaggio torre per la costruzione della nuova Reggia, stabilendo in accordo con l’architetto di costruire anche la città, cosa che però non avviene, limitandosi solo ad alcuni interventi che riguardano un restauro conservativo delle zone adiacenti la Reggia, ad esempio la zona di piazza Vanvitelli con la prefettura. Vennero costruiti dei quartieri ex novo come le scuderie, l’ospedale militare e i quartieri borbonici a Casagiove. Infine venne costruito il cosiddetto quartiere degli schiavi battezzati, musulmani pirati catturati durante le guerre e fatti prigionieri e messi a lavorare alla Reggia, i quali si convertono e si fanno battezzare. Per questo, durante la costruzione della Reggia vengono impiegati anche elefanti e cammelli per il trasporto dei materiali. I reali scelgono questo sito perché è vicino alla capitale e, in secondo luogo, è un posto molto salubre, una magnifica riserva di caccia. L’ex proprietario Michelangelo Caetani di Sermoneta convince il re ad acquistare la sua proprietà, che ospitava il Palazzo Vecchio, antica sede dei conti e dei signori di Caserta. Il Palazzo fu restaurato ed ingrandito da Giulio Antonio Acquaviva D'Aragona, ultimo conte e primo principe di Caserta (XVI secolo) ampliato ed abbellito dal figlio di Andrea Matteo Acquaviva, ospitò cardinali e viceré di Napoli. Nel 1634, per il matrimonio di Anna Acquaviva con Francesco Caetani, passava in proprietà a questa famiglia che lo abitò sino a quando Carlo di Borbone lo acquistò il 29 agosto 1750 per 489.343 ducati. Il palazzo Vecchio fu la sede provvisoria della famiglia reale sino al completamento della reggia. Ospitò Jakob Philipp Hackert e Johann Wolfgang von Goethe. Si trova in Piazza Vanvitelli e oggi ospita la Prefettura e la Questura di Caserta. L’architetto Luigi Vanvitelli presentò il progetto della Reggia su 16 tavole in rame disegnate ed eseguite da Carlo Nolli e dei modellini in ebano dell’ebanista Antonio Rozzi oggi conservate alla Reggia di Caserta. Siamo nel periodo delle grandi regge (Schönbrunn, Versailles) europee Carlo di Borbone e Maria Amalia di Sassonia desiderano edificare una reggia che sia lontana dalla capitale per motivi di prestigio, ma soprattutto per motivi politici in quanto nel 1742 il re di Napoli Carlo di Borbone era stato minacciato dalla flotta inglese di bombardare Napoli se non si fosse dichiarato neutrale ed estraneo alla guerra di successione austriaca ed aveva sperimentato la vulnerabilità della costa. Il Palazzo reale di Napoli era un palazzo vicereale ed a Napoli esisteva la Reggia di Capodimonte che aveva lo scopo di contenere la collezione Farnese. Inoltre il re era più volte stato invitato dai Caetani per delle battute di caccia ed aveva avuto modo di apprezzare la zona. Di fatto però re Carlo non abitò mai questa Reggia. Solamente da Ferdinando IV in poi fu abitata continuativamente dai Borbone. Il cantiere viene diretto da Luigi Vanvitelli Già a 26 anni a Roma collabora alla costruzione di San Pietro e partecipa al concorso per la costruzione della facciata di San Giovanni in Laterano. Poi si trasferisce definitivamente a Caserta dove muore, famosissimo architetto, figlio di un attivissimo e importantissimo paesaggista Gaspar van Wittel, attivo a Roma preso il Papa Benedetto XIV. Il palazzo dove abitava Luigi Vanvitelli è sito in Corso Trieste, tra piazza Dante e la Reggia di Caserta, ha due colonne laterali, all’epoca doveva essere un bel palazzo, infatti ha un bellissimo atrio. Il 20 gennaio 1752 il giorno del compleanno ed onomastico del re, il secondo nome del re era Sebastiano, viene posta la prima pietra, come testimonia l’affresco con la posa in opera presente nella sala del trono. Nel 1773 Luigi Vanvitelli muore e l’opera viene continuata dal figlio Carlo Vanvitelli. L’architetto padre lascia un ricco epistolario con suo fratello Urbano, in cui racconta tutti i piccoli aneddoti e curiosità che accadono durante la vita del cantiere. Una di queste riguarda la decisione dei materiali per la costruzione dello scalone d’onore Carlo, in assenza della regina, sceglie del marmo giallo, marmo cipollino, scelta poi bocciata dalla moglie Maria Amalia, la quale decide per dei marmi rossicci di origine Siciliana (il lumachino di Trapani). In questo epistolario Luigi Vancitelli descrive anche il rallentamento che il lavoro subisce nel corso degli anni. L’architetto aveva ipotizzato 10 anni per la costruzione; in realtà i lavori ne impiegarono 95, a causa di tutta una serie di rallentamenti, uno dei più importanti: l’approvvigionamento idrico, considerato che occorre costruire un canale, l’acquedotto, che porti l’acqua fino a Caserta tramite dei ponti. L’acquedotto Carolino prelevava l'acqua alle falde del monte Taburno, dalle sorgenti del Fizzo, nel territorio di Bucciano (BN), e la trasportava lungo un tracciato che si snoda, per lo più interrato, per una lunghezza di 38 km. Il condotto, largo 1,2 m ed alto 1,3 m, è segnalato da 67 "torrini", costruzioni a pianta quadrata e copertura piramidale destinate a sfiatatoi e ad accessi per l'ispezione. Un’altro tipo di rallentamento è dato dalla morte di Filippo V re di Spagna nel 1756, per cui re Carlo deve abdicare in favore di Ferdinando IV che ha solo 8 anni che certamente non poteva partecipare alla costruzione, per cui è costretto a confrontarsi con dignitari di corte, raggruppati nel consiglio di reggenza presieduto da Bernardo Tanucci. Un ulteriore rallentamento è dovuto alla carestia avvenuta nel 1774, che coincide con l’anno successivo alla morte di Vanvitelli che aveva lasciato il testimone al figlio Carlo. Il palazzo è una costruzione rettangolare con 4 portici, 4 cortili interni. La reggia, definita l'ultima grande realizzazione del Barocco italiano, fu terminata nel 1845 (sebbene fosse già abitata nel 1780), risultando un grandioso complesso di 1200 stanze e 1790 finestre, per una spesa complessiva di 8.711.000 ducati. Nel lato meridionale, il palazzo è lungo 249 metri alto 37,83 decorato con dodici colonne. Il palazzo ricopre un'area di circa 47.000 m² dispone di 1026 fumaroli e 34 scale. Oltre alla costruzione perimetrale rettangolare, il palazzo ha, all'interno del rettangolo, due corpi di fabbricato che s'intersecano a croce e formano quattro vasti cortili interni di oltre 3.800 m² ciascuno e due sotterranei. Le due facciate sono identiche tranne nel nicchione centrale dove vi è un’iscrizione posta dal Ministro Tanucci che esalta la prodigalità di Carlo e Ferdinando IV per aver costruito la Reggia e dato ricchezza al territorio. Nella facciata: vi sono 245 finestre e 3 ingressi, la facciata è distinta in 5 piani, vi è un lato basamento in bugnato diviso in due piani, vi è la facciata rossiccia con colonne e lesene scanalate fatte di travertino in stile ionico. L’ultimo piano, invece, presenta una sorta di balaustra con piccole finestre. I tre ingressi corrispondono alle varie gallerie che mettono in comunicazione i cortili interni con l’esterno e anche fra di loro. La porta centrale collega con la galleria centrale di passaggio dall’esterno verso il giardino che crea il cosiddetto cannocchiale ottico, una visione spettacolare di continuità fino ad arrivare alle cascate alimentate dall’acquedotto carolino.
Il palazzo all’interno: la galleria connette direttamente con il vestibolo centrale inferiore dove si trova la statua di Ercole e l’ingresso dello scalone laterale. Stranamente lo scalone d’onore si trova al centro del palazzo anche in questo il Vanvitelli si distingue. Lo scalone d’onore si sviluppa inizialmente in una rampa centrale con i due leoni laterali che appoggiano la zampa sulla corona regale, che sono a protezione della sovranità. Sulla parete si trovano le tre statue in stucco, erano dei modelli preparatori mai finiti, della maestà regia al centro della verità a destra e del merito a sinistra, dopodiché si distaccano due rampe laterali che immettono al vestibolo superiore costituito da una doppia volta ellittica con la Reggia di Apollo. Si tratta di una sorta di allegoria fatta in onore dei Borbone (Apollo è il re Carlo) e nei tondi le stagioni di Gerolamo Starace. Da notare poi una sorta di anello congiunto con la volta dove si disponevano i musicanti. Nel vestibolo superiore si trova l’ala degli appartamenti e di fronte l’ingresso della Cappella Palatina, inaugurata la notte di Natale del 1784, e bombardata il 27 settembre del 1943. Tale evento ha causato la perdita dei dipinti di Sebastiano Conca (la natività di Maria), di Giuseppe Bonito (Sposalizio della Vergine), di Raffaele Mengs (Presentazione della Vergine al tempio) che decoravano il palchetto reale, voluti dalla regina Maria Carolina. L’aula è simile a quella di Versailles per planimetria, si tratta di una grande sala a galleria con finestre alte e larghe, due file di colonne su un alto basamento. La galleria superiore ha una balaustra di marmo di Carrara per cortigiane e dignitari di corte. L’altare della cappella non è di marmo ma di legno perché era preparatorio. Di fronte all’altare c’è il palchetto reale dove il re sostava durante la celebrazione, a cui si accede dalle porte laterali, dal vestibolo prima dell’ingresso della chiesa. La tribuna reale è decorata con affreschi e tele e l’altare è in stucco mentre la tela dell’Immacolata Concezione di Bonito è originale. Usciti di nuovo nel vestibolo superiore il piano nobile è suddiviso in quattro quarti, vi è una differenza stilistica perché ricordiamo che il cantiere durò 95 anni, per cui dal ‘700 all’800, si passa dal Barocco al Roccocò fino al neoclassicismo. Cinque sono stati I Borboni che a hanno regnato a Napoli dal 1734 al 1860 : Carlo, Ferdinando IV che poi diventa I, Francesco I, Ferdinando II e Francesco II. Prima di arrivare alla sala del trono vi sono 5 anticamere, la prima è la sala degli alabardieri, nella volta sono rappresentate le armi di casa Borbone sorretti dalla virtù di Domenico Mondo (1785). Nelle sovrapporte si trovano i trofei d’armi e sulle finestre si trovano poi 8 busti femminili su tondo che rappresentano le arti liberali e 4 armi di casa Borbone. Sulle consolle squadrate sono disposti busti femminili raffiguranti le regine della dinastia borbonica da Maria Carolina moglie di Ferdinando alle regine successive. Gli sgabelli sono di fattura napoletana e il pavimento è in cotto a finto marmo con tecnica ad encausto tecnica con cui veniva imitato il marmo, la scelta era dovuta sia al fatto che mantenevano meglio le temperature sia dalla volontà del re di incrementare l’economia del luogo. I lampadari sono in bronzo dorato. La seconda anticamera è la sala delle guardie del corpo detta anche degli stucchi, nelle sovrapporte si trovano 12 bassorilievi con le scene delle guerre puniche. Nella volta un’allegoria che esalta la dinastia Farnese, la gloria del principe Alessandro Farnese con le 12 province del regno, di Gerolamo Starace. La madre di Carlo era l’ultima del Farnese Elisabetta. In questa stanza troviamo la scultura di Alessandro Farnese di Simone Moschino. Alessandro Farnese viene rappresentato in abiti romani incoronato dalla Vittoria perché aveva sconfitto gli infedeli. Sulla consolle abbiamo i busti maschili di tutti i reali borbonici da Ferdinando in poi, i lampadari sono in bronzo dorato come nella prima stanza e il pavimento è sempre ad encausto. La sala di Alessandro il Grande è detta la sala dei marmi, in quanto era la prima stanza con vero marmo. Si tratta della sala per i non titolati del regno, essa fa da raccordo tra l’appartamento antico e quello moderno. Si chiama la sala di Alessandro perché la volta rappresenta le nozze di Alessandro e Rossane, di Mariano Rossi (1787) un famosissimo pittore siciliano, in cui vengono raffigurate allegoricamente queste nozze con l’intento di rappresentare la pace e l’equilibrio che portò il matrimonio regale tra Ferdinando e Carolina. Questa sala presenta il balcone d’onore, dove i reali si affacciavano durante gli eventi pubblici. Nella sala di Alessandro sopra al camino vi è un bellissimo profilo di Alessandro Magno: un altorilievo disegnato dal Villareale, famosissimo scultore siciliano allievo del Canova. Nelle sovrapporte si hanno dei bassorilievi che adesso ritraggono scene di vita di Alessandro Magno. Nel decennio francese la sala di Alessandro venne utilizzata come sala del trono infatti ci sono due troni in legno dorato con poggiapiedi di Gobelins de la Tuileries. I quadri rappresentano l’abdicazione del re Carlo a favore del figlio Ferdinando ancora piccolo e la battaglia di Velletri vinta da Carlo sugli austriaci nel 1744. Dalla piccola stanza di raccordo dettta del ramaglietto si passa nella sala di Marte. Questa è la sala dei titolati e dei baroni del regno, progettata da Luigi Vanvitelli ma eseguita da Carlo Vanvitelli e terminata dall’architetto Carlo De Simone. Nella sala di Marte si trova l’esaltazione della guerra, come ad esempio nell’affresco della volta, con il trionfo di Achille su Ettore di Antonio Galliano. Sono presenti bassorilievi con scene dell’Iliade, della forza, della prudenza e della fama del Villareale, due vittorie alate nei lati brevi. Come arredamento vi sono sia la coppa di Alabastro donata da Pio IX a Ferdinando II per essere stato ospitato a Gaeta nei moti del 1848 – 1849, sgabelli e faldistorio (sedute con cuscino centrale, senza schienale, con braccioli incurvati). Nelle sale di passaggio della servitù sono raccolti i modelli della Reggia fatti relizzare dal Vanvitelli per far capire al re il progetto prima di realizzarlo. Sala successiva è la sala di Astrea si ha, nella volta, il trionfo di Astrea di Berger uno dei ritrattisti più importanti del periodo murattiano, probabilmente il viso di Astrea è quello di Carolina Bonaparte. Qui si trovano rilievi in stucco dorato con Minerva inizialmente nuda (rappresentazione dei murattiani), fu poi vestita. Dall’altro lato si ha Ercole (I Farnese erano convinti di discendere da Ercole) con la Leontè tra le province, la provincia di Sicilia (a destra) perché c’è il vischio con la triscele e il Cavallo rampante simbolo della corona di Napoli. Il pavimento è eseguito con marmo di carrara a labirinto. Si giunge quindi all'imponente Sala del Trono, che rappresenta l'ambiente più ricco e suggestivo degli appartamenti reali. Questo era il luogo dove il re riceveva ambasciatori e delegazioni ufficiali, in cui si amministrava la giustizia del sovrano e si tenevano i fastosi balli di corte. Una sala lunga 36 metri e larga 13,50, ricchissima di dorature e pitture, che fu terminata nel 1845 su progetto dell'architetto Gaetano Genovese. Quest’ultimo fa inserire due bassorilievi della fama uno di Tito Angiolini ed uno di Tommaso Arnò. Intorno alle pareti corre una serie di medaglioni dorati con l'effigie di tutti i sovrani di Napoli, da Ruggero d'Altavilla a Ferdinando II di Borbone (44 ritratti tranne Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat), poi un'altra serie con gli stemmi di tutte le province del regno, mentre nella volta domina l'affresco di Gennaro Maldarelli (1844) che ricorda la cerimonia della posa della prima pietra. La sala del trono viene iniziata da Francesco I e completata da Ferdinando II. Innaugurata nel 1845 durante il congresso delle scienze e delle arti. Ci si aspetterebbe, in una sala del trono così grande, un trono grande probabilmente anche su baldacchino, ma in realtà è piccolo fatto in velluto e legno dorato intarsiato quasi a conchiglia. Si ipotizza che il re volesse un trono così piccolo proprio per segnare l’irraggiungibilità della sua persona, quindi non visibile a tutti ma ai pochi da lui scelti. La prima fase della progettazione avviene sotto cura di Pietro Banchi che progetta grosse nicchie contenenti le statue colossali dei regnanti Borbonici fino a Francesco I, da questi ingaggiato. Successivamente ci si accorse che questo tipo di progetto poteva dare problemi strutturali alle pareti per cui vengono aggiunti sei finestroni e sei porte, queste ultime comunicano con le retrostanze delle stanze principali. Le successive stanze rappresentano il cuore dell'Appartamento Nuovo e furono ultimate dopo il 1816. Si accede alla sala del consiglio era strettamente collegata, tramite una anticamera, con la sala del re perché i consiglieri dovevano tenere sempre aggiornato. Qui si trova l’affresco con Minerva che incorona l’arte e la scienza, di Giuseppe Cammarano. Alle pareti si hanno sete di S. Leucio e delle tele dell’ottocento di pittori allievi dell’accademia delle belle arti di Napoli, uno di questi è “La predizione della zingara a Felice Perretti”, di Tommaso De Vivo, (Felice Perretti sarebbe diventato Papa Sisto V). Il tavolo al centro è un famosissimo tavolo da parata, tavolo ligneo tutto intarsiato con un piano rivestito di velluto con delle piccole formelle provenienti dalla reale fabbrica di Capodimonte dove si vedono delle figurine come una sorta di galateo, come stare a tavola, come vestirsi etc. Quindi si passa alle retrostanze dell’ottocento, all’entrata vi si trovano dei mobili di stile neoclassico e a destra un dipinto con i tondi dei reali di Napoli, da Ruggero il Normanno fino a Ferdinando II. Nella stanza vi sono gli organi a cilindro. Seguendo le stanze di collegamento della servitù troviamo modellini delle famose giostre del principe Leopoldo. Quest’ultimo ultimo figlio di Ferdinando, non molto avvezzo al potere ma dedito allo svago e alle scienze, aveva ingaggiato Nicola Ardito per costruirgli dei modellini che poi vennero realizzati materialmente nella Villa Favorita di Resina presso l’attuale Ercolano. Lungo il percorso troviamo il prototipo dell’ascensore e nella stanza in fondo le due culle della famiglia Savoia. Girando a sinistra si entra nella saletta della portantina di Papa Pio IX durante il soggiorno della repubblica romana tra il 1848 ed il 1849 a Gaeta. La cappella di Pio IX eseguita con marmo di Carrara prevalente con l’altare, busto e rilievo di marmo. Si entra poi nella camera da letto di Gioacchino Murat, i mobili di stile impero provenivano dalla Reggia di Portici, in realtà non furono mai utilizzati da Murat, sopra il letto c’è il dipinto con il suo ritratto. Le sedie portano le iniziali di Joachim Murat e hanno la tappezzeria in stile francese, il letto in mogano fu disegnato da Leconte, molto piccolo perché pare che i napoleonidi dormissero seduti e non distesi, con molti cuscini. Una decorazione in bronzo appunto legata alle armi dei napoleonidi e le lance sostengono questo baldacchino con raso blu e dorato. Successivamente seguono le due anticamere in cui l’arredamento proveniente dalla reggia di Portici, quindi in stile impero, vi si trovano i ritratti della famiglia Bonaparte e dei tornei cavallereschi. Nella seconda anticamera sulla destra c’è una sorta di comò e il quadro con la visita di Murat all’albergo dei Poveri di Schmidt. Si accede alla camera di Francesco II l’arredo è sempre in stile impero risalente al periodo tra il 1814 ed 1822 eseguito in mogano e bronzo. La stanza è arredata da un letto a baldacchino, due comodini, due cassettoni ed il tavolo sorretto da quattro leoni alati con le sedie intorno. C’è una scrivana a cilindro ed il portadocumenti da viaggio alla destra della scrivania. Arredamento non della stessa epoca del letto, comodino e cassettoni. Nella volta è rappresentata “l’Uccisione del Minotauro” di Giuseppe Cammarano. Il camino sorretto da due cariatidi è stato eseguito dal Villareale. Sono presenti inoltre due quadri sulla vita di Gesù (Gesù che placa la tempesta, Gesù che guarisce l’indemoniato). Adiacente alla sala da letto di Francesco II troviamo la sala da bagno vera era la sala del ristretto con un gabinetto costituito da un tavolo da toilette donato dalla famiglia Del Nero di Carrara (famosi scultori Carraresi). La toilette è posta al centro e realizzata con dei porta profumi fissi a sinistra si ha la vasca in granito, con i rubinetti dell’acqua calda e fredda. Francesco II pare si sia lavato in detta vasca solo tre volte. Vi è poi un camino con le spighe che hanno una certa logica con l’affresco che sta al di sopra, che raffigura Cerere, la dea dell’abbondanza in Sicilia, con la corona di spighe, di Giuseppe Cammarano, è presente poi un separé con un pavone vicino al camino. Segue l’anticamera della stanza di Francesco II dove per la prima volta c’è la raffigurazione del trompe l’oeil ( l tromp l’oeil è tecnica che consente una sorta di illusione prospettica, si usa anche adesso fare delle biblioteche finte) Baccanale di Franz Hill. Sono presenti dei ritratti tra cui la rappresentazione del trono verde, poi si hanno delle consolle del reale opificio, delle pietre dure con vari elementi floreali. Adesso le stanze che vediamo sono già state percorse dall’altro lato e torniamo velocemente alla sala di Alessandro qui è bello dare uno sguardo dalla finestra centrale sulla grandiosa piazza antistante. Poi girandosi sulla propria sinistra verso l’area sud-est si accede all’appartamento Vecchio. Fu il primo ad essere abitato da Ferdinando IV e dalla consorte Maria Carolina. La prima stanza è la Sala della Primavera, con le tele di Hackert Primo pittore di corte eletto da Carlo, fu precettore sia di principi, tra cui di Ferdinando IV, che di principesse, dal punto di vista artistico. (28 sono le tele del pittore nella intera reggia) e sete di S. Leucio alle pareti, detta così perché prende il nome dalla volta affrescata dal Dominici con la rappresentazione dell'allegoria della primavera, questa era la sala delle udienze. Poi si passa alla sala d’estate, dove l’affresco rappresenta appunto l’estate. Nella volta l’incontro di Proserpina e Cerere, nel momento della mietitura Proserpina esce dall’ade e incontra la madre Cerere in Sicilia, realizzata dal pittore Fedele Fischetti. Alle pareti della sala i ritratti dei principini di Maria Teresa di Borbone che era figlia di Ferdinando IV e di Maria Carolina che sposò il re austriaco; al centro il cosiddetto tavolino di Antonio Segato secondo le fonti un tavolino di legno poi pietrificato Secondo fonti storiche il Segato aveva inventato il modo di pietrificare il legno, proprio come era successo per la cappella di San Severo la cosiddetta mercurializzazione delle vene.. Si passa alla stanza dell’autunno, altra sala di rappresentanza, dove si trova l’affresco con l’incontro tra Bacco e Arianna di Fedele Fischetti, le consolle con i vasi di ceramica di Capodimonte con frutta e fiori e le nature morte che erano tipiche dello stile roccocò e abbiamo i nomi dei più importanti pittori di nature morte di quel periodo. Da Girolamo Starace Franchis furono decorate le sovrapporre con le divinità di Cerere e le Allegorie di Diana cacciatrice, Vulcano, Saturno, Giunone, Apollo e Nettuno e per ultima l'Allegorìa di Marte. Si passa poi alla sala dell’inverno che è quella di vestizione del re; si ha l’affresco con Borea che rapisce Orizia di Fedele Fischetti e i dipinti di Hackert, al centro un tavolo del reale opificio delle pietre dure eseguito dal direttore Gaspare Bugnai. In realtà pare non si tratta proprio di un tavolo, ma di due consolle particolari unite. La stanza successiva è lo studiolo di Ferdinando I a cui si arriva attraverso un piccolo corridoio con annesso fumoir, alle pareti degli stucchi, le famose pitture di Hackert; adiacente si trova la sala del consiglio con carta da parati eseguita con gli stencil di derivazione francese, nella finestra vi è la meridiana con la scritta in latino signatet moment. Si passa così alla camera da letto di Ferdinando II, probabilmente il luogo dove il re morì il 22 maggio del 1859, ma i mobili non sono quelli utilizzati dal re, in quanto probabilmente morì di sifilide, molto contagiosa, per cui furono bruciati. Nella stanza è presente un letto senza baldacchino ed una scrivania a cilindro simile a quella della camera da letto di Francesco II. Due cassettoni in mogano ed un tavolino di fattura napoletana. Si passa all’appartamento di Maria Carolina, in stile rocaille, Una parentesi dello stile roccocò, molto più vivace con rappresentazione di fiori e frutta molto ridondante, figure fitomorfe sia di animali, fiori e di frutta. La stanza successiva è da lavoro, detta anche sala degli specchi per le pareti in raso giallo incorniciate da piccoli specchi eseguite da Nicola Armenio, nella volta Venere e le grazie di Fedele Fischetti, pende il famoso lampadario di rame dorato e legno con i pomodorini che attorniano i bracci di questo lampadario provenienti dalla Campania felix, dall’agricoltura della campagna; l’orologio con gabbia con il quadrante al di sotto della gabbia e gli uccelli al centro. Si passa al gabinetto degli stucchi con il bagno e il ristretto con un orologio simile a quello della stanza da lavoro, questi due orologi erano stati regalati da Maria Antonietta alla sorella Maria Carolina vista la lontananza. Segue la sala di ricevimento della regina, sala di conversazione con l’età dell’oro di Fischetti e le tele di De Mura e di Bonito; all’angolo la sala delle dame di corte con i divani e la dormeuse con un solo bracciolo. Le sale del corpo avanzato, una sorta di corpo aggiunto successivamente ed era l’ala riservata alla biblioteca per Maria Carolina, quest’ala presenta una semplicità ed una ricchezza dovuta allo stile neoclassico soprattutto perché in questo periodo erano state ritrovate rovine di Ercolano nel 1738 e di Pompei nel 1748 . Esistono due sale di lettura con tele di Füger, il quale rappresentava il nuovo, il moderno, la pittura classicista in aperta contraddizione con le forme barocche della tradizione napoletana, perciò egli scelse temi desunti dal repertorio classico per decorare le pareti della biblioteca: Il Parnaso con Apollo e le tre Grazie, L'Invidia e la ricchezza, La Scuola di Atene, La Protezione delle Arti e il discacciamento dell'Ignoranza. Il planisfero con le costellazioni e i segni zodiacali di puro stile neoclassico, scendendo vi sono degli affreschi che riprendono i vasi a figure rosse della produzione attica dei vasi a figure rosse infatti vengono messi al di sopra delle librerie anche dei vasi della collezione Giustiniani, ovviamente sono delle imitazioni del ‘700. Di seguito vi sono le tre sale di deposito, la prima è quella neoclassica molto semplice dove abbiamo le alte librerie realizzate a boiserie da maestranze locali come la particolare libreria girevole di mogano e palissandro, posta al centro della stanza e realizzata per rendere comoda la lettura alla Regina, vi si trovano anche diversi strumenti: il cannocchiale e la sedia accanto alla libreria girevole, due globi uno terrestre e l’altro astrologico e di fronte abbiamo il barometro. La stanza del presepe: una sala ellittica, dipinta in bianco e senza decorazioni, con in alto dei panchetti forse messi lì per i musici, dato che la sala era sicuramente destinata ai divertimenti della corte. Oggi essa ospita il Presepe borbonico, restaurato di recente, dopo che la maggior parte dei pastori era stata trafugata. Re Carlo volle vestire i pastori o comunque i personaggi del presepe con i costumi dell’epoca. Per cui il presepe napoletano di tipo borbonico è un grandissimo documento storico del vestiario del tempo: le figure erano con testa e membra di terracotta; alle pareti abbiamo delle tempere del Fergola con la raffigurazione dell’ultimo presepe del 1844 eseguito in questa sala secondo gli archivi della real casa e secondo i dipinti del Fergola. Si arriva poi alla pinacoteca una serie di ambienti in cui sono state raccolte varie opere: nature morte di pittori italiani e olandesi dell'Ottocento, quadri di battaglie etc.
