La Figura Femminile Negli Scritti Drammatici Di Massimo Bontempelli

UNIVERSITATEA DIN BUCUREȘTI

Facultatea de Limbi și Literaturi Strǎine

Departamentul de Lingvistică Romanică, Limbi și Literaturi Iberoromanice și Italiană

TESI DI LAUREA

LA FIGURA FEMMINILE NEGLI SCRITTI DRAMMATICI

DI MASSIMO BONTEMPELLI

Relatore:

Conf. Dr. Roxana Utale

Candidato:

Petre Marilena

GIUGNO 2016

Sommario

Premessa ………………………………………………………………………………p.3

1. Capitolo primo – Bontempelli e il novecento ………………………………………..p.5

2. Capitolo secondo – L’opera maggiore di Bontempelli: Le prime quattro produzioni drammatiche dal 1916 al 1927…………………………………………………………p.

2.1 La guardia alla luna …………………………………………………………..p.

2.2. Siepe a nordovest ……………………………………………………………..p.

2.3. Nostra Dea ………………………………………………………………………..p.

2.4. Minnie la Candida …………………………………………………………….p.

3. Capitolo terzo – L’opera minore di Bontempelli: Le ultime quattro produzioni drammatiche pubblicate tra il 1932 e il 1935………………………………………….p.

3.1. Valòria ovvero La famiglia del fabbro ……………………………………….p.

3.2. Bassano padre geloso ..……………………………………………………….p.

3.3. La fame ……………………………………………………………………….p.

3.4. Nembo ………………………………………………………………………..p.

Conclusioni e riflessioni……………………………………………………………….p.

Bibliografia…………………………………………………………………………….p.

Premessa

Attraverso questo studio ci proponiamo di trovare e di far emergere un modello standard di figura femminile per le più importanti opere del campo drammaturgico di Massimo Bontempelli. Come si vedrà, per l’analisi abbiamo scelto le principali pièce dell’autore, pubblicate in due volumi preso la Casa Editrice di Arnoldo Mondadori nel 1947, e abbiamo omesso volontariamente le ultime produzioni drammatiche dell’autore lombardo per il principale motivo della difficoltà con cui queste opere si trovano nel presente (anche nell’Italia) e la mancanza di fonti critici per appoggiare la nostra analisi. Comunque vogliamo fare un breve elenco di tutte le opere drammatiche dell’autore, anche se lo studio non le include; cominciamo con il primo volume della raccolta di pièce, pubblicate tra il 1916 e il 1927: La guardia alla luna (1916), Siepe a nordovest (1919), Nostra Dea (1925) e Minnie la Candida (1927), seguito dal secondo volume che contiene i drammi pubblicati tra il 1932 e il 1935: Valòria ovvero La famiglia del fabbro (1932), Bassano padre geloso (1933), La fame (1934) e Nembo (1935). Accosto a queste opere già menzionate che sono proprio il materiale principale su cui abbiamo lavorato, dobbiamo precisare anche gli scritti drammatici pubblicati da Bontempelli dopo il 1940, e questi (ordinati da punto di vista cronologico) sono: Cenerentola, apparsa a Roma nel 1942, Venezia salva pubblicata a Venezia nel 1947 e Innocenza di Camilla, che vede la luce della stampa nel 1949.

In ciò che riguarda la struttura di questa tesi, come si può notare ad un primo sguardo, questa è divisa in due capitoli fondamentali (senza prendere in conto il primo capitolo che contiene i dati bio-bibliografici dell’autore e lo inquadra nell’ambiente generale del novecento e l’ultimo capitolo che presenta le conclusioni) che coincidono con le due fasi principali della produzione drammatica di Bontempelli, cioè il primo e il secondo volume di drammi che abbiamo presentato nel paragrafo anteriore. Forse è necessario menzionare che il capitolo che coincide con il secondo periodo è un’analisi propria e originale delle quattro pièce, proprio perché sono stati pochissimi gli studiosi che hanno scritto su questa ultima serie di drammi e ai cui abbiamo potuto avere accesso. Gran parte dei critici, come per esempio Lia Lapini, che ci ha offerto la più ampia prospettiva per questa tesi, hanno fermato i loro discorsi con Minnie la Candida, considerandola l’ultima pièce attendibile. Il scopo di questa tesi è proprio di tentare di dare una prospettiva fresca sulle produzioni di Bontempelli, di questo settore letterario dimenticato dalla maggioranza degli studiosi dopo gli anni ’80 e cercare di riportarle di nuovo all’attenzione del pubblico attuale. Questa tendenza dell’oblio dell’autore nell’Italia degli ultimi decenni sarà ovvia dai fonti citati che sono in gran parte articoli ed altri tesi di laurea o di dottorato di alcuni studiosi italiani e inglesi che riprendono la vasta opera di Bontempelli come argomento centrale. Ad ogni modo, neanche questi lavori non discorrono esclusivamente sul teatro dello scrittore, che viene di solito analizzato in un capitolo isolato o con riferimenti ad altri temi e scritti dell’autore lombardo, che senza dubbio merita essere preso in considerazione, non solo per l’attualità disarmante del suo teatro, ma anche per il coraggio di essere, come Nicola Pasqualicchio affermava in un articolo dedicato a Bontempelli: “l’unico ad avere fornito un sostrato teorico alla propria declinazione del fantastico […] attraverso un’unica nozione: realismo magico” e l’unico artista italiano ad essere incluso nelle lezioni americane di Italo Calvino per l’impegno della sua scrittura “cristallina”, come viene menzionato nello stesso articolo.

CAPITOLO PRIMO

Bontempelli e il Novecento

Il Novecento è stato una fabbrica di nuove tendenze, stili e grandi personalità letterarie. Tra gli scrittori che hanno avuto il coraggio di mettere le basi dei nuovi programmi letterari per riformare la loro età in un periodo di programmi letterari radicali, di grande aggressività attuale, è stato Massimo Bontempelli, uno degli scrittori che è riuscito a consolidare la sua posizione estetica e ideologica nello specifico letterario dell’epoca, che viene ben delineato con le parole di Fulvia A. Namer che colloca Bontempelli in quest’amalgama letterario del Novecento:

Dopo il 1918 è cominciata la terza era di civiltà dell’umanità; essa che nel 1926, è quasi ancora all’inizio del suo fiorire, è l’epoca contraddistinta, da una specie di immaginazione costruttiva giunta finalmente al potere. È però l’epoca dell’azione per l’azione gratuita, dell’eroe che non si contempla, che non viene ripiegato su sé stesso, ma che costruisce, come un architetto prodigioso il proprio spazio e il proprio tempo. Quest’uomo nuovo ed energico […] fiorisce dopo che due correnti di civiltà hanno segnato la fine del Romanticismo il quale si era sostituito al Classicismo ai tempi di Cristo.

Bontempelli appare in un secolo dominato da tentativi di rinnovare il campo artistico, non soltanto in Italia, ma in tutta l’Europa, che è stata marcata da un periodo di instabilità sociale, politica ed economica, generata dalle guerre mondiali, dalla dominazione dei regimi politici totalitari in Europa, dalla grande crisi economica del 1929. All’inizio del XX-o secolo, l’Europa si trova di fronte a grandi scoperte in tutti i campi; è il periodo in cui Sigmund Freud mette le basi della psicoanalisi, Albert Einstein formula le sue teorie sulla relatività, si sviluppa l’avanguardia in tutti i settori artistici, appare la teoria dell’esistenzialismo nella filosofia, si fanno grandi scoperte tecniche, come la radio, la televisione e l’uso dell’elettricità per l’illuminazione che non sono rimaste senza echi in Italia. Ristringendo il quadro e parlando del campo che ci interessa in questa tesi, la letteratura del Novecento adotta questo clima di vulnerabilità ed è ambientata nel contesto del crollo delle certezze dell’Ottocento. In questo ambito, nascono i grandi scrittori: francesi – Proust, Gide, Malraux, Céline, Sartre, Camus e André Bréton, che è l’iniziatore del surrealismo in Francia, inglesi – Shaw, Becket e Joyce, rumeni – Eugen Ionescu e italiani – tra cui ricordiamo Svevo, Pirandello, Dino Buzzati e De Filippo. Il genere del Novecento è per eccellenza, il romanzo e i critici parlano anche di un’altra sfaccettatura del realismo e dello sviluppo del metaromanzo. In questo senso, Vita Giordani parlava “dell’impossibilità di creare opere letterarie secondo le convinzioni tradizionali del romanzo realista, ossia di una rappresentazione mimetica del mondo reale” e riprende il concetto di “riflessività” di Roland Barthes, che parla di un romanzo che non è più la copia fedele della realtà, ma del romanzo come copia di sé stesso.

La personalità e l’importanza di Bontempelli per la letteratura italiana è stata riassunta da Giovanni Artieri in parole suggestive:

Tra le due guerre la letteratura italiana brillò del nome di Massimo Bontempelli e di quello di Pirandello. Già cinquantenne, Massimo rappresentò per la nostra generazione di giovani, la vera giovinezza; cioè la speranza nella gloria letteraria. […] Bontempelli vedeva l'esistenza di un mistero, di una «magia» anche nella più umile e borghese contingenza.

Nato nel 1878 a Como, il giovane Massimo Bontempelli è costretto a viaggiare spesso con suo padre, che faceva l’ingegnere delle Ferrovie dello Stato e che si trasferiva con la famiglia di città in città. Uno dei primi passi nella vita umanistica è stato proprio il suo percorso al liceo classico, Parini, di Milano, dove ha come insegnante di Lettere, lo scrittore e critico letterario romagnolo, Alfredo Panzini. Si può dire senza dubbio di Bontempelli che sia stato un vero e proprio uomo di lettere; tutti gli studi li fa nell’ambito umanistico: frequenta la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino, laureandosi nel 1902 in Filosofia con una tesi sul libero arbitrio e poi in Lettere con una ricerca sulle origini dell'endecasillabo, raggiungendo a padroneggiare anche una grande cultura greca e latina. Diventa per un breve periodo insegnante nella scuola secondaria, ma ci rinuncia nel 1910 e si stabilisce a Firenze, dove comincia ad essere attivo come giornalista. Nella sua attività intensa di giornalista, ricordiamo testate come “Le Cronache letterarie” (settimanale), “Il Nuovo Giornale”, “Il Fieramosca” e “Il Corriere della Sera”.

Nel 1924 si stabilisce a Roma, dove comincia un periodo importante per la sua carriera di drammaturgo; conosce e stringe amicizia con Luigi Pirandello e diventa parte del Teatro degli undici. Nello stesso anno, entra nel Partito Nazionale Fascista insieme a Pirandello.

Questi anni (la prima metà degli anni Venti) sono decisivi per l’atteggiamento di Bontempelli verso la letteratura perché viene a contatto con l’ideologia dell’avanguardia francese durante il suo soggiorno a Parigi dove fa sempre il giornalista. Questo contatto cambia definitivamente l’immagine che Bontempelli aveva sull’uomo moderno e sulla sua epoca. Una forte conseguenza di questo cambiamento definitorio di teoria letteraria è visibile nel 1926, quando con l’aiuto di Curzio Malaparte, Bontempelli fonda la rivista “900. Cahiers d'Italie et d'Europe” su cui compaiono grandi nomi come Alberto Moravia, Antonio Aniante, Corrado Alvaro ed altri, ma soprattutto, in cui Bontempelli pubblica per la prima volta il suo credo letterario e indica chiaramente le proposte innovatrici per la nuova letteratura e formula i principi del realismo magico che sarebbero ripresi poi in un’edizione integrale, sotto il titolo L’avventura novecentista.

Per avere un’idea più chiara sulla posizione di Bontempelli in ciò che riguarda la rivoluzione della letteratura e il cambiamento che si dovrebbe operare negli scritti novecenteschi, diamo alcune citazioni dei brani più importanti pubblicate in Opere scelte del 1978, che figuravano anche nel programma letterario pubblicato per la prima volta nella rivista stessa:

Il mondo immaginario si verserà in perpetuo a fecondare e arricchire il mondo reale. Perché non per niente l'arte del Novecento avrà fatto lo sforzo di ricostruire e mettere in fase un mondo reale esterno all'uomo. Lo scopo è di imparare a dominarlo, fino a poterne sconvolgere a piacere le leggi. Ora, il dominio dell'uomo sulla natura è la magia.

Il titolo stesso della rivista, ci fa pensare alla cosiddetta poetica “europeistica”, che è infatti una poetica rivolta alle masse, una letteratura popolare, liberata dai modelli tradizionali e sperimentalismi d'avanguardia e rivolta ad un pubblico di lettori non professionisti. Bontempelli stesso spiega che il Novecento non ha bisogno di una scuola, ma si trattava di una rivista per liberarsi delle vecchie tendenze, “dalla ripetizione del vecchio” e aderire ad un nuovo movimento letterario di un “nuovo tempo”, come suggerisce Sandra Milanko nella sua tesi. Cioè, Bontempelli non vuole più fare una letteratura accessibile soltanto ai “poveri letterati”, ma una letteratura destinata al consumo quotidiano, il valore di un’opera diventa l’utilitarismo derivato dalla circolazione presso il pubblico, come egli stesso afferma nel suo lavoro – L’avventura novecentista in cui propone un nuovo modello di capolavoro, che non è più quello estetico dei poeti, ma si definisce come “conquista del pubblico” e produzione dei miti attraverso l’immaginazione, quello che egli chiama una nuova mitografia. Inoltre, sempre nel “900”, Bontempelli fa il ritratto del nuovo artista, che deve essere un professionista e diventare anonimo in rapporto con la sua opera, cioè allontanarsi del mito che produce, per farlo una sorta di bene collettivo della comunità, come un architetto, e fa una sorta di elogio al cinema, come arte fondamentale del novecento e alla musica, soprattutto al jazz. La rivista di Bontempelli è certamente diventata “l'organo per la diffusione del novecentismo", per utilizzare le parole di Elisabetta Bortolotti.

Dopo l’anno 1929, quando Bontempelli decide di chiudere definitivamente la rivista, inaugura per la prima volta in Italia un cineclub. Un anno dopo è nominato Accademico d’ Italia. Per un periodo è sostenuto dal regime politico, ma dopo alcune critiche pubbliche al regime fascista, è espulso dal partito e gli è negato il diritto di scrivere per un anno. Segue un periodo in cui collabora con diversi settimanali ed è direttore di alcune riviste, ad esempio, “Domus” e alla fine della seconda guerra mondiale, fonda un settimanale, intitolato “Città” in collaborazione con Alberto Moravia. Finita la guerra, dà vita al Sindacato Nazionale Autori Drammatici e nel 1948 viene nominato senatore sulle liste del Fronte Democratico Popolare, ma non è stato mai eletto perché non soddisfaceva le condizioni necessarie, a causa di un testo scolastico di propaganda fascista che aveva pubblicato.

Negli ultimi anni di vita, vince il Premio Strega con il suo ultimo romanzo, L’amante fedele, scritto nell’atmosfera del realismo magico. La sua attività letteraria è interrotta da una grave malattia e nell’anno 1960 muore a Roma, a 82 anni, vecchio, come desiderava così tanto, lasciando ai lettori una grande e diversa opera su tutti i piani possibili: narrativa, lirica, saggistica, drammaturgia, critica, giornalismo e musica. “Amava terribilmente la vita. Diceva di voler morire vecchissimo, aggrappato alla vita. È morto, infatti, così. Ma non l’ha mai saputo.” – così finisce Giovanni Artieri il suo discorso sulla personalità di Bontempelli.

In quanto alla sua opera, Bontempelli debutta nell’anno 1904 con una serie di egloghe, sonetti ed ode, di carattere tradizionale, al quale Bontempelli si negherà poco a poco, dirigendosi verso una sorta di futurismo, ma in realtà non si può dire di Bontempelli che è stato un futurista nel vero e proprio senso della parola. Nel corto periodo classicista, Bontempelli pubblica anche una tragedia in versi, Costanza e una commedia, Santa Teresa, che vengono anche queste rinnegate ulteriormente dall’autore. Nell’anno 1919 – Bontempelli pubblica un primo tentativo di opera con un sottile carattere futurista, si tratta di Il Purosangue. L’ubriaco, che è infatti una raccolta di poesie e l’unica produzione lirica riconosciuta da Bontempelli. Come si può notare, l’attività nel campo lirico dell’autore non è molto vasta, ma sono le prime esplorazioni letterarie di Bontempelli nel suo percorso come scrittore e perciò si devono almeno menzionare. Infatti, la maggioranza dei critici letterari hanno proposto una divisione dell’attività letteraria di Bontempelli in tre grandi fasi: un periodo classicheggiante, che abbiamo visto, è stata una fase un po’ incerta, che Bontempelli stesso rifiutò con violenza, poi, dopo l’anno 1919, come si vedrà in quello che segue, si è trattato di una fase intermedia, un periodo sperimentale, definito “dalle ricerche e tentativi”, come spiega Namer, in qui Bontempelli cerca uno stile proprio e corrisponde al periodo in cui trasloca a Parigi ed è sotto l’influenza delle nuove idee del surréalisme francese, e l’ultima fase, che comincia dopo l’anno 1925 e dura fino all’ultima produzione letteraria di Bontempelli, che è la fase di maturità e originalità novecentesca.

Il momento fondamentale della sua carriera è però il punto in cui esplode la sua prosa, con l’anno della pubblicazione dei Sette Savi nel 1912, a Firenze, una collezione di racconti che annuncia grossomodo la futura poetica di Bontempelli. Negli anni seguenti, appaiono due volumi importanti, La vita intensa, nel 1920, e La vita operosa, in 1921, entrambi collezioni di racconti pubblicati per la prima volta in riviste letterarie, la prima in Ardita e la seconda in Industrie Italiane Illustrate. Queste raccolte rilevano la crisi dell’intellettualità italiana di fronte alle illusioni spezzate del periodo del dopoguerra, scritte in un forte tono polemico. Forse, questi volumi svelano la verità sull’epoca di Bontempelli, espressa all’inizio della Vita operosa, dove in poche parole, fa il disegno della condizione dell’intellettuale nella sua attualità: senza “bussola, né orologio, né sole, né stelle in mezzo all’aperta campagna della nuova vita.”

Nel 1922 vede la luce della stampa, il romanzo La scacchiera davanti allo specchio, prima produzione metafisica di Bontempelli e poi nel 1923 esce Eva ultima, il secondo romanzo metafisico. In questi brevi romanzi, si vede per la prima volta, con una trasparenza totale, il realismo magico di Bontempelli, che sfrutta il motivo dei sogni, ispirato dagli scrittori francesi, dove tutto è possibile e casuale. Questo motivo sarà chiaramente ripreso da Bontempelli nel titolo della raccolta di storie, pubblicata nel 1926, La donna dei miei sogni e altre storie d’oggi, dove pubblica i 21 racconti che aveva già pubblicato sul “Corriere della serra”. Nel percorso letterario di Bontempelli, già comincia ad essere evidente l’implicazione e l’importanza della donna come pretesto principale del testo letterario. Dal 1923, con Eva ultima abbiamo da fare con un’ampia allusione alle donne bontempelliene, ovvia nei titoli dei volumi pubblicati tra gli anni 1924-1931: La donna del Nadir (1924), La donna dei miei sogni e altre storie d’oggi (1926), Donna del Sole e altri idilli (1928), Il figlio dei due madri (1929) e Vita e morte di Adria e dei suoi figli (1930) e che, come vedremo, si materializzerà irrevocabilmente nel suo teatro.

Nel 1931 Bontempelli pubblica Mia vita, morte e miracoli, in cui pubblica i 12 racconti scritti per “La Gazzetta del Popolo” e altri giornali; tre anni dopo appare il volume Galleria degli schiavi, nel quale si trova anche la storia Salvato dalle acque, che è stata vietata dalla censura fascista perché si credeva fosse una satira rivolta al governo fascista. Nel 1937 appare un volume importante per la narrativa di Bontempelli, Gente nel tempo, dove si mette in evidenza la casualità del destino contro la superstizione che macina i personaggi del romanzo fino alla dissoluzione completa della ragione. Negli ultimi anni, Bontempelli pubblica tre volumi, Giro del sole, Notti e L’acqua, e l’ultimo romanzo con cui sera la sua attività letteraria, L’Amante fedele, gli porta il Premio Strega nel 1953, coronando così la sua carriera di romanziere.

Arriviamo infine alla parte dell’attività letteraria che ci interessa di più, cioè, il teatro di Bontempelli, che si sviluppa in un periodo in cui lo scrittore comincia ad essere interessato alle arti dello spettacolo e dal cinema; questo periodo è quasi simultaneo alla pubblicazione del Manifesto del Teatro di Varietà di Marinetti del 1913 dove propone un nuovo teatro che sia dinamico, eccentrico, che ponga l’accento sulla creazione “dell’unicum”, per usare il termine di Lia Lapini nel suo volume sul teatro di Bontempelli. Nel Manifesto, Marinetti attacca il teatro intriso della realtà giornaliera:

Abbiamo un profondo schifo del teatro contemporaneo (versi, prosa e musica) perché ondeggia stupidamente fra la ricostruzione storica (zibaldone o plagio) e la riproduzione fotografica della nostra vita quotidiana; teatro minuzioso, lento, analitico e diluito, degno tutt’al più dell’età della lampada a petrolio.