Il Teatrino di corte della Reggia di Caserta
IL Vanvitelli nella prima programmazione della costruzione della reggia non aveva previsto il teatro all’interno della stessa, ma Carlo voleva anche a Caserta aver un piccolo San Carlo. Vanvitelli dovette riprogettare la zona del teatro per motivi strutturali dato che il teatrino è costruito sotto la cappella Palatina. Il Re l’ebbe vinta ma non vide mai l’opera perché dovette andare a regnare in Spagna e fu suo figlio Ferdinando IV e soprattutto Maria Carolina che lo usarono e lo innaugurarono la giornata di Carnevale del 1769. La forma a ferro di cavallo è identica a quella del teatro San Carlo. Il Teatro San Carlo attivo dal 1737 è stato il primo al mondo ad introdurre la forma a ferro di cavallo e le balconate stile copiato poi in tutto il mondo, detta forma permetteva una migliore acustica e visione al pubblico. Il palco reale è posizionato proprio accedendo dall’attuale entrata . Gli ospiti accedevano da due porte laterali e si disponevano secondo del ceto sociale nell’arena o ad i 41 palchetti disposti su 5 ordini. Questi ultimi disegnati con motivi diversi da Gaetano Macri ma speculari con quelli posizionati di fronte. Il palco reale è sormontato da una corona ed una figura dorata che rappresenta la fama che suona la tromba e da un ricco drappeggio con il colore azzurro ed i gigli Borbonici. Il dipinto nella volta raffigura Apollo che calpesta il pitone eseguito da Crescenzo La Gamba, allegoria del re che schiacciava il vizio. I nove spicchi rappresentano le muse mentre i quattro puttini nei tondi gli elementi naturali. Il piano scenico è sostenuto idealmente da due figure a destra Orfeo (il canto) mentre a sinistra c’è Anfione (la musica) . Il fondale che vediamo è l’ultimo pannello originale dei 7 fondali che esistevano è stato restaurato con una donazione dell’attore Tom Cruise che era venuto alla reggia a girare alcune scene di Missione impossibile. La grande particolarità del teatro è però dietro il fondale dove un portone permette aperto di utilizzare come fondo scenico il parco con la sua natura. Si racconta che una volta che era stato rappresentata l’opera di Didone abbandonata di Pietro Metastasio che prevedeva una scena con l’incendio di Cartagine avendo fatto realmente dei rovi nel parco avevano generato il panico tra tutti gli invitati che erano fuggiti proprio per la realistica rappresentazione.
Il parco
I Lavori iniziano nel 1753 un anno dopo l’inizio della reggia. È uno dei parchi più belli d'Europa, protetto dall'Unesco come patrimonio dell'umanità. E’ una splendida e grandiosa opera d’arte che contribuisce a fare della Reggia di Caserta una delle più belle del mondo; ricopre 122 ettari. Il viale principale fu progettato da Luigi Vanvitelli ed eseguito da Carlo ed è diviso all’italiana. Il bosco vecchio quello a sinistra della fontana Margherita, La Fontana Margherita è in un’aiuola circolare, circondata, in piano, da statue delle Muse mentre statue di schiavi recanti grossi canestri di frutti della terra e dei boschi abbelliscono le due rampe semiellittiche che portato alla peschiera con la Fontana dei Delfini. Un grande prato separa questa fontana dalla Fontana di Eolo, con cascata, grotte e statue rappresentanti Eolo ed i venti. con la peschiera, l’acqua proviene dalla sorgente del Frizzo tramite l’acquedotto scende per caduta, questa cascata ha un’altezza di 78 m per cui l’acqua arrivava alla fontana di Diana e Atteone con molta potenza. Il giardino inglese, voluto da Maria Carolina su suggerimento di Lord Hamilton che era l’inviato di sua maestà Britannica. Scelgono come botanico l’inglese John Andrew Graefer il quale fa moltissimi viaggi per reperire tutte le piante esotiche più importanti. La differenza tra il giardino all’inglese e quello all’italiana è che il primo è un giardino che non ha un ordine è tutto messo casuale, il giardino all’italiana invece è simmetrico con il viale centrale, tutto razionale e misurato. All’interno del giardino inglese ci sono quattro serre, tre con soffitto in muratura ed una con il soffitto a vetro per la luce. Troviamo il laghetto con le finte rovine con tempietto e rovine provenienti da Pompei. Il criptoportico che è un finto ninfeo con finte murature rovinate con pavimento in marmo e con nicchie, il soffitto è stato fatto apposta così per emulare le rovine e il decadimento. Il bagno di Venere, nel progetto di Luigi Vanvitelli era una cisterna infatti abbiamo questi pilastri che contengono questa sorta di cisternone che doveva fungere da supporto eventualmente se l’acquedotto si fosse rotto; durante i napoleonidi fu una vera utilizzato per le api e con Francesco II una serra. Il parco reale di Caserta si estende per 3 chilometri di lunghezza, con sviluppo Sud-Nord, su 120 ettari di superficie. Le fontane del parco alimentate dall'Acquedotto Carolino, Fu inaugurato nel 1762 da re Ferdinando IV. Quest'opera che attinge l'acqua a 41 km di distanza è, per la maggior parte, costruita in gallerie, che attraversano 6 rilievi, e 3 viadotti (molto noto quello denominato "I ponti della Valle" sito in Valle di Maddaloni, di 60 metri di altezza e 528 metri di lunghezza, ispirato agli acquedotti di epoca romana). dovevano essere 19 fontane ma con le difficoltà economiche e poi la morte di Vanvitelli. sono :
Fontana Margherita – La prima, in ordine di tempo e di spazio, delle fontane che compongono la via d’acqua. Detta del Canestro È composta da una vasca in pietra e circondata da quattro grandi Cycas circondati da cespugli di rose antiche.
Fontana dei delfini – La cascata d’acqua deriva dalla gola dei tre mostri marini a forma di delfino e rappresentano la prima grande cascata della “via dell’acqua”. Davanti alla fontana si apre una grande vesca che misura 470 metri e larga 27 con una profondità di 3 metri.La fontana fu realizzata da Gaetano Salomone tra il 1776 e 1779.
Fontana di Eolo – Le numerosissime statue rappresentano i zefiri, personificazioni dei venti che dimorano nella grotta a forma di Esedra. Eolo, dio dei venti, era stato invocato da Giunone per impedire ad Enea, partito da Troia, di giungere sano e salvo in Italia dove avrebbe fondato la potente città di Roma. Il lavoro, concluso nel 1785, fu eseguito da un team composto da Salomone, Brunelli, Persico e Solari. Grandioso l’emicclo a porticato che chiude superiormente la vasca alimentata da una cascata.
Fontana di Cerere – La giovanissima figlia della dea Cerere fu rapita dal dio degli Inferi, Ade, che si innamorò di lei. Si narra che la dea, desolata per la perdita della sua figlia, maledisse la terra di Sicilia dove la fanciulla era scomparsa, inaridendo i campi e rendendo sterili i semi. Solo grazie all'intervento di Giove, la dea ottenne che la figlia soggiornasse con lei almeno sei mesi l'anno. E’ ornate di delfini e triton, Nereidi e statue dei fiumi reto e Simeto. Realizzata in marmo di carrara da Gaetano Salomone tra il 1783 e 1785.
Fontana di Venere e Adone – Il bellissimo Adone, amato dalla dea dell'amore, Venere, morì tragicamente per la gelosia di Marte. Durante una battuta di caccia sul monte Ida, il dio irato gli suscitò contro un cinghiale selvaggio che lo uccise. La dea accorse e pianse disperata sul giovane morente. Realizzata da Gaetano Salomone.
Fontana di Diana ed Atteone Il gagliardo cacciatore tebano, Atteone, stanco della caccia, per dissetarsi si avvicinò, inopportuno, ad una fonte dov'erano in piena intimità la dea e le sue ninfe, appena uscite dal bagno. Da cacciatore viene trasformato in selvaggina e deve fuggire nel bosco trasformato in un cervo dalle agili gambe e dalle grandi corna ramose, preda dei suoi stessi cani. Il lavoro fu eseguito da Solari, Persico e Brunelli tra il 1785 e 1787
Bosco vecchio: Castelluccia e Peschiera – Nel cuore del bosco vecchio si trovano due strutture create per far istruire il giovane re nelle arti militari: servivano per lo svolgimento di simulazioni di guerra: nella prima, la Castelluccia edificata nel 1769, si facevano finte battaglie terrestri, delle esercitazioni belliche; mentre nella Peschiera si simulavano delle vere e proprie battaglie navali.
Le vasche sono popolate da numerosi pesci, specialmente carpe ecarassidi, e vi vegetano piante acquatiche delle specie Myriophyllum spicatum e Potamogeton crispus.
Giardino all'inglese
All'interno del parco fu realizzato da John Andrew Graefer un giardino di 25 ettari voluto dalla regina Maria Carolina d'Asburgo-Lorena nel 1785, moglie di Ferdinando IV, figlia di Maria Teresa D’Austria secondo i dettami dell'epoca che videro prevalere il giardino detto "di paesaggio" o "all'inglese", sottolineatura dell'origine britannica di spazi il più possibile fedeli alla natura (o almeno alla sua interpretazione secondo i canoni del Romanticismo). La regina fu convinta da sir William Hamilton, inviato straordinario di sua maestà britannica presso il Regno delle Due Sicilie il quale, per individuare l'esperto progettista del giardino, si rivolse a sir Joseph Banks, noto per gli studi botanico-naturalisti e per aver partecipato con il capitano James Cook alla leggendaria spedizione dell'Endeavour. La scelta cadde su John Andrew Graefer, figura di spicco tra i botanici anglosassoni, allievo di Philip Miller. Graefer era noto nell'ambiente botanico internazionale per aver introdotto in Inghilterra numerose piante esotiche, alcune delle quali dal remoto Giappone. L'opera di John Andrew Graefer cominciò nel 1786. Nel 1789, mentre proseguiva il suo lavoro al Giardino Inglese, Graefer pubblicò in Inghilterra il Catalogo descrittivo di oltre millecento Specie e Varietà di Piante Erbacee e Perenni. Il giardino è caratterizzato dall'apparente disordine "naturale" di piante, corsi d'acqua, laghetti, "rovine" secondo la moda nascente derivata dai recenti scavi pompeiani. Di spicco, il bagno di Venere, il Criptoportico, i ruderi del Tempio dorico. Il suo autore, John Andrew Graefer, lasciò la Reggia di Caserta il 23 dicembre 1798 imbarcandosi sulla nave dell'ammiraglio Horatio Nelson insieme alla famiglia reale in fuga dall'arrivo dei francesi. Il giardino fu curato negli anni successivi dai tre figli di Graefer che presero in fitto il giardino dal Direttorio francese e lo curarono salvandolo dalla rovina. Il luogo scelto per impiantare il giardino era sito in prossimità della grande cascata, dove il terreno digradante verso mezzogiorno si prestava ai disegni più capricciosi e alla coltivazione delle specie più esotiche, che sarebbero state aggiunte nel tempo. Il giardino offre una serie di luoghi suggestivi, densi di richiami ai modelli del tempo. Oltre il Criptoportico, con le statue provenienti dagli scavi di Pompei e dalla collezione Farnese, abbiamo il piccolo laghetto del Bagno di Venere, con le finte rovine pompeiane, il "casino all'inglese" che fu l'abitazione di Graefer ed infine l'Aperia, un'area utilizzata come serbatoio d'acqua da Vanvitelli, poi usata per le api ed infine trasformata in serra nel 1826. Il Casino destinato a Graefer come abitazione è un fabbricato composto di un pianterreno e un piano superiore, che si presenta prospetticamente come un grande basamento su cui poggia un ordine dorico di pilastri, e cornicione corrispondente, abbellito da medaglioni. Il pianterreno è composto da undici stanze abitabili, alle quali si accede per mezzo di un vano arcato esposto a Mezzogiorno. Il piano superiore ha sei stanze sul davanti, e altrettante sul retro con esposizione a settentrione. Vi sono, inoltre, un sottotetto ed un locale destinato alla conservazione dei semi e degli attrezzi. Graefer effettuava continue escursioni in Campania, a Capri, sul litorale Salentino e a Palermo per rifornirsi di piante per il giardino. Quelle che non erano messe a dimora erano custodite nelle quattro serre, site vicino al casino. Di queste, solo una aveva il soffitto di vetro ed era riscaldata con aria caldo-umida, mentre le altre tre erano preesistenti, tutte in muratura. Il Giardino Inglese della Reggia di Caserta è assurto alle dimensioni e alla qualità di un vero Orto Botanico, ricco com'è di piante e fiori che rappresentavano una vera rarità all'epoca in cui furono impiantate. Qui le specie più esotiche hanno trovato una collocazione ed un clima ideali, che hanno favorito una crescita rigogliosa già nel giro di pochi anni, ma che oggi si offrono in tutta la loro bellezza. Eucalipti, pini, tassi, lauri, cipressi e gingko biloba, magnolie, platani, querce e acacie sono tra gli alberi che fanno da sfondo, che delimitano i viali e arricchiscono gli isolotti.
Caserta, San Leucio, Santa Maria Capua Vetere e Capua
Capitolo XXVIII
Caserta è una città recente perché costruita dopo la reggia nella seconda metà del 700. Nel medioevo esisteva solo un piccolo borgo il cui nome era villaggio Torre. L’ attuale viabilità ha nel Corso Trieste la strada principale. Viale Carlo III è la vecchia via di Napoli che collega la città verso il Napoletano. Questa Fu progettata da Luigi Vanvitelli e poi realizzata intorno al 1835-1838. La piazza ellittica con la ferrovia presente dal 1843. Dalla reggia perpendicolarmente partiva il cosiddetto corso campano (attuale corso Trieste) voluto fortemente da Ferdinando II. Alla fine del Corso Trieste è il monumento ai caduti costruito in commemorazione della Prima Guerra Mondiale. La via Cesare Battisti è la via che interseca il vecchio corso Campano con piazza Dante. Su via Battisti nell’800 sorgeva uno dei più importanti alberghi l’Hotel Vittoria. L’attuale Corso Mazzini è la vecchia via Trivio, essa fu sin dall’inizio del medioevo una delle vie principali del villaggio Torre dato che metteva in contatto il villaggio in tutta la sua lunghezza. Da via Trivio attuale corso Mazzini, il nome cambiò in via del Municipio, poi dedicata alla principessa Iolanda Margherita di Savoia e solo successivamente ha assunto il nome attuale. All’inizio di corso Mazzini, al primo slargo, c’è la chiesa di Sant’Agostino che fu edificata nel XIII secolo e poi ricostruita nel 1441. Verso la fine di Via Mazzini sulla destra si apre via del Redentore che è quella che costeggia il Duomo. Chiamata così per la presenza della chiesa del Redentore successivamente demolita per fare spazio tra il 1929 ed il 1933 alla piazza antistante al comune moderno attualmente piazza Alfonso Ruggero. Su questa piazza c’è il palazzo delle poste di costruzione del periodo fascista su un terreno dato dal comune alle Poste nel 1914. Più avanti si apre piazza Duomo, qui abbiamo la Cattedrale dedicata a San Michele Arcangelo costruita sopra la preesistente chiesa dell’Annunziata del 1300. La chiesa è di stile Barocco alla sulla sua sinistra c’è una piccola cappella, la cappella di S. Giovanni costruita nel 1310 e rifatta dal Vanvitelli nella seconda metà del 700. Proseguendo per via San Carlo troviamo il palazzo Paternò, il proprietario era primo ministro della guerra durante il regno di Ferdinando IV di Borbone costruito nel 1775 dal Vanvitelli. In fondo a via San Carlo si trova la piccola chiesetta di Montevergine del 1636. Qui proprio nello spazio antistante truppe garibaldine combatterono contro le forze borboniche. Nei pressi della chiesetta il quartiere di San Carlino costruito tra il 1751-1753 quartiere dove si producevano maioliche e laterizi per la Reggia. Il quartiere di San Carlino venne poi utilizzato per scopi militari e successivamente completamente distrutto. Ritornando verso il centro troviamo piazza Principe Amedeo o piazza Matteotti nota ai più come piazza Mercato. Fu adibita a fiera settimanale quando piazza Vanvitelli, la vera piazza del mercato, svolgeva solo funzioni politico amministrative. Piazza Vanvitelli diventa il fulcro della vita amministrativa mentre quella commerciale diventa piazza Matteotti con l’apertura del mercato dei commestibili svolto una volta la settimana, come il mercato che veniva svolto a Piazza Vanvitelli dal 1407. Piazza Vanvitelli chiamata prima piazza del Carmine e poi piazza mercato deve il suo nome alla presenza della statua del Vanvitelli di Onofrio Buccini del 1879 che indica con il dito la sua opera. In piazza è presente il Palazzo vecchio con la prefettura e la questura. All’angolo dove è presente oggi la Banca D’Italia c’era il Granile. All’altro angolo, quindi proprio di fronte al palazzo Vecchio c’è palazzo Leonetti costruito nel 1796 da Luigi Vanvitelli. Al posto del palazzo di Costantino Trotta oggi è stato costruito il Municipio con grandi vetrate. Su via Roma arteria viaria principale parallela al corso Trieste troviamo la camera di commercio del 1926 che segue il gusto del tempo neoclassico. Per ultima bisogna ricordare la chiesetta di Sant’Elena dietro il palazzo delle 4 colonne tra la reggia e piazza Dante, dove viveva il Vanvitelli, qui pare che da un piccolo balcone Vanvitelli ogni mattina ascoltasse la messa.
San Leucio ed il museo della Seta
La cittadina costruita qui dal Re si sarebbe dovuta chiamare Ferdinandopoli invece di San Leucio, primo vescovo di Brindisi. Le prime notizie sulla località di San Leucio si hanno su un documento della metà del XV secolo, all’epoca era solo presente un castello dei principi di Acquaviva. Questi erano i proprietari della zona di Caserta, città che ancora non esisteva in quanto tale ma come villaggio dal nome Torre. Dal 1572 fino al 1634 di proprietà di Matteo Andrea Acquaviva. Dopo gli Acquaviva per un matrimonio dell’ultima discendente degli Acquaviva diventano proprietari i Caetani di Sermoneta questi ultimi vendettero la proprietà sia Caserta che San Leucio al re Carlo nel 1750 per la costruzione della reggia. Il nome del luogo deriva da una chiesa longobarda delicata a San Leucio. Questo luogo dal 1992 è diventato patrimonio dell’Unesco. Il belvedere che sovrasta con il suo piazzale deve il suo nome alla vista mozzafiato fino a Napoli. Il 17 dicembre del 1778 muore il figlio di Ferdinando IV e Maria Carolina, Carlo Tito morto di tifo nella località della Vaccheria, così il re decide di farne una sorta di ospizio per i poveri. Poi il re ne fa una sorta di luogo per sviluppare il lavoro e l’artigianato con scuole annesse per i bambini. Invia i lavoranti ad imparare l’arte della seta in Francia. Inizialmente fu un opificio di calze e di veli e successivamente divenne un opificio serico vero e proprio. Quest’ultimo da vita ad un’idea di Ferdinando di creare una colonia, un mondo perfetto dove l’economia andava avanti sulla forza del lavoro dove tutti dovevano essere uguali tra di loro, dovevano essere regolati da leggi particolari. Le sete di San Leucio in questo periodo e anche dopo diventano così famose da trovarsi nei posti più importanti del mondo, sia a Roma, Parigi, Vienna e la Casa Bianca. Il progetto di Ferdinando, quindi San Leucio rientra in quel progetto di rinnovamento fatto dai Borbone nell’ambito della Campania, perché loro favoriscono il lavoro, l’istruzione e soprattutto l’artigianato, ricordiamo che è dovuto ai Borbone la creazione della Real Fabbrica di Capodimonte o l’opificio delle pietre dure, il legno a Sorrento, il corallo a Torre del greco. Quindi danno una notevole sferzata all’economia campana, e come diceva Goethe la Campania diventa sede di emigrazione mentre dopo l’unità d’Italia inizia la disfatta. Il progetto di Ferdinando era descritto da Ferdinando Patturelli nel 1826, il re aveva deciso di creare una sorta di pianta radiale del progetto dove il fulcro doveva essere piazza della seta, il progetto non fu realizzato. Nel dettaglio subito dopo piazza della seta c’è l’edificio della trattoria che non è un ristorante, ma serviva per la trattura dei bachi da seta, la trattura è quando viene dipanato il filo però poi della lavorazione ne parleremo nel dettaglio. L’arco borbonico che risale al XVII secolo non era altro che l’ingresso della proprietà del feudo degli Acquaviva quindi databile al 1600, solamente però nel periodo borbonico venne inserito lo scudo lo stemma nobiliare dei Borbone con i due leoni che si affrontano. Salendo il corridoio centrale vi sono i due quartieri, il quartiere di san Ferdinando ed il quartiere di san Carlo uno a destra e l’altro a sinistra dove ci sono le case a schiera dei coloni. Abbiamo la chiesa di San Ferdinando, la fontana dei delfini, il casino reale, gli opifici sulla destra ed infine la statua di Ferdinando I. Nel belvedere ci sono anche gli appartamenti reali che hanno visto la presenza di artisti come Fedele Fischetti, colui che ha dipinto l’allegoria delle 4 stagioni, perché era un tipico tema del periodo roccocò in cui il fatto del susseguirsi delle 4 stagioni indicava il tempo che trascorreva e quindi la dominazione dei Borbone cioè la continuità del loro potere. Philipp Hackert, il primo pittore di corte, con Ferdinando IV dipinge ad encausto la sala da bagno della regina con figure femminili in stile neo pompeiano e fiori e frutta che le circondano, nello studio del re c’è una tempera di Philipp Hackert con la mietitura. All’entrata del museo troviamo una lapide con scritto Ferdinando I perché Ferdinando IV rientrato dopo il congresso di Vienna nel Regno unisce le due corone di Napoli e regno di Sicilia, creando il regno delle due Sicilie, Crea una fabbrica a ciclo unico quindi costruito per svolgere tutte le fasi della produzione. Per prima cosa da lavoro ai suoi sudditi e Maria Carolina sorella di Maria Antonietta ghigliottinata in Francia proprio per la mancanza di lavoro. Ferdinando promulga delle vere e proprie leggi che vengono sancite da uno statuto del 1789 ed erano idee innovative pervase di illuminismo, addirittura si è voluto vedere in queste idee un’anticipazione di socialismo perché andiamo a leggere: l’editto regio del 1789 dice il solo merito distingue tra loro gli abitanti di San Leucio perfetta uguaglianza nel vestire e assoluto divieto di lusso, i matrimoni saranno celebrati in una festa religiosa e civile, la scelta sarà libera dei giovani ne potranno contraddirla i genitori degli sposi, ed essendo spirito ed anima della società di San Leucio l’uguaglianza tra i coloni sono abolite le doti per non avere una disparità tra chi aveva di più e chi aveva di meno, io re darò la casa con gli arredi dell’arte e gli aiuti necessari alla nuova famiglia. Veniva dato un telaio quindi per la produzione, veniva data una famosa coperta matrimoniale di seta quadrata di 260 cm che era una ricchezza, tutti dovevano vestire uguali. Ancora comando che tra voi non vi siano testamenti ne veruna di quelle conseguenze legali che da essa provengono, la sola giustizia naturale guidi le vostre correlazioni, i figli maschi e femmine succedano per parti uguali ai genitori, i genitori e i figli poscia i collaterali nel solo primo grado e in mancanza la moglie dell’usufrutto se mancheranno gli eredi e sono eredi solamente i sopradetti andranno i beni del defunto al monte o alla cassa degli orfani. Quindi il re vuole creare un mondo perfetto tutto regolato nei minimi particolari. Le esequie semplici devote senza alcuna distinzione saranno fatte dal parroco a spese della Real casa è vietato il bruno per i soli genitori e non solo lungamente per due mesi potrà portarsi al braccio in segno di lutto. È prescritta la inoculazione del vaiolo che i magistrati del luogo faranno eseguire senza che si interponga l’autorità o tenerezza dei genitori. Nell'annesso Museo della Seta è possibile vedere i macchinari del Settecento. Fasi di lavorazione della seta: Per prima cosa il re fece piantare una enorme distesa di alberi di Gelsi. Il Baco da seta trova alimento dalle foglie dell’albero il cui nome tecnico e bombyx mori. Questa baco mangiando il gelso crea da due forellini il filo che rinchiude l’insetto al suo interno. Inoltre crea la sericina che è un collante per proteggere meglio il bozzolo. Ricordiamo che la seta era stata creata dai cinesi. Questa crisalide diventa farfalla alla fine di Maggio inizio Giugno che ha la particolarità di vivere un solo giorno per deporre le uova e poi morire. I Bozzoli venivano presi prima della fase di trasformazione e si faceva morire la crisalide al suo interno per salvare il filo dato che quando usciva la farfalla rompeva l’involucro. Quindi prima si faceva la Gelsi cultura poi la bachi cultura e si raccoglieva il baco per recuperare il filo che per ogni baco può esser lungo circa un chilometro. Il filo veniva sottoposto alla quattro fasi T: Trattura, Torcitura, Tintura e Tessitura. Venivano raccolti i bozzoli e portati nel palazzetto più in alto. Qui con delle stufe si faceva soffocare l’insetto all’interno per non rovinare il filo. Trattura: i bozzoli venivano messi in pentoloni di acqua calda, non per uccidere l’insetto già morto soffocato, ma per sciogliere la sericina e quindi creare della seta di migliore qualità rispetto a quella cinese. Il bozzolo si purifica ed ammorbidisce. La maestra filandaia trovava il capo del filo e lo tirava da qui il nome trattura e si avvolgeva attorno al rocchetto e pronto per passare alla torcitura. Veniva avvolti su degli oggetti chiamati aspi. Torcitura : Dagli aspi veniva fatto passare intorno a bocchette di vetro di murano. Il filo veniva girato su se stesso per farlo diventare più resistente. Sotto al pavimento c’è una grande ruota che veniva azionato dall’acqua dell’acquedotto carolino. Vi erano almeno 6 coppie di torcitori i rocchetti venivano fatti girare da cinte di cuoio ed avvolti nei rocchetti circa 750 per torcitore. Notate gli anellini di vetro di murano. Uno dei torcitoi girava verso destra un altro verso sinistra e quindi il filo veniva torto e ritorto. Tintura : avveniva con lo stesso sistema che usavano i romani attraverso le Fulloniche, antiche tintorie, Il tessuto veniva immerso in grandi vasche di acqua e venivano inseriti i coloranti naturali per il fissaggio del colore si usava l’Urina ricca di ammoniaca. Anche oggi le tinture dei capelli avvengono attraverso l’uso dell’ammoniaca. Tessitura : Esistevano bilance per misurare lo spessore della seta che ancora oggi è usato come unità di misura il denaro. Abbiamo per esempio le calze 10 den più sottili fino ad arrivare ad altre più spesse a 50, 70 e 100 den. La lunghezza era misurata attraverso l’orditoio per avere una precisione che evitasse gli sprechi. Il filo veniva tirato ed attraverso un pettine veniva avvolto ad un cilindro di legno. La matassa veniva inserita. Fino al 700 per fare una coperta ci voleva una settimana ed i 15.000-30.000 fili venivano intrecciati a mano data la maestria degli operai, ma all’inizio dell’ 800 Joseph Marie Jacquard, figlio di un industriale tessile, inventò un sistema per risparmiare tempo e fare lo stesso lavoro in due giorni ricreando i disegni su cartoncini . Gli addetti riportavano su carta millimetrata il disegno poi dei cartoncini venivano forati (scheda perforata) con i percetti chiodi allo scopo utilizzati, questi martellati creavano dei fori e poi venivano assemblati per creare il disegno finale. Il telaio quando veniva tessuto l’ordito con la trama si abbassava ed alzava nei punti in cui era segnato il cartoncino permettendo il passaggio della spoletta e rendendo più veloce l’operazione.