La produzione teatrale di Bontempelli è deve essere compresa in tutta la sua attività letteraria, come propone la stessa Lia Lapini, dunque non possiamo parlare del teatro di Bontempelli, individuandolo dagli altri scritti dell’autore, ma fa parte del grande insieme dell’uomo di cultura che fu Massimo Bontempelli. Il teatro riprende in grandi linee le idee e i motivi letterari della prosa di Bontempelli e si sviluppa in concordanza con i romanzi e con l’espressione dei pensieri letterari dello scrittore in un’epoca in cui il teatro è dominato da concetti rivoluzionari, come futurismo, grottesco e la grande novità di Luigi Pirandello nel teatro italiano.

Secondo i critici, l’opera drammatica bontempelliana può dividersi in due grandi “tempi”: un primo tempo, che include le principali opere teatrali di Bontempelli, cominciato nel 1916 e finito nel 1927: La guardia alla luna (1916), Siepe a nordovest (1919), Nostra Dea (1925) e Minnie la Candida (1927), che rappresentano l’opera teatrale maggiore dell’autore, e poi un secondo tempo, quello delle produzioni teatrali che sono rimaste in penombra – in contrasto con le prime quattro – e di questo periodo fanno parte: Valòria (1932), Bassano, padre geloso (1933), La fame (1934) e Nembo (1935).

Sul teatro, Bontempelli ha espresso la sua concezione nella biografia di Maria Melato, prima attrice nella compagnia Talli, dicendo:

Sì, il teatro è una cosa profondamente seria. È l'indice del grado di bontà, di disinteresse, di

cultura, di civiltà di una nazione.

Intendiamoci: il teatro “cosa seria” non è sempre il così detto “teatro serio”, che spesso può essere

o una fumisteria, o un paludamento pseudoartistico di filosoficaggini, o un vuoto mal drappeggiato

di oleograficherie varie, eccetera. Il teatro di Goldoni non appartiene, per i retori, al genere “teatro

serio”, eppure il suo trionfare è stata una delle cose più serie della vita del nostro settecento.

Sul piano della saggistica, Bontempelli ha pubblicato più studi, la maggior parte, di natura polemica, tra cui ricordiamo: Il neosofista ed altri scritti nel 1920, Novecentismo letterario nel 1931, L’avventura novecentista nel 1938, Verga, l’Aretino, Scarlatti, Verdi nel 1941, Introduzione all’Apocalisse nel 1942, Dignità dell’uomo 1843 – 1946 nel 1946 e Passione incompiuta nel 1958.

Bontempelli è stato anche un appassionato traduttore dal francese, dall’elenco di opere letterarie che portano la sua firma in qualità di traduttore fanno parte: Rosso e nero e Sull’amore di Stendhal, La Signora delle Camelie di Dumas, L’Avaro di Molière, L’asino d’oro di Apuleio.

CAPITOLO SECONDO

L’opera maggiore di Bontempelli

Le prime quattro produzioni drammatiche dal 1916 al 1927

2.1. La guardia alla luna (1916)

Bontempelli comincia la sua attività drammaturgica nel contesto ampio del ”rinnovamento generale degli atteggiamenti e dei valori di tutta la vita civile”, contesto in cui si dichiara innanzitutto antipassatista, dunque la sua intenzione era chiara e precisa: la liberazione del Novecento dai vecchi modelli del secolo scorso, nel quadro della demolizione di una letteratura superata dalle necessità della società contemporanea allo scrittore, intenzioni già annunciate nell’articolo del 1916, La volontà di lavorare. Il panorama del mondo teatrale degli anni in cui Bontempelli comincia a scrivere era marcato da due direzioni letterarie importantissime all’epoca: il futurismo di Marinetti e il “grottesco” di Luigi Chiarelli, una polemica evidente ai vecchi valori della borghesia. Nei Cahiers, Bontempelli precisa i tre termini chiave per la sua narrativa: fantasia, inverosimile, intreccio, dunque la narrativa deve appoggiarsi sulla creazione di nuovi miti e personaggi che “possano correre il mondo”, come spiega Patrizia Farinelli. La prima concretizzazione effettiva dell’aria fresca che si proponeva Bontempelli di portare nella narrativa del secolo è la pubblicazione di La guardia alla luna nel 1916 e le poesie della raccolta Il purosangue dello stesso anno.

La guardia alla luna è stata elaborata nella primavera del 1916 ed è scritta, come l’autore stesso dichiara, per Maria Melato, prima attrice nella compagnia di Talli, che però non ha ricevuto con gioia questa produzione teatrale, per cui finalmente si è dato l’accetto per metterla in scena con ogni cura nella sera di 15 marzo 1920 alle insistenze della prima attrice. Questa informazione è considerata equivoca da alcuni critici che considerano che Bontempelli, appena finita la commedia, aveva nella mente altre opzioni per il ruolo principale. Su questo argomento, Sandra Milanko propone nel suo lavoro su Bontempelli il nome risonante della prima attrice, Irma Gramatica. Sembra che Maria Melato gli sia stata infatti raccomandata a Bontempelli da Eleonora Duse, proprio una delle attrici proposte per il ruolo di Maria, ma che era già entrata in un periodo di inattività nel mondo teatrale. Dopo un periodo di incertezza in ciò che riguarda l’accetto o il rifiuto del ruolo, Melato è finita per innamorarsi irrevocabilmente dell’opera di Bontempelli: “Tre anni sono, a proposito d'un lavoro che oggi ama, e che è al principio del teatro di domani, ella mi diceva: – Non è per me: io sono l'attrice della realtà”

Come Bontempelli afferma nella Nota a La guardia alla luna la sua prima produzione drammatica significativa nel campo teatrale dell’epoca l’ha reso insoddisfatto:

A me già nel 1919 essa non piaceva più (oggi mi ci sono alquanto riavvicinato); ero in quegli anni in una inquieta crisi di maturazione, che mi faceva sentire impellente il bisogno di distruggere tutto il mio passato per poter libero ricominciare.

La critica del periodo dell’uscita dell’opera di Massimo Bontempelli non tardò di esprimere il parere su La guardia alla luna: sulla rivista „Il Primato” di Milano, si pubblicò una specie di recensione imparziale che riteneva la pièce di teatro come „il viaggio d’un’idea fissa”.

Dal punto di vista strutturale, la pièce è divisa in sette quadri brevi, un elemento che è piuttosto comune alla cinematografia che al teatro, corrispondenti a questo viaggio di ricerca disperata, non di una vendetta, ma piuttosto di quello che sembra essere una rivolta universale contro il potere astrale. Le persone già annunciano il contenuto: il solo personaggio che è chiaramente nominato è la protagonista, Maria; tutti gli altri personaggi sono lasciati nell’anonimato, con la sola e concisa specificazione: „molti uomini e molte donne”.

Il primo quadro presenta la protagonista Maria accanto ad altre donne e a una culla coperta da un velo bianco in una „stanza bagnata nella luce della luna”. Dalle prime battute, scopriamo che nella culla c’è una bambina di quindici mesi „addormentata”, ma il lettore può velocemente dedurre che si tratta di una bambina morta. Tutte le donne lo sanno tranne Maria che ha la sensazione che la ragazza si sveglia e piange e che guarirà. Le donne cercano di allontanare Maria dalla culla è ci riescono per breve tempo in cui le donne portano via il corpicino della bambina. Il dramma comincia quando Maria ritorna e non trova più la piccola nella culla dove l’ha lasciata. In un accesso di disperazione, cerca spiegazioni per quello che è successo e nella sua mente travolta si traccia un’idea folle: la luna con la sua luce è colpevole per la sparizione della sua piccola.

Nel quadro seguente, troviamo Maria nove giorni dopo, nel gabinetto del Delegato per denunciare la sparizione della bambina. Maria racconta dalla sua prospettiva quello che è accaduto, è il primo ragionamento del Delegato è ovviamente l’ipotesi di un rapimento. Le cose diventano irrazionali quando Maria narra la storia di un amore con un amico suo, il padre della bambina, che non è rimasto accanto a loro, e racconta come tutto accadde in un quadro intimo sotto il segno della luna. Anzi, l’amico di Maria le dice direttamente che „ha messo il loro amore in protezione della luna”. Poi, la storia di Maria diventa anche più assurda, lei crede che la luce della luna sia fatta dai bambini che essa ruba. È perciò che mette insieme gli amanti, e se vede che la ragazza è rimasta sola con il bambino, lo porta via, lontano dalla madre. La conclusione di Maria è semplice: la luce della luna non deve arrivare più sulla terra. Il motivo per cui lei è venuta dal Delegato è per evitare che un innocente sia accusato della sparizione di sua figlia e per annunciarlo che si propone di trovare il punto dal quale la luce della luna entra nel mondo ed affrontare la luna da sola.

Il terzo quadro è veramente brevissimo e mostra una parte del viaggio di Maria che si trova da quindici giorni sulla tolda d’un transatlantico. Anche se lei non parla con nessuno, sembra che i due uomini che si trovano sulla stessa tolda l’abbiano vista prima in altri occasioni e paesi.

Il quarto quadro è collocato in un quartiere basso di non si sa quale città lontana dove Maria erra, ma sappiamo precisamente quale sia il motivo per cui si trovi lì: in quella città si trova il vicolo della Luna. Su questo vicolo non si trovano che una bettola a sinistra ed un postribolo con tutte le finestre illuminate a destra, in fondo. Maria non è sicura di trovarsi proprio sul vicolo della Luna e decide di domandare l’oste della bettola, che esce sulla strada istigato dalla luce dei fiammiferi di Maria, ma non le offre nessuna risposta che sia di aiuto. Poi, facendo rumore, attira il rimprovero della Ruffiana che è uscita dal postribolo per cacciarla via. Insistendo a chiedere informazioni sul vicolo della luna, riesce ad arrabbiare la Padrona del postribolo che finalmente la fa andare via, minacciandola di telefonare alla guardia. Maria si trova di nuovo sulla strada, dove incontra un passante che vuole approfittare di lei, ma le guardie arrivano e afferrano Maria, che causa uno scandalo enorme.

Nel quinto quadro Maria è in prigione, addormentata. È risvegliata d’un tratto al suono di un busso nel muro. Al di là della parete si trova un’altra donna, che le ha fatto compagnia in prigione e che l’annuncia che il prossimo giorno finalmente uscirà dalla prigione. Questa donna viene dai paesi della luna, come dice a Maria, che nutre ancora il desiderio di liberare il mondo della luce cattiva dalla luna. La donna le racconta la leggenda del suo paese sulla Cima Spaccata, che è il più alto punto della terra e il primo posto dove la luce della luna arrivi. La storia di questo paese dice che quando la cima non era tagliata in due, la luna non poteva arrivare sulla terra e la notte era tutta al buio e che praticamente la luna nasce da quel monte. Per ordine di Dio, i raggi lunari sono entrati nel mondo attraverso questa spaccatura che si è formata nel monte.

Nel sesto quadro il lettore è informato che Maria è stata liberata e si trova in un albergo ai piedi della montagna, dove incontra il suo amico. Sulla terrazza dell’albergo, la luna comincia a illuminare con i suoi raggi la gente che ammira la scena idillica, Maria vuole impedire il suo amico e la sua Fidanzata di assistere allo spettacolo lunare e provoca di nuovo scalpore, come nel quarto quadro. Poi il Cameriere le dice come si può salire sulla vetta e Maria decide di compiere la sua missione la mattina prossima, alle prime ore.

L’ultimo quadro mostra la fine del dramma: Maria, lacera, sanguinante e pazza, rifiuta di essere salvata e si sforza di salire fino in cima. Riesce a salire nella spaccatura leggendaria del monte e qui muore, vinta dal freddo crudele, con l’impressione di aver vinto la luce della luna, che con il suo corpo bloccherà per sempre i raggi del male universale nel mondo.

Parlando della tematica della pièce di teatro di Bontempelli, Lapini osserva la forte dichiarazione di Bontempelli: „uccidiamo il chiaro di luna”, tematica che si riflette molto bene nelle vicende della protagonista, Maria. L’ambiente è semplice, il dialogo è ridotto a frasi semplici, però sufficiente per fare lo spettatore comprendere l'essenziale, l’accento cade, come succede nel cinema, sull'elemento visivo, l'atmosfera è creata dai raggi di luna che accompagnano la protagonista durante tutto il viaggio come l’idea ossessiva che governa tutte le sue azioni. Edgar Papu diceva nella Prefazione a Eva ultima:

Una din ele este factura imagistică, aceea care îl relevă pe Bontempelli drept un mare pictor al luminii, inchipuita adesea ca o substanta in sine, iar nu ca un atribut al lucrurilor, așa cum apare de altfel și în unele viziuni picturale moderne.

La protagonista è definita anche dall’autore: „l’unico personaggio del dramma”, come ben nota Lia Lapini, si distacca come abbiamo già visto dagli altri personaggi che non sono neppure nominati nell’elenco iniziale del testo, individuando così il personaggio principale, che è ben separato dagli altri.

Un ragionamento veramente utile per capire il nucleo intorno al quale si fonde il personaggio femminile in tutta la produzione teatrale di Bontempelli è la dichiarazione di Marinetti nel suo Manifesto, che spiega l’atteggiamento della corrente futurista nei confronti della donna e dell’amore, idea che risulta dalle parole di Sandra Milanko:

Secondo il fondatore del futurismo, il disprezzo della donna e dell'amore era una “condizione essenziale per l'esistenza dell'eroe contemporaneo” perché la donna, l'amore, il sentimentalismo e la lussuria costituivano degli ostacoli per la realizzazione dell'uomo futurista che doveva essere un uomo d'azione, amante del pericolo e della tecnologia moderna e nello stesso tempo immune agli affetti e all'amore romantico.

In altre parole, il teatro futurista si proponeva di diventare complice di un manifesto contro l’amore idillico dei romantici e la donna come simbolo della lussuria. Maria, è tutto il contrario, è la personificazione del crollo della figura femminile come madre (soprattutto in questa pièce), come amante, come oggetto della passione; lei sembra partire dalla condizione di amante, madre, della donna ingenua del romanticismo, tutto questo risultato dell’azione della luna sulla terra, che fa la gente diventare sentimentale sotto la protezione astrale della Luna che per i romantici crea la più intima atmosfera per rendere gli amanti vulnerabili e sensibili, fatto che viene trattato con ironia da Bontempelli in La guardia alla luna, quando Maria parla dell’amore fuggitivo con un amico. La maternità di Maria è contestata da Simona Micali nel suo studio sulla dissoluzione della figura femminile nell’opera di Bontempelli, che non capisce le azioni della protagonista come “senso materno”: “Maria è ormai priva di qualunque senso materno, il quale è dunque un sentimento univoco ed esclusivo, che si estingue insieme all’oggetto cui era finalizzato. Di qui alle madri-vampiro o alle anti-madri sparse qua e là per la narrativa bontempelliana il passo non è poi tanto lungo.”, questo vuol’ dire che l’espressione usata per designare la pièce, “il viaggio di un’idea fissa” è ben adoperata– non è il viaggio di una madre, non è neanche il viaggio di una persona, perché fino all’ultimo quadro, Maria perde anche l’umanità – ma è il viaggio di un’ossessione che non ha come motore la maternità. Per Bontempelli, la maternità perde il significato di valore, e questo è ancora più visibile nei racconti scritti tra il 1928 e il 1934, dove abbiamo una galleria completa della donna come “anti-madre”, e l’esempio anche più significativo sarà il personaggio della vecchia del romanzo Gente nel tempo, che è l’incarnazione del decesso simbolico della nozione di madre. In un’altra storia, Il figlio di due madri, sembra che Bontempelli voglia risuscitare l’idea di maternità, presentando in antitesi due personalità diametralmente opposte nelle due protagoniste, Luciana e Arianna. Cioè, per Bontempelli, in quest’opera, importante sembra essere il viaggio verso un’ideale, la missione, ma non nel senso sociale, bensì una missione personale per salvare il mondo. Qui, abbiamo una sorta di argomento contradittorio, perché a una prima analisi, Maria sembra agire per una vendetta universale, sacrificandosi proprio per il bene della maternità, ma alla fine, a uno sguardo più obiettivo e critico, abbiamo a che fare con un personaggio-pretesto per combattere un’idea: il Romanticismo decadente. L’assenza del senso materno è visibile nel terzo quadro, quando la minaccia con il suicidio dell’adolescente che si trovava sul transatlantico non suscita nessuna reazione nella protagonista, infatti la lascia fredda: “C’è una cosa, più grande.” L’automatismo della risposta tradisce la mutazione che la missione ha operato nella protagonista, lei non ha più sentimenti di nessun tipo. Questo viene espresso anche nella Nota a La guardia alla luna: “Il terzo quadro ci mostra, sulla tolda di un transatlantico, un frammento della odissea, e un esempio della inumanità cui la sua fissazione l’ha condotta.” La dissoluzione psicologica di Maria finisce con la smaterializzazione corporale. Il momento in cui perde la bambina, perde anche la ragione e il contatto con la realtà, che non è più conforme alla sua immagine del mondo (un altro riferimento alla nuova condizione dell’artista del Novecento).

In questo mondo progettato da Bontempelli, l’amore non costituisce un motivo fondamentale. Maria ha una visione negativa sull’amore: “La luna viene sul mondo, su tutto il mondo, a mettere insieme gli amanti perché si amino – perché nascano dei bambini…”. Il messaggio è chiaro: un manifesto esplicito contro la stella dei romantici dell’Ottocento. L’assenza dei sentimenti traspare anche quando lei incontra di nuovo il suo amante, il padre della bambina morta, dopo molti anni e non prova nessun senso in particolare durante l’incontro. Anzi, quando scopre che lui ha una fidanzata, non reagisce come lo farebbe una donna nel vero senso della parola, ma è protettiva con loro. Bontempelli gioca in questo quadro con i nomi delle donne, prima, sale sulla scena la Fanciulla romantica, tutta sognante, affascinata dalla luce idillica della luna, poi, La Fidanzata, allusioni concrete ai personaggi romantici del secolo precedente. In questo mondo, Maria è un personaggio isolato, a partire dai nuovi giorni in qui pensa la strategia di rivincita contro la luna fino all’ultimo quadro, quando muore sola sulla vette. Dobbiamo inserire qui un’altra citazione della stessa Lia Lapini che spiega questo isolamento della protagonista come elemento specifico piuttosto al dramma espressionista:

Comune quindi, è l’assunzione del protagonista come essere isolato in mezzo ad una folla anonima di ombre e figure astratte; e simile la ricerca di una assolutezza rappresentativa in un clima di astrazione lirico-fantastica. Ma soprattutto appare di carattere fortemente espressionista l’atmosfera allucinata e folle della fine del Primo e di tutto il Settimo Quadro della Guardia alla luna, con le frasi smozzicate e urlate della madre impazzita, visivamente rappresentata nella sua disperata lotta contro il chiaro di luna che la investe e sommerge.

Sembra che comunque, Bontempelli abbia una preferenza per personaggi isolati dal mondo, come bene osserva Lia Lapini, anche i suoi racconti sono pieni di protagonisti che “si rifugiano e vivono nella sfera esclusiva di una propria “ossessione maniaca” o illusione […] Sono tipi strani di emarginati dalla società, anch’essi come Maria di fronte alla massa indistinta dei “volgari borghesi” e degli “uomini di buon senso”. L’isolamento di Maria è ovvio fin dal secondo quadro, che è infatti un monologo della protagonista che ha bisogno di un interlocutore (Il Delegato) soltanto per dare voce alla sua pazzia: “Maria: Ho già pensato come fare le ricerche. Intanto ho creduto mio dovere informarla della cosa, anzitutto perché se avesse sentito parlare del ratto della bambina non avesse a incolpare qualche innocente mentre io avevo già trovato […] E poi perché, per la mia impresa, pensavo se non sarebbe utile che…Sa: io potrei provare, guidare; ma così sola…” , la visita al Delegato non è altro che una spiegazione per lo spettatore di quello che segue, perché (come succederà in tutta la pièce), Maria trae da sola le conclusioni del proprio sillogismo: “Ho inteso tutto perfettamente. Sono contenta in ogni modo di essermi confidata in lei e di avere il suo incoraggiamento. Stia certo, che non ne parlerò ad anima viva. E riuscirò.” Infatti, il Delegato non ha fatto niente, né per incoraggiare la protagonista nella sua impresa, né per fermarla, Lia Lapini suggerisce qui che il Delegato è la maschera dell’ipocrisia borghese in forte contrasto con il candore della protagonista, che continuerà ad essere un modello per le donne di Bontempelli (soprattutto in “Minnie la Candida”, come si può dedurre anche dal titolo):

La qualità prima e caratteristica di Maria, altro elemento fondamentale all’interno del dramma, è infatti l’attitudine semplice e ingenua del suo animo […] che la pone in uno stato di incomunicabilità e contrapposizione continua rispetto agli altri. […] Questa qualità esiste ancora prima della folle fissazione che isola Maria, ed è anzi la caratteristica favorevole al formarsi di tale fissazione: essa permette la maniera genuina ed appassionata grazie a cui Maria accetta e prende alla lettera il frusto luogo comune della luna protettrice degli amanti.