Santa Maria Capua Vetere
Attraverso la via Appia si raggiunge Santa Maria Capua Vetere, questa strada fu voluta nel 312 a. C. da Appio Claudio Ceco il censore. Essa è una delle più belle più importanti strade romane che collegava Roma con Brindisi che era il porto più importante per le rotte verso la Grecia. La via Appia dai romani era chiamata regina viarum. Il tracciato della via Appia è conosciuto soprattutto dalla tabula peuntigeriana che fu realizzata nel XII XIII secolo d. C.. Questa è una copia di una pianta romana con tutte le vie dell’impero e con l’indicazione delle locande e le zone di ristoro. La nuova Appia che attualmente percorriamo per raggiungere Santa Maria Capua Vetere è stata costruita nel 1784 dai Borbone. Lungo la via Appia si incontra il monumento funebre cosiddetto della Conocchia del I sec d. C.. Santa Maria Capua Vetere viene detta in latino colonia Iulia felix augusta capua e definita da Cicerone l’altera Roma (ovvero seconda Roma), definita così perché nel IV secolo era una delle colonie più ricche del territorio e fu fondata nel V secolo a.C. probabilmente dagli Etruschi. Nel 343 a.C. inizia il suo rapporto con i Sanniti che attirati dal fatto che la colonia sorge nella campania felix ed è una città rigogliosa e ricca la assedia così Capua chiede aiuto e protezione, ma il senato romano respinge la richiesta dei capuani perché aveva firmato da pochi anni un patto di non belligeranza con i Sanniti. Questo è l’inizio della prima guerra sannitica nel 343 a. C. Capua dichiara la cosiddetta Deditio a Roma cioè si mette completamente nelle mani del senato romano per cui non si può più tirare indietro e deve difendere per forza la sua alleata. Nel 338 i rapporti tra Capua e Roma non sono mai stati dei migliori per cui Roma le concede la cittadinanza senza diritto di voto la civita sine suffragio, nel 216 a.C. Diventa un avamposto di Annibale durante la seconda guerra punica, viene riconquistata da Roma nel 211 a.C. Capua in questo momento perde ogni potere politico e diventa solo esclusivo granaio di Roma.
Antica Capua
Gli Osci, con gli Ausoni e gli Aurunchi occupavano l'attuale pianura campana. Secondo Plinio il dominio Osco arrivava oltre l'attuale Terracina. Furono sconfitti verso il IV secolo dai Romani. La fondazione di Capua è sicuramente opera degli Etruschi, ma la data potrebbe essere compresa tra l’800 a. C. e il 431 a. C. La prima data risulta dalla tegola di Capua e da riferimenti storici. Il processo di urbanizzazione potrebbe essere stato lungo con successive ricostruzioni della città nel VII – VI secolo a. C. Nel VI a. C. Capua fu centro della Campania ed esercitò la predominanza che Roma aveva nel Lazio nel medesimo periodo. L’origine del nome della città è difficile da determinare e si perde nella leggenda. Si può risalire al nome di Capua dalla natura campestre della zona. Capua fu dal VI a. C. scenario di molte battaglie contro i Greci. La prima fu sferrata dagli Etruschi, a Cuma e vede la sconfitta degli Etruschi, ma non definitivamente. Nel 474 a. C. i Greci sconfissero definitivamente gli Etruschi, provocando una grande immigrazione di popoli limitrofi, in particolare i Sanniti. Costoro provenivano dall’entroterra del Molise e seppero ben approfittare delle difficoltà etrusche e tra il 438 e il 424 a. C. invasero Capua. Con la conquista sannitica Capua mantenne una propria indipendenza, infatti continuò a parlare l’etrusco e ad esercitare una fiorente attività economica. I Sanniti acquisirono competenze agrarie, metallurgiche e idrauliche. Nel 343 a. C. Capua, essendo semi indipendente nella confederazione sannitica e una delle più importanti città dell’area, fu chiamata a difendere il popolo campano minacciato dai Sanniti, ma l’esito non fu positivo con la sconfitta dell’esercito capuano alle falde del Tifata, Capua fu occupata dai Sanniti e distrutta. Questa ulteriore sconfitta convinse Capua a chiedere aiuto a Roma, che aveva appena sottoscritto un accordo con i Sanniti e quindi non poteva intervenire, salvo (come accadde) che Capua chiedesse la sottomissione a Roma attraverso l’istituzione della Deditio ad Urbem. In questo modo l’occupazione di Capua equivaleva ad una occupazione di una città romana e quindi i Romani – che miravano alle ricchezze della città – intervennero. La guerra prese il nome di prima guerra sannitica (343 – 341 a. C.) e si conclude con la vittoria dei Romani, che accordarono la civitas sine suffragio, ossia il diritto di mantenere le proprie magistrature e istituzioni, ma senza diritto di voto, ferma restando l’imposizione della tassazione. Capua si sentiva comunque oppressa da Roma, tanto da tentare più volte il distacco. Coinvolti più volte in battaglie contro i Sanniti come nella seconda guerra sannitica (326 – 304 a. C.), Roma fu sconfitta dai Sanniti e Capua tentò un distacco da Roma con scarso risultato. Nella terza ed ultima guerra sannitica (298 – 290 a. C) Roma vinse i Sanniti, diventando padrona di tutte le popolazioni del centro sud. Durante la battaglia dei romani contro Pirro (280 – 275 a. C.) Capua si dichiarò neutrale. La battaglia contro Roma e il tentativo di Pirro di assoggettare Capua furono subito sventati dai romani. Nella prima guerra punica (264 – 241 a. C.) e nella campagna contro i Galli (225 – 222 a. C.) Capua seppe far ben valere il proprio esercito, che al fianco di quello romano favorì Roma che riuscì vincitrice. Questa intesa tra Roma e Capua regalò a quest’ultima una tranquilla vita indipendente che la fece prosperare. Capua intervenne al fianco di Roma nella seconda Guerra Punica (218 – 202 a. C.) e nel 216 durante la battaglia di Canne ospitò i reduci Romani. Annibale, partito dalla Spagna con 37 elefanti, sapendo di non poter assediare Roma, avvio l’invasione della penisola dalla Puglia vincendo la battaglia di Canne, salì la Puglia e il Molise, occupando le città che vi si opponevano e stabilendo accordi con quelle che decidevano di accordarsi volontariamente. Visto che Napoli aveva mura difensive troppo forti decide di ripiegare su Capua, che lo accoglie a braccia aperte. Una volta a Capua Annibale cercò di allargare i proprio dominio alle città contigue, ma senza esito. Roma punì pesantemente la città e la retrocesse a prefettura. Gran parte del territorio di Capua le fu tolto al fine di fondare nuove colonie, Puteoli, Liternum e Volturnum per sbarrare l’accesso di Capua al mare e tenerla sotto controllo. Nel 73 a. C. parte da Capua la rivolta degli schiavi capeggiata da Spartaco, un gladiatore con idee ellenistiche. La rivolta passò alla storia come guerra servile, nella quale Spartaco riuscì a raccogliere oltre 100.000 uomini. Al termine della guerra i Romani crocifissero oltre 6.000 uomini, tra cui Spartaco, sulla Via Appia. Nel 59 a. C. si ebbe la definitiva romanizzazione della città, ridotta ad una colonia di veterani da parte di Giulio Cesare. Sotto Augusto, nel 26 a. C., con il titolo di Colonia Iulia Augusta Felix, la città fu benvoluta da molti principi, tanto da ricevere molte donazioni e visite. Soggiornarono a Capua Tiberio prima di ritirarsi a Capri, Adriano che la riportò all’antico splendore e con Costantino divenne un importante centro cristiano dove, nel 320 d. C. fu edificata la prima basilica cristiana, Basilica Apostolorum, divenuta sede del Consularis Campaniae. In quel periodo Capua tornò agli splendori di un tempo: aveva una cinta muraria di 9 km con 4 porte, due fori, due teatri, un maestoso anfiteatro, un circo, vari impianti termali, un campidoglio e numerosi templi in cui sono presenti i santuari della Magna mater e Diana Tifatina, questi ultimi fuori dal centro urbano. Capua fu dunque una città prosperosa di abitanti, ricchezze e sontuosi edifici. Ausonio nel IV secolo la classificò terza città d’Italia e ottava di tutto l’Impero. Unica nota dolente fu l’opera di Domiziano che, completando il disegno punitivo nei confronti di Capua, con la costruzione della via Domitiana, isolò Capua dal traffico da Roma e dai porti della Campania. In seguito Capua dovette subire gli assalti barbarici infatti nel 410 fu devasta dai Visigoti di Alarico e nel 455 dai vandali di Genserico. Nel 476 con la caduta dell’impero Romano d’occidente la città fu conquistata dagli Eruli di Odoacre e nel 493 dagli Ostrogoti. Sotto l’impero di Giustiniano Capua ebbe un certo respiro fino alla venuta dei Longobardi nel VI secolo. Fu sede di contea alle dipendenze del ducato di Benevento e fu per tre secoli sede di lotte, congiure e devastazioni. Nell’841, in una di queste guerre nata per la successione del ducato di Benevento, una banda di Saraceni saccheggiò e distrusse Capua. Fu distrutta da due terremoti, di cui l’ultimo nel 841 d. C. La città, ormai distrutta e abbandonata dagli abitanti che si trasferirono nei pressi di Triflisco e di Casilinum (porto fluviale di Capua), che ereditò il nome e le insegne della vecchia città Nell’857, a Casilinum sotto la guida del vescovo Landulfo fu fondata la nuova città che prese il nome di Capua.
Anfiteatro Campano
L’anfiteatro fu scoperto alla fine del ‘700 ma gli scavi sono ottocenteschi. La presenza dell’Anfiteatro a Santa Maria Capua Vetere è di importanza non indifferente perché è attestata la presenza delle scuole gladiatorie dell’impero romano. I gladiatori erano dei criminali assoldati o schiavi che venivano pagati profumatamente per combattere all’interno delle arene. Al museo dei gladiatori è possibile vedere i vari elmi e le diverse fogge dei diversi tipi di gladiatori. Proprio dalla scuola gladiatoria di Santa Maria Capua Vetere partì la rivolta di Spartaco nel 73 a. C. la rivolta degli schiavi che poi arrivò in Sicilia. Per quanto riguarda la cronologia abbiamo la prima datazione nel I sec a.C. quando Augusto vi dedusse delle colonie per i veterani dopo la battaglia di Azio nel 30/31 a. C. la data successiva è quella del 119 d. C., quando avviene un restauro da parte di Adriano e vengono aggiunti i propilei di ingresso che sono proprio quelli che si vedono quando entriamo nell’anfiteatro. Terza fase è quella del 155 d.C. di Antonino Pio che lo abbellisce ed esegue un’inaugurazione. Nel 456 l’Anfiteatro viene saccheggiato da Genserico quindi dai Vandali e nell’841 diventa con i Saraceni una fortezza quindi in parte viene anche spogliato. Con gli Svevi diventa una cava di materiali lapidei, addirittura abbiamo le chiavi d’arco che vengono inglobate nel municipio di Capua che praticamente erano le chiavi d’arco che decoravano l’anfiteatro. Si tratta del secondo anfiteatro per dimensioni. Il più grande era il Colosseo con assi di 187,5 e 156,5m. Le dimensioni dell’anfiteatro di Capua sono 170 m per 135 m, poteva contenere 40mila spettatori contro i circa 50mila del Colosseo, aveva quattro piani anche se oggi ne rimangono soltanto parte del secondo piano. Le fonti riportano che fossero presenti circa 250 chiavi d’arco che furono riutilizzate come reimpieghi, ma oggi ne abbiamo rinvenute solo una trentina. La suddivisione era in ima, media e summa cavea, una suddivisione in tre ordini sociali. Il popolino era in cima, i distinti al centro e invece i tribuni, i senatori, i sacerdoti e i magistrati in basso perché più vicini si era all’arena oggi è il contrario. Questa disposizione dei posti era stata regolata da una lex augusta perché all’anfiteatro di Pozzuoli era capitato che un senatore si fosse trovato senza posto e nessuno si voleva alzare per cui Augusto varò questa legge secondo cui fino a quando non si fossero sedute tutte le personalità più importanti gli altri potevano accedere solo nelle parti superiori. Come per il Colosseo la struttura aveva il velario. Esistono i corridoi anulari che comunicano con le varie parti dell’anfiteatro ed i famosi sotterranei, come per il Colosseo. Essi erano ricoperti da una sorta di tavolaccio ricoperto di sabbia e con un sistema di sollevamenti e di argani venivano aperte e chiuse delle botole per cambiare le scene a seconda del tipo di combattimento. I corridoi di Capua erano più stretti di quelli di Pozzuoli e presentano una vasca di scolo centrale lungo tutta l’articolazione dei sotterranei (a Pozzuoli uno solo) per consentire la pulizia dal sangue e dalle feci degli animali. Le due entrate principali erano quella di Ercole e quella di Silvano. Sono presenti nei sotterranei pezzi di colonne perché veniva usato come deposito e le nicchie del perimetro erano forse usate per gli animali, mentre quelle al centro magazzini per le armi dei gladiatori. Gli spettacoli si tenevano di mattina e di pomeriggio, a volte per giorni interi e c’era una fitta rete di scommesse gestite dal lanario. I combattimenti, erano dei tipi mura gladiatores e venationes. Non abbiamo attestazioni che vi avvenissero come nel Colosseo naumachie, per cui l’arena veniva riempita di acqua, per l’anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere non abbiamo queste fonti, sicuramente furono combattute le mura gladiatores e le venationes. Gli animali venivano importati dall’Africa, dalla Turchia e dalla Spagna. In prossimità dell’uscita dai sotterranei ci sono lastre di marmo che decoravano l’anfiteatro decorati con bighe e quadrighe, per quanto questo tipo di spettacoli veniva effettuato nel circo e non nell’anfiteatro. L’edificio ha una pianta ellittica e la parte centrale (arena) era ricoperta da sabbia. a decorazione scultorea contenuta nel museo dei gladiatori. Il perimetro esterno della platea era decorato con cippi rappresentanti divinità, ne rimane uno di Era al museo dei gladiatori. Abbiamo le gradinate che erano rivestite di marmo e la summa cavea aveva sia colonne che statue che decoravano la cavea, poi abbiamo i plutei che decoravano l’architrave con scene mitologiche a rilievo. Si vedono balaustre dei vomitoria varchi di accesso agli spalti con animali esotici.
Il Mitreo
Il Mitreo è un santuario ipogeico dedicato al culto di Mitra, dio persiano della Luce. Diventerà il dio dei soldati romani. Il mito narra che il Sole ordinò a Mitra di uccidere un toro sgozzandolo. Risale al Secondo secolo d. C. e il ritrovamento risale al 1922. Attualmente si accede da una sorta di tempietto contemporaneo. Un criptoportico porta ad una sala rettangolare con dei sedili laterali e le pareti erano affrescate. I sedili erano per gli iniziati al culto, che venivano disposti a seconda della loro importanza. Gli affreschi corrispondenti rappresentavano le modalità di iniziazione al culto di quel determinato grado di iniziazione. L’affresco nell’altare maggiore rappresenta Mitra con il berretto frigio del dio che sgozza il toro, il cui sangue va tra le gambe di Mitra ed un cane e serpente bevono sangue. L’uno rappresenta il bene, il secondo il male. Sulla sinistra è presente uno scorpione che punzecchia i testicoli del toro. Il Mitreo la cui presenza è importante perché il culto del dio Mitra è collegato all’attività gladiatoria è un Dio orientale, persiano collegato con la luce, ed è identificato come guerriero invincibile, bravo cacciatore e buon cavaliere. Il mito mitraico narra che il sole ordinò a Mitra di uccidere un toro bianco all’interno di un antro di una caverna per portare vita sulla terra, così Mitra catturò il toro e vivificò la terra. Il ritrovamento è stato fatto nel 1922 casualmente è risalente al II secolo d. C. e tra l’altro si trova in una zona dove c’era una cappella antica molto probabilmente una continuità di culto di una Madonna orientale. Nella volta a botte che continua nel corridoio c’è la rappresentazione della luna con il sole e le stelle, questo è il simbolo che il dio mitraico è la luce.
Sant’Angelo in Formis
Il sito è collegato alla presenza di un santuario pagano per il culto di Diana Tifatina. Si hanno notizie di questo santuario fin dalle origini dalla fondazione etrusca di Capua nel 477 a. C. Esso è citato anche durante la permanenza di Annibale a Capua. E’ certo che Silla all’epoca della guerra civile sale al tempio per offrire sacrifici a Diana. La Chiesa è stata costruita al di sopra del basamento del tempio romano. Solo le colonne vengono leggermente spostate rispetto alla posizione originaria. Per quanto riguarda il nome in formis ci sono delle discordanze c’è chi pensa che forma o in formis rappresenti le sagome che venivano utilizzate per creare i canali degli acquedotti altri che il nome derivi da forma, che è il tracciato fatto quando viene suddiviso un territorio agricolo. Il Duonnolo pensa che quest’ultima ipotesi sia quella più plausibile. Il culto di Diana è legato al culto della vegetazione della flora e della fauna. Sono state ritrovate statuette risalenti allo stesso periodo. Esse rappresentavano le fattezze della dea. E’ tipica del culto di Diana la dea con la faretra, l’arco e le frecce. il pavimento con il mosaico dello stilobate del tempio ricalca la suddivisione della cella, il territorio circostante probabilmente doveva essere diviso in terrazzamenti collegati tra di loro. Dopo il concilio di Nicea nel 325 il Cristianesimo diventa religione ufficiale ed inizia così una lotta da parte dei cristiani per abolire il paganesimo che era radicato in quella zona. Sappiamo da fonti che attestano il passaggio di San Nicola di Bari nel 350 d. C. che volle distrugge il tempio per porre fine al culto pagano di Diana Tifatina. Nel VI secolo d. C. i Longobardi costruiscono una chiesa sopra al tempio e successivamente la concessero ai monaci di Cassino per costruire un monastero. Nel 1073 l’abate Desiderio costruisce una nuova chiesa sulle fondamenta della vecchia. L’architettura esterna è composta da un portico ricostruito nel XII secolo formato da quattro archi ogivali ed uno centrale a tutto sesto. Nella lunetta di ingresso abbiamo San Michele Arcangelo con figure ieratiche e rigide e la Vergine Orante al di sopra. Nei quattro archi ogivali laterali abbiamo le storie degli eremiti Paolo e Antonio. L’iscrizione al di sopra della portacelebra l’abate Desiderio per aver costruito questa chiesa. Rispetto alla struttura del tempio le colonne vengono avanzate, in modo da creare la chiesa in tre navate. Le colonne sono quelle di spoglio del tempio ed il pavimento ricalca anche la zona della cella dove vi era la scola cantorum al centro poi trasferita dietro l’altare nel periodo aragonese. L’altare è in calcare e le acquasantiere sono quelle con i leoni stilofori. Per quanto riguarda il ciclo pittorico è la solita Bibbia dei poveri (la Bibbia pauperum). Tutto era in funzione del messaggio cristiano della lectio divina da divulgare e presenta temi della Bibbia del nuovo e dell’antico testamento. Il ciclo insegnava a chi guardava e non sapeva leggere. Lo stesso Papa Gregorio Magno diceva la pittura insegna agli illetterati ciò che la scrittura insegna ai letterati. Lo stile è romanico bizantino con presenza di figure ieratiche e senza prospettiva. Fu il principe Riccardo I il Normanno che finanziò il ciclo pittorico e la sua realizzazione e l’abate Desiderio lo progettò. Gli artisti sono diversi perché abbiamo diverse mani a secondo delle varie zone della basilica. Per la provenienza ci sono due ipotesi che l’abate Desiderio abbia chiamato questi artisti proprio da Costantinopoli l’altra è che le maestranze locali abbiano acquisito la tecnica. All’abside abbiamo il velario al di sopra del Cristo Pantocratore con al centro la colomba e ai quattro lati i simboli dei quattro evangelisti. Poi gli arcangeli Gabriele, Michele e Raffaele. A sinistra ed a destra abbiamo Desiderio e San Benedetto. Nella controfacciata abbiamo il giudizio universale. Cristo in Mandorla come Cristo Giudice al di sopra angeli trombettieri. Gli apostoli, i beati, i dannati e poi al di sotto di nuovo i beati e i dannati però invertiti. La chiesa è completamente ricoperta da dipinti. Bellissima la zona della crocifissione cui viene dato più di un riquadro vista l’importanza del messaggio.