Anche se in questa pièce è meno evidente che nelle seguenti (in Siepe a nordovest o in Nostra Dea), Maria diventa anche lei una marionetta guidata dalle proprie fissazioni e dalla sua ingenuità, lei prende tutto letteralmente – questo è suggerito nel quarto quadro, quando diventa protagonista di uno scandalo terribile a causa del nome di una via e di un bordello, che contenevano la parola luna. Anche nel quadro seguente, non è capace di fare la distinzione tra una banale leggenda e ciò che è possibile nella realtà, Bontempelli prende in derisione ancora una volta il romanticismo e sceglie di inserire il simbolo del Romanticismo dell’Ottocento nel nome di un luogo basso, decadente, dove si celebra l’adultero, tema ricorrente per presentare la società borghese nella drammaturgia e nei romanzi del secolo passato.

Come ben osserva Roberta Delli Priscoli nel suo articolo, la figura di Maria si trova tra due concetti fondamentali all’epoca, tra il tragico e il grottesco; a volte l’atteggiamento di Bontempelli nei confronti della sua protagonista è di profonda ironia, a volte, di sincera pietà e simpatia per una donna che diventa prigioniera dell’assurdo. La fine dell’opera, come notano molti critici, tra i quali Gigi Livio, citato anche da Sandra Milanko nello studio, è di fattura “pessimista”: Maria si progetta come un Don Chisciotte futurista al femminile che però non riesce a compiere la missione: “Patricia Gaborik vede in questa scelta della protagonista femminile un distanziarsi di Bontempelli anche dal famoso disprezzo della donna accettando un'immagine più complessa della donna e della femminilità.” Delli Priscoli Roberta invece, usa un’altra parola per la protagonista di Bontempelli: “una sorta di Prometeo al femminile, pronta a sacrificarsi per aiutare l’umanità”, una forte allusione ai miti dei romantici. Alla fine, Maria è ridotta allo stato di nulla in seguito a un processo ampio e graduale di dissoluzione: “Questi personaggi, di quadro in quadro, accompagnano la dolorosa “Via Crucis” di Maria, fino all’olocausto finale, in cui la donna viene a confondersi e quasi a identificarsi con la natura inanimata.”, una prospettiva che sarà il motore principale della vicenda di Nostra Dea o di Minnie la Candida.

2.2. Siepe a nordovest

In Nota a Siepe a nordovest, Bontempelli parla del contesto in cui si è messo a scrivere la commedia che lui nomina nell’incipit: “Farsa in Prosa e Musica”:

Nel dicembre del ’18, trovandomi, ancora vestito di grigioverde, in licenza a Milano, un pomeriggio di domenica accompagnai il mio bambino al Teatro Gerolamo. Allo spettacolo di quelle marionette, a un tratto mi immaginai di veder recitare insieme con loro, movendosi sullo stesso palcoscenico, anche attori in carne e ossa.

Come Lia Lapini nota nello studio dedicato all’arte drammatica di Bontempelli, Siepe a nordovest è stata scritta in un ambito letterario in cui il grottesco è in piena scalata con le produzioni drammatiche di Rosso di San Secondo, Luigi Antonelli e con le commedie di Pirandello.

Bontempelli scrisse Siepe a nordovest in cinque giorni, avendo come fonte d’ispirazione lo spettacolo del Gerolamo come suggerisce in seguito nella stessa Nota:

Passato il Natale tornai alla mia sede che era ad Abbazia. (…) La sera ero libero; e le sere dal primo al 5 di gennaio del ’19 ritirato nella mia camera composi questa Siepe a nordovest, ponendo in atto il disegno balenatomi alla recita del Gerolamo.

Si può certamente notare che la fascinazione di Bontempelli per questo accoppiamento attore-marionetta scatta nel 1919 insieme alla passione per la musica. Come lo scrittore dichiara fermamente nella stessa Nota, il piacere di scrivere è stato una rivelazione che ha avuto mentre scriveva la pièce:

Non ho molta simpatia per questa specie di farsa metafisica in cui è troppa la sproporzione tra il gravoso impiego tecnico di scena che richiede e la scarsa possibilità di rendimento come spettacolo attuato. Ma le ho molta riconoscenza perché, data la necessità di interventi musicali, fu essa a rivelarmi che potevo scrivere musica.

A partire da questo momento, Bontempelli scopre la sua passione per l’arte musicale e comincia a scrivere musica per le proprie produzioni drammatiche; questa passione lo seguirà tutta la vita, come sé stesso afferma:

Da allora non ho più cessato di scrivere musica di quando in quando; mi sembra oramai naturalissimo che certe cose lo scrittore debba esprimerle per accordi e melodie, come si trova naturale a un pittore di mettersi di quando in quando a modellare in creta o plastilina.

Infatti, il momento in cui Bontempelli decide di scrivere la pièce, ispirandosi allo spettacolo del Gerolamo, si intercala, come ben nota anche Lia Lapini nel secondo capitolo del suo studio, con un periodo di svolta artistica nell’atteggiamento letterario dello scrittore. In questo momento di svolta Bontempelli rinnega la sua produzione letteraria, compresa la commedia La Guardia alla Luna. Lia Lapini spiega questa scelta di Bontempelli, in base a un articolo dello scrittore stesso sul “Secolo”, nella primavera del 1919:

Questo atto di rifiuto segna appunto la volontà programmatica di dare un taglio netto col passato, di cui la guerra sembra aver fatto tabula rasa, per “ricominciare tutto da capo”: ora Bontempelli pensa concretamente alla possibilità di una “costruzione nuova e veramente solida”, cosicché le due opere d’avanguardia, che pure erano nate già nel nuovo clima contestativo di valori superati, gli appaiono negativamente come prodotti di una fase unicamente distruttiva da accantonare e superare insieme con gli stessi schemi e valori demoliti.

Andando più in avanti, la stessa Lia Lapini poi conclude questo argomento con un’osservazione personale pertinente:

Ma se Siepe a nordovest sembra nascere così manifestamente in contrasto con la precedente esperienza teatrale bontempelliana, essa appare altresì lontana anche dalle dichiarazioni programmatiche dell’autore; non ripropone infatti assolutamente ideali e moduli sicuri, ma prosegue ed esplicita in altre chiave espressiva la polemica demolitrice presente già nella Guardia alla luna.

Non troviamo infatti segni evidenti di una rottura radicale in rapporto con la prima produzione drammatica di Bontempelli, ma in Siepe a nordovest si distingue il tono polemico di critica antiborghese e sociale che accompagnerà anche le seguenti pièce dell’autore. Sullo stesso argomento abbiamo anche l’opinione di Sandra Milanko che parla proprio di una “stanchezza di Bontempelli verso il futurismo, inteso come movimento artistico” concretizzato verso il 1919. Per lei, ciò che ci impedisce di dire che Bontempelli si è distaccato dall’estetica futurista sono i procedimenti tecnici usati dallo scrittore nella pièce: “cioè la simultaneità delle azioni drammatiche e la compenetrazione, sottoponendoli a quello stesso processo di esasperazione a cui fu sottoposto tre anni prima il celebre motto “Uccidiamo il chiaro di luna!” nella rappresentazione La guardia alla luna”. Della dimensione formale dell’opera drammatica parla anche Lia Lapini che la mette in una luce favorevole:

Ancora una volta dunque, e qui in misura anche maggiore, l’eccezionalità dell’opera drammatica bontempelliana risiede nella invenzione formale che dà particolare significato a due nuclei tematici volutamente banali.

Siepe a nordovest è stata rappresentata per la prima volta a Roma, il 18 gennaio del 1923, nella inaugurazione del Teatro degli Indipendenti di Bragaglia, informazione data da Bontempelli nella Nota alla pièce. La farsa è divisa in tre atti, un prologo e due intermezzi ed è costituita su quattro piani distinti, simultanei: il mondo degli attori, il mondo delle marionette e due piani secondari, rappresentati da una parte dagli intermezzi in cui appaiono i due burattini: Napoleone e Colombina, “una sorta di portavoce dell’autore”, e dall’altra dalla scena finale in cui si rivelano il Marionettista e la Zingara. Anche se è difficile dire quale fosse il piano della realtà propria e vera, Sandra Milanko propone la scena finale come verità assoluta: “Infine, il piano dei personaggi della zingara e del burattinaio si oppone agli altri tre poiché sono loro a controllarli imponendosi come l'estrema o l'unica vera «realtà».” Questa struttura del dramma costruita pezzo per pezzo invia all’estetica marinettista, come osserva la stessa Sandra Milanko, ma con uno scopo diverso da quello dei futuristi: Bontempelli attraverso “la contrapposizione dei diversi piani porta al loro straniamento reciproco per cui è possibile parlare di una loro relativizzazione”. Lia Lapini aggiunge nel suo studio:

Bontempelli sembra infatti essersi mosso piuttosto verso il recupero, a fine ironico-polemico, di una tradizione popolare di spettacolo. Egli si serve di due intrecci presi di peso dal più usuale repertorio rispettivamente del teatro dei pupi e del teatro di prosa, e li contrappone sullo stesso piano con un intendimento scopertamente parodico.

Il Prologo presenta Colombina – nome di una maschera della Commedia dell’Arte – in costume goldoniano, che fa la cameriera, dunque ha anche una condizione sociale, insieme a Napoleone Bonaparte in un teatrino di burattini. I due aspettano che lo spettacolo cominci. Bontempelli fa un riferimento diretto al poema di Manzoni, Il cinque maggio, offrendo fin dall’inizio un indizio sulla natura fantastica della pièce.

Nel Primo Atto, la scena è tutta al buio, tranne una porzione a destra. Il palcoscenico è formato da alcuni alberi, in primo piano, con due amache appese ai loro rami dove sono sdraiati Mario e Laura. Entra Carletto che li invita a passeggiare, ma Laura rifiuta la proposta. Sullo stesso palcoscenico appaiono anche le marionette: il Ré, La Principessa, L’Eroe e due Ministri. Gli attori e i burattini non si vedono, ma lo spazio in cui accade l’azione è comune. Roberta Delli Priscoli commenta questa modalità di mettere in scena, scelta da Bontempelli:

Il nucleo scenico, recitato dagli uomini, può essere considerato una parodia del teatro e insieme della vita borghese: il classico triangolo – marito, moglie, amante – è riproposto in chiave grottesca e appare paradossalmente funzionale al teatro delle marionette, che domina e regge tutta la farsa.

Comincia una serie di battute che si intrecciano: da una parte parlano il Ré e il popolo, dall’altra Carlo e Mario che continuano il loro dialogo sul passeggio che vogliono fare. In tutto questo tempo, gli attori e le marionette passano gli uni accanto agli altri senza vedersi o sentirsi. In quanto riguarda l’universo delle marionette, il Ré e i Ministri tentano di stabilire il sistema politico, mentre la Principessa soffre di malinconia, pensando alla vocazione divina. In questo atto, scopriamo anche l’amore platonico che l’Eroe nutre per la Principessa, che però non gli fa caso e non gli risponde della stessa maniera. Invece lei pensa prendere il cammino del monastero e sogna ad adempiere la vocazione divina. Notevole in questo atto è soprattutto il parallelismo perfetto tra la battuta contraddittoria della Principessa e l’Eroe sulla visione sul mondo:

Principessa: Io non so pensare. Sento così, irresistibilmente. Mi sento muovere verso Dio, irresistibilmente. Mi sembra che un filo divino mi porti, e guidi i miei passi.

Eroe: No, Principessa, non dobbiamo dire così. Non c’è nulla di irresistibile per esseri dotati di coscienza e di volontà, come noi. Noi non siamo miseri strumenti in mano di un operaio: siamo faville divine, siamo padroni o signori del nostro volere e della nostra riflessione.

e la battuta di Carletto e Laura sulla volontà di Dio, che si progettano come una sorta di simmetria tra l’universo dei burattini e quello degli attori che approfondisce la differenza tra l’innocenza delle marionette e l’ipocrisia degli attori:

Laura: Ma devi pure intendere quanto soffro, lottando contro questa forza che mi trascina verso te: mentre solo un pensiero di dovere mi trattiene.

Carletto: La vera passione non conosce doveri, non sente che trascinamenti irresistibili.

Laura: Come vorrei lasciarmi trascinare verso te, amore mio! Ma so, ancora, farmi forza.

Carletto: No. Soltanto gli Dei sanno dirigere i propri atti, Laura. Non pensare. Abbandonati. Noi non siamo Dei, siamo povere cose: non siamo che marionette tirate da un filo, Laura…

Laura: E tu l’ami, dimmelo, la tua marionetta?

Carletto: Oh tanto!

Il Primo Atto finisce con le marionette operai che entrano sul palcoscenico e pianificano la costruzione di una siepe per difendersi dal vento, ciò che dà anche il titolo della pièce. Le parole con le quali si conclude l’atto sono suggestive: “In otto giorni tutto dev’essere finito se siete uomini di carne e ossa.”, potenziando di nuovo il parallelismo tra attori e burattini e il gioco delle parole usate: marionetta-uomo.

Nel Secondo Atto gli operai cercano di alzare la siepe, mentre Laura e Carletto provano di nascondersi da Mario. In questo atto abbiamo una prima interferenza dell’universo delle marionette e quello degli attori nel momento in cui Carletto inciampa nel filo della siepe che gli operai stanno distendendo e cade. Un secondo contatto tra i due universi accade quando gli operai decidono di segare l’amaca in cui si è seduto Mario. Il terzo contatto e il più importante per lo svolgimento dell’azione è il momento in cui Carletto prende effettivamente l’amaca dalle mani degli operai che rimangono stupefatti dall’avvenimento. Quando il Ré entra nella scena, gli operai raccontano il fatto sovrannaturale che era accaduto. Il Ré resta calmo, ma sua figlia, la Principessa, crede che ciò che è accaduto è la volontà di “Dio onnipotente” -un miracolo, un segno divino- lei vuole più che mai diventare “rappresentante” del popolo davanti a Dio e “pregare continuamente per esso”. L’Eroe invece vuole far prova del suo coraggio e chiede di rimanere il giorno seguente nel luogo dove il miracolo è successo; alle sue parole, la Principessa gli offre la mano a condizione che lui riesca vincere il potere sovrannaturale.

Nell’ Ultimo Atto l’Eroe si trova solo in scena aspettando che il miracolo accadesse di nuovo. Allo stesso tempo Laura ha fatto portare sulla scena un paravento grande per poter nascondersi con il suo amante dalla vista petulante di Mario. L’Eroe, stupito dall’apparizione del paravento, decide di inventare una storia per spiegare al Ré e al popolo quello che è accaduto: dice di aver avuto una rivelazione divina – Dio lo aveva aiutato a alzare il paravento. In questo tempo, nel mondo degli attori appare una Zingara che vuole leggere a Laura nella mano. Lei dimostra di essere l’unica che vede le marionette. Quando la Zingara prende in mano l’Eroe, tutto il mondo delle marionette crolla e il Marionettista appare sul palcoscenico. La pièce finisce con il Marionettista che invita la Zingara a diventare burattinaio insieme a lui.

Come si può nottare, non c’è dubbio che l’azione accade su due piani distinti, intrecciati sul segno del miracolo per le marionette. Come possiamo intuire, abbiamo 3 figure femminili diverse che si progettano in tre dimensioni differenti: Colombina negli intermezzi, Laura da una parte, e la Principessa dall’altra; ciò che è comune è ovviamente lo spazio e per essere più precisi, la siepe, l’elemento che dà anche il titolo della pièce. Ma certamente abbiamo anche un’altra figura femminile che si rivela soltanto alla fine: la Zingara, l’unica donna che possiamo considerare reale. Come si potrà vedere, la figura femminile sarà analizzata all’interno della coppia, insieme alle figure maschili, perché i due prototipi non possono essere separati: uno determina l’atteggiamento dell’altro e vice-versa. Come Lia Lapini suggerisce, Bontempelli opera in Siepe a nordovest una regressione ai modelli che ha tentato di demolire in La guardia alla luna. Gli ideali eroici di Maria vengono ripresi dal drammaturgo negli ideali delle Marionette. Si può fare leggermente un paragone tra la protagonista della pièce menzionata anteriormente e i due protagonisti burattini: l’Eroe e la Principessa, che incarnano l’idea di sacrificio per la patria, per il bene comune della comunità in cui vivono. Bontempelli continua la critica antiborghese tramite i suoi personaggi che rammentano, secondo Lapini, “il sublime dannunziano” in una parodia voluta ed aperta del vivere borghese. La Principessa è dunque il prototipo specifico dei valori assoluti e sublimi, di quelle virtù eroiche dimenticate dall’uomo comune e ancora riproposte come antichi valori incrollabili, oppure recuperate e offerte nella nuove vesti del superomismo dannunziano.

Per rendere più acida la tonalità ironica della sua produzione drammaturgica, Bontempelli sceglie per gli intermezzi due figure mitiche: Napoleone, l’eroe eccezionale che si dimostra di essere soltanto un pupazzo e Colombina, la figura femminile della serva goldoniana, “petulante e corteggiata da cui si fa comandare”. Delli Priscoli Roberta considera che non è senza motivo la scelta delle due maschere per i burattini; inoltre questa scelta viene in accordo con la presenza dei protagonisti delle marionette sul palcoscenico: un ré, una principessa e un eroe. In seguito, lei aggiunge una nuova prospettiva per l’interpretazione in chiave mitica dei due nuclei scenici – questa loro contrapposizione dà vita “a due diverse linee interpretative degli avvenimenti, in una sorta di amusette philosophique: eventi banalissimi per gli uomini appaiono alle marionette prodigi di origine soprannaturale.” L’universo delle marionette è senz’altro un mondo clericale, sottomesso alla volontà di Dio, in questo senso è eloquente la scena in cui la Principessa decide di sacrificarsi per la società e diventare messaggero di Dio per la sua comunità. In parallelo a questo mondo governato dalla sacralità e dalla mistificazione di ogni avvenimento – come per esempio l’apparizione della siepe – c’è l’universo della “normalità borghese”, in cui la protagonista, Laura, si mostra oppostamente alla Principessa: lei è il prototipo della donna adulterina borghese che pensa soltanto al proprio bene e al suo amore clandestino. Ciò che è sacro per le marionette, è paradossalmente prodotto di uno scopo meschino e basso degli uomini. Sandra Milanko intende nella sua tesi questa voragine tra i due piani come una sorta di paragone ironica tra la “la società contemporanea, rappresentata da una parte dagli ideali non più adatti ad una nuova realtà (le marionette) e dall'altra da una degradazione dell'uomo moderno ridotto alle superficialità (gli uomini), non riesce a leggere i fenomeni oltre le apparenze e rimane cieca a quello che Bruno Corra considerava «invadenze buffe e meravigliose di altri mondi nel nostro»” La grande questione resta però se dobbiamo nominare Laura, Carletto e Mario uomini e questa problematica viene chiareggiata da Sandra Milanko che afferma:

Il divario tra i due piani è reso evidente dallo scambio dei ruoli (per cui gli uomini vengono ridotti alle marionette, mentre le marionette grazie ai nobili valori ottengono la coscienza e volontà umane) che si basa non solo sul contrasto tra il modo di corteggiare di Eroe e di Carletto oppure tra l'innocenza di Principessa e l'ipocrisia di Laura, ma anche sullo stesso linguaggio che i personaggi usano – aulico e ricercato delle marionette e colloquiale e informale degli uomini.

Questo tipo di riduzione non è straniero per la produzione epica di Bontempelli: in Eva Ultima, ritroviamo il triangolo – protagonista femminile, marionettista, burattino – con la stessa fine: la protagonista perde l’identità morale e cadde nella trappola della propria fantasia. Assistiamo dunque a un processo di disumanizzazione profonda che affetta soprattutto gli esponenti della femminilità bontempelliana, come già abbiamo visto in La guardia alla luna e come si vedrà anche in Nostra Dea e in Minnie la candida. L’intermezzo e la presenza dei personaggi di Napoleone e Colombina servono come pretesto per sottolineare l’idea anteriore:

Colombina: Se debbo dirti la verità, mi sono più simpatiche le marionette che gli uomini.

Napoleone: Anche a me: sono gente più seria.

Colombina: E gli uomini hanno un che di marionetta.

Napoleone: E noi che cosa siamo?

Colombina: Noi siamo veri, che c’entra? Ma sta’ zitto: eccoli.

Questo gioco di parole: marionette – gente, uomini – marionetta, collocano la trama sulla realtà doppia che Bontempelli fila ed a cui aggiunge una traccia di mistero e confusione: non si sa più su quale piano si gioca. La problematica della femminilità è resa evidente dai primi interventi di Colombina:

Napoleone: Che vuoi, femmina?

Colombina: Ah no: non tollero di essere chiamata femmina da nessuno, e molto meno da te…

Napoleone: Calmati, calmati, donna.