Capua Moderna
Nel 59 a. c. Cesare vi deduce una colonia e nel I d. C. venne completamente abbandonata. Nel 554 però vi è attestazione che i Bizantini annientarono i Goti. Viene ricostruita nel 856 dal conte di Landone longobardo e nel 1059 abbiamo la dominazione normanna, poi abbiamo gli Svevi e gli angioini e nel 1501 abbiamo gli aragonesi con il sacco di Capua. Nel periodo longobardo e normanno Capua controllava un territorio che arrivava fino a Teano e a Gaeta che era uno dei porti più importanti della zona per cui Capua ebbe un’importanza fondamentale. Con il sacco di Capua Cesare Borgia l’ispiratore di quello che fu poi il Principe di Macchiavelli saccheggiò la città promettendo ai cittadini che se si fossero arresi lui li avrebbe risparmiati tutti, al contrario invece entrò in città uccidendoli tutti. Accesso alla città si ha con la Porta Napoli è una porta Aragonese è uno degli ingressi monumentali alla città databile intorno al ‘500 e venne chiamato come architetto lo stesso che realizzò la porta Capuana del castello a Napoli. Proseguendo c’è il teatro Ricciardi in stile neoclassico e venne costruito nel 1781. Poi il castrum lapidum il castello delle pietre cosiddetto dei principi normanni venne costruito nel 1062 dopo che i Normanni conquistarono la città e divenne sede del principato normanno. Viene detto delle pietre, alcune pietre dell’anfiteatro sono state inglobate nella costruzione del basamento, viene chiamato castello delle pietre proprio per questo. In piazza Medaglie d’oro c’è a terra la famosa iscrizione del placido capuano che fa parte di un placido cassinese che erano delle controversie tra benedettini e proprietari terrieri sui confini limitrofi dell’abbazia di Montecassino, per cui la controversia il placido non è altro che la realizzazione scritta in volgare di una controversia orale, quindi il placido cosa dice “sao ko che le terre perché li fini que chi contene trenta anni le possette sancti benedicti” cioè io so che quelle terre per quei confini furono posseduti per trent’anni dai monaci benedettini, cioè lui da testimonianza che i monaci benedettini la zona limitrofa con quel dato proprietario era quella. Il municipio è in piazza dei Giudici ed ha una scritta SPQC che indica senatus populusque campanus al posto di romanus, fu realizzato nel ‘500 e le chiavi d’arco dell’anfiteatro vengono inglobate. Di fronte abbiamo un edificio della gran guardia aragonese del ‘600 dove abbiamo tutta una serie di commemorazioni di passaggi importanti come ad esempio la venuta di Carlo II re di Spagna e c’è l’iscrizione e la statua dedicata al re. Andando avanti verso destra c’è il Duomo ed è dedicato ai SS Stefano e Agata, venne fondato nell’856 da Landulfo e successivamente ristrutturato dal vescovo Erveo 1072-1080. La chiesa è stata più volte trasformata ed il porticato d’ingresso è stato aggiunto successivamente rispetto alla costruzione della Chiesa, sempre nel periodo longobardo. Nel 1943 venne completamente distrutta all’interno è semplice e sobria e nel portico vi sono delle tombe. Le colonne su cui è impostato il campanile sono materiale preso dall’Anfiteatro di Capua. La chiave d’arco presente è la dea Diana poi si nota un animale che suona appartenente all’apparato figurativo medioevale. A sinistra l’altro omino ma non si riesce a capire se rappresenta un gladiatore o qualcos’altro. Entrati all’interno la pala d’altare che rappresenta l’Assunzione, di Francesco Solimena, quasi non si nota inserito della nuova cornice più moderna. Notiamo le cappelle sulla sinistra con alcuni sarcofaghi di Luigi di Capua 1481 e poi nella successiva tomba del 1496 quando era vescovo Giordano Gaetani D’Aragona che fece arrivare a Capua opere di Antoniazzo Romano di cui è conservato un dipinto nel piccolo museo diocesano. La cripta è una delle cose più interessanti con la presenza nel sepolcro, ricreato in una riproduzione quasi fedele a quella di Gerusalemme, della famosa statua del Cristo di Matteo Bottiglieri. Le colonnine del pulpito sono state riutilizzate per fare il sepolcro, altri resti dell’ambone sono stati posti ad adornare la cappella alla sinistra dell’altare. Il Busto della Madonna Addolorata è molto probabilmente del Canova. Tornati in chiesa notiamo il bellissimo cero pasquale con figure meravigliose rappresentazione della processione pasquale con il vescovo Erveo. Sulla destra dell’abside si apre una cappella sul cui altare notiamo una tomba appartenete alla principessa longobarda ed uno splendido altare portato dalla chiesa di San Francesco di Paola distrutta a largo di palazzo dal Murat. Dall’altro lato una cappella conserva i vari pezzi dell’ambone andato distrutto. Uscendo dalla chiesa nella navata sinistra si noterà il reperto più antico della chiesa un fonte battesimale longobardo sulla base notiamo i simboli dei quattro evangelisti. Da vedere ancora a Capua abbiamo il ponte romano e le torri federiciane. Il ponte romano fu costruito sul Volturno proprio per dare l’accesso al porto. Le torri Federiciane molto probabilmente furono eseguite dalle stesse maestranze che costruirono la torre di Caserta vecchia con basamento in calcare e con blocchi in tufo. Le torri furono volute da Federico II di Svevia che le costruì nel 1234 e volle ispirarsi praticamente agli archi di trionfo romani.
Sala d’Armi ex chiesa di San Giovanni delle monache
La chiesa del’ex convento di San Giovanna delle dame monache era la chiesa di un monastero benedettino soppresso il 20 settembre del 1812 e destinato alle truppe di guarnigione di Capua e c’era il progetto per demolire la chiesa date le cattive condizioni della stessa. La chiesa di cui la prima fondazione si fa risalire nel X secolo fu fondata nel 1753 e consacrata nel 1753. Il progetto è attribuito a Ferdinando Sanfelice e la realizzazione a Domenico Antonio Vaccaro su pianta ottagona. L’attuale Sala D’armi è il risultato di una ristrutturazione tra il 1830-1843. Il convento fu trasformato nel 1818 in scuola del genio militare e se ne conserva ancora il Campanile. La sala è il risultato di un progetto del colonnello Gennaro Loiacono che fece costruire una macchina quasi totalmente lignea e comprende due ranghi di scale di accesso autonomo ai due lati ed una sorta di torre centrale. I percorsi sono organizzati in modo da consentire l’ordinata movimentazione delle armi disposte tutt’intorno. L’attuale facciata della ex chiesa è stata totalmente ridisegnata si noti all’altezza del tamburo sono applicati due ricchi trofei di armi in stucco tipicamente neoclassici. Della vecchia chiesa Vaccariana ben poco si può riconoscere oggi.
Museo Campano
Il Museo Campano apre nel 1874 voluto da Gabriele Iannelli canonico di questi luoghi. Il museo è stato allestito nel palazzo Antignano. Questo venne costruito nel IX secolo, donato dal re Aragonese alla famiglia Antignano che lo modifica in stile catalano nel 1453 con una bellissima scala nel cortile. Theodor Mommsen è l’altro artefice di questo museo, infatti la prima sala di accesso al palazzo Antignano è dedicata a lui. Questa è l’unica rimasta intatta dall’apertura del museo. I materiali presenti sono steli e cippi che vanno dal V secolo a. C fino al VII secolo d. C. Il primo che notiamo è un cippo cilindrico ritrovato in zona parco della Nunziatella sul quale si nota la scritta 126 miglio, rappresenta l’indicazione delle miglia per giungere a Roma. Sullo stesso cippo si notano le scritte Costantino Augusto e Valerio Valeriano. Un altra particolare lapide si nota nell’angolo a sinistra della stanza su un pezzo di legno che può esser girato comodamente, Su un pezzo di legno ritroviamo una piccola parte del calendario detto Alifano. Sullo stesso si notano le date dal 14 al 19 Agosto probabilmente un solstizio d’estate. Qualcuno in età cristiana la riutilizzata dall’altro lato per un epitaffio ad un certo Severus. Nel cortile si possono notare dei bei sarcofagi ed una rappresentazione di uno schiavo diventato liberto. C’è una chiave di volta con il dio Volturno proveniente dall’Anfiteatro di Capua Vetere. Ricordiamo che nell’anfiteatro erano presenti 80 volte per i tre piani della struttura. Si notano ancora maschere teatrali. Il 9 Settembre del 1943 Capua fu bombardata dagli alleati ed anche il palazzo fu colpito. Infatti la parte sovrastante fu rifatta a metà del secolo scorso. Nel passetto laterale troviamo un sarcofago con un bassorilievo dove è rappresentato il mito di Proserpina, nota come Persefone. Proserpina è figlia della dea della fertilità Demetra, Cerere per i romani. Il mito racconta che Proserpina si sta bagnando nel lago di Pergusa, Attuale zona di Enna, quando Plutone fratello di Zeus esce dagli inferi e si innamora di lei. Plutone era uscito dagli inferi per verificare se uno dei Titani aveva creato danni all’uomo, infatti il Titano Tifeo tiene l’Etna e quando si sgranchisce sbuffa e fa eruttare il vulcano creando anche terremoti sull’isola. La ragazza va a vivere negli inferi, ma la madre arrabbiata fa morire la Terra e va a richiedere a Zeus la Figlia. Zeus riesce a trovare un accordo e così sei mesi vive con la mamma e poi sei mesi con il marito. Ciò da vita alle stagioni nei sei mesi che Proserpina vive con la mamma abbiamo la primavera e l’estate, mentre nei sei mesi che vive con il marito abbiamo l’autunno e l’inverno. Superata la prima corte coperta (dove sono alcune importanti lapidi) si accede alla zona più importante del museo la raccolta delle Mater Matuta, donne in trono con figli fatte in tufo, ritrovate nel fondo dell’arch. Carlo Patturelli nel comune di Curti località Petrara nel 1845. Il museo possiede circa 120 mater matuta, statue con donne in trono con figli. La più ricca di figli in questo museo ne ha 12, mentre la dama con 26 figli è attualmente al museo di Berlino. Una sola statua si differenzia dalle altre un donna sin trono con in mano un melograno ed una colomba. Presumibilmente era la dea venerata in questo santuario. Le famose mater matuta sono risalenti dal VI sec. a. C. fino al II secolo d. C. qui troviamo esemplari sia in calcare ed anche piccole forme in terracotta. Nell’ultima sala sono presenti i resti relativi al santuario con una probabile ricostruzione del muro. Usciti dalle sale dedicate alle mater matuta attraverso le scale saliamo al primo piano in cui sono presenti vari dipinti religiosi. Nella sala successiva ci sono dipinti dei Borboni e una sala con dipinti dei Savoia per poi accedere alla sala dedicata al pittore Francesco Liani di Fidenza, che era un ritrattista ma qui, ora sala delle conferenze, i suoi quadri ritraggono scene del vangelo. Proseguendo si accede alla zona dei mosaici pavimentali sia da Sant’Angelo in Formis che da altre zone di Capua ed hanno disegni geometrici e figurati, molti provengono ad esempio dal tempio di Diana Tifatina. Nelle sale successive vasi e bronzi ornamentali come fibule, anelli e bracciali di uso comune. Poi due sale suddivise tra terrecotte votive e terrecotte architettoniche. Infine le monete in una sala a volte chiusa. Per delle scale si accede al piano superiore alla raccolta dei vasi che è straordinaria. Materiale Italiota, campano e proveniente dalla Daunia. Notare il vaso con il mito di Issione (sposa Dia figlia di Dioneo ma non mantiene la promessa dei regali per il matrimonio degli stalloni bellissimi che gli vengono rubati dal suocero. Nefele nube che si trasforma). Usciti dalla stanza dei vasi si scende una rampa di scale per accedere al reparto medioevale. Qui abbiamo ciò che rimane delle torri di accesso alla città fatta da Federico II. Teste di Pier delle Vigne e di Taddeo da Sessa. Statua bellissima di Pompeo dell’Uva con il nipote. Salite delle scale c’è una piccola pinacoteca con quadri prelevati dalle varie chiese ed una statua di San Cristoforo ex voto donata all’età di 57 anni da Cristoforo Sammelli che in tenera età si era salvato dal sacco di Capua del 21 Luglio 1501 da parte di Cesare Borgia. Nel museo è inoltre presente una biblioteca che ha 72 mila volumi.
La Reggia di Carditello
Nel comune di San Tammaro è possibile vedere la splendida reggia di Carditello da poco acquisita al patrimonio statale. Essa ospitava una innovativa azienda agricola specializzata negli allevamenti di pregiate razze equine e nella produzione e commercializzazione di prodotti agricolo caseari. Il complesso sobrio ed elegante è in stile neoclassico iniziato da Carlo di Borbone e poi trasformato in una fattoria modello da Ferdinando IV e si estendeva per circa 2.100 ettari. Il fabbricato è stato costruito da Francesco Collecini con la collaborazione di Luigi Vanvitelli. L'area antistante, formata da una pista in terra battuta che richiama la forma dei circhi romani, abbellita con fontane, obelischi ed un tempietto circolare dalle forme classicheggianti che era una cassa armonica per i suonatori, era destinata a pista per cavalli. L’acqua fu portata dal Collecini da un ramo dell’acquedotto carolino presso la peschiera. Carlo nel 1745 prima della costruzione della reggia di Caserta dal conte di Acerra, filo austriaco, prende in affitto perpetuo la tenuta e la utilizza per tenuta di caccia valorizzando la zona creando strade ed riorganizza i corsi d’acqua. Nella politica del territorio si inseriscono i lavori dei regi lagni, canali artificiali di tutta la terra di lavoro. C’era ogni anno l’inondazione del fiume Clanio. Tenuta amatissima da Ferdinando IV canapa, foraggi, grano e mozzarella di Bufala. Allevamento di cavalli tra cui i suoi amatissimi persiani. Nel 1822 per la prima volta in un documento ufficiale si parla della mozzarella che Ferdinando I inviava alla moglie morganatica Lucia Migliaccio. Qui era prodotto il parmigiano reggiano grazie alla precedente possedimento di Carlo che era il ducato di Parma e Piacenza. Nel 1759 diventa re Ferdinando raggiunta la maggiore età fece costruire la struttura architettonica che oggi vediamo.
Il corpo centrale è l’appartamento reale. Otto torri intervallano i corpi di fabbrica. Da una scala si accede al secondo piano, esiste un’altra rampa di scale posta in modo simmetrico al corpo centrale. Il piano nobile è al secondo piano si inizia dalla stanza di Diana tutta affrescata la si vede nel soffitto, si accede alla stanza degli stili agresti affrescata di Philip Hackert con le rappresentazione di vedute poste nella esatta direzioni dei muri quasi a sovrapporre il reale. La stanza successiva adesso vuota era la biblioteca legata alla figura di Maria Carolina infatti le mura non sono affrescate. La volta di Fedele Fischetti con l’apoteosi di Enrico IV e dall’altra parte l’apoteosi delle tre linee europee dei Borboni Filippo V, Carlo e Ferdinando ed Enrico IV che indica Ferdinando re del momento. Rappresentazioni di figure allegoriche delle arti architettura, pittura, scultura e la scienza con Minerva protettrice delle arti. Nella massoneria sono simboli la squadra ed il compasso. Si accede alla sala da pranzo e qui era posta la tavola matematica una tavola che tramite un montacarichi portava la tavola imbandita al piano superiore. Antonio Ross ebanista che crea il tavolo aveva lavorato alla Reggia di Caserta. Poi la camera da letto di Ferdinand di Borbone dipinte da Giuseppe Cammarano con allegorie delle stagioni oggi si vede solo la primavera. Rappresentazioni agresti con la famiglia reale. I garibaldini hanno distrutto le immagini. Sala delle feste detta camera oscura da cui si nota un lucernario che sembra un cannocchiale. Si accede alle loggette della cappella dell’Ascensione da uno dei balconcini laterali. Alla data dell’Ascensione quaranta giorni dopo Pasqua veniva festeggiata con una corsa dei cavalli. Nella chiesa nei pennacchi sono rappresentate le virtù, poi altre raffigurazioni con la nascita di Cristo e la fuga in Egitto. Scendendo giù si vede bene la cappella da un’angolazione diversa che ne esalta l’unicità. Nella cappella c’è un buco nel muro che permetteva di far salire l’Ostia per la comunione senza far salire il prete.
Ventaroli Battistero
Lungo l’Appia prima di Sessa Aurunca c’è l’indicazione della località di Ventaroli. Qui è necessario fermarsi per visitare la bellissima basilica. Questo era il centro religioso del Foro Claudio che insieme al Foro Popilio, del quale non si hanno indicazioni ben precise, erano le due città più importanti dell’epoca. Gli scavi del Foro Popilio del 2009 hanno consentito di portare alla luce il battistero e tronconi di murature che lasciano intravedere l’esistenza di importanti edifici. Si ritiene, ma non vi sono fonti precise, che la città di Forum Popilii fosse stata fondata dai Pelasgi. Da iscrizioni su pietre di marmo trovate che la città fosse dotata di quattro porte, mentre da altra iscrizione su marmo trovata negli scavi di Pompei si è potuto leggere di un torneo di gladiatori che si sarebbe tenuto nella città di Forum Popilii sicché si può essere certi dell’esistenza dei resti di un anfiteatro. Al momento non è possibile saperne di più. Torniamo alla Basilica di Ventaroli dedicata a Santa Maria ad Forum Claudi siamo nel comune di Carinola e la basilica era situata sulla Via Sacra Longobardorum che era attraversata dai pellegrini che da Roma si recavano al santuario si San Michele sul Gargano ed alla Tomba di San Nicola a Bari. La chiesa è chiamata Santa Maria di Episcopio perché dal V sec. d. C. è stata la cattedrale della diocesi di Carinola quindi sede del vescovo. Il vescovo Bernardo trasferì la sede a Carinola intorno al 1100. La basilica romanica poggia su una precedente chiesa altomedievale, vi sono tracce della presenza anche di strutture termali. E’ stato ritrovato sotto all’entrata della chiesa un battistero di forma ottagonale. Il portale è stato trafugato rifatto nel 700 è di nuovo trafugato è stato rifatto. Nella seconda fascia della facciata ci nota una bifora, mentre nella terza fascia c’è una fascia con funzione campanaria. Di impostazione spaziale molto tradizionale, dipendente dunque da modelli derivanti dalla vicina abbazia di Montecassino, si presenta priva di transetto e triabsidata, con due file di sette colonne in granito, cipollino e bigio, interrotte da sottili pilastri rettangolari inseriti tra la quarta e la quinta colonna che si addossano ai lati corti di essi. Sono tutte dotate di basi attiche antiche, di diversa grandezza, e i capitelli sono tutti corinzi antichi, prevalentemente del tipo asiatico del II e III sec. d. C., sei capitelli di tipo occidentale, di cui due lavorati e quattro a foglie lisce. La basilica è coeva della basilica di Sant’Angelo in Formis anche se la chiesa abbandonata non ha permesso la conservazione degli affreschi. La pavimentazione non è originale rifatta sono state lasciate delle bocchette laterali per far correre l’aria anche al di sotto dello stesso. I capitelli, le basi e le colonne sono tutte diverse con riutilizzo materiali tra la quarta e quinta colonna abbiamo un intercolumno, spazio compreso tra due colonne di un colonnato, sia a destra che a sinistra affrescati. L’abside ha una grande affresco che possiamo dividere in tre fasce. Nella prima fascia notiamo degli elefanti che hanno solo la proboscide ed altre caratteristiche invece di altri animali. Coda di cavallo, orecchie da ippopotamo, zoccoli di animale. Esso è contrapposto al re della foresta il leone che riesce a sconfiggere.
Seconda fascia San Michele Arcangelo con apostoli con i piedi penzolanti sotto le vesti, tenta di darci un idea delle membra sottostanti. Nella terza fascia Madonna in trono con bambino tra due angeli incensanti. Gli Affreschi dello stesso periodo ma rifacente a diversi artisti. Si notano delle iscrizioni che chiedono che il carcere per un certo Pietro non sia così duro etc. La sovrapposizione degli affreschi e come in altre chiese che sono state ridipinte.
Rongolise
A circa 5 km da Sessa Aurunca in direzione ovest si trova in comune di Rongolise la Chiesa di S. Maria in Grotta, ricavata nel tufo, conserva nell'interno notevoli affreschi del XII secolo. Alla parete destra, di particolare interesse, è "il transito della Vergine", segue l'"Arcangelo Michele che pesa le anime"; "S. Tommaso Apostolo", "Madonna in trono con Bambino". Alla parete sinistra, in un riquadro, "S. Esdra", "S. Margherita e S. Onofrio". Altri affreschi sono di epoche successive. La chiesa è costituita da due cavità intercomunicanti ricavate nel banco di tufo, come gli ambienti adiacenti che formano un vero e proprio complesso rupestre. I due ipogei risultano collegati ad un soprastante edificio in muratura che ha svolto funzione di romitaggio fino agli inizi del Novecento. I due ambienti, in origine separati, furono messi in comunicazione nel 1691, allorché la parete di fondo dell’invaso principale venne modificata per creare un nuovo altare e una lunetta con la Vergine tra i santi Stefano e Girolamo. Nella seconda metà del XII secolo sulla parete orientale dell’invaso principale venne affrescata una Dormitio Virginis che, per l’impianto generale della scena e il titulus in greco, denuncia un collegamento con l’ambiente bizantino e differenzia questa chiesa dagli altri luoghi di culto in rupe della regione.
Sessa Aurunca
Il nome Sessa deriva da Suessa, città appartenente ad una federazione di città Aurunche chiamata Pentapoli Aurunca. Si presume che il nome possa derivare dalla felice posizione (sessio, cioè sedile, dolce collina dal clima mite del territorio denominato dai Romani Campania felix). Sessa Aurunca è di antichissima origine come confermano tracce di insediamenti preistorici e le necropoli dell'VIII secolo a. C., epoca in cui qui risiedevano gli Aurunci, un antico popolo italico. Sessa fu fortificata con mura ciclopiche che abbracciano una superficie di circa 1 ettaro probabilmente questo era l'originario nucleo di Suessa. La superficie pare troppo esigua per un centro abitato e si ipotizza che le mura proteggessero solo un forte militare a difesa degli abitanti. Nel 337 a. C. la postazione fu abbandonata, sotto la pressione dei Sidicini, in favore della zona dell'attuale centro storico di Sessa. Fu un centro importante degli Aurunci, ma nel IV secolo a.C. fu conquistato dai Romani che sconfissero nel 313 a.C. la Pentapoli Aurunca, vi si insediò allora una colonia di diritto latino, Suessa. Batté moneta dal 270 a.C. circa alla seconda guerra latina (219-202 a.C.). Divenne un ragguardevole centro militare, commerciale e agricolo e venne elevata a "municipium" nel 90 a.C. La posizione vantaggiosa tra la Via Appia e la Via Latina ne fa un centro di produzione agricola, i cui prodotti possono essere trasportati verso Roma o verso Capua. Cicerone menziona Suessa come di un'importante città. Cesare distribuì le terre di Sessa fra i suoi veterani qui, per cui la città assume in alcuni testi il nome di Colonia Julia Felix Classica Suessa. Nell'età imperiale Suessa conosce la sua massima espansione urbana: il centro abitato si estendeva su un'area quasi doppia rispetto a quella attuale e contava numerosi e importanti monumenti. Nel 2001 gli scavi hanno riportato alla luce il Teatro Romano, struttura che poteva contenere più di 3.500 spettatori con una scena di circa 30 metri di fronte e 15 di profondità; il teatro ha come cornice naturale la campagna con il golfo di Gaeta all'orizzonte. Presso la città sorse una villa, proprietà di Matidia. Dopo essere stata interessata alle vicende storiche di Capua, Salerno, Benevento e Gaeta, riacquista parte della sua antica importanza verso il XII secolo. Tra il XIV e il XV secolo i Marzano, signori di buona parte di Terra di Lavoro e una delle più potenti famiglie del Regno di Napoli, fecero di Sessa la capitale dei loro feudi. La signoria dei Marzano ebbe termine nel 1464 e Sessa per breve tempo è eretta in arciducato. Nel 1507 è concessa in feudo a Gonzalo Fernández de Córdoba, che aveva portato a termine la definitiva conquista del Regno di Napoli da parte di Ferdinando il Cattolico e ne aveva ottenuto il titolo di viceré. Egli apparteneva ad una delle più illustri famiglie di Spagna. Agli inizi del XIX secolo in seguito agli avvenimenti che andavano scuotendo il Regno di Napoli, Sessa si trovò priva di due pilastri della sua importanza: la nobiltà e gli ordini religiosi che sin dal XIII secolo, avevano formato uno dei cardini della vita cittadina. Conservò però la diocesi e mantenne un suo ruolo come centro importante della provincia di Terra di Lavoro.
Altre Località
In provincia di Caserta ricordiamo Calvi Risorta l’antica Cales con la presenza di un anfiteatro. Teano Sidicinum famosa per l’incontro tra Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele, ma molto probabilmente l’incontro è avvenuto a Borgonuovo di Teano. Fondata nel IV secolo dai Sidicini che fu uno degli ultimi popoli italici. A Teano sono da visitare il museo archeologico, la Cattedrale ed il Teatro Romano. Importante il ritrovamento abbastanza recente è stato effettuato a Pietravairano dove sopra una collina è stato ritrovato un tempio sannitico. A Tora e Piccilli si possono vedere le ciampate del diavolo, in località Foresta. impronte appartengono all'Homo heidelbergensis, ominide che viveva nella zona circa 350 mila anni fa.