Il discorso del divario che c’è tra femmina e donna è fondamentale in questa sequenza su cui ci siamo fermati; la parola femmina non supporre soltanto la denominazione biologica di un essere, ma c’è qui anche un grado di inferiorità in rapporto con il termine di donna, che suppore un certo pacco di qualità. Pertanto, possiamo considerare che o il personaggio di Colombina nega sé stessa il suo statuto di essere vero, di carne ed ossa, oppure si riferisce a una valorizzazione del suo statuto di donna per rafforzare meglio la condizione disgraziata di Napoleone che ha perso il lustro d’altre volte, presupposto convalidato anche dalla formula: “e molto meno da te…”

Un’altra riflessione sulla condizione della donna si rispecchia nel ragionamento del Ré: “Voi non conoscete le donne, mio caro Eroe. Non c’è ammirazione che nel loro cuore possa tenere le veci di amore. La più pura delle fanciulle potrebbe ammirare voi come un Dio e innamorarsi del peggior mascalzone che viva in tutto il regno.” L’affermazione del Ré è valida per entrambi delle donne: la Principessa è un essere puro, ma comunque resta donna e di conseguenza ha un modo di ragionare debole, dall’atra parte abbiamo Laura che dimostra di essere una donna abile nella sua impresa di nascondere la sua avventura – “Sai come siamo, noi donne? Siamo molti più ingegnose di voi” – ma resta anche lei un essere limitato e sottomesso alla forza delle passioni.

La fine della pièce riprende di nuovo alcuni motivi standard per Bontempelli: la donna Zingara, la donna chiaroveggente, che è capace a divinare il futuro, capostipite precipuo in Eva ultima o la donna capace a distruggere destini con le sue previsioni come per esempio in Gente nel tempo. In questo caso non è adatto dire che la donna sia l’espressione della demolizione di un universo, anche se entrambi universi crollano a sua intervenzione, lei è piuttosto l’essere necessario per chiarire, per rivelare, per portare alla luce la verità: i due mondi (delle marionette e degli uomini) sono prodotti artificiali, fabbricati, sintetici di un artigiano accorto. La fine è bagnata in una luce positiva: fintantoché nel mondo siano dei burattinai, lo spettacolo sarà portato in avanti.

Concluderemo con un’altra riflessione sulla doppia visione della vita presente in questa produzione drammatica di Bontempelli e citiamo Giordano Vita che parla proprio sulla dualità dello scrittore:

La dualità, invece, è una caratteristica che emerge nel racconto di Bontempelli soprattutto grazie alla presenza di alcuni elementi in disaccordo tra loro: le immagini “vere” e quelle “riflesse” da una parte, e la libertà e la restrizione, dall’altra.

Questa dualità sarà ripresa in Nostra Dea ad un livello più alto che diffida la svalutazione dell’uomo che è colto nella sua realtà formale a cui non può sfuggire, come afferma Lia Lapini. L’uomo viene ridotto alla condizione di marionetta attraverso un lungo processo di degradazione e di automatisazione del personaggio bontempelliano che poco a poco si svela nella sua forma primaria, senza le maschere sociali imposte dalla falsità del mondo borghese. Proprio su questo fondamento nasceranno i futuri personaggi di Bontempelli, cioè Dea e Minnie che saranno ridotte al vuoto esistenziale.

2.3. Nostra Dea

Dopo un passo importante in avanti con la muta di perspettiva che adopera in Siepe a nordovest, Bontempelli scrisse Nostra Dea, che è probabilmente la più importante pièce del drammaturgo, nell’ambito letterario della Roma dell’anno 1925, anche se, come l’autore spiega, cominciò a pensare la commedia nell’estate del 1922. La nascita di questa commedia è strettamente collegata all’attività del “Teatro degli Undici”. In questo periodo, Bontempelli gode della presenza e dell’aiuto di Pirandello per preparare il repertorio per il nuovo teatro di cui fa parte; infatti, come Bontempelli racconta nella Nota, è stato proprio Pirandello quello a chiederle di scrivere una commedia per il repertorio, un’idea del tutto insolita per Bontempelli che era certo, come afferma, “che mai più avrà scritto una commedia”. A Roma, Bontempelli entra nel cerchio futurista, cerca di sviluppare la sua poetica “novecentista” e si dedica alla scrittura assidua dei racconti fondamentali per la sua opera: La scacchiera davanti allo specchio e Eva ultima in cui riprende la prospettiva narrativa di Siepe a nordovest. Lia Lapini descrive questa fase artistica della vita di Bontempelli, dicendo:

Bontempelli si sposta più sensibilmente da un relativismo critico e polemicamente deformante, verso un relativismo per così dire magico, finalizzato cioè a mettere a fuoco il meraviglioso insito nel quotidiano solo che si muti la prospettiva di visuale. Proprio la possibilità di una sfera misteriosa, non soprannaturale o superiore, ma che sia semplicemente al di là delle apparenze “normali” e degli schemi di realtà che l’uomo si è creato, la quale è raggiungibile per un atto di volontà con l’immaginazione, è la vita attraverso cui Bontempelli recupera all’uomo-marionetta borghese la possibilità di un volto “umano”.

Lia Lapini usa proprio le parole di Bontempelli per definire il suo impegno artistico che marchierà le seguenti produzioni drammatici: “Inventare il vero”. Per il ruolo di Dea è stata scelta Marta Abba che arrivata a Roma, già aveva tutte le battute di Dea imparate a memoria. Il suo arrivo è stato seguito da numerosi ripetizioni per perfezionare la rappresentazione, che è successa effettivamente nella sera del 22 aprile e come Abba dichiara: “fu un trionfo”. La pièce è stata tradotta in polacco e ungherese, ma non ha avuto successo perché i registi non hanno saputo rispettare le indicazioni di Bontempelli, invece, le traduzioni in ceco, castigliano e rumeno hanno goduto di un grande successo a Madrid e allo Studio del Teatro Nazionale di Bucarest. Sfortunatamente per Bontempelli, la notorietà della sua produzione drammatica si è spenta dopo il 1925 nell’Italia: la pièce “non fu ripresa mai più”.

La commedia è divisa in quattro atti, ognuno prospettando una faccetta della protagonista che prende diversi atteggiamenti secondo il vestito che indossa. L’azione della pièce è del tutto semplice: Bontempelli usa di nuovo il motivo banale e già esaurito dalla letteratura, quello del triangolo amoroso – la donna infedele, l’amante e il marito geloso – come pretesto per indirizzare l’attenzione del lettore sul personaggio di Dea nella stessa maniera in cui uno scultore fa un altorilievo. Secondo Lia Lapini, è stato proprio Bontempelli colui che ha dichiarato di aver “scelto un intreccio comico, il più semplice e lineare possibile (…) per rappresentare la strana natura di un personaggio inconsistente come Dea”. Dunque, Bontempelli opera una sorta di gradazione della trama: parte dai “caratteri tradizionali” del teatro ai quali aggiunge un nuovo personaggio, del tutto insolito, Dea, per mostrare che anche questi sono “dei fantocci”, delle montature senza consistenza, delle maschere vacui.

Il Primo Atto si apre con la descrizione usuale dell’ambiente in cui si trova la protagonista, Dea, e una delle sue cameriere, Nina, che stanno parlando. All’inizio della pièce Dea è in “combinazione” e parla in una maniera meccanica con la sua cameriera che vuole aiutarla a vestirsi. Nel frattempo, l’altra cameriera di Dea entra nella stanza e annuncia la signora che il dottore e un tal signore Vulcano sono venuti a visitarla. Anna le infila un vestito “rosso chiaro vivace” e il corpo di Dea è invaso da vita tutto in un colpo. Accoglie Volcano con un’indifferenza disarmante e si comporta come non se ricordasse nulla dell’argomento di cui Vulcano vuole parlargli o della contessa Orsa o di Marcolfo, l’amico di Vulcano. Dea esce senza spiegazioni e lascia Vulcano stupito ad aspettare la contessa da solo. Discutendo con la cameriera, essa gli parla della natura dell’atteggiamento di Dea che cambia con i vestiti che porta. Sempre in questo atto appare anche Marcolfo che racconta di aver incontrato Dea in un bar, tutta piena di vita e gioiosa; fra poco entra nella scena anche il dottore che rende una visita alla signora Dea. Vulcano non riesce a capire perché il dottore viene sempre quando il paziente manca di casa e spiega una sua teoria secondo cui i sintomi del malato si vedono meglio nell’ambiente, un tipo di sintomatologia “metacorporale” come lui la chiama nella pièce. Dopo la partenza del dottore, Vulcano chiareggia a Anna il motivo per cui è venuto da Dea e gli racconta tutto sull’avventura clandestina della contessa Orsa con il suo amante, Dorante, e sulla strategia che Dea e la contessa avevano messo a punto per aiutarla a conseguire il permesso del marito per andare alla festa del “Poliedric”. Ora, la contessa Orsa è attonita dal cambiamento di Dea che non vuole più aiutarla a vedere il suo amante, anzi Dea non capisce perché tanto impegno da parte della contessa per vedere questo amante quando si può semplicemente trovarsi un altro. Infatti, la battuta di Dea spiega molto bene le intenzioni di Bontempelli di trovare un argomento comune per una situazione fittizia: “Dea: Lalalà. Quest’amori fatali, che banalità.” Nella scena entra anche Donna Fiora, la sarta personale di Dea che parla in chiave mitica del vestito che le ha preparato per quella sera: “Il grande autore non racconta l’intreccio della sua tragedia. Il vestito che le ho preparato è una tragedia.”, facendo una sorta di alter ego dell’autore stesso. Vulcano ha allora l’idea di insinuare che il vestito che Dea aveva indossato una sera avanti fosse sbagliato, per sfidare la sarta e costringerla a vestire di nuovo Dea nell’abito in questione. Una volta che abbia indossato il vestito grigio-tortora di nuovo, Dea si trasforma nella donna tenera, dolce, languida che era la sera prima e naturalmente è disposta di nuovo ad aiutare la povera contessa. L’atto si conclude con Dea che scrive finalmente la così controversa lettera sotto la dettatura di Vulcano.

Nel Secondo Atto, il Dottore fa una visita a Marcolfo, ma trovandolo a casa, si arrabbia e esce subito dalla casa di questo. Poi, Vulcano e Dea arrivano insieme a casa di Marcolfo che è fortemente commosso dalla presenza di Dea in sua casa, ma allo stesso tempo confuso perché non riesce a capire se lei è proprio la stessa persona che aveva conosciuto nel bar. Vulcano ricorda a Marcolfo la strategia per aiutare donna Orsa in quella sera a incontrarsi con il suo amante senza il resoconto del marito e poi lascia Dea sola con Marcolfo, divagando in discussioni futili. Ad un certo punto, Dea comincia a tremare e Marcolfo prende subito uno scialle color cenere da un divano e copre tutto il corpo di Dea, “fino ai piedi e fino al mento”, finché “Dea non c’è più.”. Dea diventa stanca in una maniera inspiegabile e si abbandona nelle braccia di Marcolfo, una scena che assomiglia in una certa misura con la fine di Eva ultima, in cui Eva perde il giudizio e si dà a un domestico di Evandro.

L’Atto seguente presenta il “Poliedric Superbal”; Bontempelli concede un luogo importante alla musica e all’ambiente, a cui dedica un’ampia descrizione all’inizio dell’atto. Entrano nella scena Marcolfo e Vulcano, seguiti dalla Contessa Orsa e da Dea vestita di “squame verdi luccicanti” con una specie di serpente intorno al collo, che monta fin ai suoi capelli. Questo vestito cambia ovviamente anche l’atteggiamento di Dea che è indifferente ed ironica verso gli altri, ma soprattutto, diventa astuta ed insinuante. Corrompe un servo vecchio a chiamare Dorante sotto il pretesto che “quella signora che lui sa” lo aspetta. Quando Dorante entra nella stanza e scopre che è infatti Dea quella che lo aspetta, diventa un po’ sconvolto; la furba Dea apre la discussione e gli mette a nudo che la Contessa Orsa l’ha incaricata ad annunciarlo che non lo vuole più e che è già andata con un altro. Nonostante le spiegazioni petulanti di Dea, Dorante vuole vedere Orsa; Dea lo prega di mantenere il silenzio in ciò che riguarda il loro incontro e lo fa tornare su. Vulcano e la Contessa Orsa ritornano delusi; Dea racconta subito di aver visto Dorante, ma, fabbrica una storia in cui lui era accanto a una donna bionda, alta e molto bella con cui pareva di avere una relazione stretta. Nel frattempo, una donna è svanita ed viene chiamato il dottore in medicina; si produce una forte agitazione e in questa confusione entra anche Dorante che vede la contessa Orsa affiancata affettuosamente da Marcolfo e Vulcano, ma non può farsi avanti a causa della gente. Quando è riuscito finalmente a superare la folla, minaccia Marcolfo e Vulcano di lasciare in pace la contessa; all’inizio i due uomini sono confusi e vogliono litigare con Dorante, ma poi si rendono conto chi è l’uomo che sta di fronte a loro e gli spiegano che era proprio lui che cercavano come pazzi. Entra Orsa nella stanza e Marcolfo e Vulcano decidono di lasciarli soli a parlare: Dorante gli spiega che la sua amica gli ha detto che voleva scappare con un altro, Orsa rimane interdetta e si rende conto che tutto è stato un gioco maligno di Dea. Prima di partire con Dorante, Orsa scontra Dea che entra nella stanza e dissimula di essere felice per i due amanti, ma Orsa gli toglie la parola all’instante. Dea non rinuncia e chiede al servo vecchio di mandare una lettera al Conte Orso, al Consiglio dei Venti, in cui rivela tutta l’avventura della sua moglie con Dorante. Vulcano si rende conto che Dea gioca l’astuzia e sospetta che vuole fare del male a donna Orsa, proprio come un serpente. Quando Vulcano aiuta a Dea infilare un nuovo abito, quello di un frate, Dea diventa sincera e racconta a Vulcano tutto quello che ha fatto per allontanare i due amanti l’uno dall’atro e poi si mette a recitare preghiere. Marcolfo e Vulcano corrono ad impedire il conte di entrare al bal, mentre Donna Fiora, la sarta che è venuta incognito al bal per vedere come portano le sue cliente i vestiti che ha creato, è stupefatta dall’immagine di Dea vestita in abito da frate. Cerca di vestirla di nuovo nell’abito di serpente, ma Vulcano ritorna e distrugge il vestito. Alla fine dell’atto, Dea rimane sola, gemendo, lacera e misera.

L’ultimo Atto presenta il monologo di Vulcano che riprende e spiega la trama della pièce ed è centrale e fondamentale per capire l’opera. Anche Marcolfo è testimone al cambiamento di Dea secondo il vestito che Vulcano la fa indossare, ma non riesce a capire veramente che cosa succede con Dea. La fine della commedia denota la circolarità dell’opera: Dea, aiutata da Anna, si toglie i vestiti fino a che rimane in combinazione; riprende i gesti automatici e diventa stanca.

Sulla figura della protagonista, Dea, sono state multiple interpretazioni, Lia Lapini analizza Dea in perfetta concordanza con l’opinione di Bontempelli stesso sulla donna nell’arte, atteggiamento preso anche da Simona Micali nel suo studio sulla dissoluzione della femme fatale nelle opere di Bontempelli; da un’altra parte abbiamo anche Patricia Gaborik che intende il personaggio di Dea come prodotto parodico, propagandista e contrastante con il modello di donna proposto dal regime fascista. Partendo proprio dal punto di vista dell’autore stesso che Lapini cita nel suo libro, già possiamo farci una raffigurazione precisa sulla figura femminile di questa pièce:

Bontempelli ipotizza, dunque, che la donna sia per la natura colei che non ha conoscenza del suo vivere, perché possiede “un sentimento scarso del proprio essere individuale”: “La sua personalità è fittizia, e però le occorre essere perpetuamente riempita per reggersi; come è riempita. Automaticamente si svuota e richiede nuovo alimento”, come “un’antenna […] voracissima di tutto ciò che è fuori di lei.” La donna cioè, recita la sua parte senza saperlo, ed è indubbiamente mossa da qualche cosa che è “tutto di fuori”.

La teoria di Bontempelli spiega in assoluto il personaggio di Dea, che cambia la personalità sotto l’effetto dell’abito che indossa, metafora per spiegare uno strumento artistico usato tipicamente da Bontempelli che rimembra il concetto della “donna come estetica pura”, condizionata dall’ambiente esterno nel suo agire. Lapini usa anche il termine di donna-mannequin per definire Dea come marionetta a cui si attaccano diverse maschere secondo la situazione. Nella prima e nell’ultima sequenza, quando è in combinazione, Dea è ridotta allo “stato vegetativo” – poi pian piano prende vita e busca un’anima provvisoria. Senza le maschere, Dea non è capace di sopravvivere in nessun ambiente: perde la vitalità morale e diventa un simbolo della vacuità esistenziale, come aggiunge Lapini:

In questa immagine di donna, infatti, non soltanto si rispecchia il misero destino di chi non può vivere che in dipendenza da una “maschera” sociale, e di questo proprio stato non ha conoscenza, ma si nega oltretutto una tale possibilità di dolorosa consapevolezza perché Dea consiste soltanto come “maschera”: è “niente” senza vestiti, “non esiste” dice Bontempelli […] Bontempelli ci dà l’immagine di una creatura inerte che ha perduto anche questa possibilità di sofferenza, e con essa l’ultimo mezzo per salvare la propria “umanità” e una propria esclusiva sfera interiore.

La stessa interpretazione sul personaggio di Dea è adottata anche da Patricia Gaborik, però la sua argomentazione si basa sull’antitesi fra il tipo di donna che il regime fascista proclamava e i vari tipi di donne che Bontempelli sceglie a mostrare nei suoi lavori; lei parla della così detta “donna-crisi” spiegando questo concetto:

If the ideal fascist woman was the authentic, florid mother, her antithesis was the crisis woman. […] She threatened the fascist hierarchy, not only because she failed to contribute to the demographic campaign but also because she disturbed the gender binary on which fascism so heavily relied.

Nella commedia, c’è proprio una scena che rende evidente l’affermazione di Gaborik, si tratta della sequenza in cui Dea, vestita di un “tailleur diritto e molto maschile e giovanile” di color rosso, sente tutto il corpo invaso da vita e diventa indifferente alla visita di Vulcano e ai disagi della contessa Orsa: “Dea: […] Vorrei essere un uomo, per non essere obbligata a prendere sul serio le donne.” La teoria della Gaborik si basa proprio sui stessi concetti: la donna è plasmata dalla società e, in questo caso, anche dal maschio-artista (“the male artist”), che viene interpretato come la figura di Vulcano, come si vede nella scena con cui si conclude il primo atto, in cui Dea, vestita di nuovo nell’abito grigio tortora, grazie all’ingegno di Vulcano, scrive la lettera per aiutare la contessa. Infatti, Bontempelli non lascia nemmeno una sola traccia di mistero sulla figura di Dea; lui espone il meccanismo di avviamento di Dea attraverso la voce di un altro personaggio, Anna:

Anna: Molto sensitiva ai vestiti che porta. È un fenomeno. Se ha un vestito vivace, è vivace, come oggi; se ha un vestito timido, è timida, come ieri: e cambia tutta, tutta: parla in un altro modo; è un’altra. Un giorno l’ho vestita da cinese, s’è messa a parlare in cinese purissimo. Se le mettessi un vestito nero e un velo lungo, andrebbe a singhiozzare al cimitero sopra una tomba.

D’altronde, Dea non sembra consapevole della sua natura mutevole nel senso spirituale, lei intende soltanto il cambiamento che il vestito porta alla sua corporalità, dicendo a Marcolfo: “È curioso. Noi donne, basta un cappello per cambiarci la fisionomia.”. In questo contesto, Simona Micali parlava del “trauma della propria immagine deformata” che è propria per le donne che sono “essenzialmente corpo – quell’immagine riflessa davvero”; la donna non vive “di una vita spirituale e intellettuale affatto indipendente dalla propria identità fisica”, come vive il maschio, lei è fondamentalmente questo carcame che prende diverse forme secondo il contesto impone. Anche la descrizione di Eva fatta dalla Tricomante all’inizio del romanzo mette l’accento sull’apparenza fisica della donna: “Venga qua quella vestita di rosso” e poi aggiungendo alcuni tratti essenziali che incontriamo anche nella commedia: “Eva Eva, anima sempre avida e sempre stanca…sempre di corsa, prigioniera e liberata […] Eva non nata mai eppure non immortale”. Questa descrizione è ripresa sotto un’altra forma nella pièce: la stanchezza appare nel testo più di una volta nella descrizione di Dea: quando indossa lo scialle color cenere e alla fine della commedia, quando resta di nuovo in combinazione: “Dea: Sto bene. Sono stanca. Mi sento languire. Mi stia vicino. Più vicino.” e la questione della mortalità di un tale personaggio viene menzionata attraverso le parole di Vulcano, che, come Lia Lapini afferma, diventa “personaggio-coro” per la pièce: “È terribile come le donne non hanno paura delle parole! No, non credo che la tua padrona sia morta. Credo, anzi, che le sarà molto difficile morire.” Per il resto, possiamo dire che Micali non ha un’interpretazione del tutto nuova di Dea, se la rapportiamo a Lapini per esempio – Micali vede in Dea “un personaggio artificiale, un manichino, che cambia personalità automaticamente e in maniera non problematica”. Micali propone inoltre anche una classifica dei personaggi e delle vicende, secondo le diverse conseguenze che la natura mutevole di Dea comporta: come in Siepe a nordovest, abbiamo di nuovo a che fare con il triangolo borghese – il geloso conte Orso e i due amanti avidi a vivere la loro storia proibita di amore – poi, abbiamo Vulcano, il ripresentante dell’amico protettore degli amanti; “il pigro e dolce Marcolfo” , il dottore, messo in scena per mostrare il ridicolo del principio naturalista (“che ogni personaggio sia il prodotto del proprio ambiente”; a cui aggiungiamo Donna Fiora, interpretata da Lapini come “fanatica è scalcinata”, che considera che “è la persona che deve adattarsi all’abito e non viceversa”, e evidentemente, il non-personaggio della commedia, Dea, che è ben intesa da Micali e che riprende l’interpretazione della concezione demolitrice sul teatro tradizionale di Bontempelli:

L’effetto straniante non è dunque prodotto dai personaggi indossati da Dea, ma dal fatto che sia sempre lei a impersonarli tutti, secondo un meccanismo applicato con disumana rigidità (a tale vestito corrisponde tale personalità) e altrettanto disumana rapidità ( contravvenendo cioè alle classiche norme di sviluppo naturale e consequenziale che regolano i mutamenti psicologici: Dea sovverte così il principio di individuazione e unità che sta alla base della concezione del personaggio nel teatro tradizionale, mandando in pezzi il dramma psicologico con le sue necessità di coerenza e consequenzialità.