Benevento e Avellino
Capitolo XXIX
Benevento
La fondazione della città ha origini sannitiche legata al mito del cinghiale Caledonio oggi riprodotto nello stemma della città. Secondo il mito il greco Diomede, sbarcato in Italia dopo la distruzione di Troia, prende la zanna del cinghiale che era stato ucciso dallo zio Meleagro e la dona alla città. Sul nome della città esistono varie teorie la più probabile ipotizza che il nome deriverebbe da un termine in lingua osca, Malies o Malocis e si fonda sul ritrovamento di una moneta bronzea del IV secolo a. C. ma venuta alla luce nella metà del XVIII secolo in Campania, riportante sul diritto, la scritta Malies. Sembra che poi il nome della città si modificò, attraverso il dialetto italico, in qualcosa come Maleventum. Il nome fu mutato dai Romani nel 268 a. C. quando fecero di Maleventum una colonia poiché avevano qui sconfitto Pirro nella battaglia del 275 a. C. ribattezzarono la città con il nome augurale di Beneventum. Queste interpretazioni ci fanno capire come i sanniti avessero accolto nella loro cultura una origine greca della fondazione della città, storicamente invece Benevento è sannitica, popolazione italica, la cui organizzazione era distinta in tribù dette Tuti. Le tribù principali prendevano il nome di Carecini, Caudini, Irpini e Pentri, pur essendo distinte l’una dall’altra convivevano in una sorta di repubblica oligarchica cioè dominata dai più ricchi che ricoprivano le cariche pubbliche e nominavano un magistrato che prendeva il nome di meddix tuticus. Egli rappresentava l’autorità più alta all’interno del proprio tuto. Le città sannitiche più importanti erano Alife, Maleventum, Telesia e Sepinum (quest’ultima, nel Molise, rappresenta oggi un sito archeologico molto esteso e importante per lo studio della fase romana). Il Sannio fu teatro di tre guerre contro i Romani durante le quali Benevento entra in contatto con la cultura romana fino a diventare un municipium romano nell’86 a. C. Tre sono le fasi belliche che videro protagonista la città e i romani: la Prima Guerra Sannitica (354 a. C. – 330 a. C. circa) sancì la definitiva sottomissione del Lazio al potere romano, ma non della zona sannitica. la Seconda Guerra Sannitica (327 a. C. – 304 a. C. circa) quando i Romani tentarono di muovere guerra da Capua a Benevento, ma un astuto stratagemma sannita riuscì a bloccare presso Caudium le truppe nemiche. Una volta in trappola, i soldati romani furono costretti a passare sotto le Forche Caudine, un arco composto dalle lance nemiche in maniera tale da costringere ogni soldato a piegare la schiena per poter passare. I Sanniti, subito dopo la vittoria, aizzarono le altre popolazioni italiche del Centro e del Sud Italia contro i Romani, dando vita alla Terza Guerra Sannitica (298 a. C. – 290 a. C. circa). Stavolta però furono i Romani ad averla vinta, sconfiggendo uno ad uno tutti gli alleati dei Sanniti e costringendo infine questi ad un trattato di pace intorno al 290 a. C. Di sicuro Benevento era nelle loro mani nel 275 a. C. (vittoria ottenuta su Pirro, re d'Epiro). Nel 268 a. C. Benevento diventò definitivamente una colonia romana con i diritti delle città latine. Nel II secolo con Traiano si avrà un potenziamento della via Appia e a lui verrà dedicato l’arco ancora visibile. Caduto l'Impero Romano d’Occidente (476 d. C.), le popolazioni barbariche irruppero in Italia, devastando le migliori terre ed occupando le principali città, Benevento, per la sua importanza storica e di posizione, non fece eccezione. I Goti guidati, da Teodorico, nel 490 invasero la città, ma ne furono scacciati da Belisario, generale dell'Imperatore d'Oriente Giustiniano, tra il 536 ed il 537. Totila, nel 545 la riprese, ne distrusse i migliori edifici e ne diroccò le mura. Infine la fase della dominazione longobarda iniziò con il ducato che sarebbe stato fondato nel 576 da alcuni soldati capeggiati da Zottone, autonomamente dal re longobardo. Il successore di Zottone fu Arechi I (morto nel 640). Egli prese Capua e Crotone, saccheggiò la bizantina Amalfi ma non riuscì a impossessarsi di Napoli. Nei decenni successivi, Benevento conquistò alcuni territori al ducato romano-bizantino. Con il crollo del regno longobardo nel 773, il duca Arechi II fu elevato al rango di Principe sotto il nuovo impero dei Franchi di Carlo Magno, in compenso per alcuni suoi territori dati alla Chiesa. Benevento fu chiamata la "seconda Pavia” dopo la caduta della capitale longobarda. L'unità del Principato durò poco nell'851, Salerno si staccò sotto Siconulfo e, dalla fine del secolo, anche Capua fu indipendente. Tra il 1078 e il 1081 si avrà un breve dominio Normanno e successivamente cedette al potere temporale del Papa a cui si chiese protezione dalle invasioni normanne. Nel 1275 Benevento fu teatro di guerra tra Svevi e Angioini. Molte delle testimonianze storiche sono oggi conservate nel museo del Sannio, all’interno del chiostro di Santa Sofia. Il 4 settembre 1873 la provincia fondò il nuovo Museo, destinato a raccogliere i materiali conservati nel Collegio gesuita, quelli sparsi radunati dal comune a partire dal 1865, acquistando anche opere in possesso di privati e altro materiale proveniente dal territorio provinciale. Nel 1893 un primo raggruppamento di materiali venne ospitato nella Rocca dei Rettori, a cura di Almerico Meomartini. Nel 1929 a cura di Alfredo Zazo le collezioni furono trasferite presso il complesso monumentale di Santa Sofia, acquistato dall'amministrazione provinciale come sede per il museo e per l'Archivio storico e la Biblioteca, mentre la sezione storica rimase alla Rocca. Dopo la seconda guerra mondiale il materiale si accrebbe in modo considerevole per le scoperte fatte durante lo sgombero delle macerie causate dai bombardamenti. Nei primi anni sessanta, Mario Rotili riorganizzò il museo secondo criteri moderni. Oggi le sale del museo sono suddivise in base ai diversi periodi storici dal neolitico fino al medioevo. Importantissimo culto in Benevento fu quello rivolto alla dea Iside portato probabilmente da Domiziano che nell’88 d. C. Egli fece costruire un tempio in onore alla dea, molto venerata anche dalla popolazione e ritenuta protettrice dei matrimoni e delle arti domestiche. Il mito di Iside diede poi vita al mito delle streghe di Benevento legato al culto delle janare cioè di persone che non si erano convertite e che nel medioevo presso il fiume Sabato tenevano riti detti sabba. Due fiumi bagnano la città Sabato ed il Calore entrambi affluenti del Volturno. Il nome potrebbe derivare da Dianara, ossia "sacerdotessa di Diana", oppure dal latino ianua, "porta". Era appunto dinanzi alla porta, che, secondo la tradizione, era necessario collocare una scopa, oppure un sacchetto con grani di sale. La strega, costretta a contare i fili della scopa, o i grani di sale, avrebbe indugiato fino al sorgere del sole, la cui luce pare fosse sua "mortale" nemica. Nella parte bassa della città troviamo Il teatro romano, esso fu costruito nel II secolo sotto l'imperatore Adriano nelle vicinanze del cardo maximus. La pianta del teatro è semicircolare e presenta dimensioni grandiose con un diametro di 90 m. Originariamente aveva una capienza di 15mila persone. L'esterno presentava 25 arcate articolate su tre ordini, delle quali rimangono oggi quelle del primo, inquadrate da colonne con capitelli tuscanici, che danno accesso all'interno alternativamente tramite corridoi e scale, e parte di quelle del secondo ordine. Nel 1890 si procedette all’esproprio e all’abbattimento delle abitazioni che erano state costruite sopra e al recupero del monumento che fu consegnato alla sovrintendenza nella prima metà del ‘900. Importantissimo monumento della città è l'arco di Traiano costruito tra il 114 e 117 d. C. per volere del senato e del popolo per l’apertura della via Traianea di cui ne segna l’inizio. La via Traianea era un percorso nuovo della via Appia che permetteva di risparmiare tempo per raggiungere il porto di Brindisi. L’arco è composto da 27 pannelli scolpiti che raccontano le virtù civili, morali e militari di Traiano. Il lato verso la città parla dei rapporto tra Traiano e Roma, la parte verso la campagna racconta i rapporti con le province. Nelle volte Niche alate e da ambo le parti iscrizione identica che esalta Traiano figlio di Nerva Ottimo Augusto Germanico Pontefice Massimo. Alcuni pannelli riportano l’ingresso di Traiano in Roma dopo la vittoria contro i germani, raccontano delle iniziative prese a favore dei veterani. Tre pannelli rappresentano con figure i commerci. Inoltre troviamo Traiano che visita gli accampamenti e che stringe la mano ai germanici, importantissimi poi i panelli che ricordano l’istituto degli alimenta con finanziamenti ai proprietari terrieri e degli interessi che venivano devoluti alle persone più bisognose tra cui i bambini orfani. La rappresentazione di due fiumi il Tisia ed il Danubio che all’epoca segnavano il confine dell’Impero. Successivamente i longobardi usarono l’arco per farne una porta detta aurea (tra le otto di Benevento) a cui fu addossata la cinta muraria fino al 1860 quando Pio IX decise di liberare l’arco dalle mura. Nei pressi dell’arco la chiesetta di Sant’Ilaria che fu sconsacrata nel XVII secolo e trasformata in casa colonica e solo negli anni ’50 fu ripristinata, oggi ospita un percorso multimediale. Fa parte delle costruzioni tipiche dell’età longobarda. Nella parte alta della città troviamo la Rocca dei Rettori che risale al 1321, XIV sec. La rocca sorse per la necessità di difendere i due rettori nominati dal Papa che reggevano la città dopo la morte dell’ultimo re longobardo Landolfo VI nel 1070. Dalla metà del 400 la rocca viene ampliata e cambia destinazione oggi ufficio della provincia. Negli anni prima carcere e poi nel 50 è stata museo. Qui troviamo una statua di Traiano. Scendendo verso il centro della città incontriamo il palazzo del governo dove oggi è presente il museo egizio Museo Arcos. L’imperatore Domiziano fece erigere un tempio a Benevento dedicato alla dea Iside. Tacito ci racconta che una volta lo stesso imperatore riuscì a sfuggire ad un attentato travestendosi da sacerdote. Domiziano era poco amato ed alla sua morte ricevette la damnatio memoriae, tutto ciò che lo ricordava venne distrutto. Il museo ha oltre 120 reperti egizi che ancora oggi fanno Benevento il centro più importante di ritrovamento egizio in Europa. Di fronte al Palazzo del Governo è Il campanile della chiesa Santa Sofia sul quale sono presenti due piantine con la massima estensione del popolo sannita. Il popolo Sannita di origine della Sabina era sceso a sud si unisce al locale popolo degli Osci. L’altra piantina rappresenta il Ducato prima e Principato dopo dei longobardi popolazione germanica che nel VI secolo scendono in Italia creando tre ducati il ducato di Pavia, il ducato di Spoleto e poi il ducato di Benevento. Cade il regno longobardo di Pavia e poco dopo cade anche il ducato di Spoleto. Il duca Arechi invece riesce a mantenere il controllo della zona e viene incoronato nuovo principe dei longobardi con il nome Arechi II. Alla morte il principato verrà diviso in due parti e successivamente Capua si distacca dai Longobardi. Arechi II fa costruire la chiesa di Santa Sofia. Essa nasce nel 760 ed è sito Unesco, dal tipo di pianta originale metà circolare poi una forma a stella. Nel corso dei secoli sono stati fatti vari interventi, nell’anno 1000 fu costruito un campanile e poi un portichetto. Nel 1688 colpita da un terribile terremoto a cui fece seguito il terremoto del 1702. Benevento riesce a riprendersi grazie all’ Arcivescovo Vincenzo Maria Orsini di Gravina di Puglia che poi diventerà Papa Benedetto XIII nel 1624 che salito al soglio pontificio volle mantenne con il papato la carica di vescovo di Benevento. Egli fece costruire l’attuale campanile molto scostato dalla chiesa per evitare che un nuovo terremoto creasse problemi alla chiesa. All’entrata della chiesa una lunetta sul portale di epoca medioevale con Cristo, la Vergine e San Mercurio soldato romano, la figura inginocchiata rappresenta l’Abate Giovanni IV che volle la realizzazione del chiostro di Santa Sofia. La chiesa non è molto grande ma è un gioiello; fu costruita su modello della cappella palatina di Liutprando a Pavia e presto divenne il tempio nazionale dei Longobardi, che, dopo la sconfitta di Desiderio ad opera di Carlo Magno nel 774, si erano rifugiati nel Ducato di Benevento. La costruzione di Santa Sofia era parte di un vasto progetto di mecenatismo intrapreso da Arechi, che attraverso monumenti di prestigio cercò di sviluppare uno stile all'altezza delle sue ambizioni. Fu dedicata a Santa Sofia, ovvero alla "Sapienza", come l'omonima chiesa di Costantinopoli, con una donazione del 774. Arechi vi annesse anche un monastero femminile benedettino alle dipendenze di Montecassino, retto dalla sorella Gariperga e vi conservò, dedicandogli un altare, le reliquie di san Mercurio abbandonate nel 633 presso Quintodecimo dal perdente imperatore Costante. La chiesa subì gravi danni nei terremoti del 5 giugno 1688 e del 1702. Ha subito vari restauri il più radicale nel 700 quando vengono abbattute le pareti angolari e si da alla chiesa una pianta centrale. Viene rivestita di marmi e stucchi dal Papa Benedetto XIII. Successivamente furono ricostruire le parti angolari dopo un ennesimo terremoto che ha permesso di intervenire radicalmente in un discusso intervento di restauro tornando alle sue forme originali. Il lavoro ha permesso di ritrovare nelle absidi laterali frammenti di affreschi definiti dagli storici pittura Beneventana dipinti tra la fine dell'VIII e l'inizio IX secolo. E’ doveroso ricordare che esiste un carattere di manoscritti in latino con caratteri definiti Beneventana ed anche un Canto definito Beneventano durante il periodo longobardo. I frammenti di affreschi dell’abside di destra sono i più belli con la storia di Zaccaria dal vangelo di San Luca. Di Zaccaria si vede il mantello con a destra un angelo, la benedizione alla greca con le tre dita alzate. Di fronte all’incredulità di Zaccaria l’angelo lo abbia reso muto fino alla realizzazione della profezia della nascita di San Giovanni. Zaccaria muto ma in vesti bellissime. Dall’altra parte dell’abside una annunciazione benedice questa figura seduta su un trono e dalla parte opposta la visitazione. Due donne che si salutano dando un bacio sulle guance e le due aureole che si incontrano. Nella parte bassa dipinti di epoca successiva. Il restauro lasciò quasi immutata la facciata barocca. La chiesa è sostenuta da sei colonne, materiale di spoglio molto probabilmente dal tempio dedicato alla dea Iside, dea dei traffici commerciali, presente a Benevento. Un primo nucleo esagonale sormontato da cupole a vela in modo asimmetrico. Il meraviglioso chiostro, ha una struttura romanico – campana arricchita dal gusto arabo. È a pianta quadrangolare, composto da quindici quadrifore ed una trifora. Le aperture del chiostro sono adornate da 47 colonne di granito, calcare ed alabastro, ciascuna con la sua caratteristica. Poggiate su basi alte 50 cm, dimostrano il gusto creativo teso all'originalità dell'opera, tipico del tempo, come i capitelli ed i pulvini elaboratissimi e decorati da fogliame, allegorie, profili di figure umane e di animali, colte in momenti di vitalità e di forza. Visitando il chiostro perfettamente quadrato tranne nell’angolo sud dove rientra a gomito. Procedendo in senso antiorario, si riconoscono tre sequenze, ad opera di tre scultori detti il primo il Maestro dei Mesi, forse il capo officina che realizzò una serie dei lavori agresti dell'anno, il secondo Maestro dei Draghi e il terzo Maestro della cavalcata degli Elefanti. Sul precedente chiostro nel dodicesimo secolo L’Abate Giovanni IV fa costruire il portico davanti alla chiesa che oggi non esiste più. Lo stesso abate sul precedente chiostro fa costruire 15 quadrifore più una trifora nell’angolo sud, 47 colonnine diverse per materiale, forma e disegni, le più belle sono la tortile e l’annodata definita ofitica, simbolo di trinità. La definizione deriva dal greco antico òphis = serpente. Veniva raccontata la lotta tra il bene ed il male. La colonna numero uno, così definita dagli studiosi, rappresenta San Benedetto seduto in trono con la regola, natività e adorazione dei magi. Altre colonnine con riferimenti alle crociate. I Capitelli sono diversi l’uno dall’altro. Col terremoto del 1627 il Cardinale Alessandro De Sangro fa chiudere la muretti di contenimento. Ci sono Sette varchi che ricordano le tre virtù teologali: la Fede, la Speranza e la Carità e le quattro virtù Cardinali: Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza. Si notino i capitelli a stampella presenti prevalentemente in Campania qui a Benevento, ma alcuni visibili nella cripta di Sant’Agata dei Goti ed a Montevergine. Tra i capitelli interessanti sono i due uomini barbuti che cavalcano gli elefanti e inseguono la donna nuda e diversi uomini non più barbuti che cavalcano l’elefante mentre una donna corre coperta, molto probabilmente la rappresentazione della scoperta del peccato. Usciti da Santa Sofia si può raggiungere l'Hortus Conclusus un'installazione dell'artista Domenico Palladino di Paduli, esponente della Transavanguardia Italiana, realizzata nel 1992 insieme all'architetto Roberto Serino, all'architetto Pasquale Palmieri e al lighting designer Filippo Cannata in uno degli orti del Convento di San Domenico a Benevento. L'Hortus si apre in fondo al Vico Noce, accessibile dal Corso Garibaldi esso è un museo all’aperto. Scendendo lungo il corso si raggiunge alla sua fine Il Duomo di Benevento. Fu il primo tempio cristiano eretto nella città e l'edificio sorse nel centro dell'antica città romana infatti dove è ora la chiesa vi era il Campidoglio. La fondazione più antica è fatta risalire agli inizi del VII secolo, mentre le dimensioni odierne furono raggiunte con la riedificazione dell' VIII secolo, che trasformò l'antica chiesa nella cripta della nuova. Tale riedificazione fu fortemente voluta dal duca longobardo Arechi II. Nella seconda metà del X secolo la città di Benevento divenne arcivescovado, e in tale occasione, l'arcivescovo Roffredo apportò modifiche ed ulteriori ampliamenti alla cattedrale la quale, però restò priva di una degna facciata e del campanile fino al XIII secolo. Il 30 novembre 1456 la Cattedrale, ormai completa, fu gravemente danneggiata da una scossa tellurica, ma venne riparata e in questo restauro quattrocentesco la chiesa fu divisa in cinque navate. Altri lavori però furono necessari dopo il terremoto del 1702, quando la chiesa finì per assumere la forma che sostanzialmente durò fino al 1943, quando gli eventi bellici della seconda guerra mondiale ne determinarono la totale distruzione. Infatti fu rasa al suolo dagli alleati quattro giorni dopo l'armistizio, tra il 12 ed il 14 settembre del 1943. La facciata della Cattedrale era protetta da una muraglia di sacche di sabbia, ma fu comunque colpita e danneggiata da risultare fortemente instabile. Si ipotizzò la necessità di abbatterla, ma poi, grazie anche all’intervento dell'architetto che si occupava dei lavori, si riuscì a scongiurare tale soluzione con un intervento di fortificazione ad hoc, salvando la facciata risalente al XI secolo. La cattedrale è stata oggetto di lavori di recupero e valorizzazione durati 7 anni (dal 2 maggio 2005 al 11 ottobre 2012). I lavori sono stati interrotti numerose volte a causa del ritrovamento di diversi reperti archeologici di epoca tardo romana e in particolar modo legati al culto egiziano. Tali ritrovamenti sono stati resi accessibili e visitabili. Tra i vari elementi recuperati ricordiamo la cattedra di San Barbato di epoca longobarda che è una struttura di trono episcopale. La facciata del duomo, imponente e composita, costruita in marmo bianco, si rifà alla contemporanea architettura della Capitanata, di chiara derivazione pisana. Si sviluppa su due ordini articolati in sei arcate. Quelle dell'ordine inferiore sono poco profonde, la più larga è quella contenente il portale principale, che è racchiuso fra un architrave e due stipiti riccamente decorati, così come l'arco che lo sormonta. Le due arcate ai lati di quella del portale sono le più strette, presentano una decorazione a listelli orizzontali, sormontata da un incavo a forma di losanga. La prima arcata a sinistra e la seconda da destra includono due portali minori, che insieme a quello principale vogliono richiamare l'idea della Trinità. Gli stipiti del portale di destra sono architravi romani reimpiegati. Nella stessa arcata compaiono alcune iscrizioni funerarie, tratte dalle sepolture longobarde una volta presenti in Piazza Duomo. Il portale di ingresso oggi collocato all’interno del Duomo è in bronzo composto da 72 pannelli che rappresentano 42 scene di vita di Gesù da sinistra a destra, 25 formelle vescovi e altre 5 figure legate alla storia della chiesa, il fregio attorno è di epoca medioevale. Il campanile, quadrato e possente, a blocchi di pietra bianca, fu innalzato dall'arcivescovo Romano Capodiferro a partire dall'11 febbraio 1279, come attesta un'epigrafe sulla facciata est. Sulla faccia anteriore del campanile è inserito un fregio costituito da 17 cippi figurati romani, che creano una successione serrata di pungenti ritratti funerari. L'utilizzazione di materiale di spoglio antico, molto diffuso nell'architettura medioevale beneventana, giunge qui ad un alto livello. Nella facciata ovest può vedersi una lastra recante i resti di un labaro romano in metallo dorato, e soprattutto un rilievo rappresentante un cinghiale, chiaro riferimento al mito di Diomede. L'interno della cattedrale risale alla ricostruzione del XX secolo è severo e luminoso ed è a croce latina. Vi si accede attraverso un vestibolo solenne, che ha a destra il battistero. Qui, sul portale d'ingresso, vi è il bassorilievo in marmo con il Battesimo di Gesù, di artista ignoto del primo Settecento, salvato dalla distruzione del tempio antico. Sulla parte opposta spicca la grande statua marmorea di San Bartolomeo Apostolo del XIV secolo di Nicola da Monteforte. L'aula è a tre navate, con le due laterali scandite in campate da coppie di archi poste trasversalmente. Alla base dei piedritti dell'arco trionfale, ai lati del grande scalone che immette nel presbiterio, si levano gli amboni di marmo con pannelli in bronzo di V. D. Colbertardo, rappresentanti i dodici Apostoli. Il presbiterio, rivestito di marmo giallo vicentino, impreziosito dalla luce dorata che filtra dalle lastre di alabastro dei grandi finestroni, è dominato dal solenne baldacchino dell'altare maggiore. Ai lati degli amboni sono gli ingressi della cripta, cui è collegata quella del VII secolo, notevole per l'originalità della composizione movimentata. Quanto si è salvato dell'antico Duomo è stato riutilizzato nella Cappella del SS. Sacramento, posta nella navata sinistra. Qui, infatti, diciotto colonne antiche di marmo bianco scanalate si succedono lungo le pareti dell'aula quadrangolare, a reggere, con i loro capitelli dorici decorati con un kyma ionico, la trabeazione dalla quale parte l'agile cupola. Il ponte leproso cioè il ponte dei lebbrosi poiché in epoca medievale si trovava vicino ad un lebbrosario, è stato costruito su un ponte precedente di epoca romana nel III secolo da Appio Claudio Cieco in occasione dell’apertura della via Appia, il luogo è famoso per la battaglia di Benevento del 1265.
Provincia di Benevento
Una delle cittadine più importanti della provincia di Benevento è Montesarchio con Il suo castello. Esso èuna struttura storica che domina la valle Caudina, fu edificato per fini militari e di ordine pubblico. Oggi il castello è visitabile e ospita il museo archeologico nazionale del Sannio. Qui è ubicato il famoso vaso di Asteas del mito di Europa rientrato dal museo Paul Getty di Malibù. L'evidenza storica dell’utilizzo della struttura come carcere deriva dal rinvenimento di aree adibite a cortili per i reclusi ed esplicite iscrizioni, sui muri, ad opera dei patrioti rinchiusi nelle celle. Il castello, del quale sono tuttora evidenti gli incassi del ponte levatoio e il fossato di protezione, ha subito numerose modifiche nel corso dei secoli, dall’VIII secolo in poi, periodo nel quale si fa risalire la prima edificazione. La sala più grande ospita i ritrovamenti delle necropoli che ci testimoniano il rapporto tra il mondo sannita ed il mondo greco a partire dall’ VIII e III secolo a. C. Un altro museo del Sannio molto innovativo in cui si svolgono anche attività di laboratorio è il Paleolab che si trova a Pietraroja al confine con il Molise, una zona ricca di ritrovamenti di epoca paleolitica, infatti qui fu trovato lo Scypionix Samniticus, detto “Ciro” un piccolo dinosauro del cretaceo, 110 milioni di anni fa. Paese più a valle di Pietraroja è Cusano Mutri avrebbe origine dall’antica città sannitica “Cossa” distrutta dai romani insieme a Telesia. Qui si svolgono due eventi importantissimi: L’Infiorata in occasione del corpus domini e la sagra dei funghi porcini nel mese di Ottobre. Scendendo la vallata si incontra Cerreto Sannita, la cittadina fu ricostruita dopo il terribile terremoto che intorno alle 18,30 del 5 Giugno 1688 rase al suolo la città ed uccise la metà degli ottomila abitanti dell’epoca. La città rinasce per merito del conte Maurizio Carafa e suo fratello Marino. L’ingegnere Giovanni Battista Manni fu incaricato della ricostruzione che divenne possibile grazie al conte Carafa che emanò provvedimenti per la concessione di prestiti, tra questi, l’edificazione di piccole case a due vani che i cittadini potevano ripagare in 4 anni all’interesse del 6%. In solo otto anni la cittadina fu ricostruita. Nelle vicinanze San Lorenzello graziosa cittadina con un parco dedicato ai dinosauri. Guardia Sanframondi a 428 metri sul livello del mare famosa per i suoi vini, ma soprattutto per i riti penitenziali settennali in onore dell’Assunta con i battenti a sangue. Altra cittadina importante delle provincia è Sant’Agata dei Goti. Il suo toponimo così come oggi noi lo conosciamo, si forma in due differenti periodi storici. Si deve alla presenza in città della famiglia francese dei De Goth alla quale Roberto d'Angiò concesse il feudo di Sant'Agata nel 1300. Un'altra tesi, invece, attribuisce il "de' Goti" al passaggio dei Goti in questi territori nel corso del VI secolo. Gli storici concordano sull'ipotesi che l'attuale centro abitato di Sant'Agata de' Goti sorga sul territorio dove un tempo si estendeva l'antica città caudina di Saticula. Necropoli sannite sono infatti venute alla luce nella zona nord del territorio. Attraverso le diverse fasi storiche ricordiamo che alcune date importanti sono quelle del 1230 quando fu ceduta al Papa Gregorio IX e in seguito nel ‘400 a tutta una serie di famiglie feudatarie per giungere alla famiglia dei Carafa dal ‘600 all’unità d’Italia. Città fortezza fu costruita su un promontorio di tufo. Qui i romani trasferirono delle colonie di veterani e ciò è ricordato anche da una epigrafe inserita nella ricostruzione della cattedrale nel 700 con materiali di scavo infatti si trova un epigrafe del 42 a. C. che parla dei veterani di Cecere che furono ripagati con la centuriazione. Questa consisteva nel dare ad ogni famiglia due ettari e mezzo quasi che corrispondono a 10 iugeri. Lo iugero (dal latino iugerum) era un'unità di superficie agraria utilizzata dai Romani. Essa equivaleva all'area di terreno che era possibile arare in una giornata di lavoro con una coppia di buoi aggiogati (di qui l'etimologia da "iugum", cioè "giogo"). Il nome della cittadina si deve anche a Papa Gregorio Magno alla fine del Vi secolo da Catania a Roma con l’impegno di fondare 50 chiese lungo il percorso. Papa Gregorio I, detto papa Gregorio Magno ovvero il Grande (Roma, 540 circa – Roma, 12 marzo 604), fu il 64ș vescovo di Roma e Papa della Chiesa cattolica, dal 3 settembre 590 fino alla sua morte. La Chiesa cattolica lo venera come santo e dottore della Chiesa. Anche le Chiese ortodosse lo venerano come santo. Fu lui che riordinò i canti creando i Cori Gregoriani. il Duomo dedicato all’Assunta edificato nel 970, ricostruito nel XII secolo e più volte restaurato specie dopo il terremoto del 5 giugno 1688. La facciata da un ampio pronao a tre campate rette da dodici colonne con capitelli di riporto. Il portale maggiore in stile romanico ha ai due lati due coppie di colonne con capitelli in stile corinzio. Nel XVII secolo vennero aggiunti gli stucchi barocchi. A sinistra di chi guarda la facciata del Duomo è il campanile, a tre ordini con cupolino avente embrici maiolicati gialli e verdi. La pianta della chiesa è a croce latina con tre navate, transetto, cupola e presbiterio. Nelle cappelle laterali sono site pregevoli opere d'arte incorniciate da stucchi barocchi ed aventi altari in marmi policromi. Il soffitto della navata centrale è in tavole lignee dipinte e dorate, opera del XIX secolo mentre l'altare maggiore, arretrato rispetto alla posizione originaria, è in marmi policromi intarsiati. Il coro di fine 600’ creato per il capitolo che prendeva le decisioni prima delle funzioni ha la presenza di un leggio a due facce chiamato badalone. Al di sotto del transetto è la cripta romanica. La figura più importante passata per Il Duomo è S. Alfonso Maria De Liguori fondatore della Congregazione del Santissimo Redentore, è autore di opere letterarie, teologiche e di celebri melodie. Ancora oggi nel seminario troviamo la stanza dove dimorava quando viveva nella diocesi. Fu proclamato santo da Papa Gregorio XVI nel 1839 e dichiarato dottore della Chiesa (doctor zelantissimus) nel 1871 da papa Pio IX. Sant’Alfonso si ammala di artrosi e lascia Sant’Agata e chiede di essere sollevato dalle sue responsabilità. All’interno del seminario ritroviamo vetrinette con molti atti che riguardano il suo mandato episcopale a Sant’Agata tra cui la sedia vescovile in legno molto semplice da cui si può intuire il suo stile. Usciti dai luoghi Alfonsiani arriviamo davanti al comune ubicato nel monastero di San Francesco, al suo interno è interessante la sala consiliare definita Umbertina dell’800’ con pitture di Vincenzo Severino di Cerreto Sannita. La chiesa di San Francesco adiacente al convento ma con ingresso più avanti viene spesso usata per mostre e presentazioni che cercano di rivalutare il territorio. Proseguendo verso l’entrata del paese sulla sinistra troviamo in una piazzetta una chiesetta dei frati minori conventuali che è adibita a museo diocesano dal 1996, molto interessante. Proseguendo sul corso troviamo la chiesa di Sant’Angelo in Munculanis, mentre usciti dal centro del paese si raggiunge la zona del castello dove di fronte rialzata rispetto al manto stradale troviamo la chiesa di San Menna raggiungibile tramite una scalinata. Essa è di origine normanna e presenta un esempio di pavimento cosmatesco meglio conservato, fu consacrata nel 1100 da Papa Pasquale II e dedicata a San Menna un eremita vissuto sul Taburno nel VI secolo. Fu fatta costruire, come cappella del castello, dal conte Roberto il normanno, figlio di Rainulfo, tra il 1102 e il 1107, e fu dedicata all'apostolo Pietro. La chiesa di S. Menna è uno dei più importanti e completi esempi di romanico in Campania, anche in virtù del suo stato attuale di conservazione. Infatti, tranne la scala di accesso, il portico che la copre e il campanile a vela soprastante, poche sono le modifiche apportate all’edificio. Sul portico si apre l’unico portale, arricchito da lunetta e archivolto, datato 1118, tra i migliori esempi di scultura degli inizi del sec. XII L’interno è basilicale, a tre navate, coperte da capriate e concluse da absidi semicircolari Le navate sono scandite da una doppia fila di cinque colonne, tutte di spoglio, sulle quali poggiano i capitelli (alcuni antichi altri medievali). Il presbiterio e i vani absidali sono sopraelevati ma non vi è traccia di una cripta. Ultima chiesa è la chiesa dell’Annunziata costruita nei pressi del lazzaretto poi ospedale della città. Di fondazione del trecento la chiesa presenta un bellissimo giudizio universale nel contraltare.
Avellino
Alle spalle del cimitero di Atripalda è stato individuato il primo insediamento di Abellinum. Testimonianze archeologiche attestano la presenza sulla Civita di un importante centro pre-romano, presumibilmente di origine etrusco-campana e di lingua osca, risalente almeno al IV secolo a. C. Avellino fu conquistata dai Romani nel 293 a. C., che la sottrassero al dominio dei Sanniti nella sanguinosa battaglia di Aquilonia, durante le Guerre sannitiche che si verificarono tra il 343 e il 292 a.C. Sotto il dominio di Roma la città cambiò più volte denominazione (nell'ordine: Veneria, Livia, Augusta, Alexandriana e Abellinatium). Nell'89 a. C. Silla occupò Pompei, Ercolano, Stabia, Eclano, Abella e Abellinum, che non costituiva ancora un vero e proprio centro urbano. Furono le truppe di Silla ad avviare l'edificazione di una vera città. Quando successivamente ci fu la suddivisione in regiones da Augusto anche Abellinum fu fatta ricadere all’interno della regio seconda dell’Apulia seguendo il percorso della via Appia, per poi tornare con Adriano nella regio prima. Con Diocleziano anche Avellino fu teatro di forti persecuzioni contro i cristiani tra cui ricordiamo S. Modestino. Nel periodo costantiniano Avellino fu eletta sede episcopale nel IV secolo ma rimase vacante dal VI al X secolo, e quando i Longobardi giungono ad Avellino, negli anni 70 del ‘500, mettono in fuga i cittadini che si spostano a 4 km di distanza sulla collina Selleczanum, oggi nota come Terra, dove fondano l’attuale città di Avellino. Solo nel 969 con Ottone I ritorna il vescovo conte, figura creata ad hoc dall’imperatore per evitare l’ereditarietà dei feudi e contrastare le ingerenze del clero. Il primo vescovo è stato Truppualdo che si insediò nel 1053 e da questo periodo si registra una successione di vescovi e la chiesa di S. Maria diventa Duomo. Nel XVI secolo abbiamo il passaggio dal ducato longobardo al dominio normanno e con il primo duca Riccardo iniziano i lavori di ampliamento del Duomo e della città. Nel corso del ‘500 con la famiglia Caracciolo la città conosce il periodo aureo della sua storia. Il monumento più importante testimone dell’epoca romana è il parco archeologico dove si possono vedere i resti dei templi, le terme e una parte dell’acquedotto del serino che serviva tutta la zona fino a Napoli. Altre testimonianze del passato di Avellino si trovano nel Museo Irpino dove molti sono i resti dell’età sannitica. Con la famiglia Caracciolo vengono costruiti edifici importanti come il palazzo Caracciolo, il palazzo della Dogana, la fontana Caracciolo o Bellerofonte detta anche dei tre cannoli, inoltre l’obelisco di Carlo II d’Asburgo dovuto al Fanzago. Il Duomo fu costruito a metà del XII secolo, tra il 1132 ed il 1166 dal vescovo Roberto, che la dedicò a San Modestino, in stile romanico. Verso la fine del Seicento iniziarono alcune trasformazioni e restauri che, proseguendo nel Settecento, trasformarono l’antico impianto romanico in forme barocche. Fu con il vescovo Francesco Gallo che si ebbe un rifacimento in stile neo classico. La facciata fu affidata all’architetto Pasquale Cardola e fu compiuta tra il 1857 e il 1868. La trasformazione dell’interno invece fu opera dell’architetto Vincenzo Varriale, che vi lavorò dal 1880 al 1889. La facciata neoclassica in marmo bianco e grigio è divisa in due ordini da un cornicione. Nell’ordine inferiore, suddiviso in cinque fasce da quattro colonne, sono inseriti i tre portali d’entrata: due lapidi, rifacimenti di quelle antiche, ricordano le vicissitudini del portale centrale, costruito dal vescovo Roberto nel 1133 ed ampliato dal vescovo Guglielmo nel 1167. Nella lunetta sovrastante la porta centrale è un bassorilievo raffigurante l’ultima cena. A fianco del portale principale, in due nicchie sono collocate le statue di San Modestino, patrono della città, e di san Guglielmo, fondatore del monastero di Montevergine e patrono dell’Irpinia. L’interno della cattedrale è a pianta a croce latina a tre navate suddivise da pilastri, con nove cappelle laterali. Il soffitto a cassettoni della navata centrale, che copre l’antico soffitto a capriate, è stato realizzato nel Settecento. Al centro è la grande tela di Angelo Michele Ricciardi che raffigura Maria assunta in cielo (1702-1705). Dal transetto si accede poi a due cappelle poste lateralmente al presbiterio. A sinistra è la “cappella di san Modestino”, o anche “cappella del tesoro di San Modestino”, perché conserva, in preziose teche, le reliquie dei santi patroni a cui la diocesi avellinese è devota, ed il busto argenteo di San Modestino. Questa è la cappella più importante del Duomo. Infine, sempre dal transetto si accede alla cripta, che ha mantenuto nel tempo il suo impianto romanico: essa è a tre navate divise da colonne di pietra. Nel soffitto vi sono affreschi settecenteschi di Angelo Michele Ricciardi. Sul Monte sovrastante Avellino è situato il Santuario di Montevergine. La storia del santuario è strettamente legata alla figura di Guglielmo da Vercelli, un monaco eremita vissuto tra l'XI e il XII secolo, rientrato in Italia dopo un lungo viaggio prima a Santiago di Compostela e poi a Gerusalemme decise di rifugiarsi in eremitaggio sul monte Serico, ad Atella, dove è protagonista della guarigione di un cieco. Nel corso del tempo si unirono altri fedeli in questa esperienza del santo e si decise anche la costruzione di una chiesa, consacrata nel 1126, dedicata alla Madonna per devozione di Guglielmo stesso. Dopo la morte di San Guglielmo, nel 1142, il santuario raggiunse il periodo di massimo splendore tra il XII ed il XIV secolo, quando si arricchì di numerose opere d'arte e si espanse notevolmente grazie alle offerte di feudatari, papi e re.. Fu in questo periodo che venne donato il dipinto della Madonna, oggi venerato nella basilica cattedrale, ma anche numerose reliquie, per un periodo furono conservate anche le ossa di San Gennaro, che furono poi trasferite nel duomo di Napoli nel 1497. Un periodo di crisi lo ha vissuto nel momento delle soppressioni di istituti monastici nel corso dell’800, fortunatamente però il 28 maggio 1868 il consiglio di stato sancì che le abbazie non dovessero essere soggette ad alcun tipo di soppressione economica e quindi tutti i beni confiscati negli anni precedenti vennero nuovamente restituiti. Nello stesso anno il santuario fu dichiarato monumento nazionale. Nel corso del XX secolo il santuario diventa uno dei principali centri del turismo religioso, nel corso della II guerra mondiale nasconde la Sacra Sindone dalle mire di Hitler. La cattedrale è stata costruita negli anni ’50 e completata nel 1961, presenta tre arcate con altrettanti ingressi ed un rosone centrale decorato con vetri policromi. Della originaria basilica del 1126 non rimane nulla a causa di un incendio nel 1629 e poi ricostruita nel 1645 su progetto di Giacomo Conforti. La storia dell'icona della Madonna di Montevergine segue diverse leggende. Secondo una leggenda, il quadro sarebbe stato direttamente dipinto da San Luca a Gerusalemme, per poi essere trasportato prima ad Antiochia e poi a Costantinopoli. Nell'VIII secolo però con la salita al trono di Michele Paleologo e l'inizio dell'iconoclastia, il fuggitivo re Baldovino II recise il capo della Madonna dal quadro per metterla in salvo. Giunta a Caterina II di Valois per eredità, questa fece terminare l'opera da Montano d'Arezzo, per poi donarla ai monaci di Montevergine nel 1310, esponendola nella cappella gentilizia dei D'Angiò. La prima vera valutazione storica dell'icona si ebbe soltanto durante il Concilio Vaticano II negli anni sessanta e ben presto la leggenda risultò totalmente infondata in quanto la data di donazione al santuario non poteva essere esatta perché Caterina II avrebbe avuto solamente dieci anni ed inoltre da uno scritto conservato nel monastero irpino, il quadro era già presente dalle fine del XIII secolo. Nel 1964 Giovanni Mongelli, padre della Congregazione di Montevergine, ipotizzò che l'opera potesse essere stata realizzata da Pietro Cavallini, o comunque dalla sua scuola, visti i numerosi elementi artistici tipici del pittore romano, come lo stile bizantino ed il modo di panneggiare, ma quest'ipotesi fu dettata anche dal fatto che Cavallini era stato spesso commissionato a realizzare opere dai D'Angiò. Nel 1997 padre Placido Maria Tropeano, ha però dichiarato che l'opera potrebbe essere anche attribuita a Montano d'Arezzo, ma che a seguito dei continui rimaneggiamenti abbia perso la sua fisionomia iniziale.
Provincia di Avellino
Le cittadine più importanti sono Ariano Irpino. Atripalda e la zona di Sant’Angelo dei lombardi con l’abbazia del Goleto. Quest’ultimo è un complesso religioso, in parte ridotto in ruderi, situato a Sant'Angelo dei Lombardi: la sua costruzione risale al XII secolo e fu fondato da san Guglielmo da Vercelli. Centri minori ma non meno importanti da ricordare sono Montella con il monastero di San Francesco a Folloni, Nusco ed il centro di Gesualdo. Importantissima è la zona archeologica di Avella.
I Parchi Regionali e Nazionali
Capitolo XXX
Parchi Regionali e Nazionali
I parchi regionali della Campania sono: il parco regionale dei Monti Picentini, dei Monti Lattari, del Partenio, del Matese, di Roccamonfina foce del Garigliano, Taburno Camposauro, dei Campi Flegrei, il Bacino idrografico del fiume Sarno e il Parco Naturale Diecimare. Parchi Nazionali in Campania sono il parco del Vesuvio ed il Parco del Cilento, Vallo di Diano e Alburni. Il parco regionale dei monti Picentini, caratterizzato dalle vette più alte è separato dal Partenio dal corso dei fiumi Sarno e Sabato, è formato da calcari e dolomie che, interessati dalla profonda circolazione delle acque, danno vita alla formazione di numerose grotte come quella dello Scalandrone, dell’Angelo e di Strazzatrippa. L'area si estende su una superficie di 65.000 ettari. Due terzi dell’area protetta sono coperti da faggete, ma non mancano altre formazioni boschive come il cerro, l'acero, il castagno, il pino nero. Fra la fauna è presente la volpe, il gatto selvatico, il cinghiale, l'allocco, la coturnice, l'aquila reale, la poiana, il picchio nero e la salamandra. Attualmente è presente il lupo, in via di estinzione in Italia. Si possono avvistare linci, tassi, l’aquila reale, l’astore e il falco pellegrino. Tra i rettili si trovano ofidi quali il biacco, il cervone e tra le vipere l’aspide. Il parco comprende le oasi naturali del monte Polveracchio e l’oasi di valle della caccia detta anche oasi di Senerchia con acque cristalline e potabili. Il parco regionali dei monti Lattari è un massiccio carbonatico, cioè la matrice della roccia è calcarea, si è formata sotto il mare e poi attraverso i processi orogenetici, che muovono la terra, è emersa permettendo la formazione di massicci montuosi e in questo caso un’estensione verso la penisola sorrentina. Si chiamano Lattari perché prendono il nome dal latte delle pecore che vi pascolano, creatrice di quei prodotti unici e prelibati come il provolone del monaco, fiordilatte, burrino, caciocavallo e tanti altri. Il territorio è ricco di centri storici, località di pregio come Positano, Ravello, Vico Equense e luoghi naturali di grande interesse come la Valle delle Ferriere. Presenta molte vette come il monte S. Michele detto anche monte del Molare per la forma a dente, il monte Faito, il monte Cerreto, il monte Sant’Angelo di Cava, il monte Finestra dalla cui cima si può vedere tutto il panorama costiero compreso il Vesuvio. Tra gli itinerari più suggestivi vi è il sentiero degli dei che da Bomerano porta a Positano attraversando le antiche vie di comunicazione in una alternanza di pareti e grotte. Il Partenio è un parco poco conosciuto che raccoglie al suo interno tutta la storia campana delle varie dominazioni, ricordiamo che è proprio in questa zona che si consuma la nota sconfitta dei romani ad opera dei Sanniti nell’episodio delle forche Caudine. L'attuale Parco del Partenio vede, nell'Alto Medioevo la formazione di piccoli insediamenti di valle, legati alle vicende di fondazioni religiose. I maggiori cambiamenti si hanno nel periodo normanno, quando gli insediamenti abitati vengono trasformati in zone fortificate con il sorgere di diversi castelli. Tra gli avvenimenti storici più importanti ricordiamo la fondazione della chiesa di Montevergine tra il 1120 e il 1124 ad opera di San Guglielmo da Vercelli. Questi paesi ed i monti del parco furono scenario del fenomeno del brigantaggio nel periodo dell’unità d’Italia. La struttura fondamentale del territorio è costituita da roccia calcarea anche se l’influenza maggiore è data dalla sedimentazione del materiale piroclastico. L’erosione del suolo e la sua composizione hanno dato vita a diversi fenomeni carsici con la formazione di grotte come quelle di Camerelle, di San Michele Arcangelo. La zona più visitata è l’oasi del WWF di Montagna di Sopra salendo verso il Partenio. La fauna è costituita dall’ululone dal ventre giallo (un rospo), la salamandra dagli occhiali, il tritone crestato italico, ma si possono osservare anche altre specie come la volpe, il barbagianni, la civetta e l’assiolo. Il clima mite che caratterizza queste zone ha contribuito allo sviluppo di una ricca flora costituita da faggeti, lecci, piante officinali, l’acero napoletano e castagneti. È un parco con una struttura molto più urbana rispetto agli altri. Il parco del Matese è uno dei parchi più conosciuti a livello mondiale perché qui è stato ritrovato il famoso dinosauro Ciro, lo Scipionyx Saminiticus, ritrovato nei pressi di Pietraroja. Un altro elemento importante è che nel parco del Matese è presente un giacimento di roccia detta bauxite che è una roccia sedimentaria che si forma per il movimento di rocce ricche di ferro verso valle, da questa roccia viene fatto l’alluminio. La flora è caratterizzata dalle splendide faggete che occupano buona parte del settore campano, inoltre boschi di faggio, leccio, boschi di carpino ecc. La fauna è costituita da lupi, il gatto selvatico, la donnola, lo scoiattolo ecc. La meta turistica più conosciuta è il lago Matese dove vive ancora una discreta fauna ittica che annovera trote, anguille e ciprinidi. Il parco non è solo natura infatti tra i sentieri e gli antichi percorsi ci si ritrova tra mura ciclopiche, antichi borghi fortificati, castelli medioevali, chiese e conventi ricchi di testimonianze storiche ed artistiche. Piccoli borghi dove il tempo sembra essersi fermato. Qui vivono ancora antichi mestieri, la musica popolare, i canti, le fiabe, gli attrezzi da lavoro, i costumi tipici. L’intero parco è attraversato dal fiume Titerno e Tammaro. Il parco di Roccamonfina foce del Garigliano è sorto nel 1993 ha una estensione di circa 9.000 ettari. L'area è dominata dal vulcano Roccamonfina ed è limitata a nord-ovest dal fiume Garigliano, a nord-est dalla catena di Monte Cesima e a sud-est dalla catena del Massico. Il Vulcano di Roccamonfina (1.006 m) è il più antico vulcano della Campania, per dimensioni il quarto vulcano d'Italia. Molto simile al Vesuvio, ma molto più grande di esso. La vegetazione tipica del parco è quella dei castagneti privati. La fauna è ricca e diversificata, in virtù delle ampie variazioni di condizioni ambientali che generano una grande varietà di habitat. Notevole è la presenza sull'edificio vulcanico dell'Ululone ventre giallo appenninico mentre alla foce del Garigliano vivono le rarissime e minacciate testuggine palustre nei canali e nelle pozze e testuggine comune negli ambienti costieri. Fra i mammiferi sono comuni il cinghiale, l'istrice, la volpe, la faina, la donnola, il riccio. Tra le numerose specie di uccelli, di particolare rilievo sono picchio rosso maggiore e picchio verde, ghiandaia, tortora dal collare, gazza, cornacchia grigia, cinciallegra, capinera, poiana, gheppio, gufo comune, civetta, allocco, barbagianni. Il parco del Taburno Camposauro, in provincia di Benevento, è nato per la tutela del massiccio omonimo, che fa parte dell’Appennino Campano, è uno dei parchi con la mappatura più precisa dei sentieri e di percorsi che mostrano le tradizioni più importanti di queste zone come la via dei mulini, la via dei briganti, la via del vino ecc. Campi flegrei parco urbano, in realtà comprende la maggior parte dei crateri vulcanici spenti di cui l’ultimo è stato il Monte Nuovo che ha eruttato nel 1538. Una caratteristica dei campi flegrei è che la maggior parte sono antropizzati, cioè vedono la presenza di abitazioni, tranne il cratere degli Astroni che è una riserva del WWF e la solfatara che è una meta turistica dove è ancora presente l’attività vulcanica. Comprende Nisida, il parco Virgiliano, la zona di Posillipo in cui è presente l’area protetta della Gaiola. Il cratere degli Astroni è noto anche per il fenomeno dell’inversione termica, contrariamente a quanto succede in altri ambienti la forte umidità del fondo ha portato alla formazione del bosco in basso mentre verso l’alto si è formata la macchia mediterranea. Parco regionale bacino idrografico del fiume Sarno anticamente era navigabile e vi si pescavano le anguille, inoltre risulta che fosse alimentato da altri fiumi che oggi non esistono. All’interno di questo parco il sito più importante è la città di Pompei, ma ricordiamo anche il sito archeologico di Poggiomarino scoperto qualche anno fa e risale all’ VIII secolo a. C. presenta resti di palafitte testimonianza di un’attività fluviale. Il parco di Diecimare è situato tra i Comuni di Cava de’Tirreni, Mercato S. Severino e Baronissi in Provincia di Salerno ed è circondato dai centri urbani densamente abitati dell’Agro Nocerino Sarnese e della Valle dell’Irno. Geologicamente, il Parco può essere diviso in due aree: Monte Caruso, di età Jurassica, costituito da calcari pseudo litici avana e grigi. L’altra area Forcella della Cava-Poggio Cuculo di età Triassica e composta da dolomie e calcari dolomitici. La piana di Diecimare è costituita da materiale detritico e piroclastico proveniente dai Campi Flegrei e risalente a circa 36 milioni di anni fa. La dolomia veniva utilizzata per le punte di freccia.
Riserve Naturali Statali
Riserva naturale Castelvolturno in Provincia di Caserta
Riserva naturale statale Isola di Vivara
Riserva naturale Cratere degli Astroni
Riserva naturale Tirone Alto Vesuvio
Riserva naturale Valle delle Ferriere in Provincia di Salerno
Riserve Naturali Regionali
Riserva naturale Foce Sele – Tanagro in Provincia di Avellino e Salerno
Riserva naturale Foce Volturno – Costa di Licola in Provincia di Caserta e nella città metropolitana di Napoli
Riserva naturale Lago Falciano in Provincia di Caserta.
Riserva naturale Monti Eremita – Marzano in Provincia di Salerno.
Aree Marine Protette
Area naturale marina protetta Punta Campanella
Area marina protetta Regno di Nettuno
Area marina protetta Santa Maria di Castellabate in Provincia di Salerno
Area marina protetta Costa degli Infreschi e della Masseta in Provincia di Salerno
Aree Naturali Protette
Parco sommerso di Baia
Parco sommerso di Gaiola
Aree Naturali Protette Regionali
Oasi Bosco di San Silvestro in Provincia di Caserta
Oasi naturale del Monte Polveracchio in Provincia di Salerno
Parco Metropolitano delle Colline di Napoli
Area naturale Baia di Ieranto
Altre Aree Naturali
Oasi naturale Bosco Camerine in Provincia di Salerno – non incluso nell'EUAP
Oasi naturale Valle della Caccia in Provincia di Avellino – non incluso nell'EUAP
Sito di Importanza Comunitaria del Fiume Alento in Provincia di Salerno – non incluso nell'EUAP
Oasi di Persano in Provincia di Salerno – non incluso nell'EUAP
Oasi Grotte del Bussento in Provincia di Salerno – non incluso nell'EUAP
Oasi Lago di Conza in Provincia di Avellino – non incluso nell'EUAP
Oasi Monte Accellica in Provincia di Salerno – non incluso nell'EUAP
Oasi Bosco Croce
Oasi Lago di Campolattaro
Oasi Le Mortine
Oasi Torre di Mare
Riserva marina di Punta Licosa
Parchi Nazionali
Il parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni è senza dubbio l'area protetta più importante e la più vasta di tutta la regione raggiungendo i 181.048 ettari. È formato da 80 comuni e 8 Comunità montane. Dal 1998, insieme con i siti archeologici di Poseidonia (la romana Paestum) e Elea (la romana Velia) e la certosa di Padula, il parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni è parte del patrimonio dell'Umanità sotto l'egida Unesco. Dal 1997 il parco è Riserva della biosfera e, dal 2010, è il primo parco nazionale italiano a diventare "Geoparco". Il più celebre ed interessante endemismo del parco è la Primula palinuri; nel piano montano si segnala inoltre la presenza dell'aquila (Aquila chrysaetos), il corvo imperiale (Corvus corax) e la lontra (Lutra lutra).