Se Gaborik parlava del concetto della “donna-crisi”, come già abbiamo visto, Micali sceglie di attualizzare il concetto della “donna palinsesto”, cioè “le molte donne in una” – riprendere praticamente tutti i modelli femminili dell’immaginario del genere umano in un unico personaggio.

Da un lato abbiamo dunque le diverse interpretazioni di Dea come personaggio indipendente, fabbricato sull’argomento della mancanza di individualità, da un’altra parte, possiamo analizzare i diversi atteggiamenti di Dea anche in antitesi con l’altra figura femminile della commedia, la Contessa Orsa, prospettiva proposta anche da Gaborik, che vede questa relazione diametralmente opposta:

Orsa’s love is complicated, while Dea’s life is clean, simple, fast-paced, and active. She is practical: if your lover is gone, find another. She has no time for ‘‘womanish’’ sentimentality because it is tiresome and unproductive.

Questi caratteri riprendono due figure distinte della letteratura: il modello tipico dannunziano e il modello futurista di femminilità che non ingozza i lamenti idillici della contessa. Dea è per eccellenza un’attrice che assume un ruolo, cioè cambia la psicologia e l’atteggiamento, secondo il vestito lo impone; Gaborik cita Italo Inglese per mostrare come è stata la commedia di Bontempelli ricevuta ed intesa:

Massimo Bontempelli, in Nostra Dea, ci ha preso in disparte, ha preso l’uomo in disparte e gli ha detto: Guarda la tua femmina che si chiama donna. Ma che per te Dea. Guarda: ella non solo è mobile, ma riflette, in azioni, la suggestione del abito che indossa. Nuda, è semplice. In abito da casa, è buona e gentile. In abito maschile, è mafiosa (prepotente). In tunica da sera, mezza nuda, con gioielli, è cortigiana.

Un elemento fondamentale per la pièce rimane senza dubbio il personaggio di Vulcano, che Gaborik interpreta in chiave allegorica: il nome in sé può inviare verso la leggenda del dio Efesto, che secondo la leggenda, al commando di Zeus, concepisce la prima donna sulla Terra: Pandora. Allo stesso tempo, Efesto raffigura il dio-artista, dunque non è casualmente che Bontempelli abbia scelto questo personaggio come alter ego. Vulcano è l’unico capace di capire il meccanismo secondo il cui funziona Dea e usa queste informazioni per manipolarla e modularla secondo la sua volontà, appunto come Evandro fa con Eva. I due sono l’espressione del mago-demiurgo che controlla tutto l’universo intorno di sé. Comunque, il monologo dell’ultimo atto ci fa pensare che alla fine, l’uomo e la donna sono uguali: Vulcanio ammette l’amore e l’ammirazione per Dea, che definisce “Olimpo di dee belle” e “creatura di lussuria”, ma l’importante è che lui è attratto da una sola faccetta di Dea ed rinnega il lato maschile della donna:

Vulcano: […] io lo adoro tutto, quell’Olimpo, ma in fondo l’unica con cui mi senta tranquillo sei tu: la meno lontana da me, sei, e per questo, davanti a te mi voglio inginocchiare, così (s’inginocchia) e alzare ellenicamente le braccia (le alza) e se non fossi in frac ti canterei un ditirambo, ti toglierei questo tralcio di pampino, così (eseguisce) ché tanto non mi vede Donna Fiora artista sarta, Donna Fiora grande fabbricatrice di divinità; e me lo metterei in capo come una corona (lo ha foggiato a corona e se lo mette in capo) e m’alzerei (s’alza) e con voce di saxofono canterei…ma sono in frac. Il frac e la logica. Il frac è l’affare. Il frac è il maschio. Il frac è una cosa seria.

L’azione di Vulcano ha degli effetti devastanti su Dea: alla fine, lei è ridotta alla paralisi totale dei sensi. Dea è spogliata dai strati di vestiti e implicitamente dalle multiple personalità sociali fino che raggiunge allo stato iniziale di nulla, una fine che ricorda senz’altro le teorie nichiliste. Sandra Milanko vedeva in Vulcano “uno dei portatori del sistema weiningeriano” e il complementare della faccetta tenera di Dea, mentre l’atro personaggio maschile, Marcolfo s’innamora della donna in abito rosso, vivace, vibrante, forte, aggressiva, nominata da Milanko “donna-terremoto”. Quindi, Milanko osserva che tutti i personaggi complementari dell’opera hanno un ruolo definitorio nel percorso della protagonista e in questo senso il più giustificato esempio sarebbe il personaggio di Donna Fiora, che può essere compreso come “accenno metanarrativo” di Bontempelli al ruolo dell’artista al femminile e il principale personaggio che determina la causalità della pièce.

2.4. Minnie la Candida

Sempre al consiglio di Pirandello, Bontempelli cominciò a scrivere Minnie la Candida nel 1924, a Parigi, come spiega nella Nota:

M’era venuta in mente nel marzo di quell’anno, in una bella mattinata di sole che m’aggiravo sul lungosenna del Louvre, vedendo, sopra un carretto lì fermo, una gran vasca rettangolare di vetro piena d’acqua in cui pigri movevano una quantità di pesci rossi.

La fonte d’ispirazione è stato il volume di novelle La Donna dei miei sogni, come gli è stato suggerito da Pirandello. La commedia fu rappresentata per la prima volta a Torino nel “Teatro di Torino”, nella sera del 29 dicembre 1928. Il personaggio di Minnie è stato interpretato da Carola Zopegni, “una giovane attrice che prometteva moltissimo” e probabilmente per questo la pièce è stata ben ricevuta dal pubblico. Non è stata la stessa situazione con la critica italiana, che si mostrò contraria alla pièce; appena cinque anni dopo, il dramma è stato ben ricevuto anche da essa, ma il suo successo è stato efemere e la pièce è stata subito dimenticata nell’Italia. Contrario a Nostra Dea, che è stata un trionfo nazionale e internazionale per l’autore, Minnie la Candida non ha goduto del medesimo successo internazionale, anche se il dramma appare nello stesso “clima pirandelliano”. Lia Lapini commenta proprio questo passaggio da novelle a lavoro drammatico:

La favola innocua che narrava la bizzarra ossessione che spinge al suicidio una “giovine anima credula”, si trasforma infatti in dramma che trae alimento da una ben più tragica radice ispirativa attorno a cui prende corpo una compiuta visione critica della società e del mondo contemporanei.

Bontempelli recupera alcune figure di donne che sono già sfruttate nelle novelle: l’immagine di Anna della Donna dei miei sogni, Adelina di Idillio finito bene, e alcuni quadri fondamentali per la costruzione del dramma, come il quadro della città notturna di Cataclisma o alcuni fondali di Giovine anima credula. Comunque, Lapini non vede in questi reperì d’ispirazione “che i fonti occasionali dell’opera teatrale, che acquista autonomia espressiva propria.”

In ciò che riguarda il titolo, Pirandello che ha suggerito anche la fonte principale per la pièce, ha proposto la ripresa uguale del titolo della novella Giovina anima credula, ma Bontempelli sceglie di cambiarlo, come lui dichiara palesemente. Possiamo assumere che il titolo rimanda alla celeberrima opera di Voltaire: Candide, una rivolta contro l’ottimismo leibniziano. Bontempelli utilizza “candido” per esprimere il carattere ingenuo e semplice della protagonista che crede tutto quello che gli altri personaggi vogliono farla credere. La differenza maggiore tra le due parole sta proprio nel personaggio che nominano: Candide riesce a capire il mondo attraverso i propri meccanismi di analisi, mentre Minnie non riesce più a vedere altra realtà di quella che è costretta a vedere. Il problema della credulità di Minnie è di rimanere passiva alla nuova realtà che prende come verità assoluta senza collaudi. Alla differenza di Candide di Voltaire, Minnie ha un percorso discendente: diventa “la candida, portatrice cioè di un’intelligenza elementare che soverchia e semplifica tutto il mondo che sta intorno.” Lia Lapini nota che questa parola non è una premiere per Bontempelli, infatti l’aggettivo “candido” è ricorrente nelle narrazioni bontempelliane che raggiunge la massima significazione con la protagonista di questo dramma, Minnie, che è la più espressiva figura di donna candida, ma sicuramente non la prima, come abbiamo già visto.

La pièce si apre con la descrizione della terrazza dove si trovano i personaggi: Minnie, il cameriere, Astolfo, e Skagerrak, ricordando il fondalo di una sequenza di La guardia alla luna: il momento in cui la protagonista, Maria, va a cercare il vicolo della Luna. La scena iniziale della pièce non è priva di elementi comici, come Bontempelli ci ha abituato:

Astolfo: Il signore desidera?

Skagerrak: Un po’ di calma. Astolfo

Astolfo: La cerchi, signore, nella profondità della sua anima. Quanto alla signorina, poiché forse non avrebbe ove cercarla, rimedierò con qualche tocco di colore, (Si avvia all’ingresso del caffè gridando) Una granita di quattro colori […]

Minnie: Quel cameriere deve essere uno intelligente un po’ stupido.

Come Lapini osserva, il cameriere Astolfo deriva dall’Oste filosofo della Guardia alla luna ed è un personaggio tipico del teatro grottesco, che accetta la sua posizione sociale e l’afferma senza sbarri: “Non amo che mi si dia del lei. Se faccio il cameriere, si è per ragioni superiori e teoretiche. […] E perciò amo che mi si tratti in tutto e per tutto da cameriere. Mi darà del lei quando inaugurerò un corso all’Università” Dopo un paio di tempo, nella scena entra Tirreno, l’amico di Skagerrak che fa conoscenza con Minnie. Comincia una serie di battute sul luogo di provenienza di Minnie, pretesto per fare una descrizione diretta e dettagliata della protagonista e della sua storia di vita:

Minnie: Prego, non ero nata io qua e là, io ero nata tutta insieme in un luogo solo, che è in una città di Siberia. Ma se ho detto “sono io di Siberia”, qualcuno comincia a parlare lingua siberiana, e poi domanda ha veduto questo, ha veduto quello, e io invece niente sapevo perché ero venuta via molto piccolina. Perché mio padre era stato della India, giù, e contrario mia madre era stata dalla parte di Norvegia, su su, ma quasi sempre abitava in Italia, lei prima, io no: e io con mia madre insieme siamo sempre cambiate di paese finché ella era viva; e Skager conoscevo a Costantinopoli e insieme siamo partiti, ma io parlavo solamente bene linguaggio italiano, come mia madre.

Parlando con Tirreno, Minnie gli confessa in seguito che non sa dove si trova perché Skager non vuole dirglielo; Tirreno gli suggerisce di guardare intorno a sé per rendersi conto dall’atmosfera del luogo dove si trovano. Inizia una discussione sulle poche persone che si trovano alle tavole del caffè e Tirreno fa supposizioni sulle loro storie: si trattava della “coppia colpevole e del suicida.” Poi, parlano del viaggio che faranno Minnie e Skagerrak a New York e del fatto che Tirreno si sposerà con una certa Adelaide e andrà vivere a Berlino. Dopo alcune battute sul modo in cui vanno vivere la vita, i due amanti colpevoli e il suicida si avviano verso la uscita del palcoscenico, e nella scena entra un carretto spinto da un uomo, su quale si trova una grande vasca piena di acqua e di pesci rossi e dorati. Questo è il punto fondamentale del dramma: Tirreno convince Minnie che i pesci che vede sono “pesci finti”. Tirreno porta lo scherzo in avanti e dice a Minnie che nel mondo esistono anche degli uomini finti, dodici: sei uomini e sei donne che sono riusciti a scappare via dal laboratorio dove sono stati fatti e non si sa più dove sono andati. In più, questi uomini finti credono di essere veri. Vedendo che Minnie prende lo scherzo sul serio, Tirreno vuole chiareggiare che si trattava di una semplice farsa per divertirsi, ma comunque Minnie mente che non ha creduto la storia con gli uomini finti, ovvio, il lettore si rende conto che lei ci crede ed è rimasta profondamente toccata di questa storia incredibile.

Il Secondo Atto inizia con un’altra descrizione, questa volta della casa di Skagerrak, dove Astolfo e l’amante colpevole fanno le preparazioni per la colazione. Tirreno entra nella scena ed è sorpreso dal fatto che l’amante colpevole faceva il sottocuoco per Astolfo; in questa sequenza, Bontempelli lascia il lettore a vedere l’essenza della pièce: “…Di giorno mi aiuta in cucina: alle cinque del pomeriggio indossa il costume e gli atteggiamenti dell’amante colpevole, per il pubblico.” Nel frattempo appare anche Skaggerak, vestito e pronto per accogliere i suoi inviti. Mentre aspettano Adelaide e Minnie, Tirreno si interessa se Minnie ha dimenticato quella storiella che gli avevano inventato, ma non passa molto tempo e Minnie arriva tutta spaventata perché è sicura di aver visto tre degli uomini finti. Tirreno e Skager rimangono a bocca aperta quando si rendono conto che Minnie crede ancora nello scherzo innocente che avevano fatto e cercano di convincerla che niente di quello che lei crede di aver visto non può essere vero. Un’altra sequenza importante e il momento in cui Adelaide, la fidanzata di Tirreno arriva e dà i fiori a Minnie, dicendo: “Lasci che la abbracci. Io sono una donna sincera, una vera donna, e non ho pregiudizi.”, argomento che si riprende dopo che Minnie comincia di nuovo a parlare a tavola dei pesciolini fabbricati. Su questo, Minnie spiega la sua teoria anche a Adelaide:

Minnie (ride): Credo tutti siamo una vera donna e un vero uomo senza che si dice…Uh, uh, penso che uomini fabbricati non lo sanno, ma però dicono essi molto spesso “io sono un uomo vero”, “io sono una donna vera” …Oh, scusate, io a voi non dico. Forse vi offende un poco, ma no…angelo di Tirreno siete voi, dunque basta, oh, lasciate toccare vostra mano, vostra mano un poco è più fredda di tutte le mani: vostri occhi sono molto belli, io non posso capire troppo bene, soltanto, soltanto…dentro occhio vero può essere messo uno sguardo fabbricato forse? dimmi dimmi Skager oh guarda guarda come angelo Adelaide guarda me fisso.

A sentire tutta questa teoria di Minnie su di lei, Adelaide si sente offesa, ma la scena è interrotta dall’intervenzione dell’Inquilino che arriva con tutta la famiglia. Nella scena entra anche lo zio di Skagerrak, proprio prima che le due coppie partano e gli ritiene per una conversazione gradevole e soprattutto per conoscere meglio Minnie. Le affermazioni dello zio provocano stupore a Minnie che rimane con l’impressione che questo è uno degli uomini fabbricati perché, come questo descrive sé stesso: sarà difficile da trovare in lui qualche cosa da criticare, è dunque, gli manca la cosa “buffa” che tutti gli uomini veri devono avere. Il vero terrore comincia però quando lo zio rivela la grande sorpresa che gli ha preparato: lui si è comprato un biglietto per poter accompagnarli nel viaggio per l’America. L’affronto di Minnie l’offende molto, e pone suo nipote nella situazione difficile di scegliere tra la sua futura sposa e lui. Come Skagerrak rimane impassibile e non sa che dire sull’argomento, lo zio si avvia, dicendo al suo nipote di non voler vederlo mai più. Stupefatta e offesa anche lei, Adelaide esce ed abbandona Tirreno. L’atto si conclude con Minnie che ha praticamente una crisi: si sente circondata da uomini fabbricati, sbarra e tenta l’uscio per mettersi in salvo.

L’azione dell’atto seguente accade nello stesso ambiente che prende un “senso di accampamento e di decadimento” l’Inquilino ritorna preoccupato da quello che succede nella casa da quattro giorni e capisce che loro non vogliono più partire, dunque li annuncia che viste le condizioni, si vede costretto a mandarli fuori con la forza. Dopo questa scena, appare di nuovo anche Adelaide per lasciare chiaro che la sua relazione con Tirreno è finita. Tirreno si sente colpevole per tutta questa farsa che ha condotto alla pazzia di Minnie. Nel frattempo arriva anche il medico, che non fa niente e dichiara che il suo intervento sarà comunque inutile. La scena con cui si chiude l’ultimo atto è la più espressiva della pièce: Minnie, che prima dormiva, si alza in un “ululo disumano” e ha una forte crisi; lei è sicura che è una delle donne finte, cosa che non può accettare. Manda via i due uomini e dopo si chiude nella casa, tutta al buio, e si suicide.

Vediamo in questo dramma molti aspetti ripresi dalle pièce precedenti di Bontempelli: La guardia alla luna e Nostra Dea. Abbiamo di nuovo a che fare con il modello femminile che Patricia Gaborik nominava “donna-crisi”, cioè un’altra maniera di spiegare la donna che non ha i radici nella realtà comune. Lapini classifica i personaggi del dramma in certi ceti eloquenti per l’opera teatrale: “il cameriere idea, che si attiene scrupolosamente al suo ruolo per cercare di ricostruirsi un proprio involucro morale, una fittizia e illusoria sfera di “vita” in cui rifugiarsi”; la famiglia borghese, che appare due volte nel dramma: all’inizio del primo atto e la famiglia dell’Inquilino nel secondo atto, gli Amanti colpevoli, che a differenza di Nostra Dea, qui non assolvono che il ruolo di animatori e diventano pretesto di battute per i personaggi principali, e il Suicida, che si dimostra essere l’amico dell’amante colpevole. Infatti, Lapini aggiunge che tutti questi personaggi-oggetto di scena vengono considerati come “creature anonime senza volto né nome: la donna della coppia colpevole sarà assolutamente disponibile nel Secondo Atto a rivestirsi dei panni di Arabella – cameriera di Minnie”:

Minnie: […] Volete venire in America con noi?

La Amante Colpevole: Si.

Minnie: Ecco fatto.

Tirreno: Incantevole.

Skagerrak (imbarazzato): Ma così, senza…

Minnie: Senza che cosa? (la guarda, la tocca) Niente a lei manca, credo.

Skagerrak: Senza…senza sapere…come si chiama.

Minnie: Come vi chiamate?

La Amante Colpevole: Come lei vuole.

La figura del medico è ripresa con la stessa ironia che abbiamo incontrato in Nostra Dea – un’impotente che non è capace di guarire la malattia della donna: “[…] o le passerà, o non le passerà. Visto che è impossibile distrarla, farla uscire, farle dimenticare l’idea fissa, e un’idea fissa così stramba, che c’entro io? a che servo? a niente. Lo capite voi. A niente.” Le parole del medico fanno un legame evidente tra questo dramma e La guardia alla luna; infatti, tutta la scena finale è collegata al suicidio di Maria: l’atmosfera drammatica, la pazzia, il fatto che muore da sola al buio e i ultimi gesti disperati della donna. Anche l’atto in sé gode di una certa traccia di eroismo, ma ovvio, si tratta di un’ironia, perché il personaggio di Bontempelli non vince niente alla fine dei conti, è proprio il personaggio stesso che è vinto dal mondo esterno a cui non si può più adattare, e dalla propria follia. “Il viaggio di un’idea fissa”, questa era la definizione di La guardia alla luna proposta dalla critica del tempo, una tematica ripresa attraverso le parole del medico con riferimento a Minnie. Possiamo assumere che un motivo fondamentale ricorrente nella narrativa di Bontempelli è la malattia della donna che si manifesta come percezione errata della realtà e del mondo esteriore, che diventa ambiente del tutto estraneo o del tutto avverso al personaggio. Prendiamo per esempio il romanzo Gente nel tempo, pubblicato più tardi, dove le due protagoniste, seguite dalla maledizione della Grande Vecchia, perdono il calma e Nora si sacrifica e si suicide per salvare sua sorella dalla morte. Non c’è bisogno che di un solo elemento per scattare il dramma dei personaggi bontempelliani: un’imprecazione, una profezia, un vestito, la sparizione di una persona o uno scherzo, come è nel caso di Minnie. Partendo dei più banalissimi avvenimenti, si raggiunge a una fine fatale ed imminente.