Il parco nazionale del Vesuvio é stato costituito il 5 giugno 1995 per il grande interesse geologico, biologico e storico. La sua sede è collocata nel comune di Ottaviano. È stato istituito principalmente per conservare i valori del territorio e dell'ambiente, per salvaguardare le specie animali e vegetali e promuovere attività di educazione ambientale, di formazione e di ricerca scientifica. Singolarità di questo Parco è rappresentata dalla notevole presenza di specie floristiche e faunistiche se si rapporta alla sua ridotta estensione: sono presenti ben 612 specie appartenenti al mondo vegetale e 227 specie (tra quelle studiate) appartenenti a quello animale. Il Vesuvio è un vulcano attivo in stato di quiescenza dal 1944. L’altezza è di 1281 metri. Quello che vediamo oggi è ciò che è rimasto dall’eruzione devastante del 79 d. C. che determinò il crollo del fianco sud orientale. Il Vesuvio è stato il primo vulcano studiato al mondo per merito della casa regnante dei Borbone. Nel 1841 per volontà di re Ferdinando II delle Due Sicilie la costruzione di un osservatorio che aveva sede alle pendici del vulcano.
Origine del nome
Il nome Vesuvio (in latino classico Vesuvius; attestato anche come Vesevius, Vesvius, Vesbius) è presumibilmente d'origine indoeuropea, da una base *aues, "illuminare" o *eus, "bruciare". Esistono tuttavia alcune etimologie popolari: dato che nell'antichità si riteneva che il Vesuvio fosse consacrato all'eroe semidio Ercole, e la città di Ercolano, alla sua base, prendeva da questi il nome, si credeva che anche il vulcano, seppur indirettamente traesse origine dal nome dell'eroe greco. Ercole infatti era il figlio che il dio Giove aveva avuto da Alcmena, regina di Tebe. Una tradizione popolare della fine del Seicento vorrebbe invece che la parola derivi dalla locuzione latina Vae suis! ("Guai ai suoi!"), giacché la maggior parte delle eruzioni sino ad allora accadute, avevano sempre preceduto o posticipato avvenimenti storici importanti, e quasi sempre carichi di disgrazie per Napoli o la Campania. Si ritiene che già 400.000 anni fa la zona del Vesuvio sia stata soggetta ad attività vulcanica, 39.000 anni fa avvenne un'eruzione davvero colossale detta Ignimbrite campana dove si emisero fino a 15 km³ di magma, tuttavia sembra che la montagna abbia iniziato a formarsi 30.000 anni fa, probabilmente come vulcano sottomarino nel Golfo di Napoli; emersa successivamente come isola, si unì alla terraferma per l'accumulo dei materiali eiettati. Tra i 19.000 anni fa e il 79 d. C. ebbero luogo una serie di violente eruzioni intercalate da periodi di quiete del vulcano. Tutte queste eruzioni, per la loro immane violenza (ma anche perché simili a quella che distrusse Pompei, Ercolano e Stabia) sono chiamate eruzioni Pliniane (dai nomi di Plinio il Vecchio e Plinio il Giovane, studiosi romani, quest'ultimo testimone dell'eruzione del 79 d. C.). Per fare un esempio, ciascuna delle eruzioni più violente avvenute dopo il 79, dette Sub-pliniane, sono potenti la metà di una regolare eruzione pliniana. Tra le eruzioni precedenti, in particolare si ricorda l'eruzione Avellino in quanto ha lasciato tracce fino all'omonima città campana.
Appendice termini
Abaco parte superiore del capitello di forma quadrangolare e sulla quale poggia direttamente l’architrave o si imposta l’arco.
Acanto pianta erbacea le cui foglie larghe e frastagliate hanno ispirato l’elemento decorativo da cui prende il nome.
Acrolito simulacro in legno, con elemento in avorio o in marmo per testa, braccia e piedi, che veniva addobbato con vesti e gioielli.
Acropoli area sacra sopraelevata rispetto alla città, a cui si accede attraverso un ingresso monumentale (i propilei) e sulla quale sono collocati i templi, le are sacrificali, gli ex voto.
Acrostico termine di senso compiuto composto dalle lettere iniziali di un dato numero di parole lette in successione.
Acroterio dal greco akrotérion “Estremità”, decorazione in pietra o terracotta posizionata su un tetto, di tempio o di casa, all’incrocio delle falde o agli angoli estremi.
Affresco tecnica pittorica parietale dove i colori vengono stesi sull’intonaco ancora bagnato(fresco) in modo tale che asciugandosi si produca il cosiddetto processo di carbonatazione: la calce contenuta nell’intonaco produce una pellicola pittorica estremamente resistente.
Agemina tecnica di intarsio degli oggetti in metallo, di origine orientale, che consiste nell’incidere un disegno sulla superficie con un bulino e nel successivo inserimento di fili o di lamine battute a freddo di rame, d’ottone d’argento o d’oro. La tecnica viene definita damaschinatura a partire dall’età bizantina e carolingia in riferimento ad armi e armature importate da Damasco in Siria ed ebbe un enorme diffusione in Europa nel XVI e XVII secolo.
Aggettante in architettura indica quegli elementi che sporgono dalla struttura dell’edificio, come cornici, bozze eccetera. Similmente, in pittura, esso designa qualsiasi oggetto o figura che sporge con un marcato effetto di profondità illusoria.
Agorà nella città greche, definisce la piazza principale di forma rettangolare e delimitata da portici(quella che i romani chiameranno foro) in cui aveva luogo l’assemblea dei cittadini e ai lati della quale si aprivano i principali edifici pubblici.
Alabastro pietra calcarea traslucida dal colore bianco e giallognolo.
Allogagione Incarico all’artista per la realizzazione di un’opera. Ha lo stesso significato di commissione o committenza.
Altare o Ara in età classica definisce per lo più una tavola in pietra, con scolatoi per il sangue, su cui venivano sacrificate le offerte, in età romana indica dei parallelepipedi in pietra, decorati con festoni di alloro, bucrani e patere (tazze per il sacrificio).
Altorilievo decorazione scultorea nella quale le figure emergono dal fondo in maniera pronunciata.
Alzato disegno rappresentante un edificio o parte di esso in una proiezione verticale.
Amuleto ornamento che si ritiene dotato di poteri magici contro le forze negative.
Anfiprostilo tempio classico caratterizzato da una fila di colonne collocate sia sulla fronte principale sia sulla fronte secondaria.
Anfiteatro in età romana definisce un gigantesco edificio di forma ellittica, con arena centrale circondata da anelli concentrici di gradinate per gli spettatori, destinato ai ludi gladiatori, alle naumachie (battaglie navali) e manifestazioni pubbliche di vario genere.
Anfora tipo di vaso (il termine significa “portare con due mani”) dotato di due anse o manici destinato a conservare liquidi (vino, Olio) o granaglie; viene realizzato in argilla, poi cotta, a forma ovoidale terminante a punta (per essere conficcato nella sabbia o fissato in rastrelliere nei magazzini o negli scafi delle navi). In età bizantina viene anche impiegata per costruire volte e cupole (in filari orizzontali via via per restringersi verso l’alto e poi ricoperti di intonaco) in modo da rendere più leggere le coperture.
Aniconico privo di immagini, prediligendo ornamenti geometrici o astratti.
Ansa manico ricurvo applicato ai vasi per agevolarne la presa.
Antefissa elemento architettonico decorativo in pietra o in terracotta posizionato, al livello delle grondaie, sulla testata delle travi del tetto o a conclusione dei canali terminali delle tegole, solitamente a forma di foglia di palma, di protone umana o di Gorgone.
Antis, in indica un tempio la cui cella è preceduta da un ingresso con due colonne e chiuso da due pareti laterali, dette ante; se il medesimo spazio è presente anche sul lato posteriore si parla di “tempio in doppio antis”
Antropomorfo essere un oggetto rappresentato in forma umana.
Apotropaico aggettivo che indica la funzione di protezione contro forze negative attribuito a simboli o ad amuleti.
Aptero privo di ali, solitamente indica un tempio privo di porticati laterali.
Architrave o epistilio elemento architettonico orizzontale (sostenuto da colonne o pilastri) inferiore della trabeazione, che comprende anche il fregio e la cornice. In alcuni casi può presentare una decorazione a dentelli (architrave dentellato) che rimandano simbolicamente alle gocce di pioggia che stillano dall’architrave (la pioggia essendo inviata da Zeus è sacra).
Archivolto definisce una fascia con modanatura liscia o decorata che corre lungo la fonte di un arco, definito anche ghiera.
Arco elemento architettonico strutturale a linea curva, poggiante su due piedritti (pilastri, sezioni murarie o colonne), costruito da conci in pietra a forma di cuneo. L’arco è costruito dall’imposta (la sezione di appoggio dei piedritti), dalla centina detta anche sottarco o intradosso, dall’estradosso (la superficie esterna), della chiave (pietra centrale che contrastando con una forza uguale ma contraria le spinte di caduta delle due parti laterali dell’arco, mantiene l’equilibrio statico della costruzione) e dalla corda (la distanza tra i due punti estremi della curva dell’arco detta anche luce?. Tra i numerosi tipi di arco si ricordano: a tutto sesto o a pieno centro (se è la metà esatta di un cerchio); a sesto ribassato (se la corda ha una misura inferiore rispetto alla circonferenza dell’arco; a parità di luce l’arco ed è utilizzato prevalentemente per la costruzione di ponti e acquedotti).
Arco trionfale arco inizialmente eretto inizialmente eretto in legno in occasione dei trionfi nel foro; successivamente venne realizzato in pietra per celebrare l’imperatore, ornato di iscrizioni, sculture e rilievi, e solitamente utilizzato come punto di arrivo o di partenza di una strada consolare.
Arcosolio nicchia scavata nella roccia o nel tufo (nelle catacombe) per deporvi il sarcofago o tumulare i cadaveri, sormontata da un arco e spesso decorata da pitture.
Area templare zona dedicata al culto di uno o più dei e occupata da edifici sacri.
Argilla roccia sedimentaria di grana fine, impermeabile, dalle qualità plasmabili usata nell’impasto per produrre oggetti in ceramica.
Armilla bracciale. In architettura designa i tre listelli circolari posti tra il fusto e l’echino nella colonna dorica.
Arriccio stato di intonaco fresco su cui si dipinge l’affresco.
Attico elemento architettonico terminale di una costruzione, a forma rettangolare ed evidenziato da cornici o rientranze, spesso occupato da un’iscrizione.
Avorio materiale ricavato dalle zanne degli elefanti o dei trichechi.
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Badalone grande struttura in legno leggio a due lati con due appoggi per i libri corali in chiesa.
Balaustra pararetto costruito da pilastrini o colonnette (detti balaustri) poggianti su uno zoccolo e coronati da una cornice detta cimasa.
Basalto roccia vulcanica con toni di colore dal grigio al nero.
Basilica edificio pubblico per attività giuridico – amministrative proprio della cultura romana a pianta rettangolare con suddivisioni interne ottenute attraverso file di colonne e chiuso da due esedre sui lati corti; gli ingressi erano posti sui lati lunghi. Dall’età costantiniana il termine indica i grandi edifici religiosi a pianta rettangolare, suddivisi da filari di colonne, ingresso su un lato corto e dall’altro terminazione ad abside semicircolare, utilizzato dalla comunità cristiana come luogo di culto.
Bassorilievo opposto all’altorilievo, decorazione scultorea nella quale emergono appena dal fondo.
Botte, volta a copertura formata da una fila di archi a tutto sesto combacianti che scarica il peso delle coperture sulle pareti laterali.
Biconico aggettivo che indica una forma costituita da due tronchi di cono uniti per le sasi, solitamente attribuito a vasi e a urne cinerarie.
Bitume composto vischioso nero originato in natura da una miscela di idrocarburi.
Bronzo lega di metallo creata dall’unione, in percentuale, di rame e di stagno.
Bucchero ceramica tipica della cultura etrusca ottenuta facendo cuocere l’argilla in fporni non areati, quindi in mancanza di ossigeno, da cui il colore nero.
Bucranio decorazione scultorea a forma di teschio di bovino risalente all’usanza primitiva di decorare aree sacre, soprattutto all’aperto, con veri crani animali.
Bugnato In architettura, tipo di rivestimento murario in cui le parti sporgenti dei blocchi di pietra vengono lasciate appena sgrossate, o in cui i giunti tra i blocchi vengono enfatizzati per dare risalto alla loro particolarità e alle loro dimensioni.
Bulino strumento di acciaio a forma di asticciola a sezione quadrata o trapezoidale terminate a becco utilizzato per incidere superfici metalliche.
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Calamo sottile canna palustre utilizzata per scrivere.
Calcare roccia sedimentaria ricca di carbonato di calcio dai colori tra il bianco, il giallo e il grigio.
Calcedonio pietra dura della verità del quarzo di colore bianco-azzurrognolo lavorata per creare ornamenti.
Calco impronta in negativo di una scultura o di un rilievo ottenuta o premendovi sopra argilla o colando cera o gesso, con lo scopo di ottenere, una volta che la forma si è solidificata, copie conformi del modello originale (definite anch’esse calchi). Le forme del calco possono definirsi perse (se può essere utilizzato una volta sola poiché per togliere la forma va rotto) oppure a tasselli componibili perché può essere riutilizzato numerose volte.
Camera Oscura la luce riflessa da un oggetto o da una veduta che l’artista desidera riprodurre passa attraverso un foro sul lato di una scatola chiusa e la sua immagine appare ribaltata sul lato opposto. All’interno della camera è collocato uno specchio a una angolazione che riflette l’immagine. L’artista può tracciare il contorno e registrare la composizione.
Campata spazio compreso tra strutture portanti e in se autonomo.
Campitura da campire, ovvero “riempire”, in pittura indica il riempimento con un solo colore di alcune parti del dipinto, per esempio tutto lo sfondo oppure l’abito di una figura.
Candelabra tipica decorazione classica solitamente su pilastri, lesene o pannelli, raffigurante un candelabro ad olio avvolti da racemi vegetali, volute, fogliami e con l’inserimento di piccoli animali, insetti, piccole figure, oggetti.
Canone regola, modulo, cornice formale. Sulla scorta dell’omonimo trattato di policleto, definisce il sistema di proporzioni e di rapporti armonici tra le parti e delle parti col tutto per la rappresentazione di un corpo umano, ma per traslato vale per qualsiasi opera d’arte e di architettura.
Capitello Rappresenta l’elemento superiore del sostegno verticale degli ordini architettonici. Ha funzione decorativa composto da due elementi, abaco ed echino.
Capriata struttura lignea triangolare, formata da tre travi disposte a triangolo isoscele: quella orizzontale (dette puntoni e riunite al centro) sostengono le falde inclinate del tetto, incastrandosi sulle teste della catena. La sezione di trave collocata in verticale al centro della catena, e sulla quale poggiano i due puntoni obliqui, si definisce monaco.
Cartiglio rettangolo dai lati corti arrotondati entro il quale veniva inciso il nome del faraone, si ritrova nelle iscrizioni egizie a partire dalla IV dinastia.
Cassettoni o lacunari decorazione per soffitti costruita da un elemento geometrico, quadrati o esagoni, incavato e ripetuto per tutta la superficie della copertura.
Castrum accampamento militare romano di forma quadrata, o più raramente circolare, attraversato da un reticolo ortogonale di strade (che si incontrano formando angoli retti) detti cardini ( il cardo va da nord a sud) e decumani (il decumanus va da est ad ovest); al termine del decumano si collocano il foro e il pretorio (antica collocazione della tenda del comandante e sede dell’amministrazione della giustizia) sullo schema del castrun nascono le città romane.
Catafelaco o cataletto apparato funebre in legno su cui si esponeva la bara o direttamente il cadavere durante i riti di sepoltura.
Cattedra seggio in legno, talvolta ricoperto di lastre d’avorio intagliato, o in marmo destinato al vescovo durante le liturgie e che dà il nome di cattedrale alla chiesa identificata come sede episcopale
Caulicoli nel capitello corinzio, le volute più alte e rivolte verso l’interno.
Cavea gradinata per far sedere gli spettatori all’interno del teatro o dell’anfiteatro.
Cella o naòs ambiente quadrato o rettangolare, all’interno del tempio dove viene custodita la statua della divinità
Cenotafio monumento funebre privo del corpo della persona cui è dedicato
Centina armatura di legno semicircolare o ellittica o ogivale necessaria per sostenere le sezioni dell’arco fino al posizionamento della chiave di volta.
Cera persa detta anche tecnica della fusione a cera persa: modalità per produrre statue e oggetti in metallo fuso (oro,argento,rame, a soprattutto bronzo) che consiste nel colare il metallo in uno stamo formato da due calchi in argilla modellata tar i quali è steso uno strato di cera dello spessore che si desidera abbia poi l’oggetto finito. A contatto con il metallo fuso la cera si scioglie (mentre i due calchi cuociono diventando terracotta) e fuoriesce da fori appositamente predisposti. Una volta raffreddata la fusione si rompe il primo stampo e si svuota, sbriciolando, il calco interno, infine fori e sbavature vengono saldati e la superficie della statua o dell’oggetto viene rifinita a bulino e lucidata.
Ceramica impasto di materiale plasmabile cotto usato per la fabbricazione di vasi.
Cesello definisce la tecnica di intarsio sul metallo ma anche lo strumento dell’acciaio, che termina a testa piana o a sfera o a punta o a pettine, per incidere la superficie metallica e per rifinire i dettagli della opere fuse in bronzo o altre leghe metalliche.
Chiaroscuro il passaggio tra il chiaro, dato dalla luce o dai colori chiari, e lo scuro, dato dalle ombre o dai colori scuri, per creare volume.
Chiasmo disposizione di elementi incrociati in maniera inversa, dal nome della lettera greca “chi” il cui simbolo è X.
Chitone abito greco costituito da un telo di lino rettangolare in un unico pezzo.
Ciclopico da Ciclope, essere mitico dalle dimensioni enormi dotato di un solo occhio, aggettivo che indica un oggetto di enormi dimensioni, solitamente collegato all’architettura:ad esempio “mura ciclopiche”
Cista contenitore di forma cilindrica utilizzato per riporre abiti o cosmetici, solitamente in vimini o in ceramica, ma realizzato anche in bronzo per le classi aristocratiche.
Colombina tecnica della colombina: modellazione dell’impasto di ceramica consistente nel congiungere rotolini di argilla di diversa lunghezza e diametro per creare il corpo e il collo di un vaso; successivamente i rotoli vengono appiattiti e lisciati a mano o con spatole per creare uno spessore omogeneo.
Colonna elemento architettonico verticale, strutturale, a pianta circolare, ricavato inizialmente da fusti d’albero, da cui la forma, e successivamente realizzato in pietra o mattoni e cemento; può essere monolitica oppure realizzata in rocchi (sezioni del fusto) legati tra loro da premi in pimbo e bronzo.
Colorismo ricerca cromatica ottenuta non solo applicando pigmenti, ma giocando con i toni del colore e la loro capacità di attrarre la luce o ancora differenziando i materiali.
Commesso Marmoreo commesso Tecnica di lavorazione di marmi e pietre dure consistente nell’esecuzione di rappresentazioni o motivi decorativi mediante composizione di sottili lastre di colore, dimensioni e forme diverse, fissate su un piano
Compendiaria, pittura definizione data da Plinio il vecchio di una pittura riassuntiva tracciata velocemente, che abbozza invece di descrivere dettagliatamente.
Composizione euritmica disposizione di elementi in maniera proporzionata e armonica, da euritmia (dal greci eu “bene” e Rythmos “proporzione”).
Composizione paratattica disposizione di elementi coordinati per semplice accostamento.
Concio pietra lavorata, solitamente a forma di parallelepipedo, per essere utilizzate nelle costruzioni.
Confessione piccola cella posta sotto l’altare nelle chiese paleocristiane per conservarvi le reliquie.
Confraternita associazione religiosa di laici, solitamente devoti a un santo, alla Vergine o all’eucarestia, che si riunivano per pregare e promuovere opere caritatevoli presso l’altare di una chiesa o la propria sede. Le opere caritatevoli potevano essere a beneficio degli stessi membri della confraternita o dei poveri; l’affiliazione ad alcune di queste conferiva prestigio ed influenza.
Corinzio ordine architettonico greco caratterizzato dal capitello della colonna decorato da foglie di acanto.
Corniola pietra dura della varietà di calcedonio dal colore rosso lavorata per realizzare ornamenti.
Coroplastica arte e tecnica della lavorazione della terracotta per la creazione di sculture.
Cortina muraria sezione di muro tra due torri o paramento liscio di mattoni o pietre.
Cosmogonia branca della filosofia antica che tentava di spiegare l’origine dell’universo.
Cosmologia scienza che studia le leggi fisiche che regolano l’universo.
Cremazione rito funerario caratterizzato dall’usanza di bruciare i defunti e raccogliere le ceneri in appositi contenitori.
Crepidoma basamento a gradini dei templi greci.
Cretula massa di creta grande quanto un pugno, tipica della civiltà mesopotamiche, usate per chiudere i contenitori o le porte dei magazzini su cui venivano impressi i sigilli reali.
Criptoportico portico parzialmente scavato nel terreno, ribassato rispetto al piano di campagna e quindi più riparato e fresco rispetto agli ambienti superiori dal greco Kryptòs “nascosto”.
Crisolelefantino costituito da oto, dal greco chrysos, e avorio.
Cromlech dal gallese crom “ricurvo” elech “pietra”, cerchi formati da monoliti che solitamente circondano tumuli funerari.
Cubicolo vano rettangolare che indica le camere da letto nella domus romana, ma anche lo spazio che accoglieva il sarcofago nella catacombe.
Cuneiforme tipo di scrittura attestata nei territori del vicino Oriente antico, le cui lettere erano formate da piccoli tratti incisi con lo stilo dalla caratteristica forma a cuneo (da cui il nome) su pani di argilla che poi veniva cotta.
Cupola elemento architettonico di copertura a sezione curvilinea impostata sull’arco e quindi costruita da consi cuneiformi accostati; è detta “Falsa cupola” o “pseudo cupola” quando è formata da filari di pietra concentrici non autoportanti e per questo bisognosi di pilastri centrali di sostegno oppure di contrappesi esterni.
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Damnatio memoriae (in lingua latina che significa letteralmente condanna della memoria) tutto ciò che ricordava un imperatore veniva distrutto.
Decorazione fittile ornamento architettonico realizzato in terracotta, spesso smaltata.
Dentellatura decorazione architettonica solitamente posizionata sotto cornici a architravi costituita da una serie regolare di sporgenze a sezione rettangolare dette dentelli per la forma che ricorda un dente.
Diorite rocca vulcanica cristallina di colore scuro.
Dittico oggetto formato da due tavolette in legno o in avorio intagliato collegate da due cerniere metalliche lungo uno dei lati maggiori;all’interno era spalmato un sottile strato di cera sul quale si potevano prendere appunti utilizzando uno stilo.
Diptero edificio circondato da due file di colonne.
Dolmen tomba preistorica formata da due lastre di pietra posizionate in verticale unite da una terza lastra di copertura.
Doppio in antis vedi antis.
Dorico ordine architettonico greco caratterizzato da una colonna poggiante direttamente sul basamento e dorata di un capitello con echino circolare e abaco quadrangolare.
Dromos corridoio incassato tra due muri convergenti utilizzato per l’accesso alle tombe a Tholos o ad ambienti sotterranei.
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Echino parte inferiore del capitello a pianta circolare da cui parte il fusto della colonna; nell’ordine ionico è decorato da ovoli. Il nome deriva dal termine greco che indica il riccio di mare.
Encarpo motivo decorativo utilizzato nei fregi costituito da un festone di foglie, solitamente di alloro e frutti, legati da nastri.
Encausto tecnica pittorica che consisteva nell’uso di mescolare i colori alla cera calda, dal greco encaustòs “bruciato”.
Entasi rigonfiamento del fusto della colonna a circa 1/3 della base con la funzione di correggere, visivamente, l’assottigliamento determinato dalla distorsione ottica creata dalla distanza.
Esedra ambiente di forma semicircolare e scoperto spesso scandito da una fila di colonne o da un porticato, collegato a un vano o spazio quadrangolare di cui occupa uno dei lati per creare un effetto di espansione spaziale.
Ex voto offerta agli dei per chiedere un favore o come ringraziamento per averlo ricevuto.
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Falda superficie inclinata che costituisce il tetto.
Falera piastra di metallo circolare spesso decorata che ornava abiti o bardature dei cavalli.
Fibula ornamento dotato di ago e molla atto a unire lembi di stoffa per creare abiti.
Filigrana decorazione a filigrana. Tipo di lavorazione di metalli preziosi (oro ed argento) costituita da sottilissimi fili di metallo intrecciati.
Filologia disciplina che studia l’origine di una lingua e si propone di ricostruire la forma originaria di un testo letterario.
Fittile aggettivo per indicare oggetti fatti di argilla.
Fondo il colore base steso sulla tela o sulla carta. Questo procedimento è importante per la resa del colore perché se il fondo è scuro il colore apparirà più opaco, mentre se è chiaro apparirà più luminoso. La stessa preparazione del supporto pittorico viene detta anche imprimitura o mestica.
Fornice dal latino fornix (“volta”), l’apertura di un arco monumentale coperta solitamente da una volta a botte.
Fregio elemento architettonico posto al di sopra dell’architrave e decorato con forme geometriche, vegetali e figurate, necessario per nascondere l’orditura lignea del tetto dei templi.
Frontone elemento architettonico a forma triangolare o ad arco, posizionato o ad arco, posizionato sulla facciata dei templi o sopra le finestre.
Fusto è la parte più importante degli elementi portanti degli ordini architettonici. Il fusto insieme al sovrastante Capitello compone la Colonna.
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Geroglifico termine (dal greco “segno sacro inciso”) usato per la prima volta da Clemente Alessandrino (150-215 d.C.) designa i simboli che gli Egizi usano per scrivere; inizialmente avevano valore pittografico, ovvero la figura rappresentava il concetto che si voleva esprimere, poi ebbero valore fonetico. La decifrazione è dovuta al francese Jean-Francois Champollion grazie al ritrovamento nel 1799 della cosiddetta “stele di Rosetta”, ovvero un documento promulgato da Tolomeo V Epifane scritto in greco, demotico e geroglifico.