Nel caso di Minnie, la pazzia si costruisce su una basi di incertezze: all’inizio della pièce lei non sa dove si trova o che significano alcune parole usuali del linguaggio standard dell’italiano, neppure di alcune parole che sé stessa usa che Lapini vede come constante dello stile drammaturgico bontempelliano:

Nel caso specifico di Minnie la candida il suo italiano stentato e particolarissimo, che potrebbe verosimilmente dipendere, come per Olga di Storia d’un pranzo e d’una lettera, dall’incerta origine e nazionalità, serve in realtà per prima cosa a caratterizzare espressivamente il personaggio, isolandolo dagli altri e divenendone parte integrante. […] Questo del resto è un procedimento stilistico di Bontempelli, come si è già avuto modo di notare, che corrisponde al desiderio di uscire dal cerchio del quotidiano banale e canonizzato per attingere una dimensione originale della realtà.

Come lo dice anche il suo nome, Minnie resta innocente a tutto quello che la circonda e fa delle domande infantili sull’universo esterno. Skagerrak afferma nel primo atto proprio questa credulità insensata di Minnie: “Oh, tu che credi sempre a tutto”, ma comunque si posiziona come complice di Tirreno e lo sostiene nella beffa divertente senza pensare alle conseguenze fatali che questo atto ingenuo a prima vista può comportare. Lapini osserva che anche in Minnie la Candida troviamo il prototipo di donna vittima dell’ambiente; dopo che l’idea fissa s’installa nella mente della protagonista, tutto il mondo gli fornisce delle prove incontestabili per sostenergli la teoria pazzesca sulla natura degli uomini, una nuova maniera di pensare e di sistemare il mondo che sarà evidente nelle battute del secondo atto:

Minnie: […] Volete vedere ora capisco tutto e non sbaglio più? Ecco. Pesciolino fabbricato è tutto molto molto perfetto, ma quello vero uno ha la testa un poco grossa, uno cammina un poco storto: e così gli uomini devono essere: uomini e donne, quando sono veri tutti hanno una cosa un po’ buffa che non va proprio bene e fa ridere, chi ne ha una e chi un’altra…

È proprio in questo momento quando il mondo gli dà la prova suprema: lo zio di Skagerrak, che in un attimo di inopportuno orgoglio afferma di essere foggiato senza difetto, dichiarazione che alimenta il sistema storto di pensieri di Minnie. La protagonista femminile perde ogni contatto con la realtà e prende per verità tutto quello che rinforza la sua ipotesi mostruosa fino a che smarrisce anche la propria identità nel crepuscolo dell’incertezza assoluta in cui si trova la sua anima e diventa sicura di essere una delle povere donne fabbricate. La fine è compresa come atto di liberazione e di ribellione contro “chi l’ha costruita” – un ultimo tentativo di Minnie di affermare la sua autonomia, diventando, come Lapini intende, il “simbolo dell’autodistruzione a cui si sta condannando l’uomo moderno.” Anche Sandra Milanko raccomanda un’interpretazione del graduale dileguo definitivo di sé della protagonista:

Alcune delle protagoniste incontrate sono talmente singolari che lo straniamento e il mistero e dovuto interamente al loro carattere: cosi la Minnie del racconto Giovine anima credula e talmente ingenua e appunto credula che le basta un suggerimento che ci siano degli uomini finti in giro per il mondo talmente perfetti da risultare irriconoscibili per farla dubitare della sua stessa autenticità in quanto essere umano e di conseguenza suicidarsi.

Minnie è protagonista di una realtà bivalente: da una parte abbiamo il mondo così come Bontempelli lo costruisce, con i fattori che generano il dramma interiore del personaggio, e da un altro lato, abbiamo il mondo fittizio che la donna si crea su nuovi principi di vita: il fatto che nel mondo esistono uomini veri e uomini finti che credono di essere veri, un mondo irreale in cui la protagonista si lancia completamente senza nemmeno rendersi conto. Come questo universo fittizio non esiste, anche il personaggio cessa di farlo, consunto dalle incertezze che lo portano allo stesso stato di vacuo esistenziale che abbiamo già notato nelle altre pièce del drammaturgo. In questa equazione, Tirreno, il maschio-artista del dramma, si assume questo ruolo di maniera incosciente, e poi, quando si rende conto di ciò che ha creato, è già troppo tardi. Dunque, possiamo dedurre che si tratta di una doppia “candore”: una candore femminile – Minnie, l’anima ingenua e credula, e una candore maschile – Tirreno, l’artista che indipendentemente dalle sue intenzioni, trasforma Minnie in una marionetta con la forza delle proprie parole. In breve, il dramma costituisce un altro atto di profonda rivolta da parte di Bontempelli contro la società automatizzata, artificiale, meccanizzata, robotizzata fino alla dissoluzione mentale su cui si basa la trama di Minnie la Candida, un’idea che non ha lasciato indifferenti i studiosi dell’autore:

Anche Silvio D'Amico parlerà a proposito di Minnie la candida nel 1942 dell’orrore della perfezione meccanica, come negazione della vita ingenua che si ricollega alla problematica della riproduzione, del doppio e della raffigurazione della realtà.

Lapini parlava del concetto del superuomo meccanico nel contesto del futurismo e di una nuova sensibilità meccanica che si sviluppa in quei tempi – motore per la nascita di personaggi come la donna artificiale delle opere drammatiche di Bontempelli. Anche i quadri della città sono popolati da gente fabbricata, tra cui il ripresentante massimo è lo Zio di Skagerrak che afferma la sua perfezione e la sua posizione di uomo fabbricato, condizionato dall’ambiente, abdicando alla propria personalità, che è infatti l’immagine non alterata dell’uomo borghese che perde la sua identità in favore a una nuova forma disumanizzante. A differenza di Dea, Minnie diventa cosciente del suo statuto di essere falso, di forma senza fondo, e in conseguenza soffre il dramma struggente di far conoscenza con una realtà distorta di cui sé stessa fa parte. Minnie assomma l’essenza di tutte le donne bontempelliane che abbiamo visto fino qui: la donna-vendetta – Maria; la donna inconsistente – Dea e beninteso la donna candida, che abbiamo trovato in una certa misura anche nella Principessa – marionetta. La sua personalità troverà degli echi anche nelle protagoniste della seconda fase di creazione drammaturgica di Bontempelli su cui discorremmo nella seconda parte di questa tesi. L’affresco di donne-candide continua con le produzioni drammatiche meno conosciute dell’autore lombardo, che riprendono in grande linee lo stesso discorso sulla società decadente e meccanica.

CAPITOLO TERZO

L’opera minore di Bontempelli

Le ultime quattro produzioni drammatiche pubblicate tra il 1932 e il 1935

3.1. Valòria ovvero La famiglia del fabbro (1932)

Dopo le prime quattro produzioni drammatiche di Bontempelli, i critici parlano di un passaggio evidente verso una seconda fase della sua attività letteraria, periodo che coincide con l’apparizione del secondo volume drammaturgico dell’autore che contiene altre quattro pièce, composte tra il 1932 e il 1935, notevoli e importanti per questa analisi. Già Nuciforo Tosolini l’aveva detto nel suo studio:

…in questo quadro si iscrive questo secondo gruppo di commedie nelle quali si riscontra l’intento di cogliere la realtà nelle sue forme più corpose in modo più aderente all’umanità. Questa aspirazione si avverte particolarmente in La fame e in Venezia salva in cui Bontempelli prende in considerazione problemi sociali e politici non ancora trattati fin a questo momento.

Lapini invece non prende in considerazione queste ultime produzioni drammatiche dell’autore e conclude l’analisi con una riflessione assai pessimistica sulla produzione drammatica seguente di Bontempelli, affermando sotto parole più bonarie che la carriera dell’autore nel settore drammaturgico della letteratura si fermasse con l’infortuna di Minnie la Candida, “l’ultimo vero scontro con il pubblico”. In certi aspetti, lei ha ragione e questa ultima affermazione viene sostenuta dal fallimento concreto e indiscutibile delle produzioni drammatiche della seconda raccolta di teatro di raggiungere al pubblico, ma questo secondo periodo esiste e non possiamo saltarlo semplicemente perché non ha avuto il successo scontato.

Nel 1932, Bontempelli afferma: “Non sono mai stato nemmeno approssimativamente quello che si chiama uomo di teatro.” In questo clima, Bontempelli stringe un contratto per quattro nuove produzioni drammatiche, pubblicate tra il 1932 e il 1935, una all’anno. Come è stato anche nel caso di Minnie la Candida, l’argomento per la prima pièce di questa nuova serie di produzioni, Valòria, è stato tratto dal romanzo La famiglia del fabbro, spiegando così il titolo alternativo di questa “commedia con coro e banda”. Una vasta interpretazione della pièce è offerta al lettore da Bontempelli che pubblica nella Nota una lettera che scrisse a Picasso per spiegare il suo giudizio intorno a Valòria, che alla fine dei conti, lascia alla valutazione del pubblico. In più, Bontempelli aggiunge una prospettiva chiave per l’interpretazione della pièce: anche se la commedia è tratta dal romanzo La famiglia del fabbro, l’autore ha sviluppato un nuovo argomento, originale e fresco, indipendente da quello del romanzo. Lapini parlava invece di un riaffronto “senza novità né approfondimento del pirandelliano motivo dell’essere e dell’essere creduti”.

In questa pièce si osserva un distacco evidente tra le commedie che abbiamo analizzato fin qui e la produzione drammatica dell’autore dopo l’anno 1930. Valòria non mette più l’accento su una protagonista unica che è o motore per l’azione della pièce o ripresentante maggiora di un certo prototipo ben definito, notevole a una prima vista, e vediamo questo anche dalla lista dei personaggi che sembra un vero catalogo, come se Bontempelli cercasse di realizzare l’anagrafe di una società. Anche il titolo tradisce una nuova prospettiva di Bontempelli, che si dirige verso una collettività: Valòria – il nome della communita dove si svolge l’azione della pièce o il titolo alternativo, che fa emergere l’immagine di un gruppo compatto, ben organizzato, che è la famiglia del fabbro.

L’azione del primo atto si svolge su una “spianata erbosa” di Valòria, con Il Palazzo di Giustizia come fondo. I due protagonisti giovani, Danilo e Stella, la figlia diciassettenne di Eteocle, detto il Fabbro, s’incontrano in un’atmosfera tensa a causa del padre della giovane ragazza che si trova in pieno processo per una presupposta crimine che esso abbia commesso. Il Fabbro viene assolto dalla crimine e tutta la citta è velata da un’aria gioiosa. Approfittando del fatto che il Fabbro era di ottimo umore, Danilo chiede la mano di Stella di fronte a tutta la folla. Dopo l’approvazione del Fabbro, comincia il convivio in onore alla sua assoluzione. L’atto si conclude con il discorso del Sindaco, su fondale musicale, una tecnica usata da Bontempelli anche nel dramma che chiude questa seria di opere drammatiche, Nembo, dove una nuova figura sarà ironizzata: L’Oratore.

L’Atto Secondo comincia davanti all’osteria del “Fico mozzo”, dove si trovano cinque cittadini del primo atto, che hanno fatto una scommessa a partire del risultato del processo in cui è stato assolto il Fabbro. Alla proposta dell’Oste si mettono a giocare al biliardo, “gioco di finezza, il gioco classico di Valòria” giusto prima dell’arrivo del Fabbro con sua moglie, Aida. L’argomento che provoca l’angoscia della coppia è la famosa “scheda bianca” con cui il Fabbro viene assolto, una parola che è un enigma per i due. Continuando il discorso sul linguaggio pedestre dei personaggi messo in dibattito da Lapini con riferimento a Minnie la Candida, un procedimento che Bontempelli usa per riprodurre le battute al loro massimo livello di comicità, dobbiamo notare che i personaggi restano ancora alla loro condizione di marionette senza capacità di concepire la società che li circonda. Bontempelli gioca abilmente con alcuni neologismi di giurisprudenza per rendere ridicoli i caratteri che presenta. La figura dell’oste-filosofo o dell’oste-artista (l’oste che crea proprio una scena, mettendo i personaggi ciascuno al suo posto) che incontriamo nelle prime produzioni drammatiche e soprattutto nella pièce che conclude la prima serie drammaturgica dello scrittore, è ripresa in tutti gli aspetti anche qui:

Locandiere […]: Una tavolina per due qui (entrano due sguatteri con una tavolina già preparata) a fianco alla tavola d’onore; è per i fidanzati (accenna con discrezione verso Stella e Danilo, che stanno seduti su di una panca con indifferenza) Quanto ai posti e alle precedenze di servizio, ricordate: lí in mezzo il Fabbro e Aida, a destra di Aida il Sindaco, poi il Poeta, poi…poi gli altri come vengono, sono tutti pezzi grossi; in tutto sono otto (conta sulle dita, nominandoli) il Fabbro, Aida, il Sindaco…

E poi, nel secondo atto, troviamo la stessa figura proprio filosofando:

Oste […]: Vedete, signore? Quel raggio di sole, venendo a battere sul prato, è la lancetta divina la quale mi indica l’ora che gli orologi umani segnano tra le otto e le nove. Quanto al giorno non posso dirvelo, perché nel corso del sole non vi sono lunedí né martedí né domeniche. (Ora ha attinto a un pozzo e preparato cinque gran bicchieri d’acqua fresca) Ecco il liquido che in questo momento è il più adatto ai visceri di questi signori.

Un altro momento chiave di questo secondo atto, è l’arrivo del Sindaco all’osteria, che ha delle notizie importantissime per il Fabbro: l’erede del povero Gaspare, l’uomo che il Fabbro abbia presuppostamene ucciso è venuto dall’estero per accettare l’eredità. Ma le notizie non si fermano lì, l’erede fa una donazione proprio a Danilo, il fidanzato di Stella, la figlia del Fabbro, cioè lascia la casetta di Gaspare alla coppia di giovani innamorati. Il discorso sull’essere assolto con la scheda bianca scatta di nuovo, e il Sindaco spiega questo concetto a Fabbro: con la scheda bianca “vuol dire quando i giurati non sono proprio sicuri se siete voi o no; dicono “forse è lui, ma può anche non essere”. Questa affermazione del Sindaco, venuta sullo sfondo dei compaesani di Valòria che litigano sull’argomento dell’innocenza del Fabbro, provocano nel personaggio il bisogno di rifare il processo, dunque l’importanza del “parere” pirandelliano, che menzionava Lapini. Luigi D’errico riconosce anche lui in questo lavoro la stessa problematica tipicamente pirandelliana, ma come afferma, Bontempelli rimane al livello superficiale delle cose e non entra in un’analisi profonda del dramma esistenziale, come lo faceva invece Pirandello, e come punta Tosolini:

Bontempelli elude sia la componente grottesca sia la più complessa problematica pirandelliana e offre semplicemente un momento di vita paesana passando con disinvoltura dal drammatico al farsesco. […] La problematica dell’identità dell’uomo di fronte a sé e agli altri è qui assunta come pretesto per sconvolgere la pigra cittadina di Valòria della routine quotidiana.

La pièce abbonda di elementi comici, tipici per Bontempelli: la protesta dei

concittadini del Fabbro per cambiare il nome della via dove si trova la casetta dell’uomo ucciso e la decisione assurda di nominare i due capi della strada in maniera differente – un capo con il nome del Fabbro e l’altro con il nome del morto, cioè Gaspare. L’atteggiamento leggiero e speculante dei personaggi che circondano i protagonisti porta il capo della famiglia alla pazzia, come osserva D’errico: ”il modo in cui il fabbro si muove per cercare di superare l’angoscia sfocia nella farsa tanto che il suo tormento diviene fonte di ilarità per tutti gli altri”. Come abbiamo già segnalato, in rapporto con le pièce che sono già state analizzate, in questo caso, c’è la figura del maschio che perde definitivamente il controllo della situazione. La donna ha un ruolo diminuito in questa produzione, la personalità delle due rappresentanti della femminilità crolla sul fondo della caduta nervosa del capo della famiglia. Proprio come si vedrà anche nella figura paterna di Bassano, che prepara la scena della sua morte, il fabbro mette a punto il disegno di un nuovo processo in cui si dichiarerà colpevole per il crimine di cui era già stato assolto dalla Corte. La vittima più commuovente per il lettore di questa storia diventa Stella (la figlia del fabbro), rappresentante tipica del candore bontempelliano, che viene coinvolta in questo dramma di famiglia a causa della ossessione dei genitori. Anche questa rappresentazione può essere messa sotto il sintagma del “viaggio di un’idea fissa”, questa volta si tratta del tentativo assiduo di purgare l’immagine di fronte alla società, che conduce alla perdita di ogni caposaldo del mondo fattuale per tutta la famiglia:

Fabbro: Bene, sì grazie ecco ci ha accusati, abbiamo fatto la violazione al domicilio della Giustizia, le par niente? E infatti è niente, siamo tutti gran malfattori, e visto che siamo già qui, lei deve farci un processo, se no non c’è giustizia. Tutti sa, mica uno solo. Diglielo, Aida.

Aida: Signor Presidente (con voce querula insieme e imperiosa) sono una gran colpevole, ho aiutato mio marito in tutti i suoi omicidi, va bene? anzi, glielo dicevo io: – ammazzali, ammazzali.

Fabbro: Tutta la famiglia…

Stella (con voce soave): Anch’io sono colpevole, ho detto tante bugie un po’ a tutti, quel forestiero è venuto in casa e mi ha dato tanti baci e stava abbracciato stretto, e anche Danilo tre volte la mattina presto…

Questa ultima accusa di Stella contro sé stessa ha proprio l’effetto contrario: la sua immagine di candore femminile che affermava nel primo atto è macchiata da questo auto-denuncio e ricordiamo le parole della protagonista del primo atto:

Danilo: Lo assolveranno. E se no, se non ci dà il consenso, fuggiremo insieme.

Stella: Ah non dirlo neppure. Lo sai che non vorrei. Sono una ragazza per bene. Tanto più (abbassa gli occhi) che non ho ancora i diciotto anni.

Bontempelli punta su questo gioco di apparenza-essenza fino alla grande rivelazione involontaria di natura grottesca dei caratteri dei personaggi: “Stella: Ho promesso al figlio del dottore di sposarlo se Danilo mi pianta, oppure quando resto vedova, oppure anche senza restar vedova.” I personaggi entrano in questa sorta di catena viziosa in cui uno per uno si svestono dalle maschere sociali – le due donne ammettono di voler commettere o di aver già commesso l’adulterio: “Aida: […] Ho anche commesso adulterio, sì, sono stata col Moro; e anche prima, prima di sposare, avevo già commesso due adulteri, la prima volta era…” La comicità sta proprio nel carattere lamentevole dei protagonisti: loro non vengono accusati dalla giustizia, neppure dalla comunità in cui vivono, sono sé stessi i loro principali avversari in questo affare. Infatti, Bontempelli stesso spiegava nella Nota che il principale compito di questa commedia e di suscitare diversi sentimenti nel pubblico: “La commedia alla lettura ti ha fatto ridere o ti ha commosso, rappresentata annoia o irrita, salta in aria anche lei.” Comunque, un paragone fatta dall’autore tra il suo atteggiamento verso il personaggio del romanzo e quello verso il fabbro della commedia mostra un distacco evidente di Bontempelli verso il personaggio principale della pièce, che “acquista di rilievo e di personalità”. La fine della commedia risalta proprio il scopo dell’autore di provocare il pubblico, le ultime battute e il fondalo musicale mettono l’accento sull’ambiente artificiale in cui si è sviluppata tutta la storia:

Cittadino: Ma ha ragione lui, Fabbro; non si fa tutto questo per ridere?

Fabbro (colpito): Tutto questo per ridere!

Cittadini (a Danilo): Siete arrivato tardi. – Ora che il Fabbro è uscito… – lo spettacolo è finito.

[…]

Fabro (amarissimo): Per lo spettacolo, da ridere!

Aida (tenendo a buon conto per un braccio): Ma nemmeno per idea, con quel bel risultato.

Fabbro: Risultato da ridere!

Valòria è, come D’errico notava, la storia di alcuni caratteri mediocri della società, un altro dipinto di una comunità finta e sempliciotta che agisce per il diletto di agire.

3.2. Bassano padre geloso (1933)

Bassano padre geloso riprende in grande linee la polemica delle prime pièce di Bontempelli, cioè abbiamo un’altra figura di donna candida, questa volta mostrata in antitesi con il padre. Nell’analisi di La guardia alla luna, abbiamo già ricordato il grande culto delle madre vampiro che Bontempelli ha sfruttato in moltissime occasioni; in questa produzione, nominata dall’autore “commedia seria”, abbiamo a che fare con un tipo di paternità dannosa che si rispecchia nel dramma psicologico della figlia. Bontempelli cambia visibilmente il registro delle sue pièce e mette nel riflettore la figura della figlia come prototipo di donna, in contrasto evidente con il padre, come abbiamo visto anche nella prima commedia di questo secondo periodo letterario. Come siamo abituati, la prima interpretazione valida della commedia fu proposta dall’autore stesso nella Nota alla pièce:

Il primo spunto m’è stato dato da un fatto reale: un padre viveva solo con la figlia, padre amantissimo, indulgentissimo; ma un giorno quando un giovane andò a chiedergli la figlia in sposa, egli la cacciò via con violenza, entrò in uno stato di furore irragionevole (il pretendente era ottimo giovane e amicissimo suo). Mi apparve un magnifico movimento teatrale. Ho veduto fin da quel momento la scena della richiesta e della cacciata brutale come scena iniziale. Non sapevo ancora come avrei svolto la situazione, ma già riconoscevo in quello spunto l’occasione di porre in atto un mio vecchio desiderio: creare una trama solamente dall’urto di due caratteri, senza nemmeno un minimo di antefatto, e per estetica conseguenza anche senza nessun fatto che intervenga dal di fuori ad aiutare o comunque modificare gli effetti di quell’urto.

Nelle produzioni teatrali di dopo l’anno 1932, Bontempelli rinuncia all’intreccio banale del celeberrimo triangolo borghese che abbiamo trovato in Siepe a nordovest, in Nostra Dea e anche in Minnie la Candida (anche se si trattava di un’aggiunta per creare l’atmosfera adeguata per la pièce) in favore a un nuovo tipo di approccio più semplice ed astratto che provoca però gli effetti scontati, come Tosolini punta:

…ad ogni modo rimane valido il tentativo dell’autore di uscire dagli schemi dei soliti amori borghesi per raccontare l’affetto straordinario tra un padre e una figlia, un sogno che si infrange contro la realtà della vita.

Si può dire che con questa commedia, Bontempelli ritorna alle tematiche naturaliste, un cammino letterario che aveva lasciato indietro con La guardia alla luna, che si definisce proprio come movimento antinaturalistico. L’azione della commedia si svolge all’interno della famiglia, avendo in primo piano i caratteri di Bassano e di Fenice e come motore dell’azione due tipi distinti di amore: l’amore sensuale che Bireno sente per Fenice e l’amore esagerato di un padre geloso e possessivo che rifiuta alla propria figlia la possibilità di essere felice accanto a un uomo che non sia lui. Bontempelli ci offre l’immagine di una paternità contestabile, decadente, snaturata – Bassano è capace di ricorrere ai più bassi mezzi per reggere la figlia accanto a lui: sporca l’onore della propria figlia e appella alla menzogna per far Bireno perdere l’interesse di sposare Fenice – cosa che non può che suscitare orrore, ponendo in contrasto due caratteri diametralmente opposti: “l’oltraggiosità di tale comportamento e la purezza celestiale della ragazza”.

Nel Primo Atto prendiamo contatto con tutti i personaggi della pièce: Bassano, Birreno, il dottore in medicina – Floro, la protagonista – Fenice, Fulgido, Pamela e donna Delfa. L’azione del primo atto si svolge nella villa di Bassano, dove Bireno e Floro, il dottore, vengono invitati proprio da questo per festeggiare sua figlia, Fenice, senza un motivo apposto. Nella scena entra anche Fenice, che riprende attraverso la sua battuta il motivo fondamentale del vestito che abbiamo trovato anche dal personaggio di Dea: “Fenice: Chi dice sciocchezze? Le vorrei sentire anch’io. Non saluto nessuno, perché non sono vestita come va, e sono di servizio. Questi sono per il salone (Si avvia su per la scala).” Un altro argomento interessantissimo in questo atto è la problematica dell’onomastica dei personaggi:

Fulgido: Oh…quella signorina sarebbe…

Bassano (raggiante): Mia figlia. Fenice. Bel nome, non è vero? Glie l’ho messo io. Bella creatura, non è vero? L’ho fatta io.

Fulgido: Ah…perché lo ha chiamato…

Bassano: Bassano. È il mio nome. Non lo sapeva?

Fulgido: Lo sapevo. Ma sua figlia…

Bassano: Si lo sa anche mia figlia, che mi chiamo Bassano. Non si affatichi. Fin da piccola, mi chiamava Bassano invece che babbo, perché diceva “così ci ho più confidenza, e ci gioco meglio insieme”. È un punto di vista apprezzabile. Ha capito?

Il nome della protagonista è senza dubbio un’allusione diretta alla mitologia: l’uccello che rinasce dal proprio cenere, un mito che nella commedia prende nuove valenze, essendo risolto dalla significazione mistica e mettendo l’accento sulla natura mutevole dei personaggi, argomento rinforzato nel secondo atto dal discorso di Bireno:

Bireno: Così. Vuol dire anche aspettare qualche cosa, vuol dire costruirci insieme la nostra felicità di domani, di tra un anno, di tra tre anni: essere sicuri, capiscimi bene, che per ognuno di noi – tu, io – oggi una esistenza finisce, ne comincia una nuova, tutta ma tutta nuova: un Bireno se n’è andato, questo è un altro, una Fenice è scomparsa svanita annullata, questa è una Fenice nuova: ma che nuova? questi soli sono i veri, Bireno, Fenice, la loro vita che comincia. Quella di prima non contava, non ha mai contato, era una preparazione, nemmeno, una divagazione, battute d’aspetto. Ieri non c’eravamo. Oggi siamo eterni. Oggi ci siamo, tanto compiuti tanto sicuri, che anche poi, tra tutto il tempo che vuoi…

Infatti, il nome rinvia ai caratteri tipici che Bontempelli usa nelle sue opere drammatiche: i personaggi che possono assumere diverse maschere per diventare un altro tutto nuovo, del tutto insolito, una teoria sviluppata in Minnie la Candida, dove l’amante colpevole riceve un nome e compreso un nuovo statuto sociale, differente a quello iniziale. L’importanza del nome diventa l’annotazione del carattere della donna ed è usato spese volte con ironia: per esempio in La guardia alla luna, la protagonista è nominata Maria, proprio con il nome della madonna, anche sé si tratta di un personaggio privo di ogni sentimento di maternità; nella stessa misura, per Minnie il nome diventa il motivo per cui impazzisce e implicitamente la sentenza di morte; poi, se pensiamo a Eva, dal romanzo Eva ultima, il nome rinvia certamente alla prima donna che viene cacciata dal paradiso a causa del suo peccato, proprio come la protagonista viene espulsa dall’universo del maschio-demiurgo, Evandro e gli esempi possono continuare. Come si nota, anche in questa pièce l’autore preserva la causalità esteriore dei fatti: Fenice è un’altra delle donne finte che abbiamo incontrato fin qui in quasi tutta la produzione teatrale che abbiamo scelto per l’analisi; lei è il prodotto del personaggio maschile, Bassano, che può essere compreso come il maschio-artista, che ordina tutto l’universo intorno al suo carattere, come si vedrà senza dubbio nell’ultimo atto, in cui mette in scena e programma la propria morte per commuovere la figlia: “Non mi inganni. Tengo sospesa la condanna, capisci? Siamo troppo pochi. Manca la prima attrice.”

Il dramma scatta nel momento in cui, Bireno osa chiedere la mano di Fenice a Bassano. A questa occasione, il personaggio fa un elogio dei diversi tipi di amore: l’amore per una sorella maggiore che sentono i bambini della merenda, l’amore per una figlia e l’amore di un amante per una bella ragazza e potenziale sposa. Bassano avanza una teoria sull’amore che invia di nuovo all’idea di uomo-marionetta e umanità meccanica, priva dal libero arbitro, controllata da una volontà superiore ed incomprensibile che decide l’andamento delle cose:

Bassano: Voglio dire, che il vostro non è vero amore. […] Non esistono amori incorrisposti. L’amore non è una forza che nasca in uno, per poi uscirne e andare verso l’altro a conquistarlo. L’amore è una cosa che viene dal di fuori di entrambi; calla dall’alto; sorge intorno a noi, come…come una rete: ecco, appunto, è una volontà superiore, che mette lo sguardo su due creature – due – e stabilisce che si amino; allora, piano, piano, dall’alto ho detto, così insieme le avviluppa, precisamente come si avviluppano due farfalle in un movimento di rete.

In questo secondo periodo artistico incontreremo l’argomento dell’amore in molte sequenze, che rimandano a questa teoria dell’amore corrisposto e della forza inspiegabile che esso comporta. In Nembo, la produzione drammatica con cui concluderemo questo studio, uno dei protagonisti maschili parla dell’amore come una sorta di scambio e citiamo: “Marzio: …per poter volere anche lei, occorre che sappia quello che io le posso dare. […] Se lei mi amasse, io potrei dare alla sua vita tutto quello che in una vita si può desiderare.” Ma la più intensa definizione dell’amore viene esposta senza dubbio in Eva ultima dove la protagonista confronta il suo ideale di amore con l’idea filosofica che Evandro, il maschio-mago, prospetta:

Evandro: De ce dragostea unei femei e totdeauna o luptă?

Eva: Nu mă iubești.

Evandro: Ce voiai de la mine?

Eva: Nu știi să iubești cum vrea o femeie.

Evandro: Niciun bărbat nu știe să iubească așa cum vrea o femeie. Iată secretul datorită căruia dragostea se perpetuează în mod atât de dureros în lume.

Eva: Pentru că bărbatul e incapabil să renunțe la ceva.

Evandro: La ce ar trebui să renunț pentru a te convinge că te iubesc?

Eva: La inteligența ta.

Evandro: Vrei să mă iubești așa cum nu sunt și să fii iubită de mine așa cum ai putea fi de un altul, dar să nu fie un altul, ci să fiu tocmai eu acela care să te iubească așa. […] fugiți de ceea ce vă atrage cu adevărat: deoarece dragostea e o forță care ne împinge chiar și fără voia noastră spre orice lucru frumos, iar inteligența e lucrul cel mai frumos din lume. Mai sus decât ea nu se poate merge.

Eva: Când doi oameni se iubesc, cuvintele acestea n-au ce căuta între ei. Sunt lipsite de interes.

[…]

Evandro: Dragostea voastră nu-i decât curiozitate, atâta și nimic mai mult.

Nel confronto sull’amore manca l’equilibrio tra maschio e donna, soprattutto se si tratta di una donna candida, che non riesce a capire i ragioni dell’attitudine del maschio di affermare i sentimenti verso lei, nonché la donna resta senza forza di decisione di fronte al maschio, come è il caso di Fenice, che lascia a Bireno l’incarico di dare al padre la notizia sul loro matrimonio. Sembra che la giovane donna non abbia nessuna coscienza dell’universo che sta intorno a lei, proprio come nel caso di Minnie, e resta un essere vegetativo, manipolato con leggerezza:

Fenice (esita): Una volta…ancora…Una…Bireno, Bireno, non sapevo niente. Perché? Non si fa in questo modo.

Bireno: Si può fare anche in questo modo.

Fenice: Io non avevo mai pensato…

Bireno: Ora ci pensiamo insieme. Non hai detto “no” tre volte, dunque ora devi dire “sí”.

Fenice: … Sí…

Ciò che indigna il lettore è proprio l’amore egoista che Bassano prova per la figlia, a cui rifiuta la felicità accanto a un altro uomo che nomina “giovinotto”, cioè insinua che non è un vero uomo, degno di lei. Sempre nel primo atto, Bassano fa spuntare la differenza tra sé e gli altri uomini, dicendo che lui non fosse mai stato un giovinotto, che vuol dire “categoria senza varietà” e senza nome, quello che ci fa ritornare sempre alla categorizzazione dei personaggi di Bontempelli: i personaggi senza nome che possono buscare qualsiasi ruolo all’interno della pièce. Infatti il discorso che segue a questa scena mostra senza nessun dubbio la veridicità di ciò che abbiamo affermato:

Bassano: No, no. Fulgido? Non è un nome.

Pamela: E che cos’è?

Bassano: Fulgido? Una professione.

Lo stesso vale anche per il personaggio del dottore in medicina, nominato chiaramente da Bassano nell’ultimo atto: “uno dei personaggi della funzione […] indispensabile”. Bontempelli continua la seria di dottori in medicina che sembrano davvero indispensabili per completare il quadro della società illustrata nelle commedie – un personaggio decadente, che viene sempre preso in giro attraverso la dichiarazione aperta dell’incapacità del personaggio, ciò che provoca risate: “Floro: […] Ma noi medici non capiamo niente, lo sapete. […] la sola scienza del medico sta nel confessare il malato.”

Anche il connubio viene preso in giro per creare l’effetto scontato di comicità: “Bassano: […] a sentire dalla scala il tono delle vostre voci, si poteva credere che eravate marito e moglie da dieci anni.” accanto alla tecnologia e ai legami sociali in genere: “Bassano: Il telefono, portate qui il telefono, qui in mezzo a noi […] il telefono deve essere il protagonista della nostra vita: il telefono ci disperde, dunque ci salva dal pericolo di concentrarci fino a diventare un punto senza dimensione in mezzo allo spazio infinito.”

Nel terzo atto, Fenice spiega la forte comunione che esiste tra la figlia e il padre, proprio come se si trattasse di un filamento invisibile e indistruttibile, una relazione viziosa di dipendenza che affetta la protagonista direttamente:

Fenice: Questa notte tutto è cambiato intorno a me. Ho cominciato a sentirmi come mancare, vuotare, a poco a poco m’ha preso questa inquietudine. È accaduto qualche cosa. C’è Bassano intorno a me, c’è mio padre tutt’a un tratto. Quando ero piccola, una volta babbo scendendo le scale in fretta ha urtato forte un braccio contro un muro e s’è fatto male; per due settimane ogni tanto il braccio gli doleva. Quando doleva a lui, doleva anche a me. Anche se lui era nell’altra stanza, io sentivo una fitta, era una fitta che aveva sentito lui, di là. Oh, Bireno, da quel giorno che ci siam detti di volerci bene, fino a ieri, ho vissuto come in mezzo all’etere, non ero più io, ero una cosa tua forse, m’ero dimenticata di tutto, perché?

Si spiega ancora una volta la natura priva di indipendenza della donna che viene sempre sottomessa o alla volontà degli altri, come abbiamo visto anche nelle pièce precedenti, o all’ambiente di cui è circondata. Questo cinto ombelicale funziona in un solo senso, per Bassano, la presenza della figlia non sembra indispensabile, come sé stesso afferma: “Tutti mi invidiavano la figlia miracolo, Fenice, Fenice…Invece avete veduto che se ne può fare benissimo senza: in questi quindici giorni quello che avevo da fare l’ho fatto – non è vero, Floro? – senza bisogno d’aiuto.” Un altro argomento per sostenere questa natura artificiale di Fenice, è l’assenza assoluta della figura materna nella pièce; Bassano rivendica da solo la creazione della figlia. Alla fine, Fenice sposa Bireno e Bassano rinuncia al dramma che aveva creato, concedendo la figlia ad un altro maschio, proprio come se fosse in questione una bambola. Fenice è un’altra delle donne finte, macchine senza forza di ragionare, un’altra Dea, concludendo questo catalogo di donne senza nemmeno un’ideale (anche se questo ideale irrazionale gli portano alla digradazione completa ed irreversibile).

3.3 La fame (1934)

Nel 1934, appare la terza pièce del secondo periodo letterario di Bontempelli: La fame, un dramma scritto tra il 1933 e il 1934, che “non fu mai rappresentato” a causa di una proibizione venuta direttamente dal Capo del Governo. I tentativi di rappresentazione della pièce, anche dopo la calata del regime fascista sono conclusi senza successo: le traduzioni in francese e in ungherese sono rimaste allo stadio di proposta. Dopo questi tentativi falliti, il dramma è passato nell’oblio, come fu il caso della maggioranza delle produzioni drammatiche dell’autore. D’errico capisce che la causa di questa cesura sia proprio il passaggio brusco di Bontempelli verso il magico con sostrato reale, e l’impegno su una nuova serie di tematiche che forse hanno scattato controversia; ricordiamo il fatto che il dramma appare in pieno ambito fascista. Tematiche come la figura del capo tiranno, simbolizzato da Orazio nella pièce, prototipo dell’uomo avido per il potere assoluto e la suggestione di un popolo ribellato contro una tale figura potevano certamente essere intese come propaganda negativa contro il regime. Tossolini mette appunto la fame come protagonista centrale del dramma e interpreta il titolo come “rivolta e, ancora, un’accusa tremenda alla società”, puntellando l’opinione di D’errico. Comunque, non dobbiamo dimenticare che il dramma è apparso nel 1934, quando Bontempelli si incontrava ancora in una relazione relativamente buona con il regime. Infatti, il titolo viene spiegato attraverso la voce della protagonista e notiamo il fatto che il concetto di “fame” si riferisce in questo caso piuttosto a un processo violento di digradazione irreversibile, cioè a un simbolo dell’ossessione umana, senza altre implicazioni:

Barbara: Fame? La fame? La fame vuol dire quando cominci a sentirti frugare dentro, e non puoi capire più niente. L’ho provata? Per anni, anni. Vuol dire una spugna che si gonfia e si vuota, si gonfia e si vuota, dentro; no, una bestia piatta, dentro, prima rode piano, fa quasi piacere, poi tutt’a un tratto ti accorgi che stai per cadere; guardi intorno e non vedi niente, chiudi gli occhi e vedi tutte tante cose rosse che girano, senti intorno alla testa fare uuh uuuh, tutta l’aria come ovatta, e intanto lo stomaco dentro spasima, poi diventa molle, poi ti vuol saltare in bocca, tu ti appoggi a un muro, chiudi gli occhi, senti il muro che va giù piano, piano, le gambe si piegano; allora tutt’a un tratto hai tanto caldo; poi tremi dal gran freddo, e ti trovi in terra. Fame, già. Vuol dire quando dopo tante ore e giorni trovi finalmente una cosa da mangiare, non sei più buona a masticarla; e quando è giù, subito tutto il tuo corpo ti pare diventato un sacco che sbatte, ma il peggio è la bocca, la bocca e la testa, la bocca che vomita aria, la testa che ti gira e gira e gira e ogni tanto un colpo di martello te la rimette a posto ma allora non ci vedi più, i ragni li senti salire per le gambe, sulla faccia, e non puoi muoverti se non la testa ti rotola via. Allora ti metti un dito in bocca e succhi disperatamente fin che senti un po’ di sapore del tuo sangue, la fame.

Il dramma è strutturata in tre atti e un prologo in cui appare la protagonista, Barbara e una Cantoniera, pretesto per una battuta sui mali del mondo. Questo dramma e la pièce che seguirà, Nembo, hanno come radice la stessa tematica fondamentale: l’incubo che affetta le figure candide, in una nuova forma più spiegabile, data anche da un atteggiamento più realistico che prima da parte del drammaturgo. Abbiamo parlato in Minnie la Candida dei meccanismi che sferrano la trama tragica. Questa volta, nelle ultime due produzioni di questa fase, la pazzia della protagonista o la fine drammatica della pièce ha come causa un elemento meno astratto, come per esempio: un evento concreto che ha lasciato tracci profondi nella mente della donna o un morbo misterioso e spaventoso che affetta i bambini e la protagonista.

Il Primo Atto presenta la figura di Orazio che riceve notizie sull’arrivo di una donna misteriosa che viene adulata dal popolo di Lido, una delle città di Savaría, vicino a Vetta. Inoltre il popolo non vuole più Orazio come capo, un’analfabeta che tiranneggia Vetta e che è sospettato dalla morte del Vecchio della Torre, il padre di Barbara, come si vedrà nello stesso atto. Le richieste del popolo sono chiari: l’esistenza di due capi, uno a Vetta e uno a Lido e in questo senso si farà una sorta di negoziazione ufficiale. In piano secondario abbiamo la storia d’amore tra Reno e Bruna, la figlia di Orazio, una relazione proibita e vista di mal occhio dal padre, che rimanda alla stessa paternità dannosa che abbiamo analizzato anche in Bassano padre geloso. In questo dramma, a differenza della pièce anteriore, il padre non infesta con i suoi ideali di controllo assoluto soltanto la vita della figlia, ma anche la società lidese. L’incontro di Barbara con la coppia riesce a commuovere il lettore: infatti l’innocenza e la purezza di Bruna riesce a suscitare il lato più umano della protagonista che viene impressionata da questo amore tanto oppresso dal padre. In questo atto, Barbara tenta anche lei di giocare la bontà quasi messianica della donna che ha sofferto molto nel passato ed ora vuole installare la pace e i più onorevoli valori nella società. Non si può dire con certezza se si tratta di un ruolo ben messo a punto dal personaggio, dato che la fine non sembra essere premeditata. Comunque ci sono alcuni dubbi sui veri ragioni del ritorno di Barbara nella città natale, ma ricordiamoci che fino a questo punto, non abbiamo trovato nelle protagoniste di Bontempelli dei gesti intenzionali, nel senso che la fine deriva sempre da un fatto che viene a rovinare l’equilibrio interiore della protagonista. Questo fatto prende, nella maggioranza dei casi, valenze e simbolistiche più profondi nella mente del personaggio bontempelliano di che abbiano in realtà. Così, per l’uccisione di Sira dell’atto finale, i ragioni della protagonista non sono nemmeno semi-spiegabili in contrasto con l’azione acerrima compiuta da Barbara. Reno anticipa di una certa maniera la scena finale, pensando che fosse proprio la vendetta il motivo principale del ritorno di Barbara:

Reno: Signora, lei mi sconcerta. E ha ragione. È vero, dobbiamo essere semplici. E per questo ripeto, mi comandi, mi dica come posso aiutarla, mi dica che ha capito che io sono qui come ai suoi piedi. Oh signora, le hanno fatto tanto male? Qui? Mi dica come, chi è stato, che cosa le hanno fatto. Se non potrò servirla potrò forse vendicarla, potrò…

Barbara: Uh vendicare, che strana parola, non per lei, vedo che Savaría è diventata un luogo di guerra; per me sí; vendetta, parola molto strana, per una vita finita… no non vuole che si dica, diciamo per una vita, che ha raggiunto il suo calmo, che ha sofferto e oltrepassato tutto, ha lasciato tutto per seguire una voce venuta di là dal mondo.