Girale elemento decorativo vegetale a forma di spirale.
Glittica lavorazione delle pietre dure e preziose attraverso l’intaglio e l’incisione.
Graffito tecnica del graffito lavorazione che consiste nell’incidere con uno strumento una superficie dura, di pietra, di ceramica, di bronzo o anche l’intonaco di una parete per realizzare una decorazione.
Granulazione decorazione a granulazione tipo di lavorazione di metalli preziosi, soprattutto oro, consistente nel creare disegni con minuscoli grani.
Grifone animale favoloso con testa d’aquila, ali e corpo leonino.
Guglia è un elemento architettonico decorativo a forma piramidale, alta e sottile, usata come ornamento nelle coperture delle chiese, campanili, torri
Gutta decorazione scultorea a forma di goccia d’acqua.
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Himàtion mantello lungo usato dalle donne greche per coprire testa e spalle.
Horror vacui locuzione latina il cui significato letterale è “paura del vuoto” e con cui si definisce la volontà di riempire completamente l’intera superficie di un’opera con dei particolari finemente dettagliati.
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Iconografia studio delle immagini nel loro significato e nell’evoluzione storica.
Iconologia termine più esteso di iconografia, si riferisce allo studio dei simboli e dell’evoluzione del loro significato nelle arti visive.
Imbalsamazione tecnica che permette di conservare il corpo del defunto che consiste nello svuotare il cadavere degli organi, quindi immergerlo in un bagno di Sali di natron, poi avvolgerlo in numerosi strato di bende inumidite di unguenti balsamici.
Industria litica nella preistoria indica il complesso di strumento creati lavorando la pietra, soprattutto la selce.
Ingobbio impasto argilloso molto liquido con sui si rivestono i vasi prima della cottura; con l’aggiunta di ossidi metallici si otterranno colorazioni diverse sulla superficie della ceramica.
Intercolumnio rito funerario consistente nel seppellire il corpo integro all’interno di sarcofagi.
Ionico ordine architettonico greco caratterizzato da una colonna molto slanciata, poggiante su una base e con capitello arricchito da un elemento a volute tra l’abaco e l’echino.
Ipostila dal greco hypo “sotto” e stylos “colonna”, sala la cui copertura è sorretta da numerose colonne.
Isodoma, tecnica erezione di un muro attraverso la sovrapposizione di filari di pietra in blocchi regolari a parallelepipedo facendo in modo che la giuntura tra i due blocchi si trovi sull’asse centrale del blocco sottostante.
Iugero Unità di misura, era idealmente concepito come un rettangolo di 12×24 pertiche di lato, ovvero come l'unione di due actus quadrati (essendo l'actus pari a 12 pertiche lineari). Corrispondeva quindi a 288 scrupula ovvero pertiche quadrate (o tavole, secondo la denominazione assunta nel Medioevo), cioè 28.800 piedi quadrati (essendo la pertica pari a dieci piedi e la pertica quadra uguale a 100 piedi quadri).
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Kalasiris abito di lino plissettato utilizzato dagli antichi Egizi.
Kardiophylax lastra circolare di metallo, rame o bronzo, ricoperta internamente da cuoio utilizzata dalle popolazioni italiche per proteggere il cuore durante le battaglie.
Kohl polvere cosmetica utilizzata per sottolineare il contorno occhi, ricavata da pietre come la malachite e lo zolfo, serviva a proteggere gli occhi dalla luce del sole e dalle infezioni.
Kore, pl. Korai statua di giovane donna abbigliata e in atto di portare un’offerta al tempio, utilizzate con la funzione di ex voto.
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Lacunari cassettoni
Lapislazzuli roccia composta da minerali di lazurite, pirite e calcite, dal caratteristico colore azzurro; per la sua rarità è considerata una pietra preziosa.
Lesena elemento architettonico verticale di basso spessore e a sezione rettangolare addossato alla parete con funzione decorativa.
Longitudinale aggettivo che indica lo sviluppo nel senso della lunghezza.
Lorica corazza di cuoio ricoperta da lastre di metallo, bronzo per quelle di uso pratico, d’oro per le parate militari.
Lucidatura a stecca tecnica della lucidatura a stecca lavorazione per la pietra e per la ceramica attraverso lo sfregamento con una stecca d’osso che rendeva la superficie dell’oggetto molto liscia e lucida.
Lumeggiatura tecnica pittorica che consiste nell’applicazione di tocchi o filamenti di colore vivo, di bianco o d’oro sui diversi campi cromatici.
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Maiolica calcare finissimo di colore bianco che mischiato a d’argilla viene utilizzato per creare ceramiche di particolare eleganza.
Maniera equivalente di stile.
Martellinatura tecnica della martellinatura: lavorazione applicata a metalli, soprattutto rame e bronzo, o pietre utilizzata pe rendere la superficie dell’oggetto rugosa o granulosa.
Martyrion edificio sacro costruito sopra la tomba di un martire, a pianta circolare o a croce greca, cioè con quattro bracci uguali innestati su un quadrato.
Mastaba tomba egizia di pietre o mattoni essiccati a forma di tronco di piramide.
Meandro decorazione a linea curva o geometrica che rappresenta un labirinto.
Megalografia dal greco megàloi “grandi disegni”, pitture a soggetto figurato rappresentanti episodi dei miti o dei poemi eroici; non è chiaro se la grandezza è da riferirsi al soggetto o alle dimensioni delle figure.
Megalitico dal greco mègas “grande” e lithos “pietra”, aggettivo che indica le dimensioni enormi dell’architettura in pietra dell’età preistorica.
Megaron elemento architettonico decorativo a lastra quadrangolare liscia o decorata con figure in legno, terracotta o pietra, che tamponava le parti vuole tra una trave e l’altra subito sotto il tetto.
Metopa è un elemento architettonico di fregio dell’ordine dorico dell’architrave greca e romana.
Mitologia studio del complesso di racconti che hanno per protagonisti dei ed eroi.
MItreo santuario solitamente ipogeo (sotterraneo) dedicato al dio persiano Mitra con file di banchi di pietra lunghi tre lati e un altare collocato al centro.
Modanatura listello sagomato in una cornice.
Modulo unità di misura stabilita per convenzione in base a criteri matematici, estetici, tecnici come rapporto costante tra le varie parti di un organismo architettonico.
Monogramma lettere intrecciate o sovrapposte usate come sigla di un nome.
Monolite blocco di pietra unico.
Monoptero edificio a pianta circolare o poligonale circondato da un solo filare di colonne.
Monoxile ricavato da un unico tronco d’albero.
Mosaico decorazione che consiste nel creare un disegno accostando e fissando al fondo piccole tessere a parallelepipedo di diverso colore e materiale (pietre vetro, ceramiche).
Mummificazione procedimento naturale o artificiale che permette di conservare il corpo dei defunti evitandone la decomposizione (vedi imbalsamazione).
Musivo aggettivo che indica una decorazione a mosaico.
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Naòs cella
Narcete portico collocato in facciata nelle basiliche paleocristiane o bizantine. Solitamente utilizzato dai catecumeni (coloro che pur avendo abbracciato la fede cristiana non sono ancora stati battezzati) per poter seguire le cerimonie liturgiche.
Natron termine latino che indica la soda, il carbonato di sodio, che in grani veniva usato nel processo di imbalsamazione.
Navata spazio interno delimitato da colonne o pilastri; il suo nome è dovuto al fatto che per la sua forma stretta ed allungata era assimilato alle navi.
Necropoli dal greco necròs “morto” e polis “città”, la città dei morti, un complesso di tombe.
Nicchia cavità ricavata nello spessore di una parete, spesso a pianta semicircolare.
Niello tecnica a niello: lavorazione applicata su metalli, oro e argento soprattutto, per creare una decorazione a incisione riempita di pasta scura, il niello (da nigellus ovvero nero in latino), a base di piombo, argento rame, borace e zolfo.
Nike (níːkɛː) è un personaggio della mitologia greca, personificazione della vittoria, che è per l'appunto la traduzione del termine greco νίκη: viene raffigurata come una donna con le ali, fatto da cui le derivano l'appellativo di Vittoria Alata.
Nuraghe termine sardo per indicare i complessi a torre troncoconica singola o plurima costituiti con pietre prevalentemente a secco risalenti all’età del bronzo e del ferro sul territorio sardo.
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Ocra argilla di colore giallo o rosso usata come colorante.
Ofitica simbolo di trinità. La definizione deriva dal greco antico òphis = serpente
Olio tecnica pittorica che utilizza pigmenti in polvere mescolati con basi inerti ed oli. L’olio richiede ore se non giorni per asciugare: ciò rende possibile stendere un colore e poi, mentre questo è ancora umido lavorare con un secondo colore di fianco al primo e mescolarli insieme. Con questa tecnica è possibile produrre una grande varietà di effetti cromatici.
Opistodomo nel tempio è il portico sul lato posteriore della cella.
Opus termine latino che significa “opera” viene utilizzato in architettura per indicare sistemi per rivestire muri, pareti, pavimenti. L’opus può essere incertum (piccoli sasi appena sbozzati e uniti con malta); latericium (muratura costruita da mattoni); mixtum (strati alternati di pietre e dimattoni); quadratum (bllocchi di pietra parallelepipedi); reticulatum (bozze di pietre o mattoni disposti nella malta in modod da formare un reticolo costituito da diagonali); siliceum (pietre tagliate in forme poligonali e sovrapposte<<9; sectile (incrostazione di marmi policromi).
Ossidiana roccia vulcanica dalla consistenza dura e vetrosa di colore marrone o nero estremamente tagliente.
Ossido di ferro elemento chimico composto da ossigeno e ferro utilizzato per creare pigmenti rossi, gialli e verdi.
Ossido di manganese elemento chimico composto da ossigeno e manganese per creare pigmenti bruni o neri.
Ortogonale in prospettiva, retta perpendicolare al piano. Le ortogonali sembrano convergere verso il punto di fuga.
Ovolo decorazione architettonica e forma d’uovo.
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Pala d’Altare dipinto di carattere religioso, costruito dapprima di una tavola principale, poi dopo il 1440 circa da un polittico.
Papiro pianta palustre che lavorata a strisce accostate e essiccate veniva utilizzata in fogli per la scrittura.
Parasta elemento architettonico con funzione portante e spessore basso e sezione rettangolare addossato alla parete e completato da capitello e base
Pàthos termine greco che significa “emozione”.
Pennacchio o scuffia è un elemento di raccordo fra l'imposta di una cupola (circolare, poligonale o ellittica) e la struttura ad essa sottostante.
Peristilio si indica un giro per lo più ininterrotto di colonne che congono uno spazio delimitato.
Percussione tecnica della percussione modalità di lavorazione della pietra attuata colpendo un cuneo con un percussore per creare schegge da cui ricavare strumenti.
Periptero caratteristica di un edificio circondato da una fila di colonne.
Peristasi il colonnato che circonda il tempo greco.
Peristillio nella domus romana indica il cortile interni, con porticato a colonne sul quale si affacciano diversi ambienti.
Pianta proiezione grafica sul piano della forma di un edificio, di un insediamento odi una città; le piante più note: centrale (quando i punti del perimetro sono equidistanti dal centro di solito rotonda, poligonale o quadrata) longitudinale (quando lo sviluppo dell’edificio è nel senso della lunghezza) a croce greca (vano centrale con quattro bracci uguali), a croce latina (quando il braccio trasversale è più corto di quello longitudinale), absidata (quando un lato si presenta semicircolare, cioè a forma di abside).
Pigmento sostanza colorata di origine animale, vegetale o minerale che, dispersa in un legante (albume, acqua di calce, olio), trova impiego nella pittura.
Pilastro elemento architettonico strutturale verticale a pianta quadrata, rettangolare, circolare o poligonale in pietra o mattoni e cemento.
Pinax, pl. Pinakes termine greco che significa “quadro”.
Pithos grande giara in terracotta per immagazzinare granaglie e olio, dotata di anelli in cui far scorrere delle corde per sollevarla.
Pittura e figure nere e rosse decorazione geometrica e figurata applicata alla ceramica utilizzando il fondo, rosso dopo la cottura, e un impasto, impropriamente detto vernice, che in cottura diventa nero. Si otteneva ornando la superficie dei vasi con un impasto molto liquida di argilla depurata; con la cottura a tre fasi in cui il forno veniva aerato o meno, l’impasto assumeva il colore nero. Inizialmente si preferì utilizzare l’impasto per creare la decorazione (che poi veniva incisa con un punteruolo per definire i dettagli) risparmiando il fondo che rimaneva rosso, in seguito la tecnica venne invertita per dare iù volume alle figure, i cui dettagli venivano dipinti.
Pittura vascolare decorazione per immagini applicata alla superficie dei vasi.
Plastico, plasticità , Plasticismo termini utilizzati per indicare una materia a rilievo ottenuta plasmando materiale scultoreo. In ambito pittorico indicano un effetto visivo ottenuto con un sapiente uso del chiaroscuro che restituisce tridimensionalità alle figure e agli elementi bidimensionali.
Plinto parte inferiore della base della colonna ionica a pianta quadrangolare e in età corinzia voluminoso parallelepipedo che serviva a rendere più alta la colonna.
Policroma molteplicità di colori.
Politeismo forma culturale caratterizzata dalle venerazioni di molti dei.
Polittico struttura a più pannelli, di solito realizzata come pala d’altare, in cui sono sistemati più dipinti nella stessa struttura.
Politura tecnica della politura lavorazione per mezzo di sabbie utilizzata per rendere la superficie della pietra scolpita levigata, liscia e lucida.
Porpora sostanza colorante rossa estratta da un mollusco marino, in età romana divenne il simbolo del potere imperiale.
Pozzolana sabbia vulcanica che unita all’acqua costituisce il cemento. Il termine deriva dal nome della città di Pozzuoli (Puteoli) sulla costa campana, ricca di questo materiale.
Pressione tecnica della pressione modalità di lavorazione della pietra attuata premendo pietra su pietra per creare schegge da cui ricavare strumenti.
Prònaos portico d’ingresso alla cella del tempio
Propilei Edificio monumentale situato all’ingresso delle acropoli greche.
Prospettiva dal latino perspicere, “vedere attraverso”. Tecnica illusionistica consistente nella creazione di immagini tridimensionali su una superficie piana.
Prostilo caratteristica di un edificio con portico a colonne sulla facciata anteriore; se il portico è presente anche sulla facciata posteriore si dice anfiprostilo.
Protome testa umana o animale utilizzata come elemento decorativo su arredi e oggetti, ma come doccione per scaricare l’acqua piovana dalle grondaie.
Pseudo peripterio caratteristica di un edificio circondato da colonne i cui intercolumni laterali e posteriore sono stati chiusi da una parente piena.
Punto di fuga nella prospettiva lineare il punto in cui convengono le ortogonali.
Pulvino elemento architettonico del capitello ionico situato tra abaco ed achino e caratterizzato da una doppia terminazione a volute.
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Quadriga carro a due ruote condotto da quattro cavalli.
Quarzite roccia dura e compatta costituita da quarzo, ovvero biossido di silicio, dai diversi colori.
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Raggiato dotato di raggi
Rastrematura diminuzione graduale dal basso del diametro della colonna.
Rocchio elemento architettonico a forma cilindrica di cui è costituito il fusto della colonna.
Rudentato aggettivo che indica una particolare decorazione a sezione semicircolare applicata alle scanalature della colonna e sempre nel terzo inferiore del fusto, con lo scopo di dare visivamente più compattezza e stabilità agli elementi di sostegno.
Rython contenitore a coppa allungata(in ceramica, ma anche in oro, argento, marmo, steatite) utilizzato per bere o versare liquidi durante le cerimonie religiose.
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Sacello area sacra dotata di altare spesso all’aperto.
Sancta Santorum locuzione latina che significa “le cose sante tra le sante”; indica l’ambiente più sacro all’interno del tempio, dove solo i sacerdoti e le alte cariche civili possono accedere.
Sarcofago contenitore in legno o pietra per seppellire i defunti.
Sbalzo decorazione a sbalzo: tecnica a freddo applicata sul rovescio per decorare i metalli sfruttando lo sbalzo di ritorno di un punteruolo a doppia punta colpito da un martello su una delle due estremità.
Sbozzare dare una forma.
Scanalatura incavo lungo e stretto a sezione curvilinea che decora il fusto della colonna.
Scorcio rappresentazione prospettica di una figura o di un oggetto a fini illusionistici. Era considerata una delle maggiori difficoltà dell’arte pittorica.
Selce roccia sedimentaria dal composto duro ma omogeneo, facile alla lavorazione;in età preistorica è la materia prima per la creazione di strumenti.
Serdab in lingua egizia, ambiente completamente chiuso all’interno del quale veniva posizionata la statua del faraone illuminata solo da due fori sul conflitto per vedere le stelle.
Serliana apertura (porta o finestra) a tre luci composta da un arco e da due architravi laterali e dall’alternanza pilastro/colonna/colonna/pilastro; tipica dell’architettura dell’impero romano orientale, prende nome da Sebastiano Serlio che per primo la codificò durante il Rinascimento.
Sesto a tutto sesto caratteristica della curva dell’arco; l’espressione deriva dal fatto che l’apertura del compasso per tracciare la circonferenza su cui si imposta l’arco è pari al lato dell’esagono inscritto in essa, quindi un sesto.
Sezione aurea uno dei moduli proporzionali più adottati; è la parte di un dato segmento che risulti la media proporzionale tra le misure dell’intero segmento e la parte rimanente.
Sicomoro albero africano di grandi dimensioni, sacro alla dea Iside, utilizzato per realizzare sarcofagi e statue.
Sigillo oggetto prezioso, dalla superficie incisa, atto a imprimere su materiale plasmabile un’immagine e delle iscrizioni; per estensione, definisce l’immagine stessa.
Sima elemento architettonico a coronamento del timpano utilizzato come canale per l’acqua piovana proveniente dagli spioventi del tetto.
Situla contenitore in metallo di forma troncoconica usato solitamente come urna cineraria.
Sottosquadro nei rilievi è lo scavo praticato sotto forms affinchè la linea d’ombra che si crea nel solco dia maggiore rilievo alla parte illuminata della figura.
Spezzatura in pittura e nella tecnica ad olio, a partire dal 400, consiste nel lasciar visibili sulla tela i colpi di pennello. La stessa materia pittorica diviene così fonte di piacere per i collezionisti e gli amanti dell’arte. Il termine fu coniato dal critico veneziano Ludovico Dolce per indicare il modo di lavorare dei pittori del suo tempo
Spiovente superficie inclinata utilizzata come copertura, se sono due accostate si parla di “tetto a doppio spiovente”.
Spirale linea che compie infiniti giri concentrici.
Stampo utilizzato nella tecnica della toreutica, consiste in una matrice d’acciaio lavorata con la quale è possibile sbalzare una lastra metallica.
Steatite minerale di talco dal colore grigio verde facilmente lavorabile.
Steatopigia dal greco Stèar “grasso”, aggettivo che indica seni, fianchi e glutei ingrossati a dismisura come simbolo di fertilità.
Stele lastra commemorativa in pietra o marmo collocata solitamente su una sepoltura o in uno spazio sacro, come ex-voto, o a segnalare un confine, può essere ornata di bassorilievi figurati o ornamentali e da iscrizioni.
Stereometria stereometrico dal greco stereòs “solido£” e metria “misurazione”, geometria solida, quindi a tre dimensioni;l’aggettivo indica volume.
Stilobate basamento su cui poggia la colonna, per estensione tutta la base su cui poggia il colonnato.
Stipite definisce il piedritto di una porta o di una finestra collegato alla parte muraria; è il sostegno di un architrave o di un arco.
Stoà termine greco che indica un portico colonnato solitamente a due piani.
Stralucido decorazione a stralucido tecnica decorativa per ceramica effettuata prima della cottura utilizzando uno stecco d’osso per creare motivi geometrici lisciando la superficie dal vaso, il risultato è una decorazione lucida che sembra smalto.
Strigilatura ornato formato da scanalature con profilo a doppia curva, ricavato dallo stigile, strumento bronzeo a forma si “S” impiegato dagli atleti per detergersi il grasso e il sudore dalla pelle dopo le gare, utilizzato sulla fronte dei sarcofagi in età imperiale e paleocristiana.
Strombatura ai lati di porte o di finestre indica la svasatura a piano inclinato dello spessore del muro con lo scopo di granulare la luce esterna.
Strombatura ai lati di porte o di finestre indica la svasatura a piano inclinato dello spessore del muro con lo scopo di graduare la luce esterna.
Stucco impasto di calce, gesso cotto, argilla, pozzolana, polvere di marmo e acqua, plasmabile, duro dopo l’asciugatura, utilizzato per impermeabilizzare le pareti oppure in rilievo come decorazione.
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Tamburo struttura architettonica cilindrica o poligonale che sostiene la cupola.
Tarsia incastro o commettitura di lastre di legni, pietre , marmi, metalli pregiati, tagliati secondo un disegno per formare una composizione decorativa.
Tempera tecnica pittorica consistente colonnato solitamente a due piani.
Terracotta impasto di argilla ricco di impurità come sabbia e terra, utilizzato per plasmare oggetti, vasi, statue e cotto in appositi forni.
Terracotta smaltata ceramica invetriata: oggetti di ceramica a cui è stato applicato a pennello o a immersione uno strato di una miscela liquida di minerali che grazie alla cottura assume in diverse colorazioni a seconda del minerale utilizzato; l’aggiunta di sabbia di silice nella miscela dona alla copertura la lucentezza del vetro.
Tesoro tempietto in antis collocato nell’area dei santuari panellenici che serviva per conservarvi ex voto, doni preziosi e l’oro di stato delle singole pòleis greche.
Thòlos termine greco che significa “cupola”, per estensione indica tutti gli edifici a pianta circolare, tombe o templi.
Timpano spazio architettonico di facciata di fora triangolare limitato da cornice.
Toreutica tecnica di scultura a sbalzo o a cesello o ad agemina o a niello sui metalli preziosi.
Tornio strumento a rotazione manuale per la realizzazione di vasi.
Toro parte superiore e inferiore del basamento di un elemento architettonico verticale costituito da una fascia sporgente solitamente a sezione convessa, a volte utilizzata anche per decorare il capitello.
Totem il termine, che deriva dalla parola odoodem “egli appartiene alla mia parantela” nella lingua degli indiani del Nord America Oijbiwa della famiglia Algonchina, designa un essere naturale, di solito un animale, oggetto di venerazione come capostipite di un clan. Per estensione il totem indica un oggetto simbolo per un popolo, per una nazione, per un gruppo.
Trabeazione il complesso di elementi orizzontale (architrave, fregio,cornice), solitamente in pietra, osto sopra le strutture portanti verticali, necessario per sostenere l’orditura delle travi che costituiscono il tetto di un edificio.
Transetto braccio trasversale al corpo dell’edificio, presente nelle chiese cristiane in modo da restituire alla costruzione una pianta a croce.
Tratteggio nel disegno e nella pittura, tecnica di ombreggiatura consistente in una serie di linee parallele tracciate con la penna o con il pennello.
Tribuna nella basilica romana è il luogo riservato al tribunale, mentre nella chiesa paleocristiana è la parte di spazio dietro l’altare maggiore, riservata al vescovo e al clero, arricchita di scranni.
Triclinio complesso di tre letti posizionati a ferro di cavallo su cui sdraiarsi durante il pranzo nelle case aristocratiche e, per estensione, l’ambiente dove si svolgevano i banchetti.
Triglifo elemento arcitettonico ornamentale a lastra quadrangolare decorato da tre scanalature verticali che copriva la testa delle travi subito sotto il tetto.
Trochilo parte centrale del basamento di un elemento architettonico verticale costituito da una fascia rientrante a sezione concava.
Tumulo monticello di terra e/o pietre a copertura solitamente di una tomba; nelle versioni più ricche il tumulo di terra poggiava su un basamento urario.
Tuscanico ordine architettonico romano di origine etrusca. La colonna sorge da un plinto, presenta un doppio toro, un fusto cilindrico liscio, e un capitello più basso e rigonfio rispetto a quello dell’ordine dorico.
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Urna contenitore per le ceneri del defunto.
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Vasi Canopi si tratta dei quattro vasi, solitamente in alabastro, in cui gli Egizi conservano gli organi interni del faraone dopo l’imbalsamatura.
Vestibolo ambiente chiuso su tre lati posizionato all’ingresso di un edificio.
Vela la superficie della volta.
Vetro materiale duro e trasparente ottenuto fondendo a temperatura elevata sabbie silicee mescolate a calcio, soda e potassio.
Volta struttura di copertura della superficie curva sostenuta da archi; si dice “a botte” quando la sezione semicircolare, “A crociera” quando è costituita da due volte a botte incrociate.
Voluta elemento architettonico decorativo costituito da una spirale.
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Xòanon dal verbo greco xéin “intagliare”, statua, raffigurante una divinità, ricavata da un singolo tronco d’albero e ricoperta di lamine metalliche.
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Ziqqurat edificio templare tipico delle civiltà del vicino e Medio Oriente antico, specie , mesopotamiche, costruite con mattoni crudi (asciugati al sole) e cotti abbinati a fasce di canne palustri unite con bitume (utilizzato come collante e come isolante). La forma, che rimanda alla montagna sacra sulla quale, secondo la mitologia mesopotamica, risiedono le divinità, è a torre composta da tronchi di piramide sovrapposti. Attraverso sette rampe(le costellazioni, ognuna di colore diverso) si accedeva alla sommità sulla quale i sacerdoti celebravano i riti. Il tempio vero e proprio con il simulacro del dio era collocato alla base.
Date delle eruzioni conosciute del Vesuvio:
79 Eruzione pliniana 472
512 26/2/658
787 978
27/1/1037 29/5/1139
1500 16/12/1631
3/7/1660 13/4/1694
25/5/1698 28/7/1707
20/5/1737 23/12/1760
19/10/1767 8/8/1779
15/6/1794 22/10/1822
23/8/1834 6/2/1850
1/5/1855 8/12/1861
15/11/1868 24/4/1872
4/4/1906 6/6/1929
18/3/1944
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