Reno: Ancora una volta ha ragione, noi qui viviamo tra lotte e gelosie e forse in tutto il mondo è così: lei è una creatura più in alto.

Barbare: Chi sa? Ha detto “vendetta”, e a sentire quella parola è entrata in me una strana inquietudine. Già una volta, in questo viaggio, ero stata vicina a pensare una cosa di questo genere: che forse la strana chiamata del mio animo era un invito a venir a fare le mie vendette.

[…]

Reno: Lei non è capace di vendicarsi.

Reno si riferisce certamente a una vendetta contro gli assassini del padre di Barbara, un aspetto che non sembra affettare tanto la protagonista. Infatti, il lettore si può rendere conto con leggerezza della mancanza di sentimenti del personaggio: lei non parla della morte del padre se il contesto non lo impone, non prova nessun sentimento di paura per quello che le potrebbe accadere se Orazio sapesse il suo vero nome, tutto il suo universo sembra gravitare intorno ad un’unica esperienza: la fame, “la sola cosa sporca”. Senza nessun dubbio, in questa pièce abbiamo la raffigurazione di un altro viaggio di un’idea fissa, che questa volta non si conclude con un vero e proprio suicidio, ma con un atto di forte violenza contro l’incarnazione di questa idea fissa, che spiegheremo subito.

Il secondo atto pone un problema interessante: il contrasto tra il significato del nome della protagonista e la forte dichiarazione dell’appartenenza alla terra natale. Come è forse già noto, il nome “barbaro” era usato dai greci per nominare i stranieri, cioè quelli che non avevano l’origine greca e non padroneggiavano la lingua. L’onomastica non è casuale nelle pièce di Bontempelli: il nome di Barbara viene in accordo con il culto dell’apparenza che nutre Orazio:

Barbara: […] Io non sono di Lido. Quando me n’ero andata, Lido non c’era nemmeno. Io sono di Vetta. A proposito: se vi fa comodo che io circoli, forse sarà bene stabilire, come dicevate, chi sono io: la “identità”.

Orazio: Non ha importanza. Voi siete niente. È l’idea, che la gente si fa, quello che importa.

Il nome può anche riferire alla sfugga constante del personaggio, sempre senza un tetto stabile sopra, errante nel mondo, senza radici fissi. Certo che il nome rimanda anche all’identità misteriosa della donna. In questo senso, la fine del secondo atto ci offre la chiave di lettura: Barbara nega la propria identità, diventando un personaggio impersonale. Dunque, possiamo assumere che si tratta qui di un’alienazione della protagonista da sé stessa. La fame resta il legame indistruttibile tra l’essenza del personaggio e l’apparenza che vuole crearsi per scappare al passato. Il terzo atto è il punto massimo dell’esplosione del carattere della protagonista: il passato prende la forma di un’altra donna, Sira, la vecchia strega che sorvegliava Bruna. Il ritorno nell’ambiente dove è cresciuta, cioè La Torre del Vecchio, produce il dramma definitivo nella mente confusa e storta di Barbara. Sappiamo che la vecchia Sira aveva accudito anche Barbara quando era piccola, ma non abbiamo nessun indizio concreto sulla storia incredibile che la protagonista narra. Infatti, l’avvenimento non sembra così orrendo per meritare una punizione così spietata. La fine può essere intesa come un atto di esorcizzazione dei demoni del passato di Barbara attraverso la canalizzazione di tutta l’ira che lei aveva guardato nell’anima in una sola persona che diventa oggetto per la vendetta. La morte di Sira diventa simbolo per la vittoria contro il più grande male del mondo: la fame; un altro esito che ricorda La guardia alla luna – Maria lotta contro un altro esponente del male sulla terra, la Luna ladra di bambini. Accanto alla malattia della donna come motivo fondamentale, si aggiunge con queste ultime produzioni drammatiche un catalogo dei mali archetipali del mondo: mali provocati da elementi naturali (la luna, la pandemia) o mali di natura sociale (la fame). Come abbiamo affermato tante volte in questo studio, la donna di Bontempelli è singolare perché impegnandosi a vincere un certo male universale, finisce annientata dalle proprie convinzioni in un percorso che risulta sempre discendente. Nei drammi di Bontempelli non esiste redenzione o evoluzione per la donna, indipendente dal modo in cui essa si presenta all’inizio delle pièce, la protagonista viene in modo inevitabile annullata. Nonostante il tentativo di Barbara di propagare il perdono e la pace nel mondo, il personaggio disdice una seconda volta l’identità che si è creata di fronte ai compaesani:

Barbara (grida in grande esaltazione): No, vi avevo ingannati, non è vero niente, ammazzatevi, odiatevi, non importa più niente, non conta, non conta, fin che c’è nel mondo (si lascia cadere ai piedi della poltrona, come nella prima scena) la fame.

Si capisce che l’unica persona che la protagonista abbia ingannato è sé stessa, fingendo di aver oltrepassato i traumi dell’infanzia e di essere una creatura del tutto pura. Non esiste equilibrio nel mondo bontempelliano, una sola caratteristica del personaggio viene elevata al più alto livello: per la donna c’è sempre il lato maligno che vince alla fine dei conti, nessuna ossessione o frustrazione non viene oltrepassata. Probabilmente questo diventa fondamentale per la donna-marionetta, che a differenza della donna in carne ed ossa, non conosce l’ambivalenza umana: un pupazzo non può assumere un ruolo positivo e uno negativo allo stesso tempo, un fatto che è ovvio soprattutto per il personaggio di Dea, che non può essere nello stesso momento e la donna astuta e maligna e la donna perbene e amichevole.

3.4. Nembo (1936)

L’ultima produzione drammatica dell’autore che analizzeremo in questo studio è intitolata Nembo. In comparazione con le altre note, la Nota a Nembo viene ridotta a una sola informazione: il lavoro “non fu mai rappresentato”. Scritta a Roma, nel 1935, questa pièce conclude l’impegno dei quattro lavori scritti uno all’anno. Con questo dramma, Bontempelli ritorna agli elementi di realismo magico e abbandona la polemica sociale che aveva sviluppato con la trama di Valòria o di La fame.

L’argomento intorno a cui gravita quest’ultima rappresentazione è, come il titolo suggerisce, il nembo, che è inteso come morbo che affetta soltanto i bambini. Come significato iniziale, nembo designa alla base il nome di un fenomeno atmosferico che in questo caso si trasforma nel simbolo della morte che porta via i più innocenti esseri.

Il primo atto presenta il gioco infantile della protagonista, la diciannovenne Regina, e dei bambini, Fulvia, Milla, Tino, Sesto con età tra i sei e gli otto anni. Nella scena arriva dopo un tempo anche Marzio per dichiarare l’amore per la ragazza, pretesto per fare un'altra sorta di elogio all’amore:

Marzio: Frasi. Non divaghi. Io voglio sposarla. Ecco tutto è spiegato.

Regina: Davvero? Allora posso tornare a giocare (accenna a muoversi.)

Marzio (la trattiene): No. Non basta che io voglia sposarla.

Regina: È verissimo, occorre che anch’io voglia sposare lei.

Marzio: E per questo, perché lei possa risolvere…

Regina: Dio, risolvere.

Marzio: …per poter volere anche lei, occorre che sappia quello che io le poso dare. È molto. Se lei mi amasse, io potrei dare alla sua vita tutto quello che in una vita si può desiderare. Io…

Regina: Ma caro, se io lo amassi, e lei ama me, non c’è più bisogno di darmi altro, tutto il resto non conta.

Sempre in questo atto si spiega cosa è il nembo:

Regina: Ma non lo ha mai veduto, non se ne ha un’idea, il nembo che tutt’a un tratto, non si sa di dove, arriva nel cielo e getta la morte su tutta la nostra terra, uccide solamente i bambini, tanti, in un’ora, in dieci minuti, è una disperazione, non c’è niente da fare, poi scompare e torna non si sa quando, dopo dieci anni dopo cento anni, senza aver dato un segno, come in altri paesi i vulcani. Era quello. È stato l’ultimo. La piccola dopo un’ora era morta. È morta studiando la grammatica. Non era meglio se moriva correndo dietro il cerchio?

Questo morbo inspiegabile progetta la trama su una dimensione apocalittica di un mondo dannato, privato degli unici esseri puri, senza macchia o colpa. Infatti, la natura candida di Regina fa di essa l’unica donna che viene ammazzata da questo fenomeno insolito e morbido. La donna muore come un tipo di punizione per i due maschi innamorati di lei: Marzio e Felice. Il ritorno a vita della protagonista diventa la prova suprema per l’amore che ciascuno sente per Regina. La mancanza di esperienza sensuale del personaggio femminile viene portata alla luce tramite le parole di Marzio: “In certi momenti mi domando se lei è una creatura seria” o bene, nella battuta seguente: “Così per quella sua innocenza spaventosa, nessuno di noi due…Ma io l’amo di più…”. Tutto il lavoro drammatico si basa su questo contrasto tra la vita vista come gioco – il carattere di Regina, e la vita compresa come processo serio – la visione di Marzio sul mondo. Invece se prendiamo indipendentemente la coppia di Regina e Felice, si può notare un cambiamento visibile di ruoli: Regina parla della seriosità di ciò che suppone un matrimonio e Felice ha una visione assai superficiale sul modo in cui si fa una proposta di matrimonio. L’atto si conclude in maniera melancolica: Regina, trasfigurata dalla stanchezza muore di fronte ai due uomini. Infatti i due maschi temevano nel fondo dell’anima per la vita di Regina, e Marzio conclude la serie di battute del primo atto, nominandola “bambina”.

L’atto seguente si apre con una specie di discorso morale da parte da una figura emblematica, L’Oratore, che viene stremata alla condizione di marionetta pagata per disseminare il cosiddetto “ordine” di non si sa chi. La conclusione sembra semplice: “La morte non deve interrompere la vita.” Attraverso questo discorso si fa anche un elogio alle anime candide: le creature innocenti vanno in un luogo superiore, più sereno di quello in cui vivono i dannati. La morte è vista come un fenomeno normale che non deve affettare il corso della vita di quelli che sono ancora vivi; possiamo paragonare questa maniera di ragionare con quella di La fame, nel senso che, in entrambi, il dolore (o la sofferenza come la nominava Barbara) può essere compreso come elemento appartenente ad un ordine superiore del mondo che è mandato sulla terra per rendere più forte l’uomo: “Barbara: […] tutti gli altri mali che sono nel mondo Dio li vuole, perché sa che se l’uomo li vince diventeranno una cosa forte…”. In Nembo, la morte dei bambini costituisce una prova per la società: il nucleo famigliare viene dislocato e la coppia di sposi viene disunita: “Lui: Non torno più a casa. Ora che lui non c’è più, non abbiamo niente da fare insieme”, alcuni pongono la speranza insensata in certe teorie religiose, come per esempio l’allusione alla rincarnazione di questa sequenza: “Lui […]: Ne avremo ancora, presto. Il primo che nascerà, vedrai, sarà lui che ritorna.”, ma il sentimento che forse è messo alla basse dell’argomento di quest’opera è senza dubbio l’egoismo senza limiti:

L’Uomo Brizzolato: […] Ho sentito la voce d’un bambino. Perché c’era un bambino?

Una Donna: Se n’è andato.

L’Uomo Brizzolato: No no, l’ho sentito parlare. Perché parlava? Perché era vivo. Perché è vivo? Non voglio. Il mio è morto, e tanti altri, e io credevo che tutti i bambini fossero morti; e allora anche il mio era giusto; ma se anche uno solo è rimasto, non è più giusto, è un’infamia (sempre più eccitato, mentre parecchi lo trattengono) non si può tollerare, uccidetelo, lasciatemi andare, ci penso io a ucciderlo, dov’è?

Due Compagni: Vieni, vieni (Gli si affiancano tenendogli le braccia)

L’Uomo Brizzolato: Non tenetemi, ve lo trovo io, se no non c’è più regola, lasciatemi, mettiamo le cose a posto…

Attraverso questo piccolo brano, si allude l’ingiustizia universale della vita e il carattere aleatorio e confuso della morte che affetta gli uomini senza un ordine preciso. L’uomo si trova senza consolazione di fronte a questo potere sovrannaturale – questa situazione drammatica è comparabile a quella di La guardia alla luna, dove la mente perturbata dalla protagonista genera una visione difforme degli avvenimenti e confonde un processo normale della vita, cioè la morte della bimba, con una catastrofe sovrannaturale che affetta gli innocenti. Questi tipi di morbi, che sono effetti del tragico che Bontempelli inventa, affettano senza dubbio o l’individuo, come è il caso di Maria, che perde la salute mentale, o un’interra collettività, come è visibile in questo particolare dramma, con la rottura del laccio sociale fondamentale: la famiglia.

Una prospettiva visibile soprattutto nel secondo atto, ma per essere franchi, anche nel resto della pièce, è la visione sulla morte come una sorta di purificazione, che è già stata allusa in Bassano padre geloso: “Bassano: Essere avvicinati per un momento alla morte può dare il modo di vivere: in quel momento tutto è purificato.” che viene ripresa in Nembo con altre parole, attraverso il carattere dell’Oratore: “E a voi tutti dico ancora: la morte è la forma superiore della vita.”

Le ultime sequenze dell’Atto Secondo presentano un tipo di risurrezione messianica di Regina. Sempre in questo quadro si riporta in discussione il piano onirico menzionato anche nel discorso di Bassano nel secondo atto: “Bassano: Dice che s’è addormentata: non sarebbe pietoso riportare allo stato d’intelligenza una creatura umana che si trova in stato vegetale.”, un’altra idea che ritroviamo in Nembo sotto un’altra forma: “Custode: […] (Accenna all’Inserviente) Lui dorme; dormendo, forse si trova nello stesso luogo dove sono tutti i morti del mondo; e forse i morti vedono il pensiero dei vivi.” Questa visione del mondo ci porta ancora una volta alla nozione principale per il teatro di Bontempelli: l’anima candida, a cui Nicola Pasqualicchio dedica un’interra pagina in un articolo sul teatro del novecento per definirla come una prerogativa di cui alcuni individui sono dotati “di saper meravigliarsi, di sentire che l’universo, e tutta la vita sono un continuo inesauribile miracolo”. Lei continua rinforzando quello che abbiamo dimostrato in questo studio, è cioè che il candore è una caratteristica quasi esclusiva delle donne, che abbiamo inquadrato in una tipologia fissa di donne-mannequin che si basano su questa facoltà che Pasqualicchio intende come “la capacità di scorgere, oltre le convenzioni, le sovrastrutture, le ipocrisie, il fondo magico (che può essere anche tragico) della realtà”. Alla fine di questo studio, diremmo che questa attitudine di candore porta quasi sempre alla tragedia, anche se parliamo di una fine violenta che stupisce il lettore (un suicidio o un assassinato) o se parliamo appena di una morte simbolica della donna, cioè di una riduzione a un stato di inerzia totale. Il Custode diventa l’alter-ego dell’autore che, simile a Bassano che criticava i valori su cui si fonde la società e le nuove tendenze tecniche, questa figura di Nembo, attira l’attenzione sull’individualismo e sulla divisione sociale, ma soprattutto sulla deficienza dell’uomo che ragiona: “Così si comporta quel genere di persone […] Ragionano, e si dimenticano di operare. […] È il gran vizio del secolo: ragionare. […] Star bene, questo importa.”

La fine della pièce riporta al centro del discorso la dipendenza del personaggio bontempelliano dall’ambiente, da tutto ciò che lo circonda:

Marzio: […] Se tutto sta dentro di noi, perché guardare le cose? […] Colpa della poca nostra capacità, tutto quello che è in noi, di continuo trabocca fuori, e diventa il mondo; e allora ci occorre venire verso il mondo per riassorbirlo dentro la nostra anima e tenerla nutrita.

Con l’apparizione di Regina, Marzio rinuncia allo stato superiore di essere ragionevole e diventa un uomo semplice, come un bambino. La morale della fine è quasi la stessa prospettiva presentata in Eva ultima, soltanto che nel secondo caso, Evandro non è disposto a rinunciare all’argutezza superiore del demiurgo per diventare l’amante di Eva; anche in questa pièce, l’altro maschio innamorato dalla protagonista, Felice, rimane attaccato alla realtà e rifiuta a credere nella situazione assurda del rinascimento di Regina.

Conclusioni e riflessioni

Seppure all’inizio sembrava assai difficile arrivare a segno con questo studio, a causa dei fonti critici limitati, con l’impegno ardito di portare l’analisi a una fine concreta e ben argomentata siamo riusciti ad arrivare alle conclusioni globali sulla figura della donna negli scritti drammatici di Massimo Bontempelli, una personalità letteraria che è entrata in penombra anche per gli italiani dopo gli anni ’80. Per rendere il lavoro più ordinato, abbiamo dedicato un’interro sotto-capitolo a ognuna delle produzioni drammatiche dell’autore lombardo, cominciando con l’anno 1916 e concludendo con la produzione dell’anno 1935. Come si capisce, il periodo di impegno drammatico dell’autore lombardo non è stato e non può essere isolato dal resto della sua carriera di scrittore. In questo senso, il lettore dello studio probabilmente abbia notato che l’analisi interferisce in molti aspetti con gli altri settori artistici in cui l’autore ha attivato, specialmente con la narrativa – con la novellistica e con i romanzi – da cui sono tratte alcune delle pièce messi sotto analisi. Altresì, tutte le figure femminili su cui abbiamo discorso sono state messi in relazione con il resto dei personaggi della pièce di cui fanno parte e perfino con le altre mostre di donne che conosciamo dalla narrativa dell’autore.

Facendo un breve riassunto per capitoli, renderemo più chiare le intenzioni con cui abbiamo iniziato questo lungo percorso e cominciamo in ordine logica, con il primo grande capitolo (ricordiamo che qui non mettiamo in conto il primo capitolo, che serve come introduzione al nostro studio) che contiene quattro sotto-capitoli ben circoscritti. Il primo di questi sotto-capitoli mette in risalto la figura di una protagonista-vendetta, la prima donna che realizza “il viaggio di un’idea fissa”, come lo aveva detto l’autore stesso nella Nota afferente a questa pièce, una prospettiva che è diventata quasi una prerogativa immutata dalle protagoniste di Bontempelli, come abbiamo già spiegato in vari occasioni. Nel secondo sotto-capitolo, il registro dei personaggi cambia un po’ e incontriamo due piani distinti, ma interdipendenti di azione: la realtà delle persone in carne ed ossa e la realtà delle marionette. In questo caso, interessante è soprattutto la figura della Zingara, un altro tipo di donna candida, se pensiamo alla definizione che Pasqualicchio aveva proposto per la parola “candore”. La terza pièce propone la figura che è rimasta un emblema per tutta la drammaturgia di Bontempelli: Dea, la donna priva di ogni essenza, guidata dall’ambiente esteriore senza di cui non può esistere. Con la rivelazione di questo tipo di donna, praticamente abbiamo in chiaro l’approccio artistico di Bontempelli: tutti i personaggi sono privi di profondità, sono bidimensionali, dunque sono delle cosiddette forme senza fondo. L’apogeo delle figure candide viene toccato nel sotto-capitolo dedicato a Minnie la Candida, un manifesto senza sbarri contro la società meccanica e un altro ritratto di una donna puramente candida, un’altra protagonista che viene involta nel “viaggio di un’idea fissa” e che chiude in maniera simmetrica la prima serie drammaturgica con la morte simbolica della donna.

Il secondo grande capitolo non porta nessuna grande novità all’attenzione del lettore, ma è una ripresa significativa dei principali temi e motivi sfruttati nella prima serie di quattro pièce. Quindi, Bontempelli continua l’impegno artistico con la stessa figura del candore femminile che diventa senza dubbio il leitmotiv dell’opera bontempelliana. In questa schema s’iscrivono le seguenti protagoniste: Stella di Valòria, Fenice di Bassano padre geloso, Bruna di La fame e Regina di Nembo, che abbiamo già studiato per una decina di pagine. Questa ultima serie di pièce completa il grande affresco di caratteri di una società decadente. L’attualità incontestabile delle vari tipologie che vengono inseriti in questi scritti, e ricordiamo il dottore in medicina, il dittatore tiranneggiante, l’oste-filosofo, il padre geloso e troppo protettivo, e naturalmente l’uomo robotizzato che non ragiona più, accanto ai sentimenti umani più diffusi, come l’egoismo, la mancanza totale di altruismo, il bisogno di vendicarsi, la semplicità dei pensieri e la gelosia insensata, fanno di Bontempelli uno scrittore valoroso del Novecento che merita essere ricordato accanto ai grotteschi, ai futuristi e al grande nome del suo amico e collaboratore, Luigi Pirandello. Finiamo questo lungo cammino con la sola osservazione che sarà interessante aggiungere a questo studio anche le altre tre pièce di dopo l’anno 1940 per vedere se nella visione dell’autore lombardo si sono prodotti cambiamenti significativi ovvero se l’autore è rimasto fedele all’atteggiamento precedente.

